I ragazzi della Clarée, Raphaël Krafft

 di Giordana Restifo

È arrivato quel periodo dell’anno in cui chi può riscopre la montagna, con i suoi paesaggi immensi, la meraviglia dei colori autunnali e di quelli invernali, le sagome dei larici e delle creste rocciose che si stagliano di notte contro la volta stellata. Per esplorarla, per addentrarcisi, però, bisogna essere preparati, attrezzati. E per valicarla senza abiti adatti, con i militari alle calcagna, con la paura di essere scoperti da un momento all’altro ed essere riportati al punto di partenza? Bisogna disperatamente desiderarlo.
Salif, Antoine, Thierno e Mamadou, sono alcuni dei ragazzi che hanno tentato più volte questa impresa, protagonisti, insieme ad altri, del reportage di Raphaël Krafft, Les Enfants de la Clarée, I rgagazzi della Clarée pubblicato nel 2021 in Francia da Editions Marchialy, e quest’anno in Italia dalla casa editrice Keller, grazie alla traduzione dal francese di Luisa Sarlo.
La Clarée è una valle situata nel dipartimento delle Alte Alpi francesi. Connette, tramite il valico alpino del Colle della Scala, la Francia all’Italia, la Val della Clarée alla Val di Susa in Piemonte. Nel dipartimento delle Alte Alpi si trovano, tra gli altri, i comuni di Névache, di Val-des-Prés, di Briançon, questi luoghi hanno un’importanza rilevante nella cronistoria del giornalista francese. La valle della Clarèe ha fama di essere uno dei paesaggi più preziosi in Francia. Nell’opera il suo splendore, il biaou (si chiamano così in occitano i ruscelli che attraversano il villaggio) che scorre scintillante, il cielo limpido, il candore della neve, stride con l’austerità dell’ambiente in cui si muovono Salif, Antoine, Thierno, Mamadou e tutti gli altri ragazzi.

 

I compagni della Clarée

 

Nel novembre del 2017, il giornalista francese, dopo aver letto due articoli sulla scoperta di una nuova via di transito percorsa dai migranti tra l’Italia e la Francia, si è recato nella regione di Briançon per capirne di più. Così ha conosciuto, giorno per giorno, una rete di volontari impegnati sulle montagne e a valle per aiutare, ognuno come può, i migranti di passaggio. Bernard Liger, un’ottantunenne ex ufficiale di carriera, «considerato un po’ il capo, il ‘decano coordinatore’ dei compagni della Clarée», Bruno Jonnard, pompiere volontario e battipista per il comune di Névache, ovvero autista del gatto delle nevi sulla pista da sci di fondo, e Jean-Gabriel, gestore, insieme alla moglie Catherine, del rifugio Ricou, sono i primi abitanti di Névache che Krafft conosce in questo viaggio. Insieme ad altre persone si occupano di ospitare i migranti che arrivano dal Colle della Scala stremati, letteralmente congelati, danno loro un letto, da mangiare e da bere, degli abiti caldi e adatti, provano a portarli a Briançon, dove vi sono diverse associazioni che possono sostenerli per affrontare tutti i problemi amministrativi e iniziare il loro nuovo percorso di vita in Francia.
Krafft, a casa di Bernard Liger, ha conosciuto Justin, un ragazzo del Camerun di circa trent’anni, arrivato in Francia al primo tentativo, anche se con una caviglia dolorante per essere sfuggito alla polizia che gli ha dato la caccia dal Colle della Scala fino al bosco, con i piedi sanguinanti, una leggera ipotermia, la pancia vuota e la gola così secca che riusciva a malapena a parlare.
Liger spiega al giornalista che è difficile fissare una data di inizio di questo transito, anche perché probabilmente alcuni sono passati senza che gli abitanti se ne accorgessero, potrebbe essere iniziato nel 2015-2016.
L’episodio che ha commosso tutti e fatto realmente prendere coscienza di ciò che avveniva sulle montagne, nella valle, nei boschi attorno a loro, è avvenuto nella primavera del 2016: Mamadou, un ragazzo ivoriano di 28 anni, è stato trovato congelato mentre provava a passare il Colle della Scala e all’ospedale di Briançon gli hanno dovuto amputare i piedi. Qualche settimana prima un altro ragazzo, di 17 anni, sempre ivoriano, era stato trovato in ipotermia sul colle.


Ci siamo accorti che le autorità non si preoccupavano, o non volevano preoccuparsi, della sicurezza di queste persone. Allora abbiamo deciso di farcene carico noi. Ci sembrava assurdo rimanere con le mani in mano mentre delle persone rischiavano di morire in montagna.

 

Quante volte abbiamo sentito questa frase rivolta ai naufraghi del Mediterraneo? Infatti, continua Liger, «non li chiamiamo i “naufraghi della montagna” per caso. Quello che sta succedendo nel Mediterraneo è paragonabile in tutto e per tutto alla traversata delle Alpi, anche se noi abbiamo meno morti. Per ora. Per la gente di mare e la gente di montagna vale la stessa legge: salvare le persone in difficoltà».
Per questo motivo, tra i volontari c’è anche un gruppo di guide alpine con cui, dopo molte difficoltà, Krafft riesce a mettersi in contatto. Cédric, uno di loro, insieme ad altri amici, per organizzare i pattugliamenti ha contattato Alain, una guida di media montagna in pensione molto esperta. Con quest’ultimo e con Caroline, una collega svizzera invitata a Névache per documentare anch’essa ciò che accade ai migranti, il giornalista esce in notturna per una ricognizione, ed è proprio durante questa camminata che conosce Salif, Antoine, Mamadou e Thierno, tutti sedicenni tranne Antoine che ha 17 anni, i primi tre provenienti dalla Guinea, Thierno dal Senegal.

 

I ragazzi della Clarée

 

In momenti diversi, hanno tutti attraversato il Sahara, la Libia e il Mediterraneo. Uno di loro ha le cicatrici delle frustate ricevute in Libia, un altro i «segni dei morsi alla caviglia tipici dei sopravvissuti ai naufragi nel Mediterraneo». Salif è partito a 13 anni insieme allo zio, a seguito della morte di sua madre. Il suo viaggio è stato una triste odissea senza lieto fine: dal loro villaggio, Konkokan, a Conakry, la capitale della Guinea, poi Kourémalé alla frontiera con il Mali, poi, servendosi di un passeur (chi trasporta clandestinamente merci o persone attraverso un confine), Bamako (capitale del Mali), dove per tre giorni hanno dormito su una panchina della stazione. Da lì hanno raggiunto Gao, attraversato il Sahara a bordo di un pick-up pieno di gente per arrivare in Algeria, a Orano, e raccogliere la somma necessaria per proseguire il viaggio. Arrivati alla zona detta “delle tre frontiere”, al confine tra Tunisia, Libia e Algeria, in mezzo al deserto, un altro passeur li ha portati fino a Gadames (in Libia) e li ha venduti a dei sequestratori, assecondando «una pratica purtroppo ricorrente in Libia, dove i migranti africani sono facili prede di uno Stato in rovina». Dopo essere stati brutalmente picchiati per tre giorni, fino a quando le loro grida al telefono hanno convinto parenti e amici a mandare il denaro sufficiente per farli liberare, sono arrivati in una casa occupata a 600 km da Tripoli. Il primo tentativo di attraversare il Mediterraneo non è andato a buon fine. A Sabratha (Libia nord-occidentale) sono rimasti per settimane in alcune capanne vicino alla spiaggia fino a quando un altro passeur ha deciso che era il momento di partire. Alcuni uomini armati li aspettavano intorno a un gommone. Una volta spinto in acqua, sono partiti scortati dai libici per qualche centinaio di metri per poi essere abbandonati al loro amaro destino, e cioè quello di incappare nella guardia costiera libica che, a colpi di frustate, li ha fatti salire sulla propria imbarcazione e trasferiti nel carcere di Zawiya (sempre nella Libia nord-occidentale). Per ottenere la libertà, hanno nuovamente subito minacce e torture, e pagato i propri carcerieri. Il secondo tentativo è avvenuto il 31 agosto 2016, primo giorno della festa del Sacrificio. Profetico. Un’altra volta in mare, un’altra volta su un gommone strapieno di gente. La descrizione di quegli attimi è angosciante, si va avanti nella lettura sperando che non accada ciò che tutti conosciamo fin troppo bene, eppure intorno alle sei del mattino avviene il naufragio della barca, Salif si guarda intorno in cerca di suo zio. Non lo trova e non lo vedrà mai più. Soccorso in mare e portato a Pozzallo (Sicilia sud-orientale), inizia il nuovo viaggio, da minorenne non accompagnato, attraverso l’Italia.
La sua storia è intervallata ora dal racconto degli incontri e delle giornate a Névache, ora dalle riflessioni di Krafft su questa ulteriore via di transito. Un’altra via d’accesso alla Francia molto battuta era quella tra Ventimiglia e la regione di Mentone, e anche qui prosperavano i passeur, che accompagnavano le persone in macchina attraverso i colli meno sorvegliati (il giornalista inserisce un breve excursus su queste figure, ma per approfondire si consiglia il suo precedente reportage realizzato nel 2015 proprio nell’area di questa frontiera – R. Krafft, Passeur, Keller, 2020). Per Krafft «le statistiche smentiscono l’idea per cui il rafforzamento dei controlli di polizia a Mentone da solo avrebbe fatto spostare il flusso dei profughi verso nord». Chi arriva in Piemonte proviene dall’Africa dell’Ovest, moltissimi dalla Guinea Conakry, in Liguria i migranti arrivavano dall’Afghanistan, dall’Eritrea o dal Sudan. Potrebbe trattarsi allora di un fenomeno scaturito dal passaparola? Per Salif è andata proprio così, al centro di accoglienza ad Alessandria, dove si trovava da mesi, ha conosciuto dei giovani ivoriani che, una volta partiti per la Francia e superato il confine, gli hanno inviato delle indicazioni via Whatsapp sul percorso e i diversi ostacoli, ma anche dei contatti di gente del luogo (i compagni della Clarée) in caso di necessità.
È da quelle statistiche che a Krafft viene l’idea, proposta alla scuola comunale di Névache, di partire alla volta della Repubblica di Guinea come inviato speciale per conto degli alunni, in modo che possano scoprire di più su questo paese e sui suoi abitanti. Così nel novembre 2018 si trova a Conakry con i reportage da realizzare commissionati non solo dai ragazzi di Névache ma anche da altre 15 classi di scuole elementari, medie e licei della Francia metropolitana e d’oltremare.
La narrazione del viaggio è avvincente, Krafft fa conoscere al lettore la brutalità della dittatura di Sékou Touré, presidente della Repubblica dal 1958 al 1984; racconta dell’incontro con un uomo influente che gli dice «i ragazzi guineani sono ladri e bugiardi», di quello con infermieri e ostetriche di un centro sanitario che lavorano senza stipendio da anni e in condizioni precarie senza elettricità né acqua, e di quello con un guardaparco incaricato di sorvegliare e regolamentare la riserva naturale dei monti Nimba sprovvisto di benzina e di un mezzo adatto per svolgere le sue mansioni. Anche qui la meraviglia della natura, il fiume Ya che nasce in cima alla montagna e si getta nell’Oceano Atlantico, la foresta di Ziama, la savana, la coppia di elefanti che cammina vicino alla strada attorniata da bambini e abitanti del villaggio, la storia dell’animale totem, si fonde indissolubilmente con la desolazione delle vite umane. Durante la permanenza in Guinea, Krafft ha avuto modo di indagare più in profondità anche la questione delle politiche di accoglienza attuate dalla Francia, delle campagne di propaganda dell’Unione Europea e in particolare dell’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni – entrata a far parte nel 2016 delle Nazioni Unite) per scoraggiare i migranti a partire con la diffusione della «buona novella della “sedentarietà felice”», del programma dei rimpatri “volontari”, il più delle volte dovuti alla stanchezza e alla disperazione che non a una volontà di ritorno a casa.

 

La polizia della Clarée

 

La notte dell’incontro in montagna con Salif, Antoine, Mamadou e Thierno, resterà a lungo impressa nella memoria di Krafft, perché come lui stesso dice: «un conto è sapere che minori non accompagnati percorrono una rotta migratoria d’inverno attraverso le Alpi, un altro conto è trovarsi faccia a faccia con loro». Quella notte Alain ha rifocillato i ragazzi e ha subito organizzato un piano d’azione per portarli al caldo presso il rifugio solidale di Briançon, visto che erano congelati. La zona in cui si trovano è completamente militarizzata, le forze dell’ordine pattugliano massicciamente il colle dalla primavera del 2017, addirittura «i vecchi del paese paragonano la situazione alla Seconda guerra mondiale», bisogna prestare molta attenzione. Nonostante le precauzioni, il piano fallisce a causa di un posto di blocco della gendarmeria nazionale. Ce ne sono ovunque e molti abitanti della valle, fermati con a bordo dei migranti, sono stati multati o arrestati con l’accusa di essere dei passeur. Non è solo questo il problema per i volontari, ma anche che la polizia non rispetta le leggi atte a proteggere i minori. «La legge impone alla polizia di consegnarli ai servizi sociali per la tutela dell’infanzia», invece sempre più spesso hanno visto che questi ragazzi vengono riportati, nel cuore della notte, al gelo, alla fermata più vicina al di là della frontiera.
Bruno Jonnard ha raccontato a Krafft dei suoi primi incontri con i “naufraghi della montagna”. Una notte di gennaio durante il suo turno con il gatto delle nevi ha trovato due uomini che si erano persi in alta montagna, avevano scarpe da ginnastica e jeans zuppi fino al ginocchio, volevano denunciarsi alla polizia francese ma «per quel poco che ne sapeva di Calais, dei campi di Parigi, della Grecia e di altri posti visti alla televisione, si era detto che la polizia francese non sarebbe stata per forza la migliore alleata di quei due poveracci», così li ha affidati a un collega, il cui padre era un appassionato difensore della causa dei migranti, per farli arrivare a Briançon.
Durante un altro turno di notte ha incontrato tre minorenni sul colle, conscio della legge che mira a tutelarli li ha lasciati ai gendarmi, che prontamente li hanno rispediti in Italia. Quell’esperienza, vissuta malissimo, lo ha turbato e gli ha fatto cambiare sguardo, anche per questo motivo è entrato a far parte della rete di volontari: «con Bernard e Jean-Gab, abbiamo capito che i poliziotti non rispettavano la legge e che la loro presenza sul colle rappresentava un grande pericolo per i migranti». Eppure Jonnard non si considera un passeur, anzi ci tiene ostinatamente a rispettare la legge; che sia semplicemente umano?
D’altro canto Jean-Louis Chevalier, sindaco della piccola cittadina francese,

 

ha discretamente fatto sapere agli addetti al servizio tecnico che non avrebbe tollerato alcun morto sul territorio di Névache, e li ha invitati a utilizzare tutti i mezzi disponibili – a cominciare dal gatto delle nevi – per il soccorso delle persone in difficoltà sul colle, anche a rischio di contraddire
gli ordini del prefetto.

 

Le azioni dei governi e della polizia hanno colpito tutti. Alain, durante un incontro con Krafft gli ha svelato il motivo della diffidenza delle guide alpine nei confronti dei giornalisti e del perché poi abbiano accettato di autorizzarlo a seguirle:

 

ci tenevamo a muoverci con discrezione per evitare di inimicarci le autorità. Pensavamo davvero che la nostra proposta di smilitarizzare la montagna per renderla meno pericolosa per i rifugiati sarebbe stata accolta dalle istituzioni. È successo esattamente il contrario. Quindi ci siamo detti che è il momento di mostrare al Paese quello che succede alla frontiera.

 

 La guida spiega anche che oltre alle classiche pattuglie sulle strade è stato impiegato «un intero arsenale composto in estate da moto e quad, in inverno da motoslitte, e poi da elicotteri, tutti equipaggiati con svariati strumenti di visione notturna per fermare i migranti in montagna». L’uso di così tanti mezzi da parte di polizia, gendarmeria ed esercito ha reso ancora più pericolosa la traversata delle Alpi, «al di là dell’imbarazzo provato da alcuni nel dover braccare persone pacifiche e indifese, dello sconcerto dei turisti e della gente del posto, che hanno visto le montagne militarizzarsi».
Tornando al posto di blocco la notte dell’incontro con i ragazzi, la gendarmeria ha invitato gli accompagnatori a presentarsi l’indomani al commissariato per rispondere di favoreggiamento dell’ingresso, della circolazione, del soggiorno di persone in situazione irregolare sul territorio nazionale, e intimato ad Antoine, Salif, Thierno e Mamadou di salire sul furgone. Mentre i giornalisti provavano a ribadire che si trattava di minori e cercavano di ottenere i loro numeri di telefono per poter conoscere almeno la sorte che le autorità avevano in serbo per loro, i ragazzi sono rimasti spettatori silenziosi del loro destino, hanno obbedito «senza un sorriso agli ordini ricevuti», come hanno fatto anche con Alain, Krafft e Caroline sul colle e «ovunque durante la loro epopea, senza tradire negli occhi alcuna preoccupazione o sorpresa, come sfiniti dalla commedia grottesca degli adulti».
I ragazzi sono stati abbandonati in un parcheggio a Pian del Colle, l’indomani il giornalista francese li ha ritrovati alla stazione di Bardonecchia infreddoliti e a digiuno da molte ore, ma con la voglia, il desiderio, l’ostinazione di ritentare l’impresa. Perché, come scrive l’autore all’inizio del reportage con macabro sarcasmo, «Chiunque abbia provato gli spari dei poliziotti turchi sui monti Zagros al confine iraniano, le bastonate della polizia greca di Patrasso o le prigioni libiche, prenderebbe i poliziotti francesi per dei chierichetti».
Il paradosso della frontiera è che chi abita in quei luoghi potrebbe avere tutto l’interesse di “difenderli”, di “preservarli”, ma vede con i propri occhi ciò che accade ai migranti e si prodiga per aiutarli, chi sta lontano, nei palazzi del potere, o chi viene inviato lì per sorvegliare quelle linee immaginarie segnate solo sulle carte geografiche, li caccia trattandoli disumanamente.
Dopo essere stati interrogati al commissariato, i due giornalisti, rientrati nelle rispettive città, anche se Krafft tornerà ancora una volta su quel confine l’anno seguente, hanno pubblicato i loro reportage. Invano. Nessuna eco, la notizia non ha fatto scalpore, non ha suscitato indignazione.
Nell’agosto del 2018 Bernard Liger è morto, lasciando una lettera aperta indirizzata al Presidente della Repubblica e al governo per aiutare i migranti che rischiano la vita in alta montagna; ci sono alcuni passaggi davvero toccanti: «Per noi, cittadini di Névache, l’imperativo umanitario è essenziale, anche se la polizia cerca di dissuaderci. Dobbiamo trovarli, accoglierli, rimetterli in forze, curarli e poi portarli a Briançon dove possono iniziare ad affrontare i problemi amministrativi con le associazioni che si occupano di sostenerli nel loro percorso», per citarne solo uno.
Infine, Krafft registra alcuni dati preoccupanti (fino all’ottobre del 2020, periodo in cui il libro era in fase di pubblicazione in Francia): quattro persone sono morte tentando l’attraversamento delle Alpi, molti sono rimasti segnati a vita a causa di amputazioni, congelamenti, ferite; più di diecimila migranti, che avevano attraversato i colli della Scala e del Monginevro, erano stati identificati e accolti presso il rifugio solidale di Briançon, luogo che rischiava di chiudere per una sanzione amministrativa (ad oggi sembrerebbe ancora operativo). Inoltre la popolazione migrante è cambiata nel tempo, fino al 2019 era composta principalmente da africani occidentali, successivamente sono arrivate sempre più persone dalla rotta balcanica, perlopiù afgani e iraniani. La maggior parte di loro con «i segni dell’incontro al confine bosniaco con la polizia croata, famosa per il suo zelo e la sua brutalità». L’unica nota non negativa è la notizia che Salif ha finalmente iniziato la sua nuova vita, è stato riconosciuto minorenne, ha svolto un tirocinio nell’ambito di un percorso di formazione personale ed è entrato, così, nel mondo del lavoro.
Da lettori giungiamo all’epilogo con una feroce malinconia e con un senso di colpa profondo, anche solo per il fatto di leggere delle disavventure di questi ragazzi dalla nostre case in vestaglia; ma non si può, leggendo questo libro,  non provare a immedesimarsi nelle sofferenze subite  da queste giovani vite, mentre speravamo che arrivassero sani e salvi a destinazione,  mentre tremavamo negli attimi in cui la gendarmeria stava per scoprirli, mentre scoprivamo le loro speranze congelate e frantumate sul confine.

La riscoperta di Marlen Haushofer, voce dirompente


di Alice Pisu

“Le persone vanno in rovina per i motivi più disparati, per stupidità oppure per eccessiva prudenza; il primo modo mi sembra più dignitoso, ma non mi appartiene”.

Quando nel 1958 uscì Noi e la morte di Stella, Marlen Haushofer aveva trentotto anni. Scrittrice austriaca anticonformista, sperimentò anzitutto sul piano privato il peso dei compromessi e la necessità di un’emancipazione da ruoli imposti e da limitazioni di espressione, narrati nei suoi testi con una particolare attenzione al contesto borghese del tempo. Il sottotitolo del romanzo, “Racconto di una colpa”, misura il peso che grava sulla narratrice Anna nel ripercorrere il tetro evolversi delle vicende culminato con la morte della diciannovenne Stella. Appena ripubblicata da L’orma con la traduzione di Eusebio Trabucchi, l’opera si regge sulla necessità di elaborare attraverso la scrittura quanto accaduto, una confessione che non assolve, e implica la consapevolezza di responsabilità condivise. Si apre con lo struggimento provato per un uccellino caduto da un nido su un tiglio, simbolo della natura indifesa di chi attenderà invano di essere salvato.

“Perché nessuno mi protegge dal suo pigolio, dalla morte di Stella
e dall’insopportabile rosso dei tulipani sul comò?”.

L’arrivo in casa della giovane “alta, bella, vagamente troppo imponente” e la permanenza in famiglia per un anno (su richiesta di sua madre, amica della protagonista) appare come un corpo estraneo in casa, scompagina gli equilibri domestici già fragili, tra i continui tradimenti di Richard – un marito definito un mostro dall’intelligenza brillante, capace di trasformare in “misfatti gli svaghi del suo corpo assetato di piacere” –, la rassegnazione e finta indifferenza di sua moglie, l’apparente distacco del figlio maggiore Wolfgang e l’ingenuità della figlia minore Annette, totalmente devota al padre, “una bambina troppo felice perché la si possa amare davvero”.
L’inerzia di Stella, aggravata dalla depressione in cui cade, anticipa la sua morte, annunciata sin dalle prime pagine come una fine bella e tremenda al pari di quelle narrate nelle leggende antiche. Anna è consapevole della deriva a cui è destinata la giovane nel diventare momentaneamente al centro di un desiderio predatorio per poi essere presto dimenticata e non avere ragioni per vivere. Sceglie di non intervenire, finge di non accorgersi di quel che accade, con cinismo mostra di non aver mai provato compassione per la sofferenza riconosciuta nella ragazza, di aver sentito sollievo per la sua morte, e di aver sofferto di più per un cactus malandato.

Il titolo originale Wir töten Stella (Abbiamo ucciso Stella), attesta con ancor più forza il senso di responsabilità condivisa nella sorte della giovane, attraverso un romanzo che riflette sul peso della sopportazione, sull’abitudine che grava nelle relazioni, sulla debolezza e la vigliaccheria, sull’orrore che incombe con l’avanzare dell’età, sui piccoli e disperati tentativi di evasione dall’abitudine.


“Ogni minuto ogni secondo ci trasforma e ci allontana da noi stessi”. 

La breve opera indaga il rapporto con la coscienza di una donna che invano cerca di non sentirne il peso, che si concentra su cose irrilevanti, come l’ordine, per imporsi di non vedere quel che accade sotto i suoi occhi e, ormai priva di rabbia, è dominata dall’orrore e dalla consapevolezza di una verità scomoda che appartiene al suo quotidiano.
La profonda originalità del testo risiede nel raffigurare un mondo borghese disgregato e decadente attraverso lo sguardo di una donna cinica e disincantata, egoista, un’antieroina a sua volta vittima di una società opprimente, che identifica una via di sopravvivenza nell’annullamento di ogni forma di empatia verso il prossimo. È dirompente la voce letteraria di Haushofer, che compie una furente critica sociale del suo tempo attraverso lo studio del groviglio di contraddizioni interiori rivelando l’indistinguibilità del bene e del male.

“Doveva essermi successo qualcosa anni addietro, qualcosa che mi aveva lasciata come diminuita, quasi fossi un automa che porta a termine il proprio compito, a malapena ancora soffre e solo per qualche secondo si ritrasforma nella giovane donna piena di vita che è stata un tempo. La commovente linea del collo di Wolfgang, le rose nel vaso bianco, un refolo di vento che gonfia le tende,
e d’improvviso sento di essere ancora viva”.

L’uscita del romanzo arriva appena tre anni dopo l’esordio di Haushofer, che ottenne un ottimo riscontro dalla critica, anche se il vero successo della scrittrice arrivò tredici anni dopo la sua morte. La brevità dell’opera incise sul rifiuto ricevuto dalla casa editrice Zsolnay, che aveva un'opzione sui suoi testi. Sarà poi la casa editrice Bergland Verlag a pubblicarla.

