Case inquiete. Intervista ad Alessandra Sarchi

di Roberto Galofaro

Dopo Il dono di Antonia (Einaudi, 2020), Alessandra Sarchi torna in libreria con minimum fax con la raccolta Via da qui. L’abbiamo intervistata sui temi dei cinque racconti e sulla sua concezione della forma breve.

 

Il suo esordio era avvenuto nel segno del racconto con Segni sottili e clandestini (Diabasis, 2008); suoi racconti sono apparsi anche in antologie, su giornali e riviste, perciò vorrei cominciare con una domanda specifica e generica insieme: è giusto definire questo nuovo libro come un “ritorno” alla forma breve? Non è piuttosto una pratica costante, fatta di composizione e scomposizione, meditazione, scatti e ripensamenti, tagli, riscritture, che si prolunga per un tempo assai lungo?

Non nascondo di avere una predilezione per il genere del racconto e mi dispiace che in Italia l’editoria sia così poco incline a pubblicarne. Non ho mai smesso di scrivere narrazioni brevi e dalla mia prima raccolta, pur essendomi misurata con la lunga distanza del romanzo in quattro occasioni, ho mantenuto il gusto e lo spazio mentale per la densità, la sintesi, e la sperimentazione anche linguistica che la forma breve consente. Ho capito che difficilmente, per quanto mi riguarda, riesco a trasformare un racconto in un romanzo. Il racconto ha una vita sua che non può essere diluita o travasata in un contenitore più ampio, per certi aspetti meno intuitivo e più ponderato, quale è il romanzo.

 

Il tempo come durata è stato al centro di una sua riflessione, pubblicata qui su Cattedrale. Nei racconti il tempo appare spesso come una trama di relazioni attraversate, una tessitura di incontri, di momenti condivisi che si fanno storia personale, di ricordi che mettono in prospettiva il presente. Anche i cinque testi di Via da qui sono strutturalmente costituiti in maniera da danzare con la cronologia, quasi a manifestare la modalità interiore dei personaggi di riviversi e individuarsi, alla ricerca di un equilibro tra ciò che sono stati e ciò che stanno per diventare. Penso per esempio a come nel primo racconto (La tana) si intrecciano il dolore della protagonista e la rievocazione della passata e perduta felicità. Non trova anche lei che una delle sfide formali poste dal racconto sia quella di rendere quasi contemporanei presente e passato?

La condensazione della forma breve consente di assecondare il ritmo della memoria che non è mai lineare e procede per salti. Senza memoria non c’è nozione temporale e senza tempo non c’è narrazione. La dimensione del trascorrere del tempo è dunque fondamentale per i miei personaggi, è solo tra i salti e gli inganni della memoria che riescono a dire di sé. Tutti e cinque i racconti di Via da qui si svolgono nell’arco di qualche giorno, ma si estendono ben di più nell’interiorità delle protagoniste e dei protagonisti, ciascuno di loro infatti ha modo di ampliare un dettaglio del presente per riconnettersi al passato o immaginare un possibile futuro. Non so se la forma del racconto in sé dia la possibilità di rendere contemporanei passato e presente, ma è certamente più vicina del romanzo al ritmo franto e diseguale della vita, in cui a fatica si riesce a vedere il disegno complessivo e illusoriamente progressivo che viceversa presuppone la narrazione romanzesca.

 

Una qualità della sua scrittura mi ha sempre colpito: la capacità di mostrare le forme concrete che prendono un sentimento o una sensazione quando si fanno evidenti in un gesto, e insieme l’interesse per l’indeterminato che accompagna ogni intenzione e ogni scelta. Oltre che nelle scene (cioè nella drammatizzazione) il racconto condensa in immagini il vissuto emotivo. Così negli oggetti si annidano significati, cristallizzati o polverizzati, granitici o impalpabili. Come gli anni trascorsi e l’aria addensata nei frammenti di una vernice che si scrosta (La tana) o il pulviscolo che si fa visibile nel taglio di una luce intensa (Il palazzo della principessa). Qualcosa che resta attaccato o sospeso. Se dovesse optare per una definizione, direbbe che quello della sua scrittura è un moto verso o un moto da un correlativo oggettivo? O entrambi?

