di Alice Pisu
Se esistono in Francia voci letterarie realmente dissacranti, una di queste è quella di Pierre Jourde. Il suo equilibrio ideale tra finzione e metafisica ha portato la critica ad associarlo a Proust. Figura irriverente della letteratura contemporanea, riconosce tra i suoi maestri Diderot, Rabelais, Sterne, Jerome K. Jerome. Le sue opere rivelano il bilico problematico tra vecchio e nuovo, tra suggestione immaginifica e realtà, tra parodia e dramma, con una prosa che palesa un gusto raffinato per la digressione con scorci sull’irrealtà, stacchi temporali, giochi al contrasto, ritratti beffardi, dialoghi impossibili, dissertazioni letterarie, e esplorazioni fisiche e interiori che tracciano complessi processi narrativi, esito di una ricerca ininterrotta sul senso della scrittura e dell’esistenza. Scrittore eclettico, pubblicato in Francia da Gallimard, autore di saggi filosofici, romanzi, racconti, oltre che acuto critico letterario, Jourde è stato insignito nel corso degli ultimi decenni dei maggiori riconoscimenti letterari (tra cui il Grand Prix De L’Académie Française) che non hanno tuttavia condizionato i suoi giudizi veementi, scagliati anche verso le stesse istituzioni che lo celebrano.
Lo incontro in occasione della tappa parmigiana alla libreria Diari di bordo del tour di presentazione del suo ultimo libro, Il viaggio del divano letto, pubblicato da Prehistorica nella vivace e intensa traduzione di Silvia Turato.
La grazia che traspare dal sorriso accennato cela il disagio nel trovarsi in una chiassosa caffetteria del centro durante un acquazzone. Sin dal primo scambio di opinioni, emerge una nitida idea di letteratura intesa come un’immersione nell’immaginario, spazio fecondo in cui osservare la complessità dei rapporti, rintracciare un ordine interno nel caos delle cose del mondo e riconoscerne una peculiare magnificenza. Memorabili, a tal proposito, nell’accordarsi alla visione di Diderot sulla bellezza, le tre pagine dedicate alla visione e all’odore del letame alle porte del borgo perso nella remota regione dell’Alvernia in Paese perduto (trad. Claudio Galderisi). Anche a causa della celebrazione dello splendore brutale del luogo, quelle pagine contribuirono a scatenare l’ira degli abitanti del villaggio, costarono all’autore un tentato linciaggio e un epilogo drammatico in tribunale narrati ne La prima pietra (trad. Silvia Turato).
Parlare del suo ultimo libro implica confrontarsi con un’impresa anomala, il viaggio a bordo di un Jumper con suo fratello e sua nuora per attraversare la Francia alla volta di Lussaud con il vecchio e scomodo divano letto della nonna appena deceduta. Intriso del ricordo della noia, della desolazione, della vacuità degli anni dell’infanzia, il percorso è una graduale elaborazione dei traumi e delle euforie dell’esistenza, verso un luogo mitizzato, teatro di tenerezze e crudeltà. Nel ripensare al significato di quel ritorno, Jourde parla dell’attesa nuda del miracolo. Le insistenze descrittive dell’opera rese nell’evocare la sala da pranzo art déco, il gabinetto azzurro, il busto in stile impero coloniale di una donna nera a seno nudo, il pastore tedesco con la testa dondolante sul copri-termosifone, attestano la propensione finzionale a lambire i reperti dell’infanzia, i tragicomici casi familiari, i turbamenti e le esuberanze della maturità.
Inizia così la nostra conversazione, nella confessione di studiare con incessante curiosità il rapporto con i luoghi e il passato, nell’intento di misurare, nella dimensione ideale del frammento, l’inganno della memoria, le crepe nei rapporti tra genitori e figli, la scoperta del desiderio, l’innocenza rinnovata, le nevrosi, attraverso eventi minimi che simboleggiano una distanza dal corpo e dal mondo.
Che posto occupa Il viaggio del divano letto in un lungo percorso di scrittura in cui ha esplorato una grande varietà di generi e temi, e in che modo in quest’opera l’insensatezza del viaggio si scopre la condizione ideale per generare una narrazione picaresca sulla scorta di grandi esempi letterari classici?
