di Fabrizia Gagliardi
Anziani che dall’età di settant’anni devono annunciare il proprio rito suicida come fosse una responsabilità civile per non gravare sulla comunità. Un ragazzo che comunica alla famiglia di voler abbandonare il proprio corpo per caricare la coscienza nell’etere digitale. Un pregiudicato scopre che la condanna per i crimini che ha commesso comporta la cancellazione di una parte della memoria e dovrà cercare di adattarsi di nuovo alla sua vita con un programma di reinserimento. Il valore dei matrimoni è definito dall’importanza dello sponsor che accetta di prenderne parte.
Sono solo alcune delle suggestioni più interessanti di Perché l’America, una raccolta di tredici racconti di Matthew Baker, pubblicata da Sellerio con la traduzione di Veronica Raimo e Marco Rossari.
Non è difficile incasellare i racconti nella distopia, anche se il genere risulta stranamente inquietante quando le storture future iniziano a far parte del presente.
Matthew Baker diluisce i presagi più cupi con capacità inventiva sfruttando suggestioni familiari del contemporaneo. Molto spesso gli esperimenti speculativi combaciano con un realismo più scarno e spietato in cui anche un minimo scostamento dalla norma è utile a creare e sottolineare il paradosso. Succede per esempio in Apparizione dove un anziano e il nipote deportano periodicamente oltre i confini dello stato i cosiddetti Indesiderati: esseri non molto diversi dagli umani caratterizzati da una pelle chiara, quasi trasparente, e capelli bianchi come la pelle. In Anime perse il problema della sovrappopolazione si presenta quando, senza una spiegazione plausibile, nascono bambini vuoti, privi di qualsiasi segno di coscienza, che muoiono pochi istanti dopo.
Molto spesso nella scrittura di Baker si riconosce l’immaginazione di George Saunders o l’ironia di David Foster Wallace, senza arrivare davvero a un’opera derivativa. Lì dove i personaggi di altri autori erano fermi in involuzioni stilistiche che densificavano un’interiorità profonda e mostravano il lento fagocitare della realtà paradossale, in Baker sono meno riflessivi e a volte più trasparenti rispetto alla cura meticolosa dedicata alla costruzione del mondo.
Abbiamo intervistato l’autore per capire da dove nascono storie che, grazie ad atmosfere tra l’attualità e un futuro distopico, hanno affascinato anche produzioni televisive e cinematografiche (Netflix, Amazon, FX e Fox Searchlight hanno acquisito i diritti di otto racconti di Perché l’America).
Hai presentato il libro come una guida agli Stati Uniti, tredici racconti uno per ogni striscia della bandiera americana. Una guida bizzarra e particolare che a luoghi geografici familiari come i Grandi Laghi, gli Appalachi, le Grandi Pianure, affianca una cultura americana guardata sotto la lente della speculative fiction. Qual è lo scopo della speculative fiction nella tua raccolta? E perché non hai scelto una narrazione realista?
In qualsiasi società umana, avere una conversazione costruttiva su questioni sociali o politiche può essere difficile e gli Stati Uniti oggi sono una società così pericolosamente polarizzata che a volte il paese sembra essere sull'orlo di una guerra civile. È diventato impossibile parlare delle questioni che contano. Se provi a conversare con qualcuno su un argomento come i profughi di guerra o la riforma carceraria, immediatamente si alzano questi muri, queste barriere psicologiche spesse come mattoni, che impediscono qualsiasi scambio genuino di idee. In un ambiente del genere l'unico modo per parlare di ciò di cui vuoi parlare è mascherare il problema. Coprire il problema in un'altra forma. Mi sono rivolto alla narrativa speculativa nella speranza di dare ai lettori uno spazio per confrontarsi genuinamente con le idee alla base di questi problemi e per accedere sinceramente alle emozioni coinvolte.
Nel corso delle storie ogni stato americano appare almeno una volta, citato tramite i suoi monumenti e i suoi punti di riferimento. Credo che racchiudere la grande varietà geografica e antropologica degli Stati Uniti sia un lavoro mastodontico. La vedo dal punto di vista di un’italiana, abituata ad aree geografiche densamente popolate, senza quel senso di apertura, libertà estrema, abbandono di spazi sconfinati del territorio americano. Quanto credi che incida questo territorio sull’identità americana? E come sei riuscito a uscire dal tuo luogo ed esplorare tutti gli altri nella fiction?