Quando scrivo ho bisogno di ‘vedere’ le cose, gli spazi e i personaggi di cui parlo. Ogni porzione di mondo che racconto deve avere la sua caratterizzazione, per il racconto Cherry Street, ad esempio, è la luce bellissima e accecante della California, per Il palazzo della principessa è la polvere dei muri e degli intonaci scrostati di un antico palazzo signorile, per Fondamenta della Misericordia è l’acqua torbida ma viva dei canali veneziani. Credo che i miei personaggi vivano in uno scambio continuo con lo spazio in cui li immergo, per cui il movimento è dalla loro interiorità verso l’esterno e viceversa. Non sempre è un incontro confortante, ad esempio la protagonista di Cherry Street vorrebbe qualcosa di solido a cui appigliarsi, mentre avverte che il suo matrimonio sta franando, guarda il concrete sotto i suoi piedi, ma anche quel duro cemento si sfalda.

 

Arriviamo al filo rosso che unisce i racconti della raccolta: l’abitare. Molti libri recenti hanno a che fare con le case (i finalisti allo Strega Bajani e Caminito su tutti); si sono succeduti di recente saggi di grande interesse sul senso filosofico e storico dell’abitare (Coccia, Molinari). Forse le restrizioni imposte per arginare la pandemia hanno spinto noi lettori a guardare con occhi più attenti al confine esterno più intimo che ci ritroviamo. Abbiamo così scoperto o riconsiderato il fatto che abitare non è né riposante né statico, che è insieme comodo e scomodo, è un attraversare, non è uno stare. Quanto, con i suoi racconti e con il titolo Via da qui, voleva programmaticamente indagare questa sensibilità?

I racconti di “Via da qui” sono stati scritti ben prima dell’arrivo della pandemia da Covid19 e quindi hanno davvero poco a che vedere con l’ossessione casalinga che imperversa negli ultimi due anni.

Piuttosto quello dell’abitare come forma e proiezione di una visione del mondo è un tema che mi accompagna fin dal mio primo romanzo Violazione (2012) che ruotava tutto intorno all’acquisto di una sospirata casa in mezzo al verde. Quando, a metà degli anni ’90 vivevo a Los Angeles, città in cui in molte zone le abitazioni hanno un’area di verde davanti ma non cancelli o siepi, una delle mie distrazioni preferite era spiare le case da fuori e cercare di immaginare le vite di chi vi abitava. Stessa cosa mi è capitata ad Amsterdam, dove le grandi finestre accolgono la luce e lo sguardo di chi passa. Per me una casa è sempre un oggetto di archeologia, pieno di sedimentazioni e strati da sollevare con cura e studiare, ha una dimensione materiale imprescindibile che però ne proietta molte altre a livello simbolico altrettanto importanti.

 

Mi è sembrato significativo che quasi fin dai titoli dei racconti ci troviamo di fronte a una lista di possibili connotazioni di ciò che denotiamo con il termine “casa”. Li elenco per chi non avesse l’indice a portata di mano: La tana, ovvero il rifugio degli affetti domestici, al riparo dal mondo di fuori; L’argine, che è – per la protagonista – un luogo metaforico di confine tra nostalgia del passato e nuovo inizio; Il palazzo della principessa, dove il possibile scenario fiabesco è in realtà uno scalcinato edificio in restauro; Cherry Street, dove in un’assolata dimora a Los Angeles matura il disincanto di una relazione incerta; Fondamenta della Misericordia, in cui un attico a Venezia è il teatro di una (mancata) resa dei conti tra vecchi amici. Come ha tracciato l’itinerario di questo attraversamento molteplice di spazi e geometrie umane?