Per comprendere non solo la portata del testo ma per collocare in senso più ampio la produzione letteraria di Marlen Haushofer nel contesto storico del dopoguerra e della Guerra Fredda e osservarne le ripercussioni a decenni di distanza, è utile soffermarsi sul percorso personale di una scrittrice ritenuta oggi tra le voci austriache maggiormente rilevanti del secondo Novecento accanto a Ingeborg Bachmann e a Ilse Aichinger.

Le vicende che segnarono la crescita di Marlen la portarono a sviluppare un profondo senso di sfiducia verso il prossimo, nelle relazioni sentimentali in particolare, e la inibirono nel mostrare apertamente le proprie opinioni o nel frequentare assiduamente circoli letterari e contesti utili a fare emergere il suo talento. Le sue opere sono venate da aspetti ricorrenti, tra cui il riferimento alla dimensione infantile, teatro di visioni idilliache, percezione di protezione, intenso rapporto con la natura (visse in una località nell'Alta Austria immersa nel verde in una imponente casa forestale per via dell’impiego di suo padre come guardiaboschi) e al contempo presagio di drammi successivi. Visse un rapporto intenso e complicato con i genitori, con un padre irascibile e una madre severa e intransigente, dei quali offrì nei suoi libri ritratti ambivalenti. La repressione subita nel compiere gli studi nella scuola privata delle Orsoline a Linz e poi in un liceo segnò una profonda depressione adolescenziale che, in aggiunta alle sue cagionevoli condizioni di salute, avrebbe accompagnato la scrittrice per il resto della sua vita. Dedicò due opere ai difficili anni del collegio. Il pessimismo e il rigore educativo cattolico la portarono a diventare atea, come dichiarò in età adulta. Dopo la maturità fu obbligata a partire per svolgere il servizio del lavoro del Reich, assegnata al campo RAD di Christburg vicino a Elbing, al confine tedesco-polacco: le mansioni domestiche e il duro lavoro nei campi la temprarono portando anche i suoi genitori a ricredersi sulla sua vulnerabilità fisica.
Per Marlen il ritorno a casa fu un nuovo trauma nel prendere atto che la dimensione domestica non rappresentava più un luogo di protezione e sicurezza dal resto del mondo come un tempo. Nel periodo successivo, con gli studi a Vienna, poi interrotti, e le nuove amicizie, la giovane intensificò la corrispondenza e la frequentazione con un giovane conosciuto tempo prima nella Prussia Orientale, da cui ebbe un figlio nel 1941, ma con cui la relazione si interruppe ben presto. Durante la gravidanza conobbe il suo futuro marito, Manfred Haushofer, che si adattò a una situazione ritenuta sconveniente per l’epoca, e da cui ebbe un altro figlio due anni dopo. Marlen lasciò alla madre di una sua amica il compito di crescere il suo primo figlio e per quattro anni il loro rapporto si ridusse a fugaci visite a causa dei numerosi traslochi (Vienna, Praga, Graz, Steyr), dei continui cambiamenti legati agli incarichi come dentista ottenuti da suo marito, e delle incertezze dovute alla situazione storica e politica. Questo aspetto ritorna con contorni diversi anche nel romanzo Noi e la morte di Stella in merito alla descrizione di una madre poco amorevole disposta a far crescere sua figlia presso un’altra famiglia.
La scoperta della seconda gravidanza, la necessità, dopo la fine della guerra, di ricongiungersi al primo figlio – che ricevette il cognome del padre acquisito ma che non fu mai accolto con calore nemmeno dai nonni per la colpa originaria che rappresentava nel contesto cattolico tradizionale di appartenenza – simboleggiarono una nuova sfida per Marlen. Era sempre più consapevole di volersi dedicare alla scrittura ma si sentiva incapace di far conciliare le sue reali aspirazioni con i suoi doveri. Visse nella costante tensione tra desideri, aspirazioni legate allo studio e alla scrittura, e percezione di impossibilità, a causa degli oneri legati a ruoli imposti e delle aspettative famigliari e sociali.
La repressione della vera natura di Haushofer traspare dalle sue opere che si fanno portatrici di un affanno collettivo insostenibile nel compiere ingrandimenti su donne che, per contrastare l’annullamento personale, fantasticano sulla disobbedienza e in alcuni casi la attuano. La prospettiva adottata nei romanzi e nei racconti è spesso limitata a uno sguardo interiore: lontana dalla narrazione dell’eredità di devastazione e precarietà lasciata dalla guerra, è propria di figure che attuano tentativi di esularsi dal resto e che sovente non prendono una posizione politica, in linea in tal senso con un introiettato senso di inadeguatezza.
A seguito della scrittura delle prime novelle apparse nel 1946 su riviste e quotidiani, Marlen Haushofer si dedicò anche a storie per l’infanzia, in alcuni casi per ragioni strettamente economiche dato che, nonostante l’apparente benessere, la famiglia aveva difficoltà a gestire il bilancio domestico.

In Noi e la morte di Stella l’autrice descrive la condizione di impotenza vissuta da una donna intrappolata in una prigione dorata da cui in realtà sceglie di non evadere pur potendo farlo: in questo aspetto risiede la parte di responsabilità che assegna alla sua protagonista e a sé stessa. Anna accetta la situazione per non privarsi delle sole cose che le danno reale gioia: la vista sul giardino, la possibilità di scambiare tenerezze con il figlio prediletto, la sua amata solitudine, la tranquillità della sua stanza. Il resto per lei non ha importanza, e al contempo è consapevole che attuare una ribellione rispetto al concetto di proprietà nel rapporto con suo marito le costerebbe caro per la vendetta che animerebbe l’uomo.
Marlen visse un rapporto complicato con suo marito, con cui finì per separarsi pur continuando a convivere, per poi risposarsi proprio nell’anno dell’uscita di Noi e la morte di Stella, giustificandosi dicendo che "a Steyr non si può divorziare". Secondo quanto riportato dalla sua biografa Daniela Strigl, chi la conosceva la descriveva come una donna schiva, poco incline alla socialità, al di fuori del forte legame con suo fratello Rudolf e dello stretto rapporto di confronto letterario e di sostegno affettuoso durante la malattia con gli intellettuali Hans Weigel, Elfriede Ott, Oskar Jan Tauschinsky e Jeannie Ebner.
Discreta nel vestire, amante del blu, rifuggiva ogni appariscenza e preferiva lasciare che la famiglia si svagasse fuori per restare da sola in casa, dedicarsi alla scrittura e tradurre le sue inquietudini tra pagine che sapeva che non sarebbero state lette dalle persone a lei più vicine (che avrebbero potuto riconoscersi nei suoi personaggi).
Come dichiara per voce della sua protagonista Anna: “Chi pensa deve sempre rinunciare a vivere mentre chi vive non ha bisogno di pensare”.
Il suo romanzo più noto, La parete, uscito nel 1963 e pubblicato in Italia da E/O, trova ancora una volta nel taglio diaristico confessionale lo strumento d’elezione per descrivere la profonda solitudine di una donna che, attraverso una ridefinizione inizialmente forzata dagli eventi avversi, scoprirà la sua vera natura nel lato selvaggio della sopravvivenza. Il rilievo dell’opera dai sottili risvolti fantastici risiede nella scelta di identificare in una parete trasparente il confine che separa la vita dalla sua assenza apparente. L’improvviso disinteresse per il resto del mondo e l’attestazione di un’indipendenza rivoluzionaria svincolata da norme morali si mostreranno salvifici e necessari. Ancora una volta Haushofer sceglie di dare forma a una cronaca per studiare i meccanismi alla base dell’osservazione di una paura profonda da insabbiare, cancellare, tra interrogativi esistenziali in merito alle continue trasformazioni a cui sono soggetti gli esseri umani nello sfiorare l’animalità per precipitare in un abisso.


“Già oggi non sono più la persona che ero una volta. Come potrei sapere in quale direzione sto andando? Forse mi sono già allontanata da me stessa al punto da non accorgermene più”.La portata del testo, adattato per il cinema nel 2012 dal regista austriaco Julian Pölsler, risiede anche nel profondo studio sociale sulla generale incapacità umana di prendere consapevolezza delle conseguenze di azioni deleterie, nella generale convinzione – dichiarata anche in Noi e la morte di Stella – che non valga la pena guardarsi indietro. Paragonato da una parte della critica al Robinson Crusoe di Defoe, La parete conferma la straordinaria capacità di narrare l’alienazione dal mondo intorno e da sé, la rivendicazione di una libertà estrema da ogni condizionamento culturale.
“Forse la parete non era che l’ultimo tentativo di un essere torturato che doveva evadere, evadere o impazzire”.
Nella stesura dei racconti e romanzi di Haushofer si percepiscono chiare influenze nella lettura di Simone de Beauvoir. La rivelazione della sua produzione da parte dei movimenti femministi degli anni Settanta e Ottanta si lega al riconoscimento di un manifesto per i diritti, contro le limitazioni d’espressione e gli obblighi legati alla maternità.
Riscoprire oggi le opere di Marlen Haushofer, dalla novella Il quinto anno (1952) a La mansarda (1969), permette di riflettere sulle ripercussioni individuali e collettive in condizioni di assenza di libertà personale. In tal senso si colloca la scelta di scrutare i risvolti del mondo borghese e il suo opposto, un luogo e un tempo privi di condizionamenti dove sperimentare i confini dell’essere.
Il ricorso alla natura per Haushofer non rappresenta un rifugio incondizionato – come, per estensione, il costante riferimento alla dimensione dell’infanzia –  ma uno spazio di confronto privo di barriere e difese in cui l’individuo può esprimere la sua vera indole e schermarsi dall’indifferenza.
Il rilievo delle sue opere risiede nella raffigurazione di un quotidiano crudele con vicende prive di tensione rette su un linguaggio distaccato, utile a esplorare l’isolamento e i vincoli, l’incapacità di emancipazione nel ridotto spazio di espressione riservato alle donne, le incoerenze rispetto a valori vacui.
Si dichiara nella peculiare dimensione linguistica la reale irriverenza che Haushofer si concede attraverso la scrittura: la traduzione dell’impassibilità come difesa a fronte di un’oppressione radicata e inestinguibile attraverso cui misurare l’inaudito e provare invano a rintracciare il senso del vivere. Emblematica l’ultima annotazione del suo diario, del 26 febbraio 1970, prima della morte avvenuta a quarantanove anni per un tumore alle ossa.
“Anche se ti fosse data un’anima – essa non desidererebbe altro che un sonno profondo senza sogni. Il corpo non amato non farà più male. Sangue, carne, ossa e pelle, tutto questo sarà un mucchietto di cenere; e anche il cervello finalmente la smetterà di pensare. Per questo sia lodato Dio, che non esiste. Non ti preoccupare – tutto sarà stato invano – come per tutti gli uomini prima di te. Una storia del tutto normale”.

La pratica letteraria nelle lettere di Goliarda Sapienza

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di Marina Bisogno

Goliarda Sapienza è stata molte cose: una sceneggiatrice, un’attrice, soprattutto è stata una scrittrice. Quando la letteratura si impone nella sua esistenza e diventa forma espressiva assoluta e prioritaria, non c’è spazio per molto altro. Non che la passione per il cinema o per il teatro si dissolva: semplicemente occupa un posto diverso. Dal momento in cui Goliarda Sapienza si riconosce nella composizione narrativa, inizia a temere i giorni antiletterari, quelli senza scrittura e senza raccoglimento. Proprio per concentrarsi scappa sovente al mare, lontano da Roma, città di adozione, e raggiunge Gaeta, insieme a Angelo Pellegrino, marito e curatore delle sue opere postume, compreso il testo Lettere e biglietti, La nave di Teseo editore. Pellegrino si è impegnato affinché le numerose lettere che Goliarda indirizzava ad amici e conoscenti fossero pubblicate: è il tassello mancante di un mosaico artistico che rivela molto di questa pensatrice contestata, incompresa e poi ricercata.
Le lettere si susseguono in ordine cronologico dagli anni Cinquanta agli anni Novanta, poco prima della morte di lei. In pratica, Sapienza ha spedito biglietti per quarant’anni e amava farlo, se non altro perché detestava usare il telefono. Lo dice lei stessa e lo conferma Pellegrino nell’introduzione; inoltre Goliarda credeva che scrivere, fissare sulla carta le parole, contribuisse a creare un ponte comunicativo più efficace con il suo interlocutore, al riparo dagli equivoci dell’emotività. A ben vedere, le lettere sono tutt’altro che una messa in sicurezza del dialogo: sono divagazioni spassionate, ragionamenti, invettive, richieste timide di aiuto, ringraziamenti. Sono la manifestazione del temperamento vulcanico (momenti di quiete si alternano a vere e proprie esplosioni emotive) della scrittrice.

La prima lettera della raccolta è indirizzata al regista Francesco Maselli: sono gli anni Cinquanta, Roma ha ancora addosso i segni della guerra, la scrittrice - all’epoca dedita alla sceneggiatura, al teatro e al cinema - ha una relazione con lui. Lei e Maselli sono amici di Luchino Visconti che ha una fascinazione per Goliarda, per il suo sguardo malinconico, il suo sorriso. Una decina d’anni dopo, in una lettera allo scrittore Enzo Siciliano, Goliarda Sapienza dichiara la sua sudditanza alla scrittura e rimarca l’importanza che il parere di Siciliano ha per lei, come quello della giornalista Adele Cambria. È già il punto in cui scrivere coincide col vivere, in cui scrivere è un mestiere ma anche un modo di esistere. A Siciliano Goliarda racconta del suo Lettera aperta, del personaggio di Modesta (voce narrante del suo L’arte della gioia, pubblicato postumo grazie a Pellegrino) e gli parla anche dell’amicizia tra uomo e donna, concetto inviso al movimento femminista. Le parole di Goliarda per Siciliano sono scintillanti:

 

È stato duro per me - in questi ultimi dieci anni – assistere all’insano neofitismo che come un veleno (sicuramente instillato dal potere: dividere l’uomo dalla donna per sconfiggerli entrambi, tecnica antica usata anche per le razze, i lavoratori, ecc.), mi costringeva a contrastarle dentro e fuori di me. Sempre lotterò per l’amicizia fra l’uomo e la donna, pianeti così diversi e così simili,
bisognosi l’uno della diversità dell’altro
.


Adele Cambria e Enzo Siciliano sono i maggiori sostenitori de L’arte della gioia e del personaggio di Modesta, ma gli editori non vogliono saperne: l’Italia è nel bel mezzo degli anni di piombo quando Goliarda lo propone alle case editrici che guardano con sospetto il libro e la libertà di pensiero della voce narrante. Il nostro Paese, in realtà, non sarà mai pronto per Modesta, che conquisterà, molti anni dopo, prima gli editori d’Oltralpe. A un certo punto della sua vita, Goliarda versa in condizioni economiche preoccupanti, commette un furto e finisce, seppur per poco, in galera. Il carcere si rivela un’esperienza fondamentale per l’autrice che stringe amicizia con numerose detenute, tra cui Mirella, Nancy e altre donne alle quali scrive.

A Mirella dice: “Hai capito tutto di me, anche del mio passato impegno politico, della mia delusione che risale agli anni Cinquanta e del mio stato attuale: necessità di utopia, bisogno di trasgressione”.  

A Nancy parla di sentimenti e relazioni: “So che tu ce la farai e ricordati che la vita comincia non a quarant’anni ma a cinquanta, anche in amore. Io ho avuto tre amori - non relazioni – profondi nella mia vita, e il più bello (quello che dura ancora adesso) è quello che cominciò proprio a cinquant’anni”.  

L’amicizia è un sentimento totalizzante per Goliarda, il lettore lo percepisce man mano che procede nella lettura delle lettere. Come percepisce che la scrittrice è incapace di mediare, di percorrere vie di mezzo, di fingere interesse, di non comunicare il suo orrore per qualsiasi limitazione della libertà personale. Le interessa scandagliare l’umano, il che la espone continuamente a delusioni e amarezze, pur essendo capace, infine, di lasciarsi tutto alle spalle.

Goliarda era catanese, figlia di un avvocato penalista e di una sindacalista, entrambi figure storiche del socialismo italiano, prima ancora della nascita del Partito Comunista. Da piccola frequenta lo studio del padre nel centro storico di Catania, si intrattiene con i clienti, ne ascolta le storie. È lei stessa a definire quei racconti da anticamera una vera e propria incubatrice letteraria. Angelo Pellegrino, intervistato per La Sicilia, ha ribadito che sì, Goliarda amava Roma, ma era impregnata di “catanesità”, perché Catania le viveva nel sangue. Le lettere e i biglietti sono una rivelazione per chi già conosce questa scrittrice, ma anche per chi non l’ha mai letta prima d’ora. La corrispondenza disvela il temperamento di Sapienza, connaturata anche dai luoghi vissuti (Catania, Positano, Gaeta, e non si contano i viaggi), sempre frammentata tra la metropoli e i paesi di mare, tra momenti di socialità e di isolamento, tra confusione e silenzio.

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Come sfamare un dittatore, di Witold Szabłowski

di Giordana Restifo


Dopo quattro anni di scrittura, ricerca, studio, incontri, in quattro continenti diversi, è finalmente arrivato in Italia Come sfamare un dittatore (titolo originale Jak nakarmić dyktatora) di Witold Szabłowski, pubblicato dalla casa editrice Keller e tradotto da Marzena Borejczuk. Spostandosi dall’Iraq all’Uganda, dall’Albania a Cuba e passando dalla Cambogia, il giornalista polacco per il suo ultimo “reportage letterario”, come egli stesso ha definito il suo genere di scrittura in un’intervista, ha incontrato i cuochi di cinque tra i più spietati personaggi della storia mondiale. Cosa mangiavano Saddam Hussein, Idi Amin, Enver Hoxha, Fidel Castro e Pol Pot mentre i loro popoli morivano di fame e stenti? Mentre ordinavano deportazioni e sparizioni forzate? La curiosità di rispondere a queste e altre domande, unita a una fascinazione per le figure dei cuochi, ha spinto Szabłowski ad affrontare questo lungo e impegnativo viaggio. Arduo è stato, infatti, il compito dapprima di trovare queste persone e poi di persuaderle ad aprirsi, a fidarsi, a vincere le proprie resistenze e paure; come si vedrà più avanti con certuni c’è riuscito più che con altri.
Dopo l’antipasto, che consiste in una breve introduzione, arriva il menu completo, ovvero l’indice. Ogni pasto – prima colazione, lunch, pranzo, cena, dolce – corrisponde a un capitolo, ognuno intitolato con il nome della pietanza preferita dai dittatori. Leggendo i nomi dei piatti (Zuppa di pesce alla ladrona, Capra al forno, Sheqerpare, Pesce in salsa di mango, Insalata di papaia) a qualcuno potrebbe anche venire l’acquolina in bocca, ma non c’è da preoccuparsi, la sensazione passerà non appena ci si addentrerà nella lettura. Ogni capitolo è poi intervallato da brevi incursioni – spuntini – in cui Yong Moeun, l’unica donna cuoca del reportage, racconta aneddoti sulla vita accanto a Pol Pot. L’impostazione dell’indice sotto forma di menu sembra sfiziosa, leggera, finché non si arriva quasi alla fine dell’opera, proprio al dolce, e si scopre, o ci si ricorda, che nel marzo 1969 l’allora nuovo governo americano di Richard Nixon ha intrapreso un’operazione militare, dal singolare nome in codice “Menu”, contro i vietnamiti che avevano allestito alcuni campi base anche in Cambogia. Per “colazione” furono sganciate più di duemila tonnellate di esplosivo, altre per l’ora del “lunch” e via dicendo fino al “dessert”, per un totale di quasi centodiecimila tonnellate di bombe cadute, inevitabilmente, anche sulle teste dei civili. Ed ecco che ci si sente in colpa per aver sorriso di quel particolare indice. Nonostante l’amara sorpresa, sin da subito si ha l’impressione che Szabłowski abbia attuato una sorta di contrapposizione tra dolore e gioia, tragedia e commedia, morte e vita. Questo anche grazie ai peculiari caratteri dei cuochi che ha incontrato, ma non solo. Alternando le loro storie, i loro aneddoti, con le testimonianze di coloro che erano al di fuori della cerchia dei dittatori, quindi tra chi subiva i regimi, spaziando tra le ricette di alcuni piatti tipici e la realtà dei fatti, della vita sotto la tirannia, è riuscito a imprimere al suo lavoro non solo originalità ma anche la capacità di arrivare appuntito dentro di noi.
Per rintracciare Abu Alì, il cuoco di Saddam Hussein, sono serviti quasi due anni e quasi uno per convincerlo a incontrarsi. Il motivo è la paura per una rappresaglia da parte «degli americani per il fatto di aver cucinato per uno dei loro maggiori nemici». Per tale motivo gli incontri tra i due sono avvenuti dentro la stanza d’albergo del giornalista polacco, in una Baghdad caratterizzata da palazzi sventrati dalle bombe e mai ricostruiti, da numerosi posti di blocco militari, da attentati frequenti e da taxi gialli che sfrecciano per le strade della città. Per ben due volte Alì, che sin da ragazzo aveva fatto esperienza nelle cucine, ha dovuto rinunciare al proprio sogno di lavorare in un hotel a cinque stelle. La prima quando venne chiamato alle armi e mandato a Erbil, nel nord dell’Iraq, dove era scoppiata la rivolta dei curdi,

«Così, anziché andare a lavorare in hotel, andai a combattere in guerra. Con i curdi si combatteva per lo più sulle montagne. Mi mandarono lassù con un mitra. Non ne ero felice; avevo poco più di vent’anni e non avevo niente contro i curdi, di certo non desideravo morire in una guerra contro di loro», la seconda al termine del periodo di leva: «Fu così che anziché nel mio sospirato hotel, finii a lavorare nella cucina del presidente».

La sua esperienza come cuoco presidenziale è terminata dopo quindici anni alle dipendenze di Hussein, trascorsi tra momenti d’ira e momenti di calma, due guerre (con l’Iran e con il Kuwait), cucine da campo, fughe da un’abitazione all’altra. Stanco dell’imprevedibilità di quel lavoro lo ha lasciato proprio qualche anno prima che gli americani iniziassero la ricerca convulsa di Saddam Hussein. Mentre la guerra contro l’Iran costava oltre un milione di vite umane, mentre decine di migliaia di persone venivano sterminate, mentre gli iracheni sprofondavano nella fame e letteralmente ne morivano, Saddam Hussein, oltre a far costruire innumerevoli e sontuosi palazzi presidenziali, continuava a consumare le proprie pietanze irachene preferite: kebab, shawarma, basturma, kofta, zuppa di gombo ma soprattutto la sua amata zuppa di pesce. Nonostante l’instabilità, le atrocità, il terrore, Abu Alì ha sempre considerato il presidente «la sola persona buona di tutta la famiglia degli Al-Tikriti» (persone originarie di Tikrit, città nella quale è nato e cresciuto Saddam Hussein, le uniche di cui si fidava e si circondava).
Il secondo capitolo, Lunch – Capra al forno, è dedicato all’incredibile storia di Otonde Odera, cuoco di Idi Amin, sanguinario dittatore ugandese «che gettava i propri oppositori in pasto ai coccodrilli» e «di cui si dice che mangiava carne umana». Odera, appena nato, era stato risparmiato da un branco di iene, da ragazzo era sopravvissuto all’aggressione di un ippopotamo e alle molte malattie che, invece, avevano stroncato tutti e tredici i suoi fratelli. Così, grazie all’aiuto di un cugino, era partito in nave dal suo Kenya alla volta dell’Uganda per andare a lavorare come aiuto cameriere. A Kampala conobbe i Robertson, una famiglia di mzungu (bianchi) che lo assunse per lavorare nella propria casa, da loro imparò a cucinare e la sua vita trascorse tranquilla fino al 1962, anno in cui l’Uganda proclamò l’indipendenza. I Robertson tornarono in Gran Bretagna e lui si ritrovò senza lavoro. La carriera come cuoco presidenziale ebbe inizio con il premier Milton Obote, amante della cucina inglese, che lo scelse perché «i neri capaci di cucinare il cibo dei bianchi erano molto pochi». Per anni fu sottopagato, ma con il golpe di Idi Amin cambiò tutto. Uno stipendio triplicato, macchine nuove fiammanti, abiti alla moda e delle marche più famose, e ben presto Odera, anche se a palazzo erano tutti consapevoli di lavorare «per uno svitato capace di alzarsi un bel mattino e farci fuori tutti», si ritrovò totalmente assoggettato al volere di Amin; l’uomo durante il cui regime furono uccisi circa trecentomila ugandesi. Non andò meglio quando al potere tornò Obote, né quando questi venne nuovamente spodestato, stavolta dalle forze ribelli guidate da Yoweri Museveni (attuale presidente dell’Uganda dal 1986). E Otonde Odera che fine fece nel frattempo? Fu portato in una cella sotterranea vicino al lago Vittoria ma scampò anche a quest’altra occasione di morte certa. Così a ottant’anni, in una casa in Kenya che cade a pezzi, circondato da figli e nipoti, ha raccontato la sua storia a Witold Szabłowski e insieme a lui ha cucinato un piatto che avrebbe preparato anche per Amin.
Con il signor K., il cuoco di Enver Hoxha, che ha chiesto di mantenere segreta la sua identità, gli incontri si sono svolti nel ristorante del piccolo albergo che gestisce attualmente insieme alla moglie in una località della costa albanese. Ha paura a parlare dell’epoca di Hoxha e non vuole dare molte spiegazioni sul «posto in cui lavorava mentre il popolo albanese faceva la fame». Nonostante ciò si è sciolto parlando dapprima della propria filosofia culinaria e a poco a poco si è addentrato nella sua vita passata, durante la quale ogni decisione veniva decretata dal Partito. Dopo qualche anno di lavoro per gli Hoxha, il signor K. trascorse un capodanno insieme alla loro famiglia. In quell’occasione cucinò un dolce tradizionale della città di Peshkopi, lo sheqerpare, e la sua buona riuscita gli valse un posto seduto a tavola con loro. Nel racconto, il cuoco fornisce a Szabłowski e, dunque, ai lettori anche la ricetta; tutta l’opera è disseminata di ricette, ma sfido a riproporle sulle proprie tavole a lettura conclusa. Lavorare per Enver Hoxha non fu facile, sia perché con la chiusura nei confronti degli altri paesi molti prodotti erano irreperibili sia perché soffriva da anni di diabete e tutto ciò che arrivava sulla sua tavola doveva essere pesato con il bilancino. La dieta scrupolosa che seguiva potrebbe essere uno dei motivi per cui era sempre nervoso. K., che con il tempo aveva imparato a decifrare l’umore del suo datore di lavoro, in giornate nere cucinava qualche pietanza tipica di Argirocastro, la città natale di Hoxha, e aveva anche escogitato un metodo per sopravvivere perché:

«Lavorare per Enver mi ha dato grande soddisfazione e mi ha permesso di imparare tantissime cose. Ma avevo sempre paura. Ogni membro dello staff aveva paura. Temevamo che un bel giorno Hoxha si sarebbe svegliato con la luna storta e ci avrebbe mandati in un lager o al patibolo».

