di Debora Lambruschini
Si cammina da sole. Ma solo appaiate si trova un ritmo.
Posso raccontarmi solo a patto di raccontare altre donne, solo riconoscendo la mia vita dentro altre vite. Riconoscersi rispecchiandosi. […] Ho voluto scrivere questo viaggio al centro di me stessa, rievocando le sorelle che mi hanno accompagnato dall’infanzia all’età adulta.
L’amicizia è una strada verso il proprio cuore.
La via delle sorelle, edito da Bompiani, è un testo ibrido, tra memoir e racconto, una sorta di «autobiografia collettiva» che indaga le molte facce dell’amicizia femminile, partendo dall’esperienza personale per poi aprirsi alla riflessione sui legami tra donne del passato, intellettuali, artiste, scrittrici. Perché in quel rapporto con l’altro c’è molto di noi stesse.
Abbiamo intervistato l’autrice Gaia Manzini, ne è nato un dialogo su scrittura, rapporti, esperienze.
Da dove nasce l’urgenza di queste storie, come si fonde il racconto personale all’esperienza dei personaggi selezionati?
Volevo raccontare del mio percorso identitario, della mia formazione di donna. Ognuna di noi costruisce il proprio femminile dal confronto con le altre: qualcuno di questi incontri segna la nostra esistenza in modo decisivo. Ho voluto scrivere una sorta di autobiografia collettiva, raccontando della mia vita attraverso le amicizie che l’hanno segnata.
Le “sorelle” sono quelle presenze amiche che sono state determinanti nella mia crescita personale. Ci sono le amiche dell’infanzia, quelle con cui ho imparato a sognare e a desiderare, quelle nelle quali mi sono identificata, quelle con cui ho progettato qualcosa di appassionante, quelle che mi hanno fatto conoscere parti di me e che mi hanno indicato una strada. La forma del personal essay mi ha consentito di mescolare il racconto autobiografico al racconto di altre donne della letteratura e dell’arte. È una scelta stilistica che nasce da un’esigenza personale – quella di non voler peccare di egolalia, e poter così cambiare discorso, nidificandomi in altre donne, raccontando di me ma per analogia e parallelismi. Il personal essay è per me soprattutto un esercizio di pudore. Ma non solo: c’è anche un’esigenza tematica. Se racconto del mio percorso di donna, da scrittrice, non posso escludere da questa avventura anche coloro che attraverso le loro opere mi hanno insegnato e formato. Virginia Woolf, Sylvia Plath, Antonia Pozzi e le altre sono autrici e artiste di riferimento. Tuttavia non ho voluto raccontarle per le loro opere, ma soprattutto per i rapporti che le hanno legate ad altre donne (in alcuni casi, amiche famose; in altri, sconosciute al pubblico). Sforzandomi di capire loro mi è sembrato di capire meglio le dinamiche tra me e le mie amiche, e viceversa.
La narrazione quindi intreccia esperienza personale, memoria, e racconto di altre donne, altri legami di amicizia, tra scrittrici, artiste, intellettuali. Come ha trovato questo equilibrio, arrivava prima la riflessione personale o la scelta delle artiste e scrittrici da raccontare? E di questi ultimi quale rapporto l’ha colpita in modo particolare tra quelli inseriti nel libro?
Sapevo che avrei raccontato di me, ma prima ho fatto una lunga ricerca viaggiando tra le biografie, i diari, le raccolte di lettere delle autrici che cito: mi sono messa in ascolto della loro esistenza privata. Ho raccolto informazioni, ho tentato delle interpretazioni il più possibile verosimili. Ogni volta che mi sono seduta a scrivere ho deciso in modo istintivo se iniziare a raccontare un aneddoto privato oppure uno legato a queste donne. Quello che sapevo fin dall’inizio era a quale età della vita un’amicizia letteraria o artistica sarebbe stata affiancata. L’amicizia tra Natalia Ginzburg e Angela Zucconi, per esempio, è un legame nato sul luogo di lavoro che si approfondisce quando entrambe decidono di progettare insieme una rivista. Mi è subito sembrata un’amicizia “adulta”, legata a una progettualità più consapevole. Oltre alla loro storia, mi è piaciuto molto raccontare dell’artista Pippa Bacca e della sua amica Silvia Moro: queste due donne sono partite insieme nel 2008 per un viaggio performance attraverso l’Europa dell’Est e poi il Medio Oriente. Sono partite vestite da sposa, in una sorta di sposalizio con la vita, di viaggio della purezza che sfida la violenza del mondo. Da un punto di vista simbolico però partire in due mi è subito apparso un errore: una sola sposa che cammina al lato di una strada, e di tanto in tanto fa l’autostop, è un’immagine molto più evocativa di due spose. In un capitolo del libro ho cercato di comprendere quel gesto: volevo mettere a fuoco il movimento psicologico di una donna che decide di coinvolgere un’amica nel progetto più importante della sua vita. Non c’entra solo la condivisione, c’entra anche la paura.