Gli americani sono fondamentalmente ossessionati dalla "libertà" e dall'"indipendenza" e questo, in una certa misura, è probabilmente ispirato dal senso di vivere in un territorio sconfinato. Ho una grande famiglia, geograficamente lontana, parenti che vivono in Michigan, Virginia, Texas, Nevada, Montana, Florida, Illinois, Ohio, Kentucky, California, New York, così che la natura apparentemente sconfinata del territorio mi è rimasta impressa in giovane età, attraversando grandi distanze con i miei genitori e le mie sorelle in un minivan nelle estati per visitare i cugini che vivevano in culture radicalmente diverse, che tuttavia erano tutte in qualche modo semplicemente componenti di una cultura più grande - l'ubercultura degli Stati Uniti. In un certo senso, è stato allora che ho iniziato a scrivere il libro: quelle estati esplorando la campagna con la mia famiglia, con mappe stradali, binocoli e macchine fotografiche usa e getta, in un minivan arrugginito.
Come nascono le idee per le tue storie?
Sognando ad occhi aperti, di solito, seduto su un treno o su un autobus o girovagando per le gallerie di un museo.
In alcuni racconti della raccolta ho notato che le derive speculative erano molto affascinanti, così suggestive da lasciare da parte l’approfondimento di alcuni personaggi, come se fossi più concentrato sul concetto trasmesso dal racconto e non sull’interiorità dei personaggi. Durante la scrittura c’è stato qualche racconto che ti ha messo in difficoltà sotto questo aspetto? E come fare per superare il conflitto tra l’ispirazione letteraria e il desiderio di far prevalere un concetto sostanziale del racconto?
In termini di personaggio, la storia più difficile della raccolta è stata Perché l'America, dato che in quella storia il protagonista non è semplicemente una persona ma un'intera città. Il tentativo di costruire un arco narrativo per la comunità stessa e allo stesso tempo archi narrativi per i singoli membri di quella comunità sono state una sfida tremenda. Un'impresa apparentemente impossibile. Ma questo è ciò che mi ha entusiasmato della storia. Che era una sfida. Come artista, preferisco fallire in modo spettacolare mentre provo qualche nuovo trucco piuttosto che riuscire ancora una volta a fare qualche vecchia mossa che ho già eseguito.
A tratti nei tuoi racconti s’intravede l’ironia di David Foster Wallace e le atmosfere di alcuni racconti di George Saunders. Volevo però sapere dal tuo punto di vista quali sono state le opere importanti nel tuo percorso artistico e a quali ti sei ispirato per la raccolta?
La prima opera di letteratura contemporanea che abbia mai letto è stato il romanzo di Haruki Murakami La fine del mondo e il paese delle meraviglie. Ero incantato. Ho sviluppato rapidamente un'ossessione per Murakami, leggendo ogni libro che avesse mai scritto. I romanzi di Murakami L'uccello che girava le viti del mondo e Norwegian Wood in particolare hanno avuto un'enorme influenza su di me come giovane scrittore: ho letto ciascuno di quei romanzi almeno sei o sette volte nell'arco di forse solo due o tre anni. Il romanzo di Salvador Plascencia Gente di carta è stato un altro testo fondamentale per me, insieme a Collected Fictions di Jorge Luis Borges, Le città invisibili di Italo Calvino, il Codex Seraphinianus di Luigi Serafini, Un signore molto vecchio con delle ali enormi di Gabriel García Márquez. Ma per questa raccolta di racconti in particolare le più grandi ispirazioni per me sono state opere di fantascienza sociale/politica come Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood e Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro e I reietti dell'altro pianeta. Ho passato molto tempo a pensare alla creazione del mondo in graphic novel come Il Garage Ermetico di Jean Giraud e L’approdo di Shaun Tan. Le dinamiche narrative dei film Her e Se mi lasci ti cancello. Il sentimentalismo leonino della puntata “San Junipero” [della serie tv Black Mirror ndr.]. L'intellettualismo temerario del videogioco BioShock.
In un’intervista hai affermato che i tuoi lettori ideali sono tutti i veri americani. Quali sono le contraddizioni, gli aspetti più evidenti della cultura e dell’essere americano che hai voluto sottolineare nei racconti? Ti poni come un monito alla cultura americana per cambiare le cose o un semplice osservatore del cambiamento?
Lo sciovinismo e il bigottismo e la vanità e l'avidità. I dogmi colossali, abbastanza potenti da distruggere ogni logica, abbastanza potenti da distruggere ogni compassione, abbastanza potenti da distruggere anche il clima del mondo. Non un "avvertimento", non un "osservatore": a dire il vero, ho scritto il libro con lo stesso fervore folle che potrebbe provare un rivoluzionario preparando una bottiglia molotov prima di lanciarla contro un carro armato.