Molti cittadini non riuscirono a sopravvivere al regime, vennero fucilate circa seimila persone durante quegli anni e circa duecentomila furono deportate nei campi di prigionia, nei lager e nelle carceri politiche.
In un ristorante, a molti chilometri di distanza dall’Albania, lavora anche uno dei cuochi di Fidel Castro, Erasmo Hernandez. Lo si può trovare fuori dal Mama Ines, il suo ristorante, con occhiali dalla montatura rossa all’ultima moda e camicia aperta sul petto, ma a sedici anni non sapeva ancora che futuro lo aspettava. Era partito con il suo migliore amico da Santa Clara, la sua città natale, alla volta delle montagne dell’Escambray, dove si era stabilita una parte dei ribelli guidati dai fratelli Acevedo e dal comandante Che Guevara. Tra un caffè e una pietanza preparata insieme, Hernandez ha raccontato a Szabłowski come da guardaspalle personale del Che è diventato il cuoco di Fidel Castro. Nel frattempo, però, il giornalista polacco ha saputo dell’esistenza di un altro cuoco caro alla Rivoluzione: Flores. Sembra che l’anziano viva in estrema indigenza e solitudine e che abbia anche qualche disturbo mentale. Nonostante ciò vale la pena ascoltare la sua testimonianza, anche se frammentaria. E così, tra il racconto cauto del primo (Fidel Castro è ancora vivo durante i loro incontri) che si adira se il giornalista calca un po’ troppo la mano e la costante paranoia della deportazione del secondo, il lettore si addentra in una Cuba che custodisce migliaia di tragedie umane.

«Il tragitto fra il ristorante di Erasmo e il posto in cui vive Flores è un salto tra due Paesi diversi. La Cuba di Erasmo porta la montatura degli occhiali colorata e vestiti alla moda, guadagna bene e desidera guadagnare ancora meglio. La Cuba di Flores sogna di rimediare qualcosa da mettere in pentola. E di non rimanere a corto di sigarette. O quantomeno di mozziconi».

L’ultima storia, il dolce, quella di Yong Moeun è molto differente dalle altre. Szabłowski ha trovato la cuoca ad Anlong Veng, l’ultima roccaforte dei khmer rossi, dove vi si erano ritirati quelli che avevano creduto nella Rivoluzione fino alla fine. La risata sonora di Moeun è contagiosa, per resistere il giornalista si è legato concettualmente all’albero maestro della nave ripetendo tra sé argomenti come «Genocidio», «Killing fields» ma anche «Quasi due milioni di vittime in meno di quattro anni». Il lettore ha già avuto qualche assaggio della devozione della donna nei confronti di Saloth Sar, vero nome di Pol Pot. La cuoca ne parla anche come Fratello Pouk, che in lingua khmer significa “materasso”, perché «cercava sempre di mitigare i contrasti. Era morbido come un materasso, e in questo stava la sua forza». Far mangiare abbastanza Pol Pot era diventata a un certo punto la sua missione di vita. Una volta diplomata, era stata reclutata da suo fratello e dal cugino per entrare a far parte dell’Organizzazione, con la promessa che i contadini cambogiani non sarebbero più stati sfruttati, gli operai delle fabbriche non sarebbero più morti e che ci sarebbe stato così tanto cibo da bastare per tutta la popolazione. Così era iniziata la sua militanza votata totalmente all’Angkar (Partito Comunista Khmer o di Kampuchea) e al benessere di Fratello Pouk. Non solo Moeun ma anche le altre donne a fianco dei leader del regime erano cuoche, tutte tranne Khieu Ponnary, la prima moglie di Pol Pot. La cucina era intrinsecamente legata alla politica, l’atto di preparare i pasti era un atto politico. Come accadeva anche negli altri stati sotto regime, anche in Cambogia, mentre il capo supremo si faceva preparare l’adorata insalata di papaia alla tailandese, con gamberetti essiccati o in alternativa con pasta di pesce e arachidi, la popolazione era stremata dalla fame. I cambogiani arrivarono a mangiare ratti, cavallette, grilli, lucertole, pipistrelli, persino specie rare di delfini. D’altronde, lo diceva anche Odera nelle pagine precedenti, «La fame fa impazzire la gente». Secondo Laurence Picq, una delle mogli degli alti funzionari dei khmer, anche lei inizialmente assoldata come cuoca, la fame era utilizzata come strumento politico.

«La fame era la punizione per la disobbedienza. La fame era la punizione per le radici sbagliate. La fame era la punizione per la malattia; per essere inservibili alla Rivoluzione. La fame aiutava a mantenere la disciplina».

Un aspetto in comune con il regime di Hoxha era quello delle sessioni di autocritica, per ore ognuno doveva confessare le proprie colpe e trasgressioni, inventate o reali, e denunciare quelle di amici e conoscenti. Ancora oggi per Yong Moeun «Pol Pot non era un assassino. Pol Pot era un sognatore. Sognava un mondo giusto. Un mondo dove nessuno patisse la fame. Un mondo dove nessuno si desse arie di superiorità né si sentisse migliore degli altri. Pol Pot non avrebbe mai tolto il cibo di bocca a nessuno».
Szabłowski avverte i lettori che tutte queste testimonianze presentano minime discrepanze tra le interviste rilasciate dai cuochi negli anni, le biografie e le fonti bibliografiche. Forse sono dovute all’età avanzata o forse a omissioni e ammissioni degli intervistati, ad ogni modo ognuno ha raccontato la storia della propria vita per come voleva raccontarla. Anche se geograficamente distanti e avvenuti in decenni differenti, ci sono molti punti in comune tra i racconti dei personaggi: la paura, la voglia di sopravvivere, sogni, ideali, il desiderio di compiacere il proprio dittatore. Il filo conduttore mi è sembrato, però, dall’inizio alla fine, la stretta connessione tra i verbi “sfamare” e “affamare”. Purtroppo in queste storie non sembra esserci, invece, pentimento, carità, vergogna, non c’è dio o divinità da invocare, non c’è Demetra né Cerere, non c’è eucaristia per i popoli assoggettati ai regimi. Alcuni di questi dittatori erano molto “tirchi” (parola dei loro cuochi) e risparmiavano spesso sui diritti della popolazione, nonostante si trattasse sempre di soldi pubblici; ciò su cui non lesinavano erano, ad esempio, capre al forno, castagne, torte di compleanno e qualunque cosa potesse allietare loro e i familiari. Mi sono venute in mente alcune parole di Enzo Bianchi: «condividere il pane o negarlo significa dare o togliere vita al prossimo» e ancora che la «sapiente memoria del ‘pane nostro’ ricorda a tutti che il pane o è ‘nostro’, condiviso, oppure cessa di essere pane» (Prefazione in P. Matvejević, Pane nostro, Garzanti, 2017, pp. 8-9). Dunque cosa può fare la letteratura, il reportage letterario in questo caso, se non esprimere preoccupazione, inquietudine, e avvertirci sui pericoli di una storia recente che sembra ritrovare terreno fertile nella contemporaneità?

Emanuel Carnevali, il poeta maledetto dell’immigrazione italiana

di Alice Pisu

Riscoprire oggi l’opera di Emanuel Carnevali in un volume che racchiude le sue memorie (Il primo Dio), i racconti, e le lettere a Benedetto Croce, Giovanni Papini e Carlo Linati (L’ultimo maledetto, prefazione di Valerio Valentini, readerforblind) permette di addentrarsi nel pensiero del poeta intravedendo il legame inscindibile tra la disperata e inesausta ricerca lirica e la travagliata storia privata. La vicenda editoriale complessa vede l’uscita in vita solo di alcune poesie e dei racconti. Il romanzo e le altre pubblicazioni usciranno postumi nell’ambito di un progetto di nuova valorizzazione e traduzione, con un’attenzione da parte dell’editoria italiana arrivata solo qualche decennio dopo un lungo oblio.
Ritenuto il poeta maledetto dell’immigrazione italiana, Carnevali gravita attorno al modernismo americano, che accoglie forme poetiche dalle istanze rivoluzionarie. Rivendica l’unicità della sua voce e l’indipendenza del pensiero, brama di far parte dell’élite letteraria pur riconoscendo le anomalie del sistema culturale. Nonostante le barriere linguistiche (abbattute memorizzando gli avvisi pubblicitari), la povertà, l’assenza di tutele sociali, la precarietà nel continuo passaggio da un lavoro all’altro (dall’aiuto cameriere, al potatore di rami malati al trasportatore di sacchi di sughero) con intervalli in cui comprende cosa voglia dire “morire lentamente di fame”, Carnevali riesce a contribuire, da poeta italiano in lingua inglese, al rinnovamento dell’avanguardia letteraria americana del primo Novecento.
Il doloroso maneggiamento dei reperti del passato è affrontato dal poeta quando è già affetto da un’encefalite letargica che lo costringerà a trascorrere gli ultimi vent’anni della sua vita tra sanatori, cliniche e pensioni. Assegna tonalità diverse alla memoria per definire drammi e euforie, dal bianco dell’infanzia toscana e piemontese, nel rimpianto di non essere morto prematuramente, al rosa degli anni del collegio, nei continui cambiamenti da Firenze a Bologna e Venezia, al giallo dell’iniziazione amorosa, sino al nero delle prime visioni cupe di New York al suo arrivo a sedici anni nel 1914.

La lettura delle sue memorie e dei racconti illumina drammi e visioni che connotano il suo fervore intellettuale, permette di rintracciare un’evoluzione stilistica e una maturità espressiva collocandole nelle diverse fasi di un percorso artistico inscindibile da quello personale. La sua esistenza è segnata dalla perdita della madre, dal rapporto con la malattia che incideranno nei suoi trasferimenti, dal conflitto perenne con un padre crudele (“Nella sua mente o nel suo cuore non c’è mai stato e non c’è nessun tralcio verde che getti i suoi riccioli al vento”). Il ricorso alla figura materna è inesorabilmente connesso alla raffigurazione di un dolore che lambisce la follia, in un dramma che, assieme a quello della zia dell’autore – la Regina Bianca protagonista del primo testo della serie Racconti di un uomo che ha fretta – premerà nella definizione di una poetica del dolore.
Le prime istantanee dell’arrivo del giovane Emanuel a New York attestano il crollo del mito americano, il disincanto del “sogno di chi non sogna, il rifugio di chi non ha casa, questa città impossibile”. Al buio che opprime l’America, il poeta contrappone una piccola luce, simbolo della sua consapevolezza lirica e delle sue ambizioni nonostante la povertà sfacciata nel portare “la propria fame e la propria rabbia da una strada all’altra”.

Emblematica, nel racconto Immigrazione e importazione, la storia di un grasso vecchio Yankee che si propone come il poeta degli immigrati italiani che apparentemente conforta ma, in realtà, sbeffeggia quegli ingenui

 

mangiaspaghetti dal collo taurino, dal collo equino, dal collo coriaceo, con il rosario in una tasca e un fazzoletto rosso, che penzola di fuori come una bandiera!

 

A scandire le fasi di un graduale e inesorabile inabissamento interiore saranno il travagliato periodo newyorkese, l’arrivo del fratello con cui condividere la miseria, l’esperienza del matrimonio, gli albori della carriera tra club letterari e conoscenze fondamentali nel trasferimento a Chicago, i nuovi amori tormentati, la disperazione e le fantasie sulla fine, le fascinazioni creative e le disillusioni, il rientro definitivo in Italia a causa della malattia (coinciso con l’avvento del fascismo di cui non farà in tempo a vedere la fine).

 La peculiarità stilistica è il tratto maggiormente significativo della sua scrittura, dovuta agli anni di preparazione in istituti prestigiosi (tra cui il Collegio Marco Foscarini di Venezia da cui dopo due anni viene espulso per la relazione con un suo compagno di studi), e dagli insegnamenti dello scrittore e critico Adolfo Albertazzi, declinati in modo personale da Carnevali nel rifiuto di stilemi carducciani e dannunziani. Trova nell’inglese la dimensione linguistica ideale, lo spazio d’elezione che non abbandonerà neppure al suo rientro in Italia. L’amore per il verso libero, le sue espressioni derivanti dall’italiano e la personale visione sensibile resa nello stupore per odori, sapori, suoni, segnali, contraddistinguono uno stile poetico innovativo e originale e rendono quella di Carnevali una voce letteraria inconfondibile tra i suoi contemporanei.
Le prose poetiche traducono l’orrore della morte nell’effigie di volti trasfigurati, definiscono le illusioni amorose nella purezza della loro intensità, tracciano l’isterismo, la rabbia, il senso di esclusione, lo spirito di ribellione, eleggono nella nostalgia un compenso per la sofferenza.
Le insistenze descrittive su spazi minimi e degradati, come le innumerevoli camere ammobiliate che Carnevali  cambierà negli anni, restituiscono un potente ritratto sociale. Arriverà a descriversi come l’inquilino “di una delle case dei senzatetto, degli orfani, delle puttane, dei papponi, delle zitelle povere, dei poveri scapoli, degli omosessuali, delle giovani stenografe che non se la passano bene, dei camerieri e dei portieri, le case degli inutili e degli stranieri”.

Sul continuo parallelo casa/corpo l’autore torna anche nei racconti, nel tradurre le pulsazioni del dolore fisico della terra muovendosi idealmente tra le stanze di una casa improvvisamente ignota, mostruosa.

 

Lascerò che la struttura della casa spezzi il pesante groviglio delle mie ossa, che sorga dall’ammasso della mia carne – ed essa incomberà sulla città, contro le vostre case, spaventosamente, perché sarà un fantasma, il fantasma di una canzone dimenticata, il fantasma di un uomo che fu lasciato morire, il fantasma di una canzone che fu dimenticata per sempre e per sempre ritorna a scuotere le quattro pareti del cielo.

 

Grazie al premio del Poetry Magazine diretta da Harriet Monroe, Emanuel lavorerà all’interno della rivista per un breve periodo, tra continui cambiamenti anche sul piano personale e affettivo. L’attenzione crescente nei riguardi di Carnevali arriva dopo l’uscita delle prime poesie e la pubblicazione dei racconti Tales of a Hurried Man: schegge narrative, critiche, in cui si interroga sull’arte, sullo stato della poesia, sul cambiamento, in un equilibrio labile tra illusione e disincanto. La distanza dai modelli correnti, la coerenza formale nella continua tensione espressiva tra ebbrezza e afflizione, dramma e sottile ironia, negli anni gli faranno guadagnare l’apprezzamento, tra gli altri, di Waldo Frank, William Carlos Williams, Ezra Pound, Sherwood Anderson, Robert McAlmon. Tra le esperienze significative nel passaggio da New York a Chicago, la collaborazione come traduttore per Others, che però sarà destinata a finire presto per l’irruenza con cui esprime le proprie posizioni con i colleghi.
Nonostante la crescente fatica di vivere, Emanuel continua a fare progetti. Le lettere inviate a Benedetto Croce, Giovanni Papini e Carlo Linati, attestano l’entusiasmo, le intuizioni, l’irrequietezza di un poeta che fantastica ancora su traduzioni e nuove realtà editoriali, come emerge dagli accorati appelli rivolti in particolare a Papini, a cui propone di far uscire a puntate la traduzione de L’uomo finito su una nuova rivista poetica americana, finendo per tradire, tuttavia, il profondo sconforto che lo attanaglia da tempo.
“Che la solitudine le sia molto dolce, caro Sig. Papini. Sono stanco morto anch’io, in questa incessante esauriente infinita imbecillità universale”.
Le opere tracciano ansie e tormenti, misurano la crisi interiore legata alla scrittura: una perdita di contatto con la realtà assimilabile allo smarrimento della propria identità. L’esilio e la ricerca inesausta imprimono il passo a una prosa limpida e essenziale lacerata da visioni provocate da assilli inestinguibili. Il senso di alienazione che caratterizza la sua scrittura non si riduce alla sua natura di apolide, ma risiede nel deplorare un sistema che annienta il singolo e favorisce l’ineguaglianza sociale. A fronte di tali urgenze si delinea la sua peculiare visione spirituale nell’amore sfrenato per Cristo e nel rifiuto di Dio, ritenuto solo un simbolo sentimentale, utile per non perdere del tutto la fiducia nell’umanità.

Nella forma breve Carnevali sonda le inquietudini del vivere attraverso prove espressive diverse, dalla serie Racconti di un uomo che ha fretta, al poema per il lago Michigan in Dichiarazione lunga un miglio, ai frammenti poetici fulminanti che immortalano gli entusiasmi fugaci, il disgusto di quanti hanno perso ogni slancio nel presente, le anomalie che diventano letteratura. Conferma la sua ossessione cromatica in narrazioni che scandagliano turbe personali, come nel racconto Suicidio in Italia, dove un uomo bianco nel viso, nelle mani, nell’anima, che si lava col latte e si veste di bianco, vive nel terrore che il suo corpo prenda colore, “per questo, aveva poche idee, pochissime sensazioni e ancora meno emozioni”.
L’impronta lirica dei racconti riserva attenzione a particolari fisici resi portatori di significati assoluti, come le sue mani di uomo giovane che fremono per uscire dalle tasche, “vogliono fermarsi e chiedere e dubitare e cominciare a tremare, poi si piegano nel dolore, di nuovo, nel loro movimento forzato di ogni giorno!”.
Affascinato dal grottesco e dal perturbante, nei racconti Carnevali esplora un bizzarro campionario umano, come il corteo di personaggi a Villa Rubazziana. Gli innesti lirici delle narrazioni celano il profondo amore per la natura, di cui sin da adolescente percepisce l’oltraggio nel sopravvento della città sulla campagna, esplicitato nella particolare attenzione per le sue manifestazioni – “I fiori sono i colori dell’infanzia del mondo” –, e reso nella necessità di ricongiungersi agli elementi per riappacificarsi con i suoi tormenti, come accaduto nella parentesi di “estasi sulla sabbia”, sulle dune dell’Indiana.
Il rapporto con la malattia, tra fasi che alternano il panico dell’attesa e un’angoscia perenne e insopprimibile, è essenziale nella sua poetica. Permette all’autore di calarsi in un dramma collettivo nelle intense descrizioni della deviata umanità del reparto di “pazzi encefalitici ballerini della morte”, e di rischiarare, al contempo, il proprio terrore oscuro. Il delirio di onnipotenza rievocato nelle memorie è vissuto nel reparto psicopatici sotto forma di un glorioso vapore: convinto di salvare il mondo da desideri fatui e di essere Dio – “il Primo Dio, l’unico Dio” – sente di poter annullare il confine con la morte. Per ironia della sorte, quella fine tanto scongiurata arriverà per soffocamento: morirà a causa di un tozzo di pane nel 1942 all’età di quarantacinque anni nella Clinica Neurologica di Bologna.

La scelta editoriale di accorpare il romanzo, i racconti e le lettere, permette oggi al lettore di scorgere le ragioni della scrittura tra il furore e i sogni che influenzano la profonda versatilità stilistica di Carnevali. Accanto a sperimentazioni fiabesche come preludio al tragico, trovano spazio componimenti brevi, schizzi, ibridi, note poetiche fulminanti su bagliori lontani e purificatori, anomalie che diventano letteratura, tesori nascosti in una città nella notte che suggeriscono al poeta di comporre una biografia delle piccole ombre.
L’ultimo maledetto è il testamento ideale di Emanuel Carnevali, il manifesto politico di un poeta che rintraccia nelle fantasie di riscatto una forma di resistenza, capace, nel dramma, di farsi sorprendere dall’incanto della ricerca dell’amore, e di rendersi preda di fugaci e salvifiche euforie.

 

Ora sono di nuovo un vagabondo, seminando parole da un buco della tasca e conosco soltanto altri vagabondi come me e li esorto a vagare senza meta. A vagare e ad andare, di fretta, come faccio io.

Parole d’altro genere. Come le scrittrici hanno cambiato il mondo. Intervista a Vera Gheno


di Debora Lambruschini

«Le nostre società sono di stampo patriarcale; c’è chi lo nega, o chi afferma che questo non corrisponda più a verità; ma, come ho già scritto precedentemente, basta sfogliare un’antologia scolastica, un testo di storia, o di storia della filosofia, per rendersi facilmente conto che noi viviamo, ma soprattutto cresciamo, in un contesto socioculturale in cui la donna, se compare, lo fa come personaggio secondario, come spalla; in cui è normale che siano gli uomini a decidere rispetto a cos’è giusto o sbagliato per una donna, come debba vivere, a che cosa possa aspirare»

 

In questo lungo brano che ho scelto come apertura dell’intervista a Vera Gheno, sono condensati i presupposti e lo scopo di questo libro, Parole d’altro genere, che la linguista, traduttrice ed esperta di comunicazione digitale ha curato per Bur Rizzoli. Si parte da una mancanza, quindi, dalla marginalizzazione delle donne nel mondo culturale – per non dir del resto, ma in questa area ci concentriamo – tra difficoltà di accesso all’istruzione, ostracismi, fraintendimenti e stereotipi con cui è ancora necessario confrontarsi. Se oggi pensiamo alla short story moderna, per esempio, è innegabile che il contributo delle scrittrici a cavallo tra Otto e Novecento sia stato determinante a definire la forma, eppure la critica letteraria solo dagli anni Settanta del Novecento si è adoperata per sottolineare l’importanza del ruolo delle scrittrici di fin de siècle nella costruzione del racconto come lo conosciamo. E tutti noi siamo passati per antologie scolastiche in cui le scrittrici erano un numero ridicolo a fronte delle presenze maschili, quasi sempre le stesse e nemmeno adeguatamente approfondite. Il canone letterario occidentale è patriarcale.
Oggi il dibattito letterario è particolarmente attento a colmare questo gap, ma prima ancora che dentro le aule accademiche, è nell’ambiente culturale, tra i professionisti e i lettori che tale discorso si va animando e arricchendo di contributi. Il testo di Vera Gheno si inserisce in questo dibattito ed è un mezzo potente di confronto: quarantadue testi, dall’antichità a oggi, tutti scritti da donne di epoche, aree geografiche, generi e forme letterarie diverse, introdotti da un lemma legato ai brani o alla biografia dell’autrice cui seguono di volta in volta riflessioni e ragionamenti in un dialogo ininterrotto con la contemporaneità.
Una delle cose più interessanti di questo volume è proprio la sua complessità strutturale ed eterogeneità: i testi (quasi sempre integrali o comunque brani autonomi/autodeterminanti) si legano a riflessioni linguistiche, sociologiche, militanza, consigli di lettura. Una scelta che risulta efficace, di agevole lettura, ma dalla quale si intuisce anche la stratificazione del progetto.

È partita dai lemmi, dai testi o dalle autrici? E come una cosa ha influenzato le altre?

V.G. È partita da criteri misti: alcune volte avevo in mente una parola, altre un’autrice, altre ancora uno specifico brano. Il volume nasce dall’incrocio di queste tre ispirazioni, per cui a volte ho dovuto trovare un’autrice che fosse adatta alla parola che mi interessava, altre viceversa. Ho proceduto in un felice caos, che è stato reso possibile dal rigore della gabbia che mi ero messa in testa di costruire: parola-consiglio di lettura-brano.

 

Viene naturale leggendo questo volume interrogarsi su quanto sia ancora forte il pregiudizio sulle scrittrici e confrontarci con Gheno su tale spunto:

V.G. Abbastanza forte da ritenere “normale” che in un’antologia delle superiori ci siano moltissimi più autori che autrici. Abbastanza forte da pensare alla letteratura scritta da donne come a una nicchia, a un genere, rivolto prevalentemente a donne. In una società androcentrica, la donna è “collaterale”, come lo è la sua scrittura. Si fa ancora fatica a vedere le donne fuori dalla loro nicchia, dalla loro categoria, per esempio semplicemente come appartenenti al canone.

 

Dei 42 testi selezionati, ampio spazio è riservato alla forma racconto, soggetta a molti stereotipi e fraintendimenti, specie nel nostro panorama editoriale.

Le ragioni che l’hanno spinta a sceglierli sono legate alla brevità che li rende adatti a un’antologia o c’è anche dell’altro?

V.G. Abbiamo voluto, per quanto possibile, inserire brani autoconclusivi. Per questo, è normale che ci siano molti racconti. Però c’è anche un altro motivo: sono la mia forma letteraria preferita, quella con cui sento più affinità. Quindi le scelte del libro rispecchiano un po’ il mio gusto personale.

 

Alcuni dei testi presenti nell’antologia sono tradotti per la prima volta in italiano e concorrono a creare un canone letterario nuovo, inclusivo, non solo perché opera di scrittrici ma anche per la selezione stessa, che affianca autrici note al grande pubblico come per esempio Jane Austen,  Edith Wharton, Virginia Woolf, Fausta Cialente, Matilde Serao, anche scrittrici meno conosciute fuori dall’ambito accademico e contemporanee.
La cosa più straordinaria della selezione operata è appunto il dialogo ininterrotto con il lettore e con la contemporaneità, che se da una parte interpretiamo come un segno positivo dell’assoluta modernità di opere capaci di trascendere il tempo e lo spazio, dall’altro guardiamo con amarezza per una serie di problematiche e discriminazioni con cui ancora è necessario fare i conti.

Aveva già a mente questo dualismo nel momento in cui ha ricercato i testi o le si è palesato in seguito? In un caso o nell’altro che cosa ha comportato?

V. G. Mi si è palesato strada facendo. Onestamente, non pensavo che le autrici avessero così tanto da dire a me e alla contemporaneità, e questa è stata un po’ una sorpresa. Colpa mia, comunque. Mi sono sempre ritenuta troppo linguista per avere qualcosa da dire sui testi delle altre persone, e come la mia editrix di BUR, Caterina Campanini, ben sa, a lungo ho nicchiato prima di accettare di fare questo progetto. Credo che non le sarò mai abbastanza grata per avermi convinta.

Tornando sulla forma racconto: se guardiamo alla storia letteraria della short story e prendiamo per esempio il caso specifico di quella in lingua inglese degli ultimi due secoli, notiamo come sia attraversata da un grado di sperimentazione linguistica e strutturale notevoli; il contributo delle scrittrici allo sviluppo della forma e allo svincolamento dal romanzo è stato importante. Penso per esempio a George Egerton, Charlotte Perkins Gilman, Mona Caird, solo per citarne alcune, e alla carica esplosiva dei loro racconti. Lo dimostrano anche i testi da lei selezionati, gli argomenti che trattano, dalla sessualità alla contestazione del matrimonio di stampo vittoriano, passando per il diritto all’istruzione femminile, alla ricerca della propria identità.

Nella sua esperienza che cosa c’è nella forma racconto che permette questo grado di sperimentazione e come si inserisce nel dibattito contemporaneo? Che cosa le si è svelato componendo questa antologia?

V.G. A costo di dire una banalità, che le scrittrici non hanno davvero nulla da invidiare agli scrittori in termini di temi trattati, profondità della scrittura, maturità dello stile ecc. Per il resto, magari l’investimento su una short story è più sostenibile di quello su un romanzo, e quindi permette, in un certo senso, un maggior grado di spensieratezza nello scrivere.

 

Per molto tempo – e per certi versi tuttora – le donne sono state ridotte al silenzio, marginalizzate, la loro opera minimizzata a un solo testo/dettaglio/immagine.

Anche per questo inserisce alcuni dati biografici sulle autrici, non solo per contestualizzarle ma per restituire complessità alla figura? Quanto conta per lei il dettaglio biografico in un testo di questo tipo?

V.G. Conta più di quanto io stessa pensassi. Aiuta forse a rendere almeno minimamente l’idea di quanto queste donne si siano dovute sforzare per poter studiare, per poter accedere al potere della parola. Oggi tendiamo a darlo per scontato, ma a lungo le società hanno ritenuto che le donne fossero biologicamente inferiori… quindi perché permettere loro di studiare?

 

Interessarsi anche al dato biografico significa quindi ridare corpo e voce alle scrittrici selezionate, comprenderne meglio il coraggio delle scelte, contestualizzare l’opera.
Come si legge questo libro, come lo si vive? C’è una struttura cronologica interna, c’è la riscrittura del canone letterario e per questo si potrebbe pensare che ci sia quindi un lettore – una lettrice – tipo, ma questo volume scardina anche questo stereotipo e si rivolge a lettori e lettrici tutti/e. È evidente il rigore e la ricerca su cui il suo lavoro si basa ma anche a mio avviso la capacità di arrivare a un pubblico variegato, non specialistico e questo a mio modesto parere è un grande pregio data anche la natura e l’importanza dell’opera che abbiamo tra le mani. Perché se vogliamo riscrivere il canone letterario, se vogliamo davvero parlare di inclusività, è anche fuori dalle aule accademiche che questo deve accadere. La società, ce lo “insegna” la politica, è passi avanti rispetto alle sedi del potere.
Che cosa ne pensa di queste considerazioni?

V.G. Sono incapace di scrivere in altri modi. Faccio moltissima fatica a esprimermi per iscritto in maniera accademica, e quindi quando posse evito; evidentemente questa è la forma con la quale mi ritrovo più in sintonia. Ho sofferto tanto, quando studiavo all’università, per la difficoltà che trovavo nel leggere i testi per molti esami. Poi, però, in quella selva di saggi accademici astrusi (che mi portavano a questionare le mie capacità interpretative), ho incontrato persone dalla scrittura cristallina come Tullio De Mauro, Alessandro Duranti e Giorgio Raimondo Cardona. Sono loro i miei modelli, la dimostrazione vivente del fatto che si può scrivere di qualunque argomento in maniera semplice, e che semplice non vuol dire banale. Quindi, da anni lavoro sul migliorarmi in questo specifico genere. Non è facile scrivere facile, ma almeno ci provo. Perché per me è importante dare il mio contributo a ricucire la cesura tra “alto” e “basso” in ambito culturale. L’alto, per me, non ha senso senza il basso, così come il basso non ha senso senza l’alto. Quando cultura popolare e cultura accademica sono in osmosi, possono a mio avviso alimentarsi a vicenda in maniera generativa.

Il canone letterario femminile di Virginia Woolf

di Debora Lambruschini

«Siamo figlie, finché non diventiamo mogli». Del racconto Phyllis e Rosamond di Virginia Woolf non ricordo esattamente la trama ma, a distanza di molto tempo dalla lettura, ho ancora ben incisa in testa questa frase. È una lama, una delle tante di cui la narrativa e la riflessione critica di Woolf sono disseminate. Parto dai racconti, che la critica e i lettori tendono ancora a considerare meno nella bibliografia woolfiana per rivolgere lo sguardo quasi esclusivamente ai romanzi e in parte ai saggi, eppure è proprio lì, nella forma breve, che la scrittura di Woolf parla magnificamente ai lettori, sperimenta, esempio della polifonia che ne contraddistingue sempre la prosa. Al racconto l’autrice non ha mai dedicato scritti specifici, eppure è possibile rintracciare in numerosi saggi di Woolf la costruzione di una personale teoria letteraria dedicata alla forma breve che ancora oggi risulta particolarmente efficace nel ragionare su questo aspetto, anche alla luce degli ibridismi contemporanei. E se i racconti, sostiene Woolf, sono costruiti su un momento di straordinaria intensità emozionale sulla base della quale creare un’alleanza fra lettore e scrittore, ecco quindi la necessità di leggerli affidandosi alle emozioni, e tale intensità si crea mediante il rispetto di adeguate proporzioni ossia il rifiuto di tutto ciò che è superfluo e nella profonda adesione tra contenuto e forma.
Parto da qui, dai racconti, perché in quella frase c’è già moltissimo dell’universo woolfiano, delle tematiche, degli interessi letterari e critici che si rivelano tra le pagine, nei discorsi pubblici o privati, nei diari, nelle lettere. È l’interesse per la condizione femminile – non amo questo termine, “condizione”, come fosse una malattia, ma non trovo di meglio per quel che voglio dire – che Woolf indaga con tutti i mezzi di cui dispone. Una riflessione che molto spesso si è intrecciata al discorso letterario, nei saggi, negli articoli, negli scritti privati e che oggi ritroviamo nel volume Virginia Woolf, la sorella di Shakespeare e altri ritratti di scrittici a cura di Oriana Palusci per Mondadori: un tassello fondamentale nella bibliografia dell’autrice inglese che comprende una ricca selezione di testi critici pubblicati nei due volumi di The Common Reader o apparsi su rivista, efficacemente organizzati e proposti anche al pubblico non anglofono.
Che cosa ci fa questo volume, vi chiederete, qui sulle pagine di Cattedrale, osservatorio sulla narrativa breve? È qui perché nel tempo Cattedrale ha ampliato i suoi confini – non a caso è questo il nome dato a una rubrica specifica – senza per questo perdere mai la propria identità e perché è proprio di Woolf quell’istinto alla «demolizione dei confini letterari» oggi più che mai evidente già a partire dall’ibridismo di testi che rifuggono etichette troppo rigide – penso, per esempio ai saggi letterari di Lorrie Moore, alle storie-memoir di Judith Schalansky, al gioco metaletterario di Dominique Fortier.
L’interesse critico di Woolf non comprende quindi solo il novel, su cui da sempre si concentra l’attenzione generale, ma con pari intensità e autorevolezza considera forme letterarie “minori” quali gli epistolari e le biografie, si interroga sugli ibridismi biografia – invenzione narrativa, fiction – critica letteraria.
Del resto, l’impegno critico di Virginia Woolf – e la sua ricostruzione di un itinerario femminile – nasce anche dal lavoro di riscoperta di testi considerati minori (autobiografie ed epistolari) da parte della cultura vittoriana. (da Introduzione, p. 9)

E sono proprio questi generi “minori”, biografie ed epistolari, a risultare di particolare rilievo nella riflessione di Woolf sulla scrittura delle donne, per moltissimo tempo le uniche forme letterarie entro i cui confini era loro concesso di muoversi. La sorella di Shakespeare è quindi un importante studio dell’esperienza letteraria femminile dal Seicento fino alle scrittrici contemporanee di Woolf, efficacemente organizzato dalla curatrice in ordine cronologico. Woolf costruisce quindi un canone letterario alternativo, in cui le scrittrici reali sono qui e là affiancate da personaggi fittizi e insieme concorrono non soltanto a costruire una storia della letteratura inglese femminile ma anche e soprattutto una presa di coscienza:

 

Ciò che Woolf vuole ricostruire, pur rifiutando la sistematicità di un discorso critico tradizionale, è una storia della letteratura inglese scritta da donne, fatta di nomi e di opere, a cominciare dal Seicento, e, insieme, una storia della coscienza femminile che si batte per affrancarsi e far udire la propria voce distinta e autonoma. (da Introduzione, p. 8)

 

Una storia che parte da una scrittrice che non è mai esistita eppure grazie a Woolf ben impressa nel nostro immaginario: Judith Shakespeare. La sorella del drammaturgo inglese, vive grazie alla penna di Woolf per raccontare un mondo – letterario e non solo – dominato dagli uomini, in cui una donna che avesse avuto l’audacia di seguire le proprie ambizioni sarebbe stata condannata alla rovina. La sorella di William, anche lei particolarmente dotata e smaniosa di avventure, non ha avuto ovviamente le stesse opportunità del fratello, non è stata mandata a scuola e le sue letture personali sono continuamente interrotte dai doveri domestici e gli ammonimenti dei genitori; forse scriveva di nascosto, ma la vita che l’aspettava era quella cui ogni ragazza era destinata, diventare moglie – di chi era stato scelto per lei – e madre. Forse il genio di Judith e il suo desiderio di avventura non possono essere imbrigliati e così fugge, arriva a Londra appena diciasettenne e tra le risa generali e le porte sbattute in faccia tenta di assecondare la sua inclinazione per il teatro; ma dalla condizione femminile non si può fuggire e per la sorella di Shakespeare non può esserci gloria ma solo un tragico finale. È un personaggio immaginario, dobbiamo ripetercelo più volte mentre leggiamo di lei in questo brano estratto dal celebre Una stanza tutta per sé, tale è la verosimiglianza con una situazione che si protrae molto più a lungo di quanto vorremmo e di certi echi non ci siamo ancora del tutto liberati. Ed è, per Woolf, lo spunto ideale per riflettere su tutte le voci che la società patriarcale ha costretto al silenzio, a tutto ciò che quindi abbiamo perduto:

 

Ogni qualvolta leggiamo di una strega che è stata affogata, di una donna posseduta dal demonio, di una levatrice che vende piante medicinali, o persino dell’esistenza della madre di qualche personaggio straordinario, allora io credo che siamo sulle tracce di una romanziera mancata, di una poetessa condannata al silenzio, di una Jane Austen muta e senza gloria, di una Emily Brontë che doveva essersi bruciata il cervello nella brughiera o si aggirava gemendo per le strade, resa folle dalla tortura che il suo stesso talento le infliggeva. (p. 37)

 

Il discorso critico di Woolf si basa su una conoscenza approfondita della letteratura inglese che, come sottolineato anche da Palusci, «consente alla scrittrice di non chiudersi in una visione puramente di gender, ma di mettere a confronto identità maschili e femminili» e ricostruire quindi una mappa che risulta particolarmente interessante tanto per l’attenzione anche verso autrici spesso ai margini – se non del tutto escluse – del discorso letterario che per il desiderio di Woolf di quella che oggi forse definiremmo inclusività.
C’è però un aspetto che è giusto considerare di fronte a questi saggi e che anche Palusci non manca di osservare nelle sue note introduttive ai testi: la vivacità intellettuale e le molteplici sfumature che caratterizzano la scrittura di Woolf e che restano ben evidenti anche qui, sono pure attraversate da quello snobismo letterario che l’ha sempre contraddistinta e che in alcuni casi ne fa vacillare l’accuratezza critica. Traspare per esempio nelle pagine – peraltro bellissime – dedicate a Mary Wollstonecraft in cui non si fa minimamente menzione (e neppure altrove) all’eredità raccolta dalla figlia Mary Shelley e al suo testo più noto, Frankenstein; o, ancora, nel giudizio che dà dell’opera di Elizabeth Gaskell, esempio di modalità narrative «relitto del passato letterario ormai estinto» (Palusci), di cui condanna soprattutto la mancanza di personalità che apparirebbe evidente al lettore moderno. Eppure della stessa stagione vittoriana Woolf ama profondamente George Eliot, la cui scrittura ha profondamente segnato la propria, e ulteriore esempio delle conseguenze sulla condizione femminile del dominio patriarcale.
La ricchezza dei saggi qui organizzati è davvero notevole e le chiavi di lettura con cui affrontarli sono molteplici, a partire come già detto dalla costruzione di un canone letterario alternativo, l’imprigionamento intellettuale cui a lungo sono state costrette le scrittrici – e a tal proposito, un saggio particolarmente illuminante a mio avviso è Vietato scrivere, di Joanna Russ, uscito un paio di anni fa per Enciclopedia delle Donne – , le numerose sfaccettature della riflessione letteraria di Woolf, la presa di coscienza di scrittrici e intellettuali, lo sconfinamento dei generi letterari. Tanti, tantissimi gli spunti che emergono dalle pagine, come numerose sono le scrittrici poco note fuori dall’ambito accademico – e talvolta anche lì – la cui voce Woolf contribuisce a far riaffiorare dall’oblio della storia letteraria. Donne che si sono dedicate professionalmente alla scrittura o che l’estro letterario l’hanno riversato “solo” in quei generi che sono convenzionalmente considerati minori ma che pure per lungo tempo hanno costituito la sola forma di possibilità letteraria, i diari e le lettere, cui Woolf intreccia sempre un particolare interesse per la vicenda biografica. Realmente esistite o frutto dell’immaginazione woolfiana, scrittrici professioniste o autrici di scritti privati, personalità note o conosciute solo come mogli, sorelle, figlie, le donne di queste pagine si presentano a noi lettori contemporanei come uno studio assai puntuale dell’esperienza letteraria femminile, aprendo a tutta una serie di considerazioni letterarie e non. Non da ultimo in termini di rilevanza, il discorso sul professionismo della scrittura che in Aphra Behn ha la sua pioniera:    

 

Aphra Behn seppe dimostrare che si poteva guadagnare del denaro scrivendo, con il sacrificio, semmai, di certe piacevoli qualità; e così a poco a poco scrivere non fu più soltanto un segno di follia e di disagio mentale, ma un’attività che aveva un’importanza pratica […]. Il denaro conferisce dignità a ciò che è frivolo quando non viene pagato. (p. 75)

 

Ancora, una di quelle lame di cui la scrittura di Woolf è disseminata.

 

Viaggio avventuroso, di Karl-Markus Gauss


di Giordana Restifo

«Periodicamente ci sono studiosi o autori pretenziosi che denigrano le forme identificatorie del leggere, quel leggere in cui ci immedesimiamo nei personaggi di un romanzo, facciamo nostre le atmosfere evocate liricamente e insomma ci atteggiamo come se tutti i libri di ogni epoca siano stati scritti proprio per noi, perché li leggiamo e ci riscopriamo in essi. Si può ritenere troppo piatta questa pratica identificatoria che trascende le differenze d’epoca, di nazione, di classe sociale, ma se non esistesse questo modo di leggere sensitivo o appropriativo, non esisterebbe neanche la letteratura».

Quante volte, leggendo, è capitato di pensare che quella determinata situazione raccontata nelle pagine di un libro l’avessimo vissuta in modo simile? O che un personaggio, una frase, un paragrafo, stessero parlando di noi o a noi? Ed è questa la sensazione nella quale ci si potrebbe imbattere durante la lettura di Viaggio avventuroso intorno alla mia camera dell’austriaco Karl-Markus Gauss, appena pubblicato da Keller editore e tradotto dal tedesco da Enrico Arosio. L’autore compie un viaggio davvero avventuroso, come recita il titolo, senza muoversi dalla sua abitazione a Salisburgo, costruita nel 1896. In queste pagine, dense di storie, trovano spazio oggetti di famiglia e alcune digressioni di vita vissuta all’esterno della casa.
Per affrontare meglio il viaggio ho deciso di partire dalla fine, infatti, la citazione posta all’inizio si trova nelle ultime pagine dell’opera di Gauss. Il motivo di questa scelta è che le parole dell’autore mi sono sembrate un buon consiglio, generale e particolare, per approcciarsi alla lettura di Viaggio avventuroso intorno alla mia camera. Sin da subito, si ha come l’impressione di leggere qualcosa di familiare; gli oggetti, la casa, l’atmosfera, sembrano descritti in modo tale da evocare in noi ricordi, alcuni vicini, altri smarriti nel tempo. L’epifania vera e propria l’ho avuta quando Gauss, in uno dei primi paragrafi (o brevi capitoli – tutto il libro è così suddiviso e in ognuno vi è un soggetto diverso), si serve di un baule degli anni Ottanta del XIX secolo, appartenuto a suo suocero, per raccontarci la storia di quest’ultimo e della grande emigrazione che avvenne dopo la prima guerra mondiale dal Sud Tirolo. Il cassone, al cui interno adesso sono posti i raccoglitori della corrispondenza dell’autore, è stato utilizzato di rado per il suo scopo originale, cioè quello di baule da viaggio d’oltremare. È in legno massiccio, dipinto di un blu scuro, con gli spigoli rivestiti di larghe strisce metalliche chiodate e per chiuderlo vi sono tre grandi serrature di metallo, una delle quali, quella centrale, è fornita di una piccola chiave. Ebbene, in un piccolo paese di provincia, in Sicilia, esisteva un baule non dissimile, color legno, di fattura fine Ottocento, con larghe strisce metalliche chiodate e tre grandi serrature (la chiave è andata perduta), probabilmente importato da qualche viaggio. Apparteneva al mio bisnonno Francesco e anche in questo caso fu usato poco per il suo fine, contenere il corredo. Il bisnonno, infatti, se ne serviva per riporvi gli oggetti da lavoro, nella sua fabbrica di essenze, fallita durante la seconda guerra mondiale. All’interno del baule vi è una cassettina segreta che, di generazione in generazione, ha cambiato contenuto: lettere, gioielli, bambole, contanti. Mentre leggevo la storia di Gauss e di suo suocero, sono andata nella stanza degli ospiti di casa mia, ho sorriso, riaperto il baule del bisnonno e mi sono lasciata trasportare nel movimentato viaggio dell’autore austriaco.

 

Ispirazioni letterarie e divagazioni

Come già era stato per Nella foresta delle metropoli (Keller, 2021), precedente opera di Gauss, anche questo lavoro non è inquadrabile in un genere specifico. Ha lo schema e la brevità dei racconti, il fascino dei romanzi con molte sfumature autobiografiche e l’oculatezza dei saggi. Anche Viaggio avventuroso intorno alla mia camera è costellato di incontri con poeti, scrittori e scrittrici, pensatori, sovversivi che hanno fatto la storia di un paese. Sono presenti persino personaggi “bislacchi”, come Ettore Tolomei, politico, studioso, «colui che era ossessionato dall’estirpare tutti i nomi non italiani fino all’arco alpino» e per il quale il sostantivo “fascista” era un titolo onorifico; di costui ne parla Klaus Stiller in Die Faschisten. Italienische Novellen, libro posseduto da Gauss nella sua biblioteca in soggiorno e che, non appena riaperto, lo porta subito indietro nel tempo al momento in cui lo aveva letto per la prima volta.
Tutt’altra personalità è, invece, Xavier de Maistre, scrittore, pittore e militare sabaudo, probabilmente massimo ispiratore di questo viaggio. Scrisse alcuni libri durante e sulle sue peregrinazioni in giro per l’Europa, ma la sua fama letteraria è dovuta a un “libricciuolo”, come lo definisce lui stesso, dal titolo Viaggio intorno alla mia camera (Dalla Tipografia e Libreria Manini ne’ Tre Re, Milano, 1824). In seguito a un duello, de Maistre finì agli arresti domiciliari per quarantadue giorni. All’epoca ventisettenne, considerò la punizione come un dono e in questa sorta di ironico “diario di prigionia” descrive i pochi oggetti quotidiani (il letto, la scrivania, alcuni quadri e libri) e il mondo intero che lo circonda fuori dalla stanza, attraverso un flusso di ricordi, fantasie, idee. Altri autori e autrici hanno percorso sentieri simili, come Bernd Stiegler o Sophia von La Roche con il suo Mein Schreibtisch (La mia scrivania); centoquarant’anni dopo sarebbe stato pubblicato Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf.
E quale gioia trovare nella casa di Salisburgo alcuni scaffali dedicati alla letteratura slava, opere tradotte dal polacco e dal ceco, dall’ucraino e dal russo, dal sorabe e dal macedone. In questi sono sistemati anche autori ungheresi, greci e albanesi come il famoso narratore Ismail Kadare, sebbene l’autore immagini la riluttanza dell’albanese a stare in mezzo agli slavi. Ci sono i volumi del poeta kosovaro Ali Podrimja, che riportano alla mente di Gauss i primi incontri con lui e con la popolazione del Kosovo (perlopiù esuli residenti in altri paesi). Infine, c’è la presenza, influsso evidente, di Danilo Kiš, i cui romanzi e racconti contengono lunghi e suggestionanti elenchi.
Non ci si imbatte solo in scrittori, ma anche in filosofi come John Berger e Ernst Bloch, in esploratori come Oscar Baumann e Friedrich Julius Bieber, in partigiani jugoslavi come Stjepan Filipović, in poeti come Albert Ehrenstein, solo per citarne alcuni. Quest’ultimo ricorda a Gauss un appagante periodo della sua vita in cui amava sprofondare in libri tristi, in lui aveva trovato tutto ciò che riteneva all’epoca “vera letteratura”: «il lamento, l’accusa, lo sdegno – e il suono acuto della disperazione». Ehrenstein e la sua lirica furono i protagonisti del suo primo libro, sebbene, anni dopo, si rese conto di aver frainteso l’autore e i suoi scritti. Al poeta austriaco è legato anche un altro ricordo importante, quello dell’ultima volta che vide l’amico Fritz Kohles prima che questi morisse. Kohles gli portò in regalo un testo autografo incorniciato proprio del poeta austriaco, scovato in una libreria antiquaria, oggi appeso vicino alla porta di ingresso come benvenuto a chi entri in casa di Gauss. Nell’abitazione di Salisburgo, infatti, c’è spazio per tutti, per i vivi, per i morti, per personaggi che sono stati d’ispirazione a livello mondiale e per altri criticati e dai quali prendere le giuste distanze; c’è spazio soprattutto per gli amici e i famigliari dell’autore, che ci fanno pensare alle persone delle nostre vite.

Il richiamo degli oggetti

Se le nostre case rispecchiano i nostri gusti (e i nostri compromessi), gli oggetti dicono agli altri, e a noi stessi, chi siamo, ma anche chi sono le persone a noi care, chi erano i nostri avi. Da dove partire per raccontare di tutto ciò che si ha intorno nella quotidianità? Arrivati a metà di Viaggio avventuroso intorno alla mia camera, è Gauss stesso a suggerirci la risposta:

«L’attrazione che proviamo per determinati oggetti ha un che di enigmatico; non solo perché rimane inspiegabile che cosa essi abbiano davvero a che fare con quella, ma, di più, perché noi stessi non sappiamo come siamo arrivati a tal punto. Ci sono cose scomode, maltenute, malandate, a cui non posso rinunciare, mentre altre cose meritevoli di apprezzamento e conservazione le ho brutalmente espulse dal mondo dei miei oggetti e subito dimenticate».

Credo sia questo l’assunto dal quale è partito l’autore per scegliere gli oggetti da menzionare. I numerosi quadri e i “devotionalia”, che creano una «composizione pietroburghese», Gauss si riferisce alla densità delle sale dell’Ermitage di San Pietroburgo, evitano alla famiglia di arrovellarsi su dove appendere i nuovi arrivati, poiché andranno a coprire i pochi spazi rimasti vuoti. Tra questi, ben trentaquattro sono a firma di Herbert Breiter, grande amico, pittore e unico promotore che Gauss abbia mai avuto. Ci sono le tovaglie e i tovaglioli dei bisnonni, cimeli utilizzati per le occasioni, quando si vuole scherzare con gli ospiti sulle vicende famigliari «nel riflesso della grande Storia» e che richiamano, ancora una volta, le antiche origini e Merano, quella città del Sud Tirolo dalla quale andarono via i parenti.
Anche Gauss, come Sophia von La Roche, ha un’affezione particolare per la sua scrivania, costruita tra il 1870 e il 1890. Prima di entrare nella vita di questo oggetto e di tutti quelli che vi trovano alloggio sopra o nei cassetti, l’autore, con un divertente prologo, spiega come lo scrittoio sia entrato nella stanza in cui si trova e come da quella non ne uscirà più. Chili di carta, documenti, recipienti con penne e contenitori in latta con matite, scatole piene di quaderni con appunti, sia di vecchi lavori sia per libri mai scritti (avvincente anche il passaggio che questi quaderni fanno nel tempo di cassetto in cassetto, dall’alto verso il basso e fino all’oblio), un minimappamondo alla cui base è inserito un temperamatite non funzionante, una barchetta sottile (modellino di una “Ulmer Schachtel”), una cartolina regalatagli da un prete in Svezia e dei biglietti da visita di professionisti incontrati nello stesso viaggio, tutti questi oggetti hanno una loro storia personale che si portano dietro e un loro spazio preciso sulla scrivania di Gauss. Sullo scrittoio, inoltre, c’è un portacenere in vetro giallo proveniente da Murano, un regalo dello zio Hugo ereditato dalla madre; è legato al racconto di un viaggio a Venezia ma anche al ricordo del padre di Gauss che in quel portacenere ha «spento migliaia di sigarette fino ai suoi ultimi giorni di vita».
Vagando in giro per casa l’autore celebra quella che a tutti gli effetti definiremmo una collezione, anche se lui preferisce classificarla come un attaccamento a determinati oggetti: scatoline degli alberghi con dentro cuffie da doccia, mai utilizzate ma ben catalogate con data e luogo di provenienza. «Un indumento della solitudine» per il quale Gauss prova un’attrazione particolare perché lo collega alle tappe del suo sviluppo personale. E, aprendo una parentesi sul souvenir, l’oggetto per eccellenza, quello che chiunque di noi ha in casa, ci porta alla scoperta di un’altra raccolta numerosa che possiede: tazze provenienti da tutto il mondo, comprate da sé o portate in dono da persone care che fino a qualche ora prima erano state turiste, viaggiatrici. A proposito dei souvenir (o, in questo caso, meglio dire gadget), Gauss ci parla della maglietta con stampata la fotografia del partigiano jugoslavo Stjepan Filipović con il cappio al collo nel giorno della sua esecuzione, ricevuta a Zagabria nel maggio 2013 in qualità di ospite al Subversive Festival. Raccontandoci del disagio provocatogli dall’idea di indossare una t-shirt con l’immagine di un uomo che sta per essere impiccato, ci riporta alla lotta per la liberazione dei Balcani e alla storia della Jugoslavia.
La sua attenzione si sofferma poi su un vecchio orologio a muro regalatogli per i cinquant’anni da una coppia di amici e che non è stato più caricato assiduamente da quando hanno capito che «il tempo scorreva troppo rumorosamente». Nelle pagine di Gauss ci sono anche un elogio alla sua camicia più vecchia, comprata da sua moglie in un negozio di mobili e oggetti scandinavi, dalla quale, nonostante i suoi trentacinque anni di onorata carriera e il fatto che sia ormai completamente sciupata, non riesce a separarsi, e una lezione di storia (dei materiali, del design) e di scienze etnoantropologiche che si sviluppa dall’attenta osservazione di un tagliacarte della ditta Hatschek, dal nome del fondatore della dinastia, nonché colui che inventò il cemento-amianto e il marchio Eternit.
Durante questo picaresco viaggio, l’autore, attraverso le considerazioni sulle modalità di scambio interpersonale che si modificano nel tempo (si concentra sulle lettere che si mandavano prima dell’avvento delle email e dei social network) e due excursus, uno sulla fenomenologia dell’attesa, l’altro sull’ebbrezza, coinvolge tutti i lettori. Alcune sono osservazioni che, almeno una volta nella vita, ognuno di noi ha trattato durante una cena con gli amici, sul divano con il coniuge o tra sé e sé. È come se alcuni aspetti del pensiero di Gauss li conoscessimo già da prima, mentre su altri ci invita a riflettere e ad approfondire. Anche se ad oggi le limitazioni per arginare il Covid-19 sono cessate quasi del tutto e si è tornati a viaggiare, non è necessario percorrere chilometri per scoprire le ricchezze e le meraviglie del mondo, perché spesso vivono con noi nelle nostre case.

«È casa quello spazio in cui tutti gli oggetti esistono come soggetti», ci dice Emanuele Coccia (Filosofia della casa, Einaudi, 2021).

Maud Martha, di Gwendolyn Brooks


di Debora Lambruschini

 

Il racconto è una forma sfuggente, dai confini labili e spesso rifiuta etichette troppo rigide. È malleabile, mutevole, aperto ad accogliere le istanze del nuovo e aprirsi ad altre strade. Il racconto è nella molteplicità delle tante forme che può assumere. È problematico, quando una visione critica troppo rigida lo vuole incasellare o quando il mercato editoriale gli appone un’etichetta più facile da veicolare. La vita delle ragazze e delle donne, per esempio: è presentato come “l’unico romanzo di Alice Munro”, eppure basta leggerlo per rendersi conto che sono racconti e che se proprio vogliamo applicargli una definizione forse potrebbe essere quella di short story cycle; sono sette racconti strettamente collegati tra loro che attraversano le diverse fasi ed età della vita di un’unica protagonista, seguendo un preciso ordine cronologico. Qualcosa di simile a quanto la stessa Munro ancora fa con Chi ti credi di essere. O, altro celebre esempio, Olive Kitteridge di Elizabeth Strout, chiamato “romanzo in racconti”, etichetta che ha più a che fare con il marketing che con la critica letteraria, perché promuovere le raccolte di racconti è particolarmente complesso e sono necessari strumenti adeguati; così molto spesso si sceglie un’altra strada, si camuffano, si fa leva su una certa organicità di fondo e un’architettura che possa avvicinarle al romanzo.
Ma tra romanzo e racconto esistono anche tante forme ibride, che si muovono a confine e lo scavalcano. Testi, per esempio, in cui la commistione tra fiction e memoir rende ulteriormente difficile la loro classificazione ma che nell’invenzione letteraria sembrano meglio aderire alla forma racconto: Inventario di alcune cose perdute, di Judith Schalansky, il Quaderno dei fari di Jazsmine Barrera, testi ibridi che si muovono dall’una all’altro e la stessa frammentazione interna è racconto. Ed è la scrittura a tenere insieme ogni cosa, l’intreccio di reale e invenzione letteraria, la commistione di genere tra racconto, saggio, memoir, le occorrenze tra i testi. È, più di ogni cosa, la postura autoriale a tracciare il confine tra romanzo e racconto. È l’intensità del frammento che prende forma sulla pagina, l’aspirazione a «un momento di verità, non alla verità tutta» che è l’essenza del racconto. Il racconto è «un punto di domanda», come diceva Grace Paley, «comincia dopo che qualcosa è già accaduto, finisce quando qualcos’altro deve ancora accadere: lascia fuori un bel pezzo della storia, e certe volte quello che resta fuori è perfino più importante di quello che c’è dentro», le fa eco Cognetti.
Si apre a innumerevoli possibilità narrative, di forma e nel superamento di certi confini rifugge quindi le etichette.
Che cos’è perciò un testo come Maud Martha, di Gwendolyn Brooks? È un romanzo frammentario e che porta in sé l’eco della sensibilità poetica dell’autrice (la prima poetessa afroamericana a vincere il Pulitzer, tra l’altro)? O sono racconti, uno short story cycle che ricostruisce frammenti della vita della protagonista? Trentaquattro capitoli-storie in cui la materia letteraria si mescola allo spunto autobiografico, rielaborato e trasfigurato sulla pagina, a sfilacciare ulteriormente legami di forma troppo stretti. Un testo ibrido, quindi, che si muove a confine e che ha il respiro del racconto: nei frammenti di cui si compone la narrazione, istantanee della vita della protagonista Maud Martha, i dettagli minimi che si caricano di significato, che ci permettono di arrivare al cuore del personaggio. Diceva Carver che il racconto è la finestra sulla casa di qualcun altro: osserviamo da fuori, solo intuendo quello che c’è dentro, ci facciamo un’idea di chi abita in quella casa, ne immaginiamo la vita, ma riflettiamo soprattutto sulle molte cose che non sappiamo del suo interno. Brooks ci fa osservare da quella finestra dentro la vita della sua Maud Martha e con lei uno spaccato del mondo in cui si muove, l’America dagli anni Venti al Dopoguerra. E se il racconto ha molto in comune con forme espressive altre come la fotografia, qui è la poesia a lasciare l’eco più forte, che si avverte non tanto – o non solo almeno – per lo spazio occupato dalla narrazione sulla pagina, quanto per la cura con cui la parola è selezionata, e che si rispecchia in un attento lavoro di traduzione firmato da Gioia Guerzoni che per La Nave di Teseo cura questa prima edizione italiana. Come lettori il racconto ci chiede sempre un grado di attenzione maggiore e ogni parola, ogni segno di punteggiatura o spazio bianco deve essere quello giusto, carico di un significato che la lettura attenta gli riconosce; come per la poesia, come per ogni altro lavoro artigiano, lo scrittore di racconti cesella l’opera, lavora di scalpello, seleziona con cura e una parola può aprire squarci.

 

Quello che voleva sognare, e sognava, era affar suo. Le piaceva soffermarsi sul colore e le superfici morbide e i materiali pastosi, su una bellezza complessa, su superfici lucide come perle. Che problema c’era? E poi, chi poteva giurare che non sarebbe mai riuscita a realizzare il suo sogno? Magari non proprio tutto, certo! Ma qualcosa? Una parte?

Aveva diciotto anni, e il mondo aspettava di accarezzarla.
 (p. 53)

 

Può il mondo “accarezzare” una ragazza che si affaccia alla vita adulta? Quanta ambiguità e sfumature ci sono in questa parola? Quante future delusioni, quanta attesa? Quanta commistione di sensi?
Brooks maneggia le parole con attenzione, se ne prende cura, e passa da un registro all’altro con l’abilità di chi è abituato a ragionare sul testo lirico. Anche nello spazio di un solo capitolo-racconto, il registro è mutevole, l’ironia si intreccia al dramma, la rabbia alla gioia, e il racconto in terza persona riesce comunque ad avvicinarci il più possibile a Maud. Non è lei, ma di lei che raccontiamo. Dell’ordinario, del quotidiano, di vite e felicità semplici; di delusioni, battute d’arresto. Dei desideri di una ragazza che sta diventando adulta, le memorie d’infanzia e gli episodi minimi che si caricano di significato; la scoperta della città, le sue occasioni. E, ancora, i sentimenti e la mutevolezza dell’amore, le piccole crisi all’interno di un matrimonio, i progetti, la realtà.

 

Ma non vedeva l’ora che finisse, non vedeva l’ora di tornare a casa con suo marito, di chiudersi la porta alle spalle. Allora forse sarebbe stato più affettuoso, forse le avrebbe dato qualcosa di più della cortesia distratta degli ultimi tempi.

(p.78)

 

C’è un’ombra però che attraversa tutta la narrazione, ora esplicita, ora meno: il razzismo. E come potrebbe non esserci, almeno in minima misura, nelle parole di una poetessa afroamericana che immerge la sua protagonista nera nell’America del primo Novecento? Maud bambina fa la prima esperienza di quanto sottile e radicato sia il razzismo: alla festa di Natale ai grandi magazzini Babbo Natale non ha con lei la stessa dolcezza che dimostra agli altri bambini, la stessa generosità. Non le stringe la mano, nemmeno. La narrazione è disseminata di pietre come questa, ora esplicitamente ora meno. E la paura, sottile, sempre presente, di innervosire qualcuno solo con la propria presenza, da dover giustificare, sempre. Sentirsi legittimati, che valore ha per noi che ci siamo abituati? Restare nell’ombra, non farsi notare più del dovuto,per non sentirsi invece degli intrusi.

 

Quando il film terminò e le luci li mostrarono per quello che erano, dei neri, si alzarono tra le pellicce e le stoffe buone e i profumi delicati e si guardarono intorno nervosamente. Speravano di non incontrare sguardi crudeli. Speravano che nessuno vedesse la loro presenza come un’intrusione. […] Se solo non li avessero guardati come degli intrusi…

(p. 73)

 

Brooks riflette sulla tematica razziale da punti di vista diversi, portando tra le mura domestiche, tra gli stessi affetti, il disagio. Maud è “troppo nera” perfino per il marito, che in una sala da ballo sceglie una compagnia dalla connotazione razziale meno immediata.
Sono lame che graffiano la pagina, parole scelte con cura a comporre spaccati di quella esistenza. Trentaquattro capitoli. Trentaquattro racconti.

 

Gli orsi danzanti di Witold Szabłowski


di Giordana Restifo

Il nuovo anno è iniziato ma c’è un’opera del 2022 da recuperare. Si tratta del reportage Orsi danzanti. Storie di nostalgici della vita sotto il comunismo di Witold Szabłowski, pubblicato dalla casa editrice Keller, nella traduzione dal polacco di Leonardo Masi. Se non fosse per quel sottotitolo, che chiarisce, almeno in parte, cosa il lettore troverà nelle pagine del giornalista polacco, si potrebbe pensare a una delle storie fantastiche di Dino Buzzati. Al contrario di Re Leonzio, Tonio, Salnitro, Teofilo e di tutti gli altri personaggi de La famosa invasione degli orsi in Sicilia, gli orsi di Szabłowski non hanno sogni, desideri, non sono in attesa di alcunché né liberi di girovagare tra montagne e città. No, anzi, quando Vela, Mima, Mišo, Svetla e gli altri orsi hanno sperimentato la libertà in età adulta non sono stati in grado di affrontarla da soli.

1.      Mondo animale

Il reportage è diviso in due parti. Nella prima, l’autore ci porta in Bulgaria a conoscere gli ultimi proprietari di orsi danzanti. Capitolo dopo capitolo, attraverso i luoghi, Drjanovec, Gecovo, Jagoda, Belitsa e altri, e i racconti delle famiglie, ci addentriamo anche nella storia di un paese che non ha ancora superato l’impasse della fine del lungo regno di Todor Živkov, della caduta del modello sovietico e, dunque, del tramonto del socialismo. Per decenni, una fetta di popolazione ha vissuto addestrando orsi. Alcuni non conoscevano altro lavoro se non questo, l’avevano ereditato dalla propria famiglia, di generazione in generazione, come oggi potrebbe essere per uno studio medico o notarile; altri, si sono dovuti reinventare una professione all’inizio degli anni Novanta, a seguito della caduta del comunismo, quando la Bulgaria è stata investita da una grave crisi economica che ha causato licenziamenti massivi, carenza di merci, e perdita delle certezze. Per riuscire ad addomesticare questi animali così possenti li compravano da cuccioli, gli estraevano i denti (per evitare ritorsioni future), li picchiavano, li legavano con delle catene, somministravano loro alcolici e dolciumi per ammansirli, forgiavano il loro carattere e gli insegnavano danze o imitazioni di personaggi famosi da proporre come spettacolo durante le fiere e le feste. Per far sì che gli orsi li seguissero e ubbidissero, gli addestratori infilavano nei loro nasi un anello di ferro (holka) al quale legavano una catena, come una sorta di feroce guinzaglio. Una pratica dolorosissima per l’animale, almeno a livello fisico. Il naso è, infatti, una parte molto sensibile. Per quanto riguarda, invece, la sfera psicologica vien da chiedersi se chi nasce schiavo, in cattività, riesca a immaginare la libertà mai conosciuta. Con la catena al naso imparavano a ballare ascoltando la musica della gusla (strumento tipico dei popoli slavi) e, a suon di botte, si alzavano su due zampe muovendo i primi passi. Tra gli addestratori c’è anche chi ha confessato a Szabłowski di aver voluto bene al proprio orso come a un famigliare:

Dio mi è testimone, le ho voluto bene come fosse una persona. Le volevo bene come a uno di famiglia. Il pane non le è mai mancato. Gli alcolici migliori. Fragole. Cioccolato. Merendine. Se avessi potuto, l’avrei portata sulle spalle.
Se dici che la picchiavo, che con me non stava bene, allora dici una bugia
.

Così gli orsi crescevano, con diete iperglicemiche, ritmi biologici inesistenti e sprangate. Giravano per tutto il paese facendo spettacoli di danza, imitazioni di personaggi famosi come sportivi e politici, ma erano addestrati anche per fare massaggi alle persone che ne avevano bisogno. Non riesco davvero a immaginare un orso che ti sta sulla schiena massaggiandotela mentre sei a pancia in giù, ma forse uscendo dagli schemi della razionalità è possibile figurarselo. Nel 2007 la Bulgaria è entrata a far parte dell’Unione Europea e questo lavoro, quantomeno bizzarro, è diventato illegale. Come in una favola, è arrivato il forestiero a salvare gli oppressi. Il liberatore ha le fattezze di un’associazione austriaca, “Quattro Zampe”, fondata nel 1988, che ha istituito il parco degli orsi danzanti (attualmente chiamato il Santuario degli orsi) a Belitsa, vicino la capitale Sofia. Dodici ettari di terreno nei quali si insegna agli orsi a «vivere in libertà». La realtà, però, è cosa assai diversa dalle fiabe. Infatti, quando gli animali sono arrivati al parco, dopo lunghe contrattazioni da parte dei dipendenti dell’associazione con i proprietari, si sono trovati spaesati, incapaci di pensare da soli a sé stessi; per tutta la vita avevano avuto qualcuno che organizzava le loro giornate, che governava le loro esistenze. Allora, i dipendenti di Belitsa hanno capito che la prima lezione di questo laboratorio di libertà doveva essere incentrata sull’insegnare agli orsi che essere liberi ha i suoi limiti. Nel loro caso il confine è un recinto elettrico attorno al parco. Nella riserva hanno tutto, dal cibo alla compagnia (anche se in natura sono animali abbastanza schivi), dalle tane al laghetto artificiale, hanno spazio per muoversi. Se superassero il recinto entrerebbero in un mondo nel quale non sono in grado di districarsi, non avrebbero chance di sopravvivenza. A spiegare tutto ciò è Dimităr Ivanov, il direttore del parco, intervistato da Szabłowski.  Questi racconta di come danno agli orsi la libertà per gradi, cercando di risvegliare i loro istinti e i loro ritmi biologici (come, ad esempio, l’ibernazione), e, parafrasando una famosa frase attribuita a Stalin, dice «La libertà è una cosa terribilmente complicata. Bisogna darla a piccole dosi». In seguito alla visita al parco, l’autore riflette sul fatto che questo è sì, un racconto sugli orsi, ma anche sugli esseri umani, perché quando alla fine degli anni ’80 un grande pezzo di mondo è diventato libero ha ricevuto

«una libertà alla quale non era stato preparato. In casi estremi non se la aspettava, e neppure la voleva. […] perché la libertà non ha portato alle persone soltanto nuovi sapori, nuove possibilità e nuovi orizzonti», ma anche «nuove sfide, davanti alle quali non sempre riescono a cavarsela. Ha portato la disoccupazione, che durante il socialismo era cosa sconosciuta. Ha portato la mancanza di un tetto.
Ha portato il capitalismo, spesso in una forma molto selvaggia
».

Subentra così, per alcuni, quel sentimento tanto vivo quanto attuale del “si stava meglio prima”, molto diffuso nei paesi balcanici e, da qualche tempo, anche in alcuni paesi occidentali: «E si è capito che la paura di un mondo che cambia, la nostalgia per qualcuno che ti alleggeriva le spalle dalla responsabilità, il bisogno di qualcuno che ti dica che tornerà a essere come prima (cioè meglio) sono sentimenti universali». Così, la riflessione dell’autore ci spinge a porci interrogativi sul significato intrinseco di “libertà”.

Tornando a Buzzati, c’è un punto fondamentale per capire questo rapporto innaturale instauratosi tra animali e uomini. Come nella favola gli orsi vengono «contagiati dall’atmosfera cittadina» (D. Buzzati, La famosa invasione degli orsi in Sicilia, Oscar Mondadori, 1980) indossando uniformi e mantelli, mangiando a più non posso, fumando sigari, dicendo parolacce e scommettendo soldi in bische clandestine, così anche gli orsi che vivono a Belitsa, involontariamente, sono stati corrotti dal mondo umano, in modo più realistico. Infatti, i dipendenti del parco non riescono a eliminare il pane dalla dieta degli animali, o ancora, i veterinari hanno notato che si ammalano e muoiono per le stesse patologie degli uomini (tumori, diabete, cirrosi epatica, cataratta). La morte è un altro tema in comune con la storia degli orsi in Sicilia, intesa in senso reale e figurato, ovvero come «decadenza, abbrutimento, come annullamento di un modo di vivere e di comportarsi. Una morte psicologica e spirituale, quindi» (La famosa invasione degli orsi in Sicilia – cit., p. XIV). Con molta probabilità, gli orsi del parco staranno meglio, si adegueranno alla nuova situazione, o riusciranno almeno ad arrivare alla fine della loro vita un po’ più in connessione con la natura, anche se il luogo in cui vivono «ha solo la parvenza della libertà», ha concluso tristemente il direttore Ivanov. Una parvenza data non solo dalle azioni dei dipendenti che accudiscono gli orsi giorno e notte, ma soprattutto dal fatto che, e di questo ne parlano malvolentieri e con imbarazzo, nonostante gli sforzi «quasi tutti gli orsi ancora oggi ballano». Alle volte basta che vedano l’ombra di un uomo o sentano un odore che li riporta con la mente alla vita precedente e allora si alzano sulle zampe posteriori e iniziano a fare tutto ciò che hanno sempre fatto per ottenere alcol, dolciumi e pane.


1.      Mondo umano

E se degli orsi si prende cura l’organizzazione Quattro Zampe, degli esseri umani chi si occupa? In questa storia degli orsi danzanti ci sono, infatti, anche dei risvolti ai quali nessuno ha pensato, ma che ci vengono indicati dal giornalista polacco. In primo luogo, ci sono gli abitanti di Belitsa, ai quali non va giù con quanta cura vengano trattati gli orsi e quanti soldi vengano spesi annualmente per il parco, nonostante non sia sovvenzionato dallo Stato ma da privati. Si sentono abbandonati nella loro personale transizione verso la libertà, tanto da arrivare a pronunciare frasi come «Mi dispiace di non essere nato orso». In secondo luogo, e qui si entra in un terreno minato, ci sono gli ex addestratori che, seppur pagati per lasciar andare via gli orsi, non hanno saputo reagire alla perdita. È simbolica la storia personale di Dimităr Stanev, ammalatosi subito dopo la partenza degli orsi e morto di nostalgia, nostalgia per il suo Mišo, come spiegano i famigliari a Szabłowski. Stanev non ha potuto consultare nessun medico né terapeuta, nessuno gli ha prescritto medicine per l’umore, ma, soprattutto, nessuno ha pensato alla difficoltà di dover trovare un nuovo lavoro quando per tutta la vita se n’è fatto solo uno, e che questo, per quanto si possa considerare barbaro, gli ha fatto instaurare un rapporto esclusivo con l’orso. Legame che, sicuramente, non siamo in grado di capire fino in fondo.

A separare le due parti del reportage vi sono alcune foto in bianco e nero degli addestratori con gli orsi particolarmente di impatto. Nella seconda parte si susseguono storie di nostalgici, caudatari, tour operator dell’orrore, sognatori, malfattori, esseri umani. Tutti parlano con Witold Szabłowski e hanno qualcosa da raccontare su come si viveva prima, su come si vive oggi. Ci sono gli uomini e le donne di Cuba, alcuni inneggiano a Fidel Castro e alla rivoluzione, altri sono più cauti e ammettono che «il comunismo non ha funzionato» ma, allo stesso tempo, non vogliono introdurre un capitalismo fast-food, anche se sull’isola c’è già chi si sta preparando a quest’apertura drastica al libero mercato. Ci sono gli abitanti di un villaggio in Polonia, Sierakowo Sławieńskie, che hanno deciso di reagire alla miseria e alla disoccupazione portate dalla transizione democratica degli anni ’90, creando il “Villaggio degli Hobbit”. Hanno sfidato i pregiudizi dei compaesani, forse anche i loro, e hanno deciso di travestirsi da personaggi di Tolkien per combattere la vergogna della povertà ed essere in qualche modo liberi di decidere del proprio presente.

A Londra, invece, vive, per ora, una signora di nome Alicja, nome d’arte Lady Binario, che va in giro per il mondo e dorme nelle stazioni in cui si ferma, pur essendo invalida dalla nascita. Lady Binario non si arrende all’ingiustizia sociale, nonostante l’età avanzata, arringa contro i potenti del mondo e contro l’occidente.  

C’è la storia di chi è ancorato al passato e non riesce ad andare avanti, come le donne che lavorano al Museo di Stalin a Gori, in Georgia. Queste «vestali», come le soprannomina il giornalista polacco, custodiscono la maschera mortuaria del leader sovietico, oltre ad alcune fotografie appese alle pareti e a una serie di oggetti suoi e della sua famiglia. Gli abitanti di Gori vivono sospesi in un tempo che non esiste più, se ne rendono conto, ma per alcuni il rimpianto del passato è più forte del richiamo del presente (e del futuro). Ognuno, a modo proprio, si sente in debito con Stalin: «Perché nella nostra cittadina non succede nient’altro. Se non fosse per il museo, sarebbe già morta da tempo […] noi qui, a parte il nostro Stalin, non abbiamo niente». Se da un lato ci sono cittadini con questo attaccamento morboso ai ricordi e al modo di pensare che “si stava meglio prima”, dall’altro c’è un intero Paese in rivolta per un domani più equo, senza crisi e magari senza capitalismo. Come in Grecia, culla della democrazia, gli abitanti non si sono ancora arresi e continuano a dimostrarlo con gli scioperi, le manifestazioni, le sommosse: «Perché non abbiamo inventato la democrazia affinché poi siano altri a decidere alle nostre spalle». Nel quartiere di Exarchia si riunisce la gioventù che sogna di cambiare il proprio Paese e il mondo intero.

Tra speranze e incertezze ci sono le storie degli albanesi che stanno ancora affrontando, da decenni, una lunghissima trasformazione politica, sociale, economica. A proposito, c’è un tempo limite entro il quale si può dedurre che la transizione democratica è terminata e da lì in avanti andrà tutto meglio? O ammettere che ha fallito? Perché questo limbo rischia di far impazzire anche le menti più sane. Ci sono anche le storie dei polacchi e degli ucraini che, nella totale precarietà delle loro società, hanno fiutato affari remunerativi, non del tutto legali, e che mentre trasportano macchine da un confine all’altro sperano che l’Ucraina entri il più tardi possibile nell’Unione Europea (attualmente, gennaio 2023, candidata a farne parte). Quelle dei serbi che hanno intravisto un business dove prima stavano solo orrore e dolore e hanno organizzato un macabro tour a Belgrado sulle tracce del «Boia dei Balcani», Radovan Karadžić, per il quale hanno scelto il nome di «Pop-art Radovan». Già, perché il politico serbo (che oggi si trova nel carcere britannico di massima sicurezza dell’Isola di Wight, a scontare l’ergastolo) ha trascorso tredici anni da latitante tra i bar, i ristoranti e gli ospedali della sua città d’adozione prima di essere arrestato nel 2008 per genocidio proprio a Belgrado … ricorda qualcosa?

C’è un’altra nicchia buia della storia, quella dove vivono i russi d’Estonia. Nella ex repubblica sovietica un abitante su tre è russofono, molti hanno la cittadinanza estone, alcuni quella russa, altri nessuna perché per la prima non hanno superato l’esame e la seconda non la vogliono. Il governo vorrebbe rispedire i russi (nati e/o cresciuti in diverse parti dell’Estonia) in Russia, la popolazione estone non li apprezza, e molti hanno perso il loro senso di appartenenza: l’Estonia non li vuole più o non li riconosce e in Russia non si sentono a casa. Una ricerca indica che dal 1991 il numero di suicidi tra la popolazione russa di Estonia è salito del quaranta per cento. Minimi dati per una situazione tesa e dolorosa di cui in pochi sono a conoscenza.

Infine, c’è una storia, un conflitto, possiamo farlo risalire alla fine degli anni ’90 ma realmente va avanti da secoli (potremmo andare indietro nel tempo fino al 1300), che si appiglia giornalmente ai dettagli per rinfocolarsi, è quello tra Serbia e Kosovo. L’ultima diatriba (per usare un termine cortese) è stata quella sulle targhe automobilistiche. In Kosovo vivono circa centomila persone di origine serba (su una popolazione di 1,8 milioni), molte delle quali posseggono una vettura con targa serba, risalente a prima della guerra del 1999. Ciò ha creato forti tensioni, finite anche sul tavolo dell’Unione Europea, e da poco conclusesi con una nuova Embrassons Nous. Così, mentre i governi attendono il prossimo particolare sgradito, la popolazione, automunita e non, cerca la propria strada, consapevole che arriverà un nuovo divieto, un nuovo cavillo, a ostacolare la loro libertà di movimento e di pensiero.

Witold Szabłowski ci ha donato un reportage incredibile, in cui reale, fantascientifico, assurdo, si mescolano per farci sorridere, arrabbiare, sbigottire; ma quello del giornalista polacco è soprattutto un modo per farci pensare o ripensare a cosa sia la libertà. A tal proposito, fa riflettere la voce “libertà” nel dizionario analogico della lingua italiana Garzanti, che colloca le parole in un ordine logico, secondo l’appartenenza a campi semantici: a questa sono legati una serie di sostantivi – indipendenza, affrancamento, autodeterminazione, libero arbitrio e altri – e una serie di azioni – essere padrone di sé stesso, appartenersi, liberarsi da una servitù, spezzare le catene e altre. La stessa catena legata alla holka che gli orsi di Belitsa non sono riusciti a spezzare perché mai nessuno gli aveva spiegato che quella non era libertà. Un termine che, in tutta l’opera di Szabłowski, compare cinquantasette volte e nonostante tutto sembra così inafferrabile, sfuggente, ma, allo stesso tempo, appare così evidente come questo abbia un peso differente a seconda del luogo e del tempo in cui si nasce e si vive. Quindi, cos’è per ognuno di noi questa libertà? E per gli altri? Mi risuona in testa una frase, non riesco a ricordare se l’ho letta da qualche parte, sentita o solamente sognata: «Libertà, è una parola gettata al vento, è un portento, altro non è che la nostra dignità».

Memorie dell’effimero. Su Cere perse di Gesualdo Bufalino


di Roberto Galofaro

Dentro la raccolta di articoli Cere perse, e fin dal titolo, con la sua allusione al fuggevole passaggio della cera destinata a sciogliersi per lasciare posto nello stampo al ben più duraturo bronzo, si percepisce netto l’affascinante paradosso della scrittura barocca e senza tempo di Gesualdo Bufalino nel cimento con il fuggevole e il quotidiano. Qui sta buona parte della bellezza di questa antologia: nel corto circuito che si crea tra una lingua che aspira all’eterno e l’effimero dell’elzeviro.
Originariamente pubblicata da Sellerio, la raccolta è stata recentemente riportata in libreria da Bompiani, con una introduzione di Piero Melati. Tutti i pezzi erano stati pubblicati su giornali e riviste (il Giornale, L’Espresso, Tuttolibri, Corriere della Sera, Il Giornale di Sicilia) tra il 1982 e il 1985. Per collocarli rapidamente nella cronologia dell’autore, sono gli anni immediatamente successivi al clamoroso esordio con la Diceria dell’untore, uscito nel 1981 per Sellerio, dietro le insistenze dell’editrice Elvira e dell’amico Leonardo Sciascia, che lo avevano “scoperto” grazie a una forbita introduzione per libro di fotografie di fine Ottocento Comiso ieri. Dopo la consacrazione del Campiello, attingendo verosimilmente a carte accumulate nel tempo, nel 1982 Bufalino dà alle stampe anche la raccolta di poesie L’amaro miele, i bozzetti di paese di Museo d’ombre, un Dizionario dei personaggi di romanzo: basta questo a sottolineare la molteplicità di temi e di interessi che animavano lo scrittore di Comiso, una molteplicità che si ritrova anche in Cere perse.
Il sapore della prosa bufaliniana, qui come nelle sue opere narrative, è nel costante movimento tra il piano del minuscolo dettaglio e quello dell’astrazione filosofica, è dunque intimamente barocca, ancor prima che per le colte ricercatezze dello stile, perché gemmata sopra il sublime dell’infinitamente piccolo. Molte sono le recensioni, c’è molto Sciascia, c’è la Sicilia dei proverbi: si scopre che il barocco non è solo marmi e stucchi, vien da dire, ma carne e intelletto e commercio con gli esseri umani.
Come scopriamo, ad esempio, leggendo ne Il Monocolo e Santa Lucia, a proposito del “Monocolo di Racalmuto” (ovvero il pittore manierista Pietro d’Asaro) che: «fosse la prudenza o l’orgoglio a impedirglielo, [d’Asaro] non accolse molte altre delle provocazioni della lezione del suo modello [Caravaggio]: non lo spaccarsi dell’oscurità alle urgenze della morte; non l’impaginazione dell’evento secondo tagli di slogata terribilezza; non gli stravolgimenti della gerarchia dei valori, per cui sul telone del gran cinema caravaggesco cavalli e beccamorti invadono l’occhio, usurpando la scena all’eroe o eroina protagonisti». Dove non si può fare a meno di provare stupore di fronte a quella spiegazione della potenza caravaggesca con un temerario e inedito accostamento di parole («slogata terribilezza»), così inaspettatamente nitido!
E proseguendo oltre in questo bel saggio del corposo stile bufaliniano, ne vediamo le ragioni: «Pietro d’Asaro era un eccellente pittore, ma abitava in una provincia profonda, e aveva famiglia, e cercava di cavare dalla sua fatica il sereno della vita; e, a parte il congenito difetto di umori tragici e sublimi, non avrebbe mai rischiato di farsi rifiutare, come al Merisi tante volte era successo, un’opera che signori o prelati gli avessero commissionata».
Uno dei pilastri della poetica di Bufalino è proprio la provincia. Lui stesso non si mosse praticamente mai da Comiso, se non per la breve avventura militare in Friuli e lo sbandato rientro e il ricovero per tisi che ne seguì. E anche nel leggere i suoi articoli non si dimentica, anzi: Bufalino stesso non dimentica, la dimensione circoscritta del paese da cui scrive, il fatto che la sua voce e la sua lettura provengano da un ambito ristretto e laterale del mondo letterario e culturale. A volte questo è solo un espediente per amplificare l’importanza della memoria, di quella memoria che nelle periferie dell’impero tenta disperatamente di conservarsi e di sopravvivere all’egemonia del progresso omologante.
Ed eccoci al tema della memoria, una costante in tutte le opere di Bufalino: «Memini ergo sum, mi piace ripetere. Cioè io sono perché ricordo, io sono quel che ricordo. […] è nel passato che io mi certifico e mi battezzo, identità e memoria fanno tutt’uno». Così leggiamo in Lanterna cieca. Dalla memoria, intendo proprio dalla sua memoria individuale prima che da un orizzonte collettivo, provengono molti degli spunti degli elzeviri raccolti in Cere perse. Come quando Bufalino racconta della sua rilettura di Manzoni o della vicenda oscura di Paul Morphy giocatore di scacchi (gioco di cui Bufalino era stato campione in gioventù); o quando elenca i suoi «privati cult-movies» (era anche un cinefilo indefesso e conservava, così confessa, un’agenda in cui appuntava ogni pellicola vista dandole un voto); o quando ricostruisce la ragnatela tessuta da Proust nella Recherche (che lui lesse in sanatorio, pescando i tomi alla rinfusa, in ordine rocambolesco). Che da un ricordo o da una riflessione personale nasca un articolo è certamente nella natura dell’elzeviro stesso, ma Bufalino non risparmia di pronunciare la parola “io”.
Ma c’è un altro dato, connesso a questo, che emerge con forza e in più di un articolo. Ed è la particolare postura di Bufalino: non quella di un critico giudicante ma quella di un lettore interessato a valutare e rapinare. Il recensore-scrittore diventa (e si racconta come) una sorta di ricettatore, impegnato a mostrare i diamanti che ha ricavato dai testi.
In Ostaggio dello spavento, Bufalino lo dichiara esplicitamente: «io sono tutt’altro che un critico, sono un lettore dilettante e febbrile, ai miei autori impongo e pago pedaggi, dichiaro guerre amorose». Dove, al netto della dichiarazione di modestia, si riconosce l’intenzione genuina che muove la sua penna: non il rigore clinico di una ricostruzione critica ma un’esplorazione razionale del dominio sentimentale (laddove lingua o figura suscitano un sentimento).
Parlando del rapporto tra Gide e Dostoevskij (in Gide lettore di Dostoevskij) emerge un’altra spigolatura della sua intenzione di lettore: «[…] uno scrittore, nell’atto in cui legge, dichiara, più o meno, una guerra d’amore e di rapina al libro che sta leggendo, e non smette di chiedersi sottovoce quanto in esso c’è da sottrarre e da restituire, e se alla fine egli dovrà sentirsene creditore, debitore, usurpatore».
C’è in questa influenza dell’io una non piccola porzione dell’interesse che suscitano ancora queste note. Non sono mai terze, non sono mai redazionali e fredde. Sempre vi si coglie la prospettiva dello scrittore appassionato, coinvolto, tutt’altro che distaccato.



Una storia vera, di Nicola Feninno

Edizioni Industria e Letteratura, porta il secondo volume della collana L’Invisibile, diretta da Martino Baldi, in libreria. L’invisibile è la collana che ospita testi brevi, ma non troppo, dedicando uno specifico luogo di lettura alle storie di media lunghezza che poco riconoscimento hanno nel panorama letterario. Il racconto lungo è una dimensione interessante, invece, che offre margini di sperimentazione, narrazione e sensibilità specifici, in grado di spaziare in modo efficace e convincente sia nelle esigenze degli autori che in quelle del lettore. Dopo l’esordio della collana con Cittadino Cane di Giordano Meacci, il 12 maggio sarà in libreria Una storia vera, di Nicola Feninno. Si tratta del racconto di un evento poco conosciuto della Seconda Guerra Mondiale, accaduto nella cittadina di Castelnuovo al Volturno, in provincia di Isernia: nell’estate del 1944 gli americani la utilizzano come set per un cinegiornale di propaganda, inscenando degli scontri a fuoco per le strette vie del paese con dei figuranti travestiti da nazisti e, infine, anche con un bombardamento, ripreso dal cielo. Questo episodio è l’espediente che serve all’autore per addentrarsi nel groviglio insidioso e perturbante dei meccanismi della narrazione, per chiedersi cosa accade a una storia quando deve attraversare il tempo, le tradizioni di un luogo, i traumi di una società. Cosa resta di vero. Cosa fanno gli esseri umani alla propria storia. Feninno ci restituisce un evento dimenticato riportando a galla, però, anche gli interrogativi del presente, cercando attraverso il gioco della scrittura qualche barlume di verità. La sua scrittura è di una fascinanzione rara: ipnotica, assertiva, senza ammiccamenti e scorciatoie, in cui idioletto, discorso indiretto libero e registro dialogico, si mescolano a momenti di visionaria, istintiva poesia. Una sorta di Pedro Pàramo italiano, contemporaneo e più maldestro, in cui, però, il rimbombo della guerra, il frastuono del terremoto, gli echi ancestrali di riti popolari, ancorano il racconto alla concretezza della realtà più misera, abbandonandosi, talvolta, all’incantamento del sogno.

Cattedrale vi propone un’anteprima del testo, pubblicando un estratto dell’incipit, per gentile concessione dell’editore.

I

Stavamo a camminare sulla mulattiera. Clic. Statti fermo, mi dice Leonardo Rufo. Io mi sono sudato tutto in un secondo. Lui s’avvicina, s’inginocchia, mi guarda con degli occhi che non gli avevo visto mai. Lo guardo pure io. Poi non lo guardo più, fisso l’aria tra me e lui, tengo la suola della scarpa sinistra piantata per terra, ma senza premere troppo. Resto così, il sudore mi tappa i buchi delle orecchie, sento che Leonardo Rufo, in ginocchio, pettina via il terreno intorno alla mia scarpa, piano, con le dita, continua a dirmi di stare fermo, poi di colpo si blocca. È una mina antiuomo. Tedesca. E mo’ come cazzo fa a sapere che è tedesca? Vedi che prima di saltare per aria l’ultima scena che mi porto dentro agli occhi è Leonardo Rufo in ginocchio che fa l’esperto di mine. Per qualche secondo se ne sta zitto e assorto. Poi mi dice che è troppo vecchia per esplodere, secondo lui, la mina. Dev’essere qua sotto da almeno settant’anni: ne è passata di pioggia, neve, grandine e siccità, bestie al pascolo, pure qualche turista ci avrà camminato sopra. E i terremoti: quello dell’Irpinia del 1980, poi quello del 1984, l’Aquila nel 2009, Amatrice nel 2016. L’involucro sarà danneggiato ormai, la carica esplosiva sarà tornata alla natura. Mi guarda di nuovo: un’altra volta uno sguardo che non avevo visto mai in faccia a Leonardo Rufo, amico mio dai tempi delle scuole elementari. Si rimette in piedi. Si allontana di una decina di passi. Poteva pure essere che quella mina era già esplosa, magari mo’ sottoterra è rimasto solo il dischetto d’acciaio del fondo, quello che ha fatto clic. Perché sopra, continua lui con un tono che si sforza di mantenere rassicurante, le mine tedesche tenevano i rilevatori della pressione, poi più sotto la linguetta di sicurezza, più sotto ancora le molle, e poi vabbuò, non lo ascolto più. Lui si allontana un altro paio di passi ancora. Si pulisce le ginocchia dei pantaloni. Mi sorride. Io faccio tre respiri lunghi, aspetto ancora un poco, alzo il piede. Clic. Non succede niente.
Vuoi un amaro? Una genziana?

Lui si chiama Andrea e questo episodio della mina che non è esplosa deve averlo raccontato parecchie volte. È il proprietario e il pizzaiolo dell’unico posto dove si può mangiare la sera, separato dal resto del paese dalla curva di una strada provinciale da cui non passa nessuno; quella da cui sono venuto io poche ore fa, prima di parcheggiare vicino al cimitero e ritirare le chiavi dell’appartamento che ho prenotato con Airbnb: l’unico alloggio disponibile qui a Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta a Volturno, provincia di Isernia, Molise; oggi ci vivono 237 persone secondo l’Istat, 62 di queste hanno più di 74 anni, 8 tra 0 e 4 anni, 3 sono analfabeti, 7 stranieri, la chiesa è dedicata all’Assunzione della Vergine Maria.


Sei qui per l’Uomo Cervo? Dico di sì. Mi sorride. Si allontana dal mio tavolo, torna verso il bancone, resta un po’ di farina nel punto in cui raccontava. Con me c’è Valeria, la nipote dei proprietari dell’appartamento in cui ho lasciato i bagagli, i signori Miniscalco. Deve avere all’incirca trentacinque anni, vive a Bologna, ha studiato Antropologia, è cresciuta qui a Castelnuovo e torna tutti gli anni per l’Uomo Cervo. Le propongo di uscire a fumare.

Andrea ci raggiunge con le genziane, l’aria è infida, le montagne qui intorno la raffreddano.
A far rinascere il Cervo è stato mio padre, dice. È nato qui nel 1952, si trasferì molto giovane a Milano, con mia madre, per lavorare alla Montedison; non stettero bene e se ne tornarono giù che tenevano ancora vent’anni. Poi ci fu il terremoto, non quello dell’Irpinia, che qui ha fatto poco danno, quell’altro, della primavera dell’84, un disastro, fu il 7 maggio. Ci dettero un container, pensa tu i casi della vita, il container stava proprio qui – indica il ghiaione di fronte a noi, che è il parcheggio del suo ristorante – a quel tempo era un campo da calcio. Sette anni siamo stati in quel container. Comunque, stavo a dire: quando mio padre se ne tornò da Milano, all’inizio degli anni Settanta, s’incontrò con Ernest che invece tornava dall’America. Si organizzarono e fecero rinascere il rito, che era morto con la guerra e con la distruzione del paese, che poi si svuotò nel dopoguerra: le poche persone rimaste, quasi tutte, se le pigliò il Nord. Nicola, dammi il numero tuo, domani ci vediamo in piazza alle undici e ti presento Ernest, mo’ ti faccio uno squillo.
Mentre salvo il suo numero in rubrica – ANDREA CASTELNUOVO – lui tira fuori dalla tasca dei pantaloni la locandina ripiegata del rito di quest’anno: c’è un tizio con delle corna da cervo piantate sopra un copricapo di pelo nero, indossa un vello nero, il volto è dipinto di nero, risaltano le sclere bianche degli occhi, sullo sfondo un cielo striato di nuvole tutto in scala di grigi.
Questo sono io – si indica, sorride – sono stato l’Uomo Cervo per otto anni di fila. Ti racconto una cosa. Qualche giorno dopo il mio primo rito, nel 2006, mi si avvicina Gianni Barilone, mi prende da parte e mi dice: oh, ma lo sai che mio nonno ha la costola incrinata? Mannaggia, mi dispiace, e come è successo? L’hai buttato tu nella fontana. Io? E quando? Quando facevi il Cervo. Gianni, ti giuro, non me lo ricordo, non mi sono accorto, ti giuro. Mi dispiace, gli dico, sto mortificato, perdonami, e ora il nonno sta bene?
Andrea ha dei tratti del viso fin troppo comuni, ti mette a tuo agio, ma senti che è anche altrove.
Mi devi credere, Nicò: la vestizione, il trucco in faccia, il copricapo con le corna, tutto questo mascheramento che ti calano addosso…credimi, non sei più tu. Corri nella piazza e urli in faccia a chi capita, una voce da bestia che non sapevi di avere, e non conosci manco più la gente, hai le luci piantate in faccia e non le vedi proprio le persone, le facce… È tutta un’altra cosa.

Grace Paley e la responsabilità del poeta



di Fabrizia Gagliardi

Si fa un gran parlare dell’eredità letteraria di un autore, alla rabdomantica ricerca di tracce stilistiche che fanno ben sperare nella letteratura contemporanea o, al contrario, che demoliscono, copiano o dimenticano il passato nel modo spavaldo che il nuovo ha di imporsi sul vecchio.
Ma chi santifica il passato con sentite ricorrenze, anniversari di vecchie morti e profili sentimentali, deve avere lucidità e lungimiranza tali da non sbordare in un mito post-mortem. Mi riferisco al modo con cui alcuni interpreti, lettori appassionati esperti e non, amplificano una vita a predestinazione, il cui placido andamento è scandito dal ritmo di incombenze nel momento opportuno, come se non fosse il risultato della trama impazzita di una vita e dei tentativi di farcela, come qualunque essere umano.
Si tratta di un trappola critica che non ha coinvolto Grace Paley, probabilmente per la capacità della sua voce di rimanere illibata e singolare. Considerata una delle grandi scrittrici di racconti del secolo scorso è spesso affiancata a Raymond Carver, Lucia Berlin, più recentemente a Amy Hempel, in modo più lontano a Joy Williams, per la vena realista che attraversa i suoi racconti. Dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta si ritrovò a domare un presente magmatico per creare un’àncora quotidiana senza mai intaccare l’ironia, senza mai tradire un anticonformismo radicato nel sangue, un ripudio dell’autorità prevaricatrice, e preservando i luoghi inviolabili, reali e sentimentali, della libertà.
Senza cadere nella trappola di critici fanatici è inevitabile riconoscere ora, in Grace Paley, un merito che, nel bene e nel male, ci fa dialogare con un passato che non avremmo mai voluto riconoscere ora, nel presente, oppure, in alternativa, che avremmo voluto leggere meglio.
Figlia di immigrati ucraini nasce a New York, vivrà la sua infanzia nel Bronx in un crogiolo di cultura tra immigrati dell’Europa dell’Est, afroamericani, italiani, portoricani, un coro di voci che sarebbe diventato protagonista delle sue storie e che spesso affiora nell’impegno politico e nella vita comunitaria caotica e intima, immersa in una città in continua evoluzione.
È proprio il senso di una collettività, mai indistinta, sempre emblematica nella sua diversità che fa emergere uno stile unico, in grado di cogliere indizi di vividezza lì dove l’opacità del quotidiano rende ciechi.
Sono soprattutto le donne a uscire dall’invisibilità, con alle spalle l’eco di un mondo di conflitti, tradimenti e prevaricazioni maschili, fino a diventare il soggetto prediletto visitato in tutte le fasi della vita. Piccoli contrattempi del vivere, raccolta di racconti del 1959, contenuta in Tutti i racconti (edito da Edizioni Sur con la traduzione di Isabella Zani), coglie le figure femminili nello sbocciare dell’esistenza. Che siano bambine già consapevoli di sentimenti amorosi profondi – come la ragazzina che s’innamora del marine in Una donna, giovane e vecchia – o madri, donne che si allontanano dalla giovinezza e dallo sbocciare del ventre per lavorare, crescere i figli, tutte si trovano al crocevia di ironia, dolore e determinazione che le allontana da figure maschili inconsistenti. Un minimo d’interesse, per esempio, è il racconto che si apre con un humor scettico e malinconico. In poche righe intuiamo la forza nascosta della protagonista:


Mio marito mi regalò una scopa per Natale. Non era giusto. Nessuno può convincermi che fosse un pensiero gentile. «Mi sto arruolando nell’esercito e non voglio che tu non abbia niente per Natale», disse. Gran bel regalo da dare a una donna che progettavi di non vedere più per un pezzo, con cui avevi dei figli e nel cui corpo entravi e uscivi quando ti pareva, ubriaco o sobrio, perfino prima di alzarti presto al mattino. Gli chiesi di aspettare una mezz’ora ad arruolarsi nell’esercito, così potevo fare la spesa.

 

Ci troviamo davanti personalità indomabili ma nessuna di queste reclama una vita fuori dall’ordinario. I personaggi sono colti nei momenti più banali dell’esistenza: fanno la spesa, accudiscono bambini, intrattengono discussioni irritate con i vicini, protestano e affrontano il poliziotto di quartiere. Per ritrarre sfaccettature così variopinte Grace Paley ha sfruttato il potere della forma breve e la capacità instancabile di saper osservare. «Abbiamo bisogno di immaginare la realtà. È su questo che crollano i nostri leader e noi stessi: dobbiamo riuscire a immaginare la vita di altre persone» dirà l’autrice in un discorso appassionato e non a caso la sua ricerca si concentra sull’incontro tra il verosimile e il reale. Grace Paley non aveva la pretesa di cambiare il mondo imponendo un moralismo tra le maglie della narrazione, ma credeva nel non dare per scontato il potere rivoluzionario di aprire gli occhi e rivolgerli al mondo. La cura di quello che si conosce è un concetto antitetico al desiderio di conoscenza stesso, di spingersi sempre oltre, di volere di più. La scrittrice indica continuamente la coscienza della cura ricordando che le cose che abbiamo accanto ogni giorno spariscono senza la capacità di stupirci, quando lo stupore dovrebbe essere una responsabilità.
Nei racconti delle raccolte successive come Enormi cambiamenti all’ultimo minuto e Quello stesso giorno virano gradualmente verso la riflessione della crescita, l’impegno politico, la responsabilità di ogni racconto e il susseguirsi della perdita.

 

 

Eppure è una lunga e incolmabile nostalgia di casa, questo sentire la mancanza di tempi giovanili. Mi sembrano un luogo mio da cui sono partita per sempre.

(tratto da Distanza)

 

Faceva bene a richiamare la mia attenzione sui suoi pericoli e sofferenze. Faceva bene a punzecchiare la mia natura responsabile. Ma anch’io avevo fatto bene a inventare per le mie amiche e i nostri figli un resoconto di queste morti private e della situazione dei nostri affetti più eterni.

(tratto da Amiche)

 

forse avevo la responsabilità di raccontare la storia nel modo più semplice, possibile, in modo, per così dire, da salvare qualche vita

(tratto da Debiti)




La scrittura funziona come una sfilza ininterrotta di fatti, intervallati da piccoli eventi fino a quando la disposizione della parole si trasforma in un suono singolare, un carattere, un significato affrontato nella musicalità contratta di una frase rivelatrice. L’essere tristemente umano avvolge i personaggi di un libero arbitrio che fa sparire una vera e propria struttura del racconto. La naturalezza del susseguirsi di tali epifanie quasi elimina l’autrice e la sensazione è di vivere in balia della convinzione che i luoghi comuni non possono esistere in un mondo così variegato.
«Tutti, veri o inventati, meritiamo una vita dal destino aperto» ammette la protagonista in Una conversazione con mio padre, una dichiarazione d’intenti, una teoria letteraria sostenuta dal paradosso di un personaggio di finzione. In effetti, nei racconti si respira una realtà mai avvertita prima, perché è difficile immaginare la fine di una sua storia, più semplice è pensare di intrecciarle tutte, su binari paralleli che seguono un corso mai predeterminato. Così come i finali aperti anche i protagonisti restano estranei, affascinanti nella loro complessità: possono essere irritati e felici allo stesso tempo, possono desiderare qualcosa che in futuro farà male, possono odiare e provare empatia.
Sullo sfondo New York rimpicciolisce, diventa i suoi quartieri, piccola e familiare. Qui Grace Paley distribuirà volantini agli angoli delle strade fino alla vecchiaia, di pari passo con un’esistenza che contemporaneamente prende vita su carta. Con la stessa disposizione d’animo con cui si lasciava trasportare dalle storie senza sapere dove portassero, così affronterà molti inizi e altrettanti adii. Faith Darwin, il suo alter-ego letterario, la seguirà per circa trent’anni, da quando perderà la madre molto presto a moglie che dovrà prendersi cura dei figli dopo essersi separata dal marito.
Attraversò gli anni Sessanta insegnando scrittura in college come la Columbia e la Syracuse University, a cinquant’anni si innamorò del poeta Robert Nichols e con lui conoscerà una realtà molto diversa da quella a cui era abituata: inizierà a frequentare la casa in campagna nel Vermont.
Spostarsi dalla velocità in continuo movimento della metropoli al tempo dei ritmi naturali non le fa pensare di colmare quel silenzio con parole o, come molti speravano, con un romanzo. La scrittura di Grace Paley si contrae ulteriormente tornando al suo primo amore: la poesia.

Le raccolte di Fedeltà (minimum fax, traduzione di Paolo Cognetti , Livia Brambilla, 2011) e Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta, da poco pubblicata da Edizioni Sur (con la traduzione di Paolo Cognetti e Isabella Zani), raccolgono componimenti di una consapevolezza nuova, uno sguardo dall’alto dell’esperienza sullo scorrere del tempo, la morte, la memoria, l’amore, l’amicizia e le visioni politiche.
Anche in pochi versi contratti permane uno sguardo narrativo, poche righe delineano una vicenda fulminea non lontana dalla percezione di un racconto compiuto, come leggiamo in È vero:

 

Tutti vogliono bene ai figli
anche il padre alla stazione ferroviaria
di Windsor Connecticut
che domattina starà sul giornale
nel rimorso alcolico di aver picchiato la sua bimba
fin sull’orlo rantolante della vita
in questo primo pomeriggio sta lì
con la figlioletta tra le braccia     dicendole
tra i baci eccolo il treno che arriva
senti che fischio e ora   guarda   guarda
quella signora nel finestrino ha visto quanto sei
bella   ci fa ciao con la mano

 

In Casa, qualche avvertenza, la cronaca cadenzata della manutenzione di una dimora nasconde il trascorrere di una vita intera con la cura degli affetti, lo sconvolgimento delle difficoltà, l’indifferenza della stanchezza. Le voci anonime di alcune storie in versi non sono poi così distanti dai protagonisti in prima persona che animavano i racconti. La poesia ha in fondo eliminato parti della narrazione che andavano in ogni caso non dette, come se rimozione di asperità avesse chiarito un’avvedutezza prima tagliente e ora più contemplativa.
In Come raccontare una storia (il mio metodo) (quasi sempre) la frustrazione di una poetessa si trasforma in una veloce lezione di scrittura che ci insegna per esempio come creare un personaggio, come indagare un’intimità straniera: «la narratrice aspetta/ la voce la gola/ è ancora chiusa aiuto/ aiuto griderebbe se potesse/ forse è terrorizzata da/ quelle arti l’invenzione e la/ memoria il calore della solitudine/ qual è la sua lingua? provare a/ radunare i bisbigli di sua madre? il modo che ha/ suo padre di innalzare una frase/ e poi tacitarla?»
Non è stanchezza quella che si avverte tra i versi che danno il titolo alla raccolta perché ne La sporadica alternativa della poetessa c’è la domanda senza risposta, il dubbio di ogni vita artistica di rimanere inascoltata: non era meglio fare una torta invece di «aspettare una settimana/ un anno una/ generazione perché si presenti/ il cliente giusto».
Ci sono molte domande nelle poesie di Grace Paley («esiste una letteratura che canti la scomparsa delle lingue madri?», «c’è differenza tra uomini e donne?», «non li hanno forse portati con e senza dignità i nostri padri e madri?») soprattutto in prospettiva di un mondo sconvolto da violenze. E se questa settimana, Volantino, Ora sono alcune poesie che travalicano i confini domestici e rivelano il potere di contenere complessità, piccole sfere di energia cinetica tenute nel palmo di chi è in grado di guardare oltre. Nell’impotenza di essere ascoltata da tutti Grace Paley ha infuso speranza in canti che oggi non sono mai stati così necessari.  

 

E se questo secolo non finisse
e se i serbi insistessero nella loro stizzosa egoistica collera
e i kosovari nel loro disperato riarmo
e gli hutu nella loro vendicativa rabbia massacratrice
e i mullah afghani armati dagli americani nella loro
devota
esclusione della vita gioiosa delle donne
e i possidenti del mondo nel loro terrificante e infinito
ritorno a ciò che non è legittimamente loro
e i più scuri nel bruciare di sdegno e orgoglio
di popolo
e gli americani nel loro intenzionale impoverimento del
Vietnam in modo da vincere la guerra persa
e i russi insistessero nel duro lavoro di rinuncia all’antica
cattiveria solo per essere cattivi come gli altri
e gli irlandesi si scordassero sulle arpe della storia
e i somali facessero e sfacessero clan
e i turchi nei loro soliti attacchi ai curdi
e gli iracheni nei loro soliti attacchi ai curdi

E se la mia amica non smettesse di dire avessi sei figli
li darei tutti
e se io urlassi orrore
e lei mi spiegasse l’idealistica spinta a sacrificare i figli
E se i trentasei giusti che anno dopo anno riparano
il mondo si sentissero venir meno
e implorassero quell’Uno di aumentarli di numero
e se dal cielo creatore del tempo non venisse risposta
né suono né interesse non un rifiuto d’un tratto
assenza
e se sparissero i bambini maschi e femmine bianchi e neri
nessuna madre nessun figlio.

 

E SE (QUESTA SETTIMANA)

 

Tradurre La moglie di Martin Guerre, di Janet Lewis

La moglie di Martin Guerre di Janet Lewis, è il recente testo pubblicato da Racconti Edizioni, nella collana Sacrafaggi, dedicata alla novella e al racconto lungo. Eva Allione, traduttrice del libro, ci regala una sua riflessione sull’esperienza e sul suo lavoro sulla scrittura di Lewis.

di Eva Allione

 «Ho fatto l’offerta per Lewis.»
È fine novembre quando ricevo l’email. Vorrei gridare di gioia ma mi freno. È presto, mi dico. Non sarebbe la prima volta che una traduzione promessa si arena sull’offerta. La moglie di Martin Guerre di Janet Lewis è una mia creazione. L’ho trovato, letto, amato, proposto; è piaciuto, si può fare, forse si farà: ma è troppo presto per l’euforia.
Comincio lo stesso a fantasticare: e se andasse in porto? Se andasse in porto sarebbe non solo la prima volta che propongo un libro e arrivo a tradurlo; sarebbe la prima volta che traduco qualcosa che ho amato prima da lettrice e solo in seguito da traduttrice. Sarebbe quel libro, quello che aspettavo da un pezzo: il libro da propinare al parentado, agli amici e al parentado degli amici. Perché Martin Guerre è un ibrido trasformista, un romanzo passe-partout. È la storia di una donna, ma non è women’s fiction (qualunque cosa voglia dire). È storico, ma non è di genere. È letterario, ma non è pretenzioso: se lo può leggere la zia del true crime e l’amico snob che legge solo classici. È troppo breve per stancare il lettore debole, troppo intenso e penetrante per annoiare quello forte. È fiction ma è una storia vera. È limpido ma imprevedibile. È denso ma non è un riassunto. Cerco da un sacco di tempo di tradurre un romanzo così. Ma è ancora presto per esultare.

È fine giugno quando firmo il contratto. Ho tre mesi pieni per meno di cento cartelle, è tutto il tempo del mondo e anche di più, è talmente tanto tempo che voglio provare un azzardo, un esperimento, un’idea vagheggiata e mai messa in atto. Tradurrò il romanzo come se fosse un racconto (vorrei tanto tradurre racconti ma l’occasione continua a sfuggirmi): prima lo leggerò attentamente, da capo a fondo. Cercherò tutte le parole che non conosco, cercherò quelle che credo di conoscere e anche quelle che conosco, per accertarmi che sia proprio vero che le conosco. Ascolterò rime e assonanze e le segnerò a penna per non smarrirle, scioglierò i nodi sintattici e rischiarerò le oscurità semantiche. Farò ricerche in francese (non so il francese) per assicurarmi di cogliere tutto, per illuminare del testo ogni nicchia, crepa e anfratto. Lo farò mio. Solo allora, e dico, solo allora, aprirò Word e comincerò a scrivere.

Non è la prima volta che ci provo. Perdersi nel testo inglese e dimenticare l’italiano è un piacere dolcissimo, almeno all’inizio: quando la consegna è lontana e ci si può abbandonare alle velleità, ci si può immaginare lettori e amanti platonici e scordare il lavoro sporco dietro l’angolo. Poi i giorni passano, si avverte la pressione, subentra anche un po’ di noia: ma che ci fai qui a un mese e mezzo dalla consegna a cincischiare sull’analogico? Dai, mettiti al lavoro, ché si fa tardi.
Ma con Martin Guerre è diverso. Sarà il languore dell’estate che quest’anno, per la prima volta da secoli, ho deciso di passare al mare; sarà il lavoro grosso e noioso che si è insinuato nel mentre e che ispira pensieri di fuga. Sarà che il lessico di Lewis mi è divenuto familiare, che nella sintassi vedo una trasparenza seducente, di quelle che promettono faville col minimo sforzo; fatto sta che in questa lettura attenta e dilatatissima mi ci trovo da dio e non ho nessuna fretta di finirla.

È l’11 settembre quando comincio a scrivere, mancano diciannove giorni alla consegna. Ho fatto i calcoli: un’ottantina di cartelle, dieci cartelle al giorno per otto giorni, ce la posso fare.
L’inizio è faticoso; l’inizio è sempre faticoso, ma le difficoltà di quest’incipit me le porterò dietro fino alla revisione. Dopo mesi in gradevole e placida compagnia del testo originale, a esplorarne la bellezza come un’amante in venerazione, sono costretta a rientrare nell’italiano e vedere se e come è ricreabile, questa bellezza.

 

Una mattina di gennaio del 1539, nel villaggio Artigues si celebrò un matrimonio. Quella sera i due bambini che erano convolati a nozze si misero a letto nella casa del padre dello sposo. Erano Bertrande de Rols, di undici anni, e Martine Guerre, della stessa età, entrambi eredi di famiglie contadine benestanti, antiche, tradizionali e fiere come tutte le casate feudali di Guascogna.

 

Mi accorgo quasi subito che le costruzioni sintattiche dell’inglese, robuste e precise come le avesse tracciate un ingegnere, in italiano sembrano gli scarabocchi di un bambino. La familiarità col lessico si trasforma in un piattume di ripetizioni. Il sinonimo che sembrava perfetto rivela un ironico retrogusto disneyano. L’ambivalenza dello «you» diventa una ridda senza soluzione. La nicchia, la crepa, l’anfratto accuratamente esplorati e illuminati non sono riproducibili; in compenso spuntano armadi a muro col triplo fondo segreto che m’erano sfuggiti.
Temo di non farcela, ma non c’è il tempo di andare nel panico.
Scrivo a testa bassa, non importa se viene male, se non sta in piedi, se ricalca l’inglese. Vado avanti. E a ogni pagina scritta, il peso, la paura, la fatica di questa traduzione sembrano farsi un poco più leggeri. Rinuncio alle geometrie dell’originale in nome della stabilità. Riscopro il «voi» universale (siamo o non siamo a ridosso del Medioevo, in una regione arretrata della Francia?). Mi rassegno all’ironia del sinonimo, e rammento a me stessa che c’è anche in originale. Godo della possibilità di usare qualche espressione un po’ retrò come «il Maligno» (quando mi ricapita?). Mi diverto a scansare le frasi dove Martin Guerre va alla guerra. Ci prendo gusto. E in qualche modo, con quest’atto di forza e di fiducia, vesto i panni che l’esperimento, a mia insaputa, mi imponeva di vestire: divento la scrittrice che in testa ha già tutto, deve solo trovare il modo di metterlo giù.

Finisco in tempo e ho l’ardire di prendermi un paio di giorni in più (editore comprensivo) per un’ultima rilettura. Rileggo con paura: temo, con questa scrittura impetuosa e istintiva, di aver devastato l’originale e di non trovarlo più. È con sommo sollievo che, invece, lo riconosco.
Quando riesco a vincere la riluttanza e lascio finalmente andare la traduzione, mi rendo conto che sarei felice di passare il resto della vita traducendo testi come questo, e traducendoli così.

È il 3 ottobre quando consegno, e sono di nuovo innamorata.

Le cose perdute di Judith Schalansky


di Debora Lambruschini

 

Come tutti i libri, anche questo è mosso dal desiderio di far sopravvivere qualcosa, di far rivivere il passato, rievocare le cose dimenticate, dare la parola a quelle ammutolite e rimpiangere quelle che abbiamo mancato di fare. Nulla può essere riportato indietro con la scrittura, ma tutto si può rendere esperibile.
(Inventario di alcune cose perdute, introduzione, p. 26)

 

Le intenzioni di Inventario di alcune cose perdute, di Judith Schalansky pubblicato da Nottetempo nel 2020 nella traduzione di Flavia Pantanella, sono ben applicabili all’intero universo letterario dell’autrice, già nota al pubblico per il suo Atlante tascabile delle isole remote (edito da Bompiani nel 2015, per la traduzione di Francesca Gabelli). Costruendo di volta in volta storie diverse, partendo da spunti nuovi, ogni testo di Schalansky dialoga con l’altro, in un’occorrenza di tematiche e stile che ben rendono l’idea di un continuum letterario.
Inventario di alcune cose perdute si apre con un’isola, quasi fosse la cinquantunesima di quelle terre remote esplorate con l’Atlante antecedente, ma sono molti i rimandi, talvolta evidenti come in questo caso altre più sottili, che creano un flusso ininterrotto tra i suoi libri. Continuo a usare il termine generico “libro”, procedendo sceglierò “storia”, perché mi paiono gli unici adatti a indicare Inventario di alcune cose perdute e il più recente Il blu non ti dona, sempre edito da Nottetempo; Schalansky rifugge le etichette e questi due testi si muovono tra i confini labili del racconto, del romanzo, del saggio, del memoir, creando un ibridismo di forma che risulta particolarmente affascinante ed efficace.
Inventario si compone di dodici storie, tutte della stessa lunghezza, precedute ognuna da brevi ritratti di cose appunto andate perdute: oggetti, luoghi, personaggi dimenticati, che forniscono lo spunto – non sempre immediato ed evidente – per l’invenzione letteraria. Isole sommerse, scheletri di unicorni, carmi d’amore, dipinti distrutti da un incendio, sono solo alcuni degli elementi perduti «per negligenza o distruzione mirata» che Schalansky tratteggia nel tentativo di salvare. Dodici elementi, quindi, dai quali sgorga l’invenzione letteraria, in un intreccio di storie reali o inventate, in cui la scrittura si fa di volta in volta diversa: la voce, il punto di vista mutevole in funzione di racconti realistici o fantastici, storie al confine con il saggio o, ancora, con il memoir. Una polifonia che arricchisce la narrazione, di cui solo qualche volta percepiamo la tecnica sovrastare la narrazione, nel complesso assai efficace. Schalansky si muove con destrezza, per esempio, fra l’invenzione di una Greta Garbo sul viale del tramonto, sola e fragile, e la ricostruzione del mito di Saffo fra stralci dei carmi e dati contraddittori.

 

Se ne stava lì col naso gocciolante. Il moccio che colava. E nessuno la fermava. Che tristezza! Non c’era nessuno che si occupasse di lei. Che le prestasse attenzione, la riconoscesse, l’aiutasse. Tutti passavano di corsa. Senza accorgersi di lei. Era solo una donna che rovistava nella borsa con le dita guantate.

(p. 105)

 

Occorrono diverse pagine per rendersi conto di chi sia, appunto, questa donna sola, sconcertata dall’indifferenza delle persone, che vaga senza meta in una città che non le presta più attenzione e quando infine scopriamo la sua identità, Greta Garbo, ci siamo forse resi conto che taluni aspetti, un certo grado di tristezza e solitudine, si posano allo stesso modo sulle persone comuni rimaste prive di affetti. E la vecchiaia, la decadenza del corpo, il non riconoscersi più negli sguardi degli altri, il rifiuto di trovare riflesso nello specchio un volto che non appartiene al ricordo, è l’idea di un’altra cosa perduta, la giovinezza, che nemmeno questo inventario potrà salvare.
E si trovano molte occorrenze fra i testi di Schalansky, in un dialogo ininterrotto. Fra questi, un luogo: il palazzo della Repubblica di Berlino, noto al tempo della DDR come la Casa del Popolo. Rovine, costruite su altre rovine. Le due Germanie unite, la decisione di smantellare quella costruzione contaminata dall’amianto, cancellando insieme anche il passato. Lo stesso luogo ritorna tra le pagine di Il blu non ti dona, la sua assenza, il mancato riconoscimento, la nostalgia, il ricordo. Sono in queste pagine frammenti che si intrecciano fra loro, Storia e invenzione letteraria si sovrappongono insieme ai piani temporali su cui l’autrice si muove: l’infanzia sulle coste del mar Baltico, le partenze, lo sgretolarsi dei rapporti, le ricerche, la ricostruzione, il desiderio di ricordare per non perdere. È, dei due, il libro più intimo e personale, che scava dentro la propria memoria, ma prende le distanze dall’autofiction e le sue derive recenti e autocentriche per farsi qualcosa di altro, assai più interessante, mentre realtà e invenzione s’intrecciano. Lo sguardo di Schalansky è concentrato all’esterno, su quei luoghi e oggetti della memoria, sulle storie che evocano, nel tentativo di salvarle. 

Ancora una volta il narratore si fa molteplice, si confonde dentro le storie, e i luoghi tornano protagonisti pieni di fascino e mistero, siano essi ambienti naturali o costruzioni dell’uomo, scomparsi, leggendari, mutati. Un’isola, poco lontano dalla costa ma ugualmente irraggiungibile:

 

La Oie esisteva solo in lontananza. Un segno per le navi e per le condizioni di visibilità del nonno. In realtà non era chiaro se la Oie esistesse per davvero.

Il nonno non aveva forse raccontato dell’esistenza delle fatemorgane, quelle oasi o isole che apparivano nell’arsura tremolante e si dissolvevano quando ti avvicinavi?

Magari anche la Oie era solo una fatamorgana e sarebbe scomparsa se mai qualcuno le si fosse avvicinato.

(Il blu non ti dona, p. 19)

 

La fascinazione per il mare e le sue leggende pervade ogni pagina: mare che è struggente bellezza, sostentamento, vita, ma anche distruzione, morte, tempesta, pericolo. Ed è intorno al mare che Schalansky costruisce questa storia, ogni frammento ne riverbera un altro, in una narrazione priva di plot ma in cui la rotta resta ugualmente chiara, in mezzo alle deviazioni date dal ricordo, dalle digressioni, cosicché anche la storia sommersa prende forma. Ogni personaggio, ogni racconto, reclama il proprio posto e in questa alternanza fra realtà e invenzione presto i due piani si confondono, le connotazioni formali perdono di importanza.
Ciò che conta, ancora una volta, è far sopravvivere qualcosa. Fare in modo che le cose perdute continuino a esistere attraverso le narrazioni, per farsi incantare dal mistero di un’isola irraggiungibile, di una città finita sommersa:

 

Al riverbero della torcia le pietre lampeggiavano nel buio come piccoli occhi, e non bisognava far altro che raccoglierle. Senza questo trucco era difficile scovarle tra i fili arricciati delle alghe verde bottiglia e quei pezzi di legno lucidissimi risalenti a chissà quale epoca. Magari uno di quelli era stato l’albero di una nave affondata, o l’asse di una zattera, oppure una trave del tetto della chiesa di Vineta.

(p. 111)

William T. Vollmann: scenografo di vite umane

di Fabrizia Gagliardi

«L’attesa del fallimento, e poi sentire addosso la tristezza e la realtà sincera dell’errore, mi aiuta a essere più presente nel mondo reale.» Lo afferma William T. Vollmann in un’intervista sul Tascabile, e immediatamente la sua immagine di autore postmoderno, degno erede di Tom Wolfe e Thomas Pynchon, fluttua riconoscibile nell’olimpo stilistico imponendo però un’identità che lo rende una creatura terrena. Non è una maledizione e neanche una punizione: l’incontro in prima persona con la realtà è la porta d’accesso alla conoscenza del mondo. Nelle opere di Vollmann tutta l’ironia, l’autoreferenzialità, l’accentramento pop e inconsapevolmente cieco del sentire americano, si annullano progressivamente con un processo d’ingenua scoperta simile a quello di un bambino.
Per averne un’idea basta leggere Storie dell’arcobaleno una raccolta di racconti e reportage pubblicata nel 1989, che minimum fax ha riportato in libreria, con la traduzione totalmente rivista di Cristiana Mennella, un ulteriore tassello dell’opera di recupero dell’autore americano da parte della casa editrice romana.
L’esergo che apre la raccolta è tratto da Berenice di Edagr Allan Poe e fornisce da subito le coordinate utili per orientarsi nel modo di sentire dell’autore: «Molteplice è l’infelicità. La sventura terrestre è multiforme. Sovrastando come l’arcobaleno la vastità dell’orizzonte, i suoi colori non sono meno vari dei colori dell’iride: altrettanto nitidi, e tuttavia altrettanto mescolati».
Nella San Francisco di fine anni Ottanta, fino all’antica Babilonia e in India, fiction e non-fiction si mescolano continuamente per restituire, con acutezza di sguardo ed empatia inedita, il ritratto di skinhead in declino, prostitute di quartieri malmessi, sovrani e condottieri della Bibbia. Sono tutte creature tragicamente umane avvolte da una verità che non risulta mai morbosa nella sua spietatezza. L’essere completamente senza filtri nella scrittura di Vollmann non si traduce in una mancanza di umanità o nella freddezza della deontologia professionale: tutta la distanza è colmata da una logica poetica narrativamente controllatissima.
Per comprenderlo basta iniziare da Lo spettro visibile che si apre con una serie di scene che si svolgono all’interno di un ospedale. Il destino dei pazienti è determinato dal colore della linea che li conduce al prossimo reparto. Lo spettro visibile non è altro che la luce percepita da tutti, il compito dell’autore sarà disperdere la gamma di colori attraverso il prisma della scrittura.
Come far coincidere l’identità fortuita di ogni testimonianza con l’astrattezza del colore? L'impronta stilistica di Vollmann sceglie due approcci: il primo è la contingenza dei corpi e delle ideologie, il secondo è l’uso di visioni al limite dell’allucinogeno che stabiliscono una corrispondenza simile a quella che si ravvede nell’Estasi di Santa Caterina: una teatralità sacra pervasa da carnalità erotica e ultraterreno in cui chi scruta il peccato riconosce, a sua volta, le proprie colpe.
La curiosità con cui si osserva un corpo è un’allucinazione bella e buona perché a raccontare la storia è la persona che lo abita. È disturbante pensare alla finitezza della carne, quasi offensivo per il vivente, una curiosità patologica che ha paura di scrutare il senza vita, il destino fortuito riassunto nella fatalità di un’amputazione, la distorsione di un osso, la lacerazione di tessuti. È disturbante pensare a un corpo senza le associazioni mentali che suscita perché rassicurano l'osservatore di poter avere un pre-giudizio. Dalle indagini di Vollmann non sembra così scontato e ne I cavalieri bianchi leggiamo del suo periodo di convivenza con degli skinhead del Tenderloin. Oltre alla chiara connotazione d’immagine dei neonazisti il resto dell’ideologia si disperde in tentativi di affermarsi non dissimili dalla frustrazione provata da chi è incastrato in una vita che non ha scelto:

Mentre gli altri sconfitti, lo storpio, il cieco che piroettava in strada tra le fiamme delle allucinazioni, tiravano avanti appoggiandosi alla pietà degli altri, gli skinhead trovavano forza dal loro isolamento e si autoincensavano fino a convincersi che le cose che sapevano fare erano le uniche da fare. Era la retorica dell’inevitabile declino, i loro corpi tesi sapevano di essere in decadenza, sapevano che la città era al tramonto e gli Skinz scrivevano disperatamente SF SKINZ in Sunset, Haight e Church e Duboce, a North Beach; era bello ma non serviva a niente.
Idee politiche a parte, non erano tanto diversi dai pendolari intrappolati sul tram che, in tenuta d’ufficio, si fissavano i piedi nervosi, e aspettavano, aspettavano, aspettavano.

In Signore e luci rosse l’ironica indicazione delle cifre spese per il tempo trascorso con le prostitute intervistate si alterna alla vita di strada e al rallentare del tempo quando lo scrittore si ritrova solo con loro.

Il giudizio di Vollman non comparirà mai, fagocitato dalle maglie della cronaca che, a una prima lettura, potrà sembrare un elenco sterile di avvenimenti messi uno accanto all’altro. In seguito questa accortezza farà percepire la vastità di un panorama composto da un abile scenografo di vite umane.

La tecnica di accostare la vicenda del singolo al coro dell’umanità e della storia è anche più efficace nei pezzi di reportage come ne Gli Ingegneri Indaco in cui il fanatismo ideologico del gruppo di performer dei Survival Research Laboratories è accostato alla vicenda di un amico polacco durante la seconda guerra mondiale.

Le parti più suggestive della raccolta sono costituite dalle descrizioni frammentate dei quartieri malfamati con i bar sudici, spacciatori e prostitute in ogni angolo, gang di skinhead che presiedono il territorio. La metropoli si tinge di un orrore e di un tipo di anomalia che stimola una curiosità al confine tra la perdizione e la comprensione.

Era una notte fredda e senza luna. Certe notti sono trasparenti proprio a causa del freddo, tanto che sembra di scorgere i freddi e vuoti spazi interstellari, finché lo sguardo non si spinge sempre più lontano e approda nell’aldilà nero e senza vita, e anche le stelle cominciano a sprofondare, come i primi fiocchi di neve invernali che atterrano sulla superficie di uno stagno nero non ancora ghiacciato, e i fiocchi di neve scendono sempre più giù, nell’acqua così torbida che nessuno sa se si scioglieranno o se raggiungeranno il fango putrido ai confini delle galassie. A Chinatown, però, il tramonto delle stelle era oscurato da luci più vicine e solitarie. I fari delle auto sfrecciavano verso North Beach come meteore addomesticate. Le gioiellerie e i ristoranti facevano luce con le insegne e le vetrine, suscitando gli appetiti di chi doveva essere sazio di comprare e di spendere, mentre i vagabondi si giravano dall’altra parte.
I lampioni splendevano imperiosi come puttane bionde a testa alta.

Non c’è uno scorcio che sia uguale all’altro e tutti contribuiscono a dare unità al luogo narrativo con una visione che riserva sempre qualche fascino nascosto. L’osservatore non è mosso da un sadico compiacimento e non ha un gusto particolare per la decadenza, ma entra nell’ottica che l’attenzione ai reietti negli angoli in cui nessuno guarda può individuare indizi di speranza («Niente è più bello del buio più oscuro» scriverà nella prefazione).
In un’altra recente intervista Vollmann ha affermato che la sfida è stata «ricercare una varietà all’interno di qualcosa di uniforme» perché «la nostra mente cosciente, per aiutarci ad andare avanti nella vita, crea delle categorie ben definite». L’obiettivo è di creare unità all’interno dell’eterogeneo e così anche i colori dell’arcobaleno, così diversi l’uno dall’altro, in fondo sono inevitabilmente uniti. In tredici racconti attraverseremo tutte le sfumature dello spettro visibile e ognuna avrà un significato preciso: il rosso per il sangue e la prostituzione, il giallo fino all’arancione per il mito e l’amore romantico, il verde per l’erotismo, il blu profondo per la spietatezza della morte.
Lo stesso narratore che ha descritto la sinuosità di un bisturi su un corpo durante un’autopsia, o gli occhi ingialliti di alcolizzati e le vene esauste di drogati prossimi alla morte, è in grado di trasportarci nei sentimenti più puri e sinceri in Rosa gialla. Tutto inizia dal fluttuare in un mondo alterato da funghi allucinogeni, fino ad approdare all’ingenuità di un amore per Jenny, la ragazza coreana quasi impossibile da conquistare per la differenza culturale.
Allo stesso modo rimarremo stranamente affascinati dalla purezza dell’ossessione del protagonista de Il vestito verde, il racconto dell’infatuazione del narratore per l’abito verde di una vicina di casa.
La comprensione profonda delle persone ai margini ha come conseguenza la consapevolezza di sapere poco dell’America e del modo di guardare americano e, infatti, Storie dell’arcobaleno è un’esperienza così determinante da convincere Vollmann a partire per l’Afghanistan durante l’invasione sovietica. Usando la non-fiction comporrà Afghanistan picture show. Ovvero, come ho salvato il mondo, l’esperienza diretta della resistenza dei mujaheddin dalla casa di un generale afghano in esilio.
Per oltre un decennio ha poi lavorato al ciclo di romanzi I sette sogni: un libro di paesaggi nordamericani che si concentra sul rapporto tra i colonizzatori e i conquistati tra Canada e Stati Uniti (di cui minimum fax ha pubblicato I fucili e La camicia di ghiaccio).
La sua produzione non si ferma qui e altre opere includono antologie di racconti sul viaggio come Tredici storie per tredici epitaffi; Storie della farfalla, un’esperienza fra Oriente e Occidente alla scoperta di turisti del sesso, perdizione e amore; e il romanzo Europe Central – che gli è valso il National Book Award nel 2005 – che descrive una miriade di personaggi coinvolti nella guerra tra Germania e Unione Sovietica durante la seconda guerra mondiale.
Una curiosità torrenziale continua a fargli concepire lavori mastodontici sempre curati minuziosamente in cui si percepisce una lenta metamorfosi di stile: se prima l’immaginazione giocava sulla spettacolarità visiva mano a mano si sposta sull’attenzione alla struttura narrativa.
Imperial del 2009 è un saggio di oltre 1.300 pagine che racconta l’omonima contea californiana al confine col Messico, mentre i volumi No Immediate Danger: Volume One of Carbon Ideologies (2018) e No Good Alternative: Volume Two of Carbon Ideologies (2018), di circa 600 pagine ciascuno, sono stati definiti l’Infinite Jest del cambiamento climatico.
La natura misantropa di Vollmann non gli ha impedito di continuare a produrre rimanendo fedele a se stesso. Ne La fine della fine della terra Jonathan Franzen gli dedicherà un piccolo saggio sull’amicizia e, oltre a riconoscerne la statura letteraria paragonandolo a Dickens e Balzac, si lascerà andare a un elogio sullo stile che riassume alla perfezione la vita artistica: «Anche lui è pieno del tipico disprezzo americano per l’autorità, intraprende vasti progetti, e ogni tanto fa fiasco. Quella che è diventata la sua forma caratteristica – passaggi relativamente brevi, organizzati secondo una logica più poetica che narrativa, con titoli elusivi o ironici – rispecchia il suo modo di affrontare argomenti che la maggior parte degli scrittori troverebbe troppo enormi da trattare: nebulizzandosi e disseminando nel vento le proprie percezioni. Sembra che non ci sia nulla che non gli interessi».

La cicala di Belgrado, di Marina Lalović

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di Giordana Restifo

«Raccontare un’unica storia crea stereotipi.
E il problema degli stereotipi
non è tanto che sono falsi,
ma che sono incompleti.
Trasformano una storia in un’unica storia
».

Chimamanda Ngozi Adichie

 

Con queste parole si è espressa Chimamanda Ngozi Adichie durante la sua prima conferenza TED Talk, The Danger of a Single Story, nel 2009, cui si rifà il volume Il pericolo di un’unica storia, edito nel 2020 da Giulio Einaudi Editore. Un rischio, quello di affrontare la storia e le vicende di un paese, di un popolo, da un unico punto di vista, scadendo in stereotipi e pregiudizi, che ho corso in questi anni. La cosa più grave è che, senza rendermene conto, ci sono cascata anche io, ho creduto all’unica storia; nello specifico a quella sui serbi, che ho sempre considerato come aggressori e nazionalisti. Non posso negare di aver continuato a sguazzare nelle mie credenze fino a qualche settimana fa, quando mio padre, storico, mi ha regalato La cicala di Belgrado di Marina Lalović, pubblicato nel 2021 da Bottega Errante Edizioni (BEE). Leggendolo mi sono tornati in mente quel turbamento e quella sensazione di vergogna provati dalla scrittrice nigeriana nello scoprire che i messicani non erano come li descrivevano il governo e i media americani: «Ricordo il mio primo giorno a passeggio per Guadalajara. Osservavo la gente che andava al lavoro, che preparava tortillas al mercato, che fumava e rideva. Ricordo di aver provato, all’inizio una leggera sorpresa seguita da un moto di vergogna. Mi sono resa conto di essere stata talmente immersa nella narrazione mediatica sui messicani, che nella mia mente erano diventati soltanto una cosa: l’abietto immigrato. Avevo abboccato. Avevo creduto all’unica storia sui messicani, e non avrei potuto provare più vergogna di me stessa». Con questo sentimento è iniziato il viaggio alla scoperta di un popolo rivelatosi ai miei occhi fragile, confuso dagli avvenimenti della storia, alla disperata ricerca di una “normalità”, che si è anche ribellato al proprio “padre-padrone”, Slobodan Milosevic.

Il testo di Marina Lalović è stato inserito nella collana di BEE Le città invisibili, che raccoglie scritti di giornalisti, studiosi, autori, sulle parti meno conosciute di determinate città, battendo itinerari non propriamente turistici. All’interno di questi tascabili si trovano le illustrazioni di Elisabetta Damiani, che si occupa anche delle copertine.
L’autrice, insieme alla migliore amica Kristina, ci accompagna alla scoperta di Belgrado in una lunga passeggiata (della durata di circa 35 anni!), attraversando quartieri, epoche e cambiamenti sociali fondamentali. È impossibile, infatti, percorrere le strade della capitale serba senza notare gli stravolgimenti che hanno caratterizzato gli anni ’80 e ’90 del paese, per poi arrivare agli interrogativi del XXI secolo sulla propria identità.


Un’agognata “normalità” 

La cicala di Belgrado inizia con una partenza, quella dell’autrice che, nel 2000, ha lasciato la propria città “sul più bello”, come molti dei suoi amici e parenti le hanno ripetuto negli anni. Ovvero quando il lungo regime di Milosevic stava per cadere e si prospettava, questa era la speranza di molti serbi, una nuova fase storica. Subito dopo le elezioni del settembre 2000, alle quali Lalović e i suoi amici, appena maggiorenni, avevano partecipato per la prima volta, che avrebbero segnato (a seguito di manifestazioni e proteste) la destituzione dell’ex presidente serbo, si è trasferita in Italia, «quando, dopo un decennio di buio nei Balcani, finalmente si vedeva la fine di un politico e di un’epoca. Allora partivo perché sapevo che per vedere quella luce ci sarebbero voluti diversi anni». L’autrice non ha desistito, nonostante le difficoltà per ottenere il visto studio, imparare e comprendere una nuova lingua. Non solo questioni pratiche, anche la paura per il futuro e la nostalgia per ciò che si sta abbandonando, hanno giocato un ruolo fondamentale, perché «prima di diventare immigrato, sei un emigrato. Prima di arrivare in un paese, hai dovuto abbandonarne un altro, e i sentimenti di una persona verso la terra che ha abbandonato non sono mai semplici. Se si è partiti, si sono abbandonate delle cose: la repressione, l’insicurezza, la povertà, la mancanza di orizzonti. Ma è frequente che tale rifiuto si accompagni a un senso di colpa» (in questo passaggio Marina Lalović riporta le affermazioni di Amin Maalouf).
Per tenere a bada quel senso di colpa arriva con il pullman in Piazza Partigiani a Perugia carica di foto, oggetti e vestiti che le riportino subito alla memoria la casa appena lasciata.

Durante gli anni passati nel capoluogo umbro la studentessa serba, che ha frequentato l’Università per Stranieri, si è scontrata più volte con le proprie origini. Ha conosciuto ragazzi e ragazze provenienti dal Montenegro, dalla Croazia, dalla Bosnia, dal Kosovo; con loro ha scoperto la “jugosfera”, ha costruito tanti rapporti anche se non è stato sempre facile a causa della diffidenza nei confronti di chi proviene dalla Serbia. Trovarsi a chilometri di distanza dalla ex Jugoslavia, in territorio neutro, ha aiutato, ma gli stereotipi e la percezione di chi ti vede sempre come cittadino di un paese nemico, come invasore, sono stati duri da affrontare:  

In Italia la mia provenienza doveva essere sempre accompagnata da una contestualizzazione: dalla spiegazione che io non ero nazionalista, che stavo in Italia proprio perché il nazionalismo lo detestavo, che i miei amici e i miei genitori avevano passato gli anni a protestare contro il regime. Questo era l’indispensabile preludio a tutte le nuove conoscenze che esigevano la conferma che fossi “normale” e non una minaccia.

 

Negli anni ho conosciuto brillanti architetti, donne e uomini, serbi; non ho mai avuto il coraggio di chiedere loro cosa pensassero, che ricordi avessero di quegli anni tumultuosi, per paura che le risposte fossero solo una conferma dei pregiudizi che avevo. Abbiamo sempre parlato di Belgrado, di street art, di cibo tipico, di vacanze. «Vorremmo andare in Montenegro prossimamente» ho detto in una sera di settembre mentre ci trovavamo in un locale della zona di Cetinjska a uno di loro, «eh sì, il Montenegro è molto bello, d’altronde è tutta Serbia». Una frase. Una sensazione. Sono bastate per confermarmi quell’unica storia. Eppure leggendo La Cicala di Belgrado ho compreso quanto anche i serbi abbiano sofferto. Non era facile rendersi conto di ciò che stava accadendo attorno al proprio paese:

Vivere succubi di un regime; conoscere la parola embargo a dodici anni e l’inflazione galoppante con quantità enormi di banconote stampate, dai numeri impossibili da leggere perché contenevano innumerevoli zeri, prive di valore e usate per addobbare gli alberi di Natale; le code davanti ai negozi perché vigeva il razionamento del cibo; le restrizioni all’elettricità, all’acqua e poi il suono dei fischietti per le strade di quelli che dal 1996 si opponevano al regime. Gli anni Novanta erano tutto questo. All’inflazione galoppante e all’embargo si aggiungevano le frontiere chiuse, i visti, il regime, il turbo-folk, gli eroi di guerra, il nazionalismo, le proteste dal ’96 al ’98, gli scontri con la polizia [inoltre, la propaganda dettata attraverso la tv e la radio debilitava ancor più le menti]. Il lavoro non c’era ed essere licenziati era una cosa ordinaria. Un isterismo costante. Una vita sospesa e vissuta nella completa inconsapevolezza di ciò che succedeva nelle altre ex repubbliche jugoslave: la guerra, l’assedio, il genocidio.

Questa insicurezza ha spinto la gente alla ricerca smodata di una banale normalità, necessaria anche per la «sopravvivenza mentale». Durante le ore che precedevano il coprifuoco, l’autrice andava in bicicletta con l’amica Kristina alla scoperta della città; la popolazione esprimeva il proprio desiderio di vivere organizzando feste e spettacoli nei teatri nelle ore diurne. Quando ciò che la capitale aveva da offrire non è più bastato, i belgradesi, soprattutto i giovani, hanno cercato questa agognata normalità all’estero, tanto che, come scrive Lalović, negli ultimi venticinque anni la sua città natale ha vissuto una vera e propria emorragia demografica.


Le cose che abbiamo in comune

Potremo studiare, leggere, ascoltare i racconti e sforzarci di immedesimarci, ma noi europei, nati dagli anni ’80 in poi, non potremo mai comprendere fino in fondo cosa significhi vivere succubi di un regime, durante una guerra. Il “nostro mondo” e il “loro mondo”, quello dei paesi della ex Jugoslavia, sono sempre apparsi, agli occhi di molti, distanti e diversi. Eppure non immaginano gli italiani quanti aspetti abbiamo in comune con la società serba. C’è un capitolo, “La corrente ammazza”, nell’opera di Marina Lalović che mi ha fatto pensare ai nostri riti scaramantici, alle nostre superstizioni.

  •  La porta e le finestre non devono mai rimanere aperte contemporaneamente, la nonna dell’autrice le ripeteva di continuo «promaja ubija», la corrente ammazza, appunto.

  •  Evitare di sedersi all’angolo del tavolo (il rischio è di non sposarsi mai).

  •  Percorrere sempre la stessa strada.

  •  Evitare le fughe tra una mattonella e l’altra sul marciapiede. Portare con sé in viaggio immaginette sacre della Madonna o di qualche Santo.


Ci ricorda qualcosa?

Non solo fede, fobie, credenze popolari, vi è un anche un altro aspetto che potrebbe essere familiare, una pratica che in Serbia è conosciuta come gluvarenje (perdigiorno).  

Il tempo libero a Belgrado ha una durata particolare. Nei giorni delle più svariate crisi i bar erano sempre pieni. Anche nei momenti in cui la busta paga mensile ammontava a due marchi tedeschi, la gente andava a prendersi un caffè e a chiacchierare. Il rito del caffè rivela che il tempo può scorrere diversamente rispetto al luogo dove si consuma. Quando una persona ti invita al bar a Belgrado solitamente ci si aspetta di passare almeno una o due ore assieme a chiacchierare.


Dai bar si passa alle Kafane, trattorie tipiche che riempivano la città, nelle quali non si andava solo per mangiare ma avevano uno specifico valore sociale, culturale, politico ed economico. Con il tempo molte città sono scomparse, alcune si sono modernizzate per aprirsi anche al turismo. In altre, invece, è ancora possibile ascoltare le vecchie canzoni della tradizione, essere accolti da nuvole di fumo (a Belgrado finora non è entrato in vigore il divieto di fumare nei locali) e da gente che urla, e, soprattutto, uscire con addosso un forte odore di rakija (immancabile la bevanda più popolare dei paesi balcanici).

 

Topografia, architettura. Tutto si trasforma per non cambiare

Attraverso la lunga passeggiata di Marina Lalović si percepisce la trasformazione, avvenuta negli anni, della gente, della moda, della topografia e della morfologia dei quartieri. «A Belgrado», spiega l’autrice, «abbattono e costruiscono palazzi ogni sei mesi e Vračar è il punto di riferimento di questi cambiamenti repentini. Gli stili architettonici si schiaffeggiano ed è facile passare dall’imitazione del barocco al modernismo sfrenato».
Come se abbattere e costruire fosse il metro di paragone per dimostrare una modernità incalzante. Toza Vlajković, la cicala del quartiere Čubura, conserva solo dentro di sé ciò che è stato il suo quartiere, perché guardandosi attorno non ne riconosce affatto lo spirito, la gente che ci vive è soffocata dai palazzi, da quelle parti ci sono «morti viventi che camminano: vittime del neoliberismo forzato». Per il vecchio romanziere «Belgrado è la città delle distruzioni e degli sconfitti».
Da qualche anno, poi, c’è un acceso dibattito sul gigantesco progetto urbanistico Belgrade Waterfront, la Belgrado sull’acqua, che sta nascendo sulle sponde del fiume Sava. La popolazione si è nuovamente spaccata in due fazioni: da un lato i prezzi inaccessibili degli appartamenti e le famiglie sfrattate dalle proprie case storiche per fare posto ai palazzi, agli hotel e ai centri commerciali; dall’altro la creazione di posti di lavoro e un aspetto più contemporaneo della città.
Non è bastato modificare la forma urbis per cambiare la percezione di molti belgradesi: «Dopo ogni periodo tormentato anche la topografia della città cambia. Il mero cambiamento dei nomi delle strade non ha regolato i conti con il passato e non ha portato giustizia all’ingiustizia storica». Purtroppo non è sufficiente trasformare tutto per cambiare la storia; i vecchi attriti, le questioni non risolte, per quanto sepolte da colate di cemento, rimangono sopite là sotto, pronte a esplodere se innescate.
C’è un altro suggerimento di Chimamanda Ngozi Adichie, di cui potremmo e dovremmo fare tesoro: «Le storie sono importanti. Molte storie sono importanti. Le storie sono state usate per espropriare e per diffamare. Ma le storie si possono usare anche per dare forza e umanizzare. Le storie possono spezzare la dignità di un popolo. Ma le storie possono anche riparare quella dignità spezzata».

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Io sarò il rovo, di Francesca Matteoni

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di Anna Lo Piano

(Le fiabe) sono, prese tutte insieme, nella loro ripetuta e varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita,(…) il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo o a una donna, soprattutto per la parte di vita che è il farsi di un destino…

 Italo Calvino, Prefazione a “Fiabe Italiane”

 

 

C’era una volta un bosco. Si apre con la formula delle fiabe il primo racconto della raccolta “Io sarò il rovo” di Francesca Matteoni, edito da Effequ. E delle fiabe questi racconti hanno il ritmo, le ripetizioni, gli schemi.
Sono però favole moderne, e non perché parlino di tecnologia o contesti urbani. Al contrario, non ne parlano affatto. La loro modernità è nello svolgere oggi il compito antico delle storie, che è quello di aiutare gli esseri umani a orientarsi nel caos del mondo, ad accettare la propria esistenza e darle un senso. Per farlo ricorrono al simbolo, che è capace di irradiare significati, di accedere a livelli remoti della coscienza, di intrecciare un dialogo con la nostra memoria, con le paure e i desideri.
I temi sono quelli eterni dell’amore, della ferita, del riscatto, eppure si sente a ogni pagina la ricerca di risposte allo sgomento che viviamo qui e ora come abitanti di questa strana epoca, ai nostri dubbi sul futuro, alla messa in discussione dei concetti di identità e confine, ai nuovi significati da dare alle parole solitudine e intimità. Ma prima di ogni cosa si sente la volontà di risanare la ferita che abbiamo inferto alla Terra.
Se la fiaba tradizionale parte da un’assenza – per perdita o desiderio – che è così feroce da indurre il/la protagonista ad abbandonare la propria casa per mettersi in viaggio, nel racconto che apre la raccolta è un bosco intero a muoversi per andare alla ricerca del torrente scomparso, risucchiato dalla terra per fare spazio alle strade degli esseri umani. Di fronte all’escissione di una parte di sé il bosco insorge, si sveglia da un lungo sonno, recupera una lingua comune, e parte per il proprio viaggio come un organismo complesso, capace di essere allo stesso tempo unico e molteplice:

 

“Zampe, piume, pellicce, code, spine, bacche, petali, rami – si intrecciarono camminando, viaggiarono per le colline. Ogni tanto si univa un animale, una pianta vagabonda”

 

È chiaro fin dall’inizio che in questo mondo “il catