di Roberto Galofaro
Tra le raccolte italiane di racconti, Non saremo confusi per sempre di Marco Mancassola è una delle poche che sopravvivono al tempo: la prima edizione (Einaudi) è del 2011, nel 2018 è tornata in libreria per i tipi di La Nave di Teseo. Nel 2017 Fabio Grassadonia e Antonio Piazza hanno tratto, dal racconto Un cavaliere bianco, il poetico film Sicilian Ghost Story. E quando, con la redazione di Cattedrale, abbiamo proposto uno dei racconti per il gruppo di lettura Sacrestia, i partecipanti si sono dichiarati sorpresi, colpiti, entusiasti davanti a una vera e propria scoperta.
Spinti dall’apparente perpetua attualità di questo libro, abbiamo deciso di intervistare l’autore, Marco Mancassola, che ha al suo attivo numerose altre pubblicazioni, tradotte anche all’estero: Il mondo senza di me (2001, 2003); Qualcuno ha mentito (2004); Last Love Parade (2005, 2012); Il ventisettesimo anno (2005); La vita erotica dei superuomini (2008); Gli amici del deserto (2013).
Non saremo confusi per sempre rappresenta un unicum per la connessione tra fatti di cronaca (estesamente coperti dai media, e perciò noti e commentati) e fiaba. Vorrei partire proprio dall’origine: com’è nata l’idea di innestare la fiaba sulla cronaca? Come, cioè, tra fiction e non-fiction le è venuta in mente questa terza via, capace di affascinare, incantare i lettori pur rimanendo distante dalle narrazioni a cui ci ha abituato il new journalism, da Capote a Didion? Aveva un modello letterario preciso?
Non avevo un modello. I primi due racconti della raccolta nacquero come testi inediti che leggevo nei teatri, nei reading che in quel periodo mi capitava di tenere. Il modello dunque era quello di una narrazione teatrale, forse. Soltanto in seguito ho seguito la traccia della “fiaba”. Non ricordo se volevo intenzionalmente ibridare cronaca e fiaba ma credo che quelle storie di cronaca fossero già, in un certo modo, fiabe nere nella coscienza collettiva. Storie di giovani personaggi che incontravano il male, l’ingiustizia radicale, ma storie senza lieto fine e quindi senza catarsi.
L’operazione che ho fatto credo resti slegata da altre indagini letterarie nella cronaca, un genere che in Italia e altrove ha continuato a fiorire in questi anni. La struttura dei miei racconti era di una semplicità trasparente: i capitoletti di resoconto della cronaca e quelli di invenzione si alternavano con ordine, non si mescolavano, il lettore conservava la mappa fra reale e letterario, un confine che invece in molti lavori si tende a sfumare. In ultima, credo che il mio fosse un modello di indagine nella coscienza, se vogliamo chiamarlo così. Desideravo l’effetto di quando, svegliandoti, sai bene di aver fatto un sogno e che la realtà è più drammatica, ma lo stesso trovi un calore utile in quel sogno.
Di fronte al racconto di un fatto reale come di fronte a quello di un fatto inventato, in fondo, siamo comunque posti a confronto con una realtà che è interna alla finzione, che è lo specifico della letteratura. Per citare quell’«Al lupo! Al lupo!» di cui parlava Nabokov: che il lupo esista realmente o no, l’enunciato ha un effetto “magico” in chi lo recepisce. E, di fatto, le soluzioni fantastiche che lei ha adottato consentono al lettore di conservare sia il dolore che lo stupore, senza che l’uno prevalga sull’altro. Quando scriveva o limava questo libro, aveva in mente di ricercare un equilibrio specifico tra invenzione e resoconto?
Sì, doveva essere per metà resoconto e per metà invenzione, e le due parti dovevano essere ben riconoscibili – anche per rispetto verso chi di quella realtà era stato vittima vera, reale. Quando senti il morso della morte forse ti importa poco di certi discorsi da scrittore.
La parte di resoconto era basata sul materiale disponibile a tutti: il giornalismo che ha parlato di quei fatti. La parte di finzione era basata invece su forme letterarie, la fiaba, l’autofiction, il racconto metaletterario, la riscrittura di famosi romanzi. La conoscenza dei fatti e il sogno intorno ai fatti. Il primo per rendere testimonianza di fatti veri successi a persone vere, il secondo invece per applicare un balsamo letterario allo stupore e al disagio che abbiamo provato noi, gli altri, gli spettatori, quando quei fatti hanno intasato il discorso pubblico. Capisco bene che dentro un testo siamo dentro una simile sostanza, ma la legittimità dell’operazione per me era legata al confine fra le due parti. Se poi il confine arrivava a volte a essere trasceso, il lettore poteva sempre però, grazie alla struttura a parti alterne, capire da che parte era.
Vorrei riportare un esempio a testimonianza dell’attualità del libro: sulla storia di Alfredino, il bambino precipitato nel 1981 in un pozzo artesiano a Vermicino (a cui è dedicato il racconto Un bambino al centro della Terra), dopo un numero enorme di saggi che ripercorrevano la vicenda (c’è persino un libro di Veltroni), nel 2021 abbiamo avuto una serie tv (Alfredino. Una storia italiana, SkyItalia) e un romanzo (Alfredino, laggiù, di Enrico Iannello, Feltrinelli). Qual è la ragione di un interesse così vasto e, in particolare, qual è stato il suo interesse, nella storia di Vermicino?