In generale quel che scrivo non è imposto da una condizione ma proviene da un immaginario profondamente personale. Per questo detesto l’autobiografia. La teoria peggiore è quella di Rousseau, che sostiene l’interesse verso sé stessi, e questo non fa per me. Ormai la tendenza generale è portare sempre tutto verso l’autobiografia. La fascinazione della letteratura deve essere verso l’altro. Lo scrittore, come un pugile, deve saper ricreare una giusta distanza e guardare altrove, non verso sé stesso. Un episodio della mia vita mi ha condotto a fare questo viaggio iniziatico per comprendere la figura della madre, per provare a conoscerla. Probabilmente non avevo neanche intuito tutto all’inizio dell’avventura, come accade sempre quando scrivo: vado dispiegando e provo a capire, come davanti a un collage di momenti sovrapposti.
L’opera si regge su continui sconfinamenti nel ricordo, dialoghi immaginari e verosimili, che spaziano da riflessioni sull’innamoramento, all’esplorazione fisica, all’imperscrutabilità del destino, all’abbaglio generato da ogni vana certezza. In un capolavoro come L’ora e l’ombra, risulta centrale il rapporto con il passato reso nell’idea del ritorno a un luogo che rappresenta anche un tempo preciso, pur sfumando nei contorni. In che modo in opere così diverse l’esplorazione del tema del ritorno può favorire una riappacificazione con sentimenti contrastanti, costituiti in egual misura da tenerezza e da crudeltà?
L’ora e l’ombra è la storia di un uomo che costruisce la sua vita su un’ipotesi, ed è quel che io faccio sempre, mostro persone che costruiscono la loro vita su qualcosa di irreale. Nel Viaggio del divano letto non ci sono ricordi in grado di riappacificare, c’è la solitudine dello scrittore che si scontra di continuo con esperienze concrete, andando incessantemente appresso alle cose. Non è il ricordo stesso, è la letteratura piuttosto, ad avere questo potere di riappacificare, perché crea quel fil rouge tra le cose della realtà. Oggi c’è questa idea che la letteratura sia mossa da un senso di vittimismo, da un disagio. La condizione necessaria per gli scrittori pare essere quella di aver vissuto violenze o aver trascorso una vita mesta. Per quel che mi riguarda, anche di fronte a storie forti, è necessario rintracciare una forma di leggerezza, data anche dall’umorismo.
Emerge infatti nelle sue opere una straordinaria capacità di usare il comico per affrontare con una levità dai toni cupi il significato dell’appartenenza, il complesso legame materno, le nevrosi familiari, l’inganno della memoria e indagare la perdita. Per scorgere la natura tragica e dissacrante dei suoi scritti occorre allinearsi al suo uso peculiare del comico come strategia per amplificare il reale. In che misura il gusto per il paradosso, la sottile malinconia, l’uso dell’ironia, il grottesco celato dietro le immagini di un quotidiano remoto e feroce, connaturano gli interrogativi esistenziali delle sue opere?
In tutti i miei libri l’aspetto comico è centrale, si è mostrato fondamentale in ogni circostanza, anche quando ho dovuto affrontare la morte di mio figlio. A differenza di quanti concepiscono le cose esattamente per come sono, come questo tavolo ad esempio, io tendo a problematizzarle. Utilizzo l’umorismo a partire da un banale oggetto, come questo, per vedere qualcos’altro, aprire nuovi scenari. Per questo mi interessa misurarmi con il comico e il fantastico: sono i miei espedienti per far tremare la percezione del reale, per fare in modo che non sia così netta. Questo è il mio ideale. Il compito che si era proposto Borges era di mettere insieme una letteratura fantastica e metafisica, il mio intento è di dare forma a una letteratura comico-metafisica.
L’uso del comico e del fantastico si mostrano centrali anche in opere drammatiche, come La prima pietra, un testo dalla marcata matrice politica nel sollevare interrogativi sulla letteratura e sulla sua forza dirompente. Interessante il modo in cui nei suoi libri l’uso di questi strumenti sia funzionale allo studio della vergogna, emblematica nel descrivere lo scarto tra l’estraneo e il noto. Come lambire con la scrittura una distanza irrisolvibile tra la personale nostalgica suggestione infantile e l’impressione di intrusione in uno spazio “sovraccarico di limiti invisibili”?
Rielaboro costantemente la nostalgia dell’infanzia perché nell’infanzia è racchiuso tutto: lo struggimento per la morte risiede già nella dimensione originaria dell’infanzia. È un aspetto che mi ha sempre reso irrequieto. Da giovane non riuscivo ad affrontarlo, mi sembrava un errore, qualcosa di cui era meglio non parlare. Ho capito negli anni che la letteratura è in qualche modo anche un metodo per non parlare. Questo senso di vergogna che mi sono portato dentro per lungo tempo cela una forzatura, porta a sentirsi come un clown, come un bambino che in modo ridicolo cerca di continuo di attirare l’attenzione dei suoi genitori. Difficile fare i conti con un senso di fondo come la vergogna, perché è latente, e credo che uno degli scopi della letteratura sia quello di provare a sbarazzarsi di questo senso di vergogna.
Quel senso di vergogna si riconnette al rapporto con il paesaggio, in opere che indagano una personale geografia sentimentale. Come misurare quell’inscindibilità tra il sentimento di un luogo e l’idea di perdita?
In fondo, come sosteneva Heidegger, l'esistenza umana è trascendenza, l'uomo non è una presenza ma un disegno, un piano concepito all’interno di una rete di scenari e soggetti. Quando scrivo compio costantemente dei viaggi, e anche in questo caso, nel Viaggio del divano letto, progredisco in senso fisico, avanzo, attraverso città e paesi, ma in realtà vado all’indietro, verso una situazione primordiale, ripercorro il passato nonostante io stia avanzando verso l’avvenire.
È tra le voci realmente dissonanti della letteratura francese contemporanea, una voce demistificante che non ha mai avuto timore di dichiarare l’insofferenza verso le incoerenze del mondo editoriale contemporaneo, le ipocrisie dei premi letterari, gli spettacoli grotteschi delle fiere, l’egocentrismo degli scrittori, la complicità della critica nel generare fenomeni letterari inconsistenti. Ha dedicato il pamphlet La littérature sans estomac proprio a questo tema. Tornano alla mente le parole di Giaime Pintor, che attaccò a più riprese la pavidità retorica e la vacuità di una parte del mondo letterario del suo tempo, sostenendo la necessità di una rivoluzione operata da pittori e poeti in grado di comprendere la loro parte. Che ruolo ritiene che l’intellettuale dovrebbe rivendicare oggi per contribuire a una controtendenza e immaginare una reale rivoluzione culturale che rompa meccanismi tossici?
Non mi definisco un rivoluzionario, ma un critico. Nella mia vita ho incontrato tanti scrittori che si etichettano rivoluzionari e fuori dal sistema, vivono su questo immaginario comune cristallizzato dalla metà del Novecento, e mostrano di non avere consapevolezza di quel che dovrebbe essere uno scrittore e un intellettuale. Oggi i giornalisti culturali rivendicano libertà di espressione ma sono i primi a non pronunciarsi con giudizi negativi, come se il libro sia un oggetto sacro di cui non si può parlare male. Quel silenzio rispettoso è concepibile solo in un cimitero: annullare il dibattito attorno a un libro significa considerare quel libro morto. Mi sono trovato a condividere un convegno con altri scrittori, ho rivolto a loro questa domanda, gli ho chiesto se si ritenessero davvero rivoluzionari, o forse piuttosto semplici scrittori che avrebbero ricevuto tutti lo stesso compenso dal sindaco. Anche durante una commissione di Stato mentre si discutevano gli aiuti da erogare agli scrittori, nel dossier si riportava la posizione di uno scrittore convintamente contro un sistema di sussistenza, disposto idealmente a bruciare tutto, ma che in fondo non si aspettava altro che essere pagato. Da questo punto di vista bisogna essere marxisti, avere una idea concreta su quel che si può fare considerando che gli scrittori e gli artisti in genere devono concepirsi all’interno di un’economia reale. Apprezzo che in Francia ci sia sostegno agli scrittori, credo che sia uno dei pochi antidoti al predominio della produzione industriale. L’altro aspetto fondamentale è la necessità di prendere coscienza dello stato attuale della letteratura. Quel che è terribile è che la letteratura è stata a lungo legata a una visione morale, fino alla metà del XIX secolo ci sono state pesanti imposizioni in tal senso. Oggi stiamo vivendo un ritorno a tutto questo: agli scrittori è richiesto di scrivere testi virtuosi, in linea con un’idea morale. Ciò che mi muove risiede nella necessità di denuncia, il mio senso critico è direzionato qui.