L’amicizia, il riconoscimento, tra Marilyn ed Ella Fitzgerald è forse quella che personalmente mi ha colpita maggiormente e quello che nel libro diventa anche il racconto più letterario, autonomo da tutto il resto, con un’identità propria, in cui la commistione tra fiction e non fiction trova un equilibrio ideale. «Non si sa niente di quell’incontro, lo si può solo immaginare»: e in quel momento scatta appunto la scrittura. Che cosa ha significato per lei questo racconto? Dal punto di vista personale e letterario?
Ella Fitzgerald non aveva mai suonato nel prestigioso locale Mocambo, a Los Angeles. Era famosa, la chiamavano “first lady of song”, era la voce femminile più venerata del panorama artistico americano, eppure in quel locale famoso, frequentato dalla più importanti star di Hollywood non era mai stata invitata. È facile immaginarne le ragioni: non era ancora scoppiata la protesta contro le leggi di segregazione che gravavano sugli afroamericani e anche le decisioni dei direttori artistici potevano manifestare forme di razzismo. Ma a Marilyn non importava. Lei era una fan di Ella, si conoscevano pochissimo; una volta l’attrice si era complimentata con lei, le aveva espresso la sua devozione. È stata Marilyn Monroe a convincere il direttore del Mocambo a portare Ella Fitzgerald a Los Angeles: ci riuscì perché promise di sedere in prima fila per tutte le repliche del concerto. Le due protagoniste di questo racconto sono già per ognuno di noi dei personaggi: figure plasmate dalla narrazione che ne ha fatto lo star system americano. In certo senso è una narrazione già avviata, ma come dimostra Joyce Carol Oates, che su Marilyn ha scritto un romanzo straordinario -Blonde -, è nella contraddizione tra immagine pubblica, venata di mito, con quella privata di cui si sa sempre pochissimo che prende vita qualcosa di letterariamente interessante: proprio laddove queste figure note ai più si mostrano nella loro fragilità, nel loro essere umane. Mi sono immaginata queste due donne diversissime ma in fondo simili - sempre osservate, sempre giudicate, sempre incasellate in una cornice d’oro - che scambiano due parole come donne qualsiasi che si fanno i complimenti reciproci, e una esprime all’altra il desiderio di rivederla e in quel desiderio la mette nella condizione di realizzare qualcosa d’importante. Perché portare una cantante di colore al Mocambo significava mostrare al mondo che le leggi Jim Crow avevano fatto il loro tempo. Gli altri, gli amici e le amiche spesso servono ad aggiustare il racconto che abbiamo di noi stessi: ci mostrano delle possibilità diverse, delle qualità che non credevamo d’avere, ci dicono che è giunto il tempo per noi di fare un passo in più. Si fanno promotori di un’epifania personale che ci fa rinascere un’altra volta. Chiunque sia agente di una nostra nuova agnizione personale non può che essere annoverato tra gli amici, non sarà mai una presenza trascurabile della nostra esistenza, ma qualcuno che per un attimo ci ha fatto brillare. Forse Ella Fitzgerald non aveva bisogno che Marilyn le esprimesse la sua ammirazione, ma quella ammirazione le ha fatto credere possibile di esibirsi in un locale che forse non le avrebbe mai aperto il cuore.
Dell’amicizia femminile racconta diverse sfumature, nel tentativo di renderla pienamente, tracciando una mappa sentimentale che accompagna lungo tutta la vita: il sostegno e l’affetto profondo, ma anche le distanze, la fugacità di certi rapporti, le incomprensioni. Sarebbe stato più facile scrivere un’ode all’amicizia femminile, alla sorellanza, farne un racconto edulcorato: invece lei fa una scelta diversa, molto più aderente alla realtà, raccontandone anche i lati più oscuri, le incomprensioni, la condivisione di un solo pezzo di strada.