Un interesse generazionale (avevo sette anni quando successe); un interesse verso la storia della coscienza collettiva italiana, diciamo così, e il modo in cui la televisione l’ha plasmata; un interesse verso gli archetipi devastanti evocati da quel fatto. Ma soprattutto, il senso di ingiustizia quasi metafisica, senza redenzione (non c’è nemmeno un responsabile preciso da processare) incarnato da quell’evento. Cosa si può dire di fronte a quella storia? La mia risposta nel libro è ricorrere a una storia di Jules Verne: una delle storie per ragazzi che più mi hanno fatto compagnia, che mi hanno sentire meno solo quando ero bambino.
Credo si possa dire che la sua soluzione (ibridare la tragedia di Vermicino con Viaggio al centro della Terra di Verne) sia un perfetto esempio della libertà che la finzione può prendersi e allo stesso tempo della sua responsabilità. Con la fantasia, è riuscito ad amplificare le vibrazioni emotive suscitate dalla vicenda, generando un’empatia del tutto sfrondata del peso dell’indignazione che spesso accompagna i commenti e certe polarizzazioni dei fatti controversi. Uno dei partecipanti al gruppo di lettura ha parlato, per questo racconto, di una rappresentazione dell’indicibile. È stata questa, in effetti la sua intenzione?
Forse in un certo senso. Indicibile è la morte. Più una morte ci sembra ingiusta, più diventa indicibile. Ecco allora l’idea che quel pozzo freddo e bagnato fosse invece un cunicolo che andava da un’altra parte, un altro viaggio nelle viscere della terra. Mentre scrivevo il libro mi interessavo di viaggi sciamanici e stati di coscienza; forse c’è stato qualcosa, inconsapevolmente, che mi ha portato a immaginare una sorta di piccolo Bardo, il viaggio avventuroso in un modo sotterraneo che si rivela, alla fine, l’accettazione del morire. Di nuovo, però, è importante per me ricordare che la parte di invenzione riguarda noi, il nostro bisogno di consolazione rispetto a una storia così traumatica. Nella parte di realtà, si tratta di ricordare quel bambino e rispettarlo in silenzio.
In uno dei racconti (Il cavaliere bianco, incentrato sul rapimento e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo ordinato dal mafioso Giovanni Brusca), uno dei personaggi chiede all’altra protagonista del racconto, Silvia: «Si può sapere perché ti ossessiona tanto?». Giro a lei la domanda: c’è un’ossessione, dietro la composizione di questi racconti?
Nessuna ossessione. Nel mio lavoro di autore questo libro è un’eccezione. C’era un peso, ecco, che sentivo quando pensavo a quelle famose storie di cronaca, e sapevo che tanti lo sentivano (era il presupposto per i reading teatrali di cui ho parlato prima). Non erano storie che mi riguardavano personalmente, anche se alcune richiamavano aspetti che mi interpellavano (il racconto sulla violenza poliziesca, quello sul fine vita, e più in generale, per mia storia personale, le figure di genitori in lutto coinvolti in tutte le storie).
C’era anche forse il fastidio per come quelle storie erano diventate cibo per gli avvoltoi della retorica, per il baccano mediatico, per la sistematica mancanza di rispetto verso le vittime. Non era certo nelle mie facoltà rimediare a questo. Non era mio dovere né affare mio occuparmi di quelle storie. Da autore letterario però potevo guardarle e lavorare, intorno a esse, sul piano dell’immaginario e del linguaggio. Forse questo era legittimo, o almeno così spero.
Vorrei chiudere con una domanda sulla funzione dell’“io” in questi racconti. A volte lei si chiama in causa, come testimone obliquo (in un caso il narratore partecipa a un progetto di messa in scena dell’omicidio colposo commesso dal principe in esilio Vittorio Emanuele di Savoia; in un altro chi-dice-io si reca a Udine per scrivere un reportage sugli ultimi giorni di Eluana Englaro), a volte si ricorre al “noi”, una prima persona plurale che identifica una collettività nazionale, animata da sentimenti condivisi. Tirarsi dentro, con la delicatezza con cui qui lei è riuscito a farlo, è sembrato un atto di coraggio, di fede nella parola. Quanto peso ha avuto nella composizione dei racconti la sua testimonianza diretta, non finzionale, rielaborata o reinventata che fosse?
Sì, ci sono un paio di accenni quasi di autofiction, in cui mi immagino coinvolto in storie che si legano, a qualche livello, a quelle accadute. È un io-testimone occasionale. Il “noi” forse è più importante. C’è un “tirarsi dentro” ma anche un “tirarsi indietro”, credo, che di fatto passa soprattutto attraverso il linguaggio del libro: un linguaggio piano, volutamente senza picchi, che cerca di restarsene il più possibile discreto. L’io di un autore passa tutto per la sua prosa. Tenere a bada la prosa è stata la cosa più difficile, ma sembrava necessario per questo libro.