Sono convinta che i luoghi ci abitino non meno di quanto noi abitiamo loro. Appartengo a una generazione che per vari motivi, di studio e di passioni umane, ha avuto la fortuna di poter viaggiar e vivere in luoghi diversi. I luoghi dettano l’atmosfera e il mood delle nostre giornate, perché agiscono sul nostro corpo e sulla psiche. A Bologna non posso fare a meno di avvertire il peso del Medioevo perché tutto il centro storico ne è improntato con le sue vie strette, le torri, le bocche di lupo dei palazzi che esalano ombra e umidità anche quando ci sono 40 gradi. Posso anche non pensarci consapevolmente, ma l’idea di convivenza urbana e di umanità che ogni luogo mi rimanda è uno stimolo costante. A Venezia, ad esempio, l’assenza di auto, la necessità di spostarsi sempre a piedi o su acqua con “democratici” vaporetti, la promiscuità della vita nei campielli e nelle calli, dove la distanza si riduce a quasi niente, fa sì che si sia mantenuta un’idea di comunità che altrove è del tutto assente. Quello che mi interessava attraversare, però, con questi racconti era una geografia in fuga: in nessuno di questi luoghi i personaggi dei miei racconti si sentono del tutto radicati. In un mondo globalizzato il desiderio delle radici ha sempre come contropartita un suo rifiuto o comunque a una sostanziale messa in discussione.

Scrivere è un po’ come scoperchiare appartamenti: mettere in evidenza ciò che è nascosto e privato, lo stato in cui versano le stanze condivise, la memoria che gli oggetti conservano e restituiscono. Però lei dice anche che l’intimità familiare è un «mercanteggiare continuo tra quello che chi ti conosce dalla nascita crede tu sia, e ciò che il mondo esterno ha contribuito a farti diventare». In questo commercio, mi pare di leggere, il rischio che si corre è in piccola parte l’incomunicabilità, in massima parte l’equivocare sé stessi, l’ingabbiarsi in schemi da cui si fatica a scappare e che il mondo, indifferente, sembra ignorare. Ma il punto mi pare, ed è elegante e onesto, è che la sua letteratura non è prescrittiva né riduttiva. E i finali dei cinque racconti stanno lì a dichiararlo, lasciando insieme sciolti alcuni dei nodi e ben stretti molti altri. Quanto conta per lei, nella costruzione di un buon finale, la sottrazione, l’ellissi?

L’ellissi è una delle mie strategie narrative preferite, così come la lacuna che le è sorella. Ma per arrivare a questo, a una chiusa come «la sventurata rispose» tanto per intenderci, bisogna aver tracciato una trama e personaggi molto ben congegnati prima. Perciò è importante per me scrivere avendo in mente la complessità e la prismaticità del reale, solo fornendo al lettore elementi anche contradditori ma significativi si può concedere lo spazio di immaginazione ulteriore rispetto a quanto la pagina contiene, che poi secondo me è sempre la forza vera di una narrazione. Ciò che io scrivo è solo la punta dell’iceberg, ma attraverso quelle parole il lettore deve immaginare e avere paura o incantamento per il restante colosso immerso.

 

Lei non ha mai avuto paura di affrontare temi scomodi (come la maternità surrogata, nel romanzo Il dono di Antonia, Einaudi, 2020). Anche tra i cinque racconti circolano grandi questioni: la convivenza omosessuale che la legge non riconosce e non tutela; l’aborto; l’occupazione abitativa; la violenza domestica. Eppure, la modalità con cui sono tirati in ballo lascia un’impressione di leggerezza. Possiamo definire un atto politico la sua ricerca di questa naturalezza?

Non so se sia un atto politico, qualunque scrittura in qualche modo lo è, e non perché scelga o non scelga l’impegno, ma perché scrivere è di per sé costruire modelli del mondo, che lo si voglia o meno. Credo che nel mio caso sia soprattutto una questione di stile. Prendiamo un articolo di giornale: possiamo trovarci molti temi che interessano l’umanità, ma non per questo si tratta di letteratura. Trovare una forma, un punto di vista, e soprattutto una lingua con cui raccontarli fa la differenza. Per quanto mi riguarda, siccome mi interessano tutte le situazioni che mettono alla prova la costruzione di un’identità culturale vs una cosiddetta naturale, non posso che adottare uno stile che contiene e argina il pathos. Siamo attraversati da tragedie e drammi quotidiani, ma li viviamo perlopiù in sordina. Ecco, forse ciò che ho voluto riprodurre in questi racconti è la sordina che ogni giorno mettiamo al dolore, al rimpianto, alla disillusione, per sopravvivere.