C’è un tono di voce che accompagna un po’ tutto il libro che è quello dello stupore. Mi sono sempre cercata per tutta la vita. Il mio è stato un percorso annodato, difficile, pieno di errori, spesso accompagnato da angoscia. Ma dopo molti anni, in questo momento, posso dire che il cercarmi mi ha portato a un godimento di me: mi piace la mia vita, mi piace stare dentro i miei panni. Questo ha un effetto sullo sguardo che cerca di ritrovare lo stupore e l’incanto rivolgendosi alla vita passata. Nel mio libro, insieme ai legami luminosi, ho raccontato anche di ombre, di esperienze non positive, di tradimenti, perché la storia dei rapporti è molto spesso frastagliata; ma ho cercato di farlo sempre con stupore, sempre con accoglienza, perché anche gli incontri difficili, a riguardarli adesso, sono stati motivo di conoscenza, spinta di crescita personale e di consapevolezza. L’incanto verso il passato si trasforma poi in quello verso il futuro: in questo momento sento una fiducia nuova – la certezza di poter sempre incontrare anime che ci corrispondono, che ci danno gioia. Il viaggio verso noi stesse non finisce mai.
Uno spunto particolarmente interessante è il racconto dell’amicizia tra coloro che scrivono, sul quale apre a molte riflessioni e spunti che restano al lettore. In generale la sensazione durante la lettura è stata proprio questa, di una sorta di interazione tra autore e lettore, che è chiamato a colmare gli spazi vuoti della narrazione, rintracciare la storia sommersa, come insito nella forma racconto. E farsi toccare nel profondo dalla lettura, aggiungendo alle pagine la propria di esperienza personale, un ulteriore specchiamento.
Mi piace pensare che quello sia il terzo movimento del libro. Il primo è il racconto autobiografico, il secondo quello delle amicizie di donne del passato, il terzo quello a cui il lettore contribuisce attivamente. Tutti noi abbiamo avuto un percorso fatto di incontri: tutti noi siamo il frutto delle relazioni che abbiamo avuto. Cercare di comprendere quelle relazioni è qualcosa che facciamo di continuo. Il libro diventa la messa in moto di un meccanismo che è già proprio di ciascuno. Un’amica leggendo queste pagine mi ha scritto una bella lettera, facendomi molti complimenti anche per come avevo trattato la figura e i riferimenti a Cristina Campo. Ma Cristina Campo nel mio libro non c’è, non viene raccontata. Evidentemente è parte della formazione intellettuale della mia amica che, immedesimandosi nel mio percorso, non ha potuto che evocare anche le sue sorelle intellettuali, quelle che sono state decisive nella sua di formazione. Mi piace molto che la lettura di questo libro sia un’interazione con il lettore: è come un dialogo aperto e vivo fatto in nome della sorellanza. È come una festa di amiche a cui si aggiungono sempre nuove invitate.
Un testo di questo genere, a confine tra memoir e racconto, significa anche mettersi a nudo, esporre sé stessi. E, in certi casi, perdonarsi, per non aver capito o per essere state così severe con noi stesse?
Cercare di comprendere è già una forma di perdono. Il “capire” esce dalla dinamica della colpevolizzazione perché impone una distanza critica: ci si trova davanti solo dei dati di fatto. Le cose sono andate così, ma anche se hanno provocato dolore o sono state degli errori, rimangono tappe fondamentali del percorso verso me stessa. In questo momento riguardo alle tante versioni di me più giovane e provo un senso di tenerezza, e di rispetto.
Se potesse scegliere di inserire ancora un racconto, ancora due amiche scrittrici/artiste, quale vorrebbe raccontarci?
Mi piacerebbe approfondire il rapporto tra Maria Callas e Giovanna Lomazzi. Giovanna Lomazzi, scopritrice di talenti nel mondo dell’opera e da anni vice presidente del Teatro Sociale di Como, ha incontrato Maria Callas per caso nel 1953 al Biffi Scala quando aveva solo diciotto anni. Sono diventate subito molto amiche nonostante la differenza di età. La “divina” la considerava una sorella. Giovanna ha assistito alla trasformazione dell’artista in un vero e proprio mito vivente. Negli anni l’ha accompagnata in tutte le tappe della sua carriera. Come si preserva l’amicizia aldilà della fama, dell’esposizione, dei riflettori? È un aspetto che mi interessa, che mi piacerebbe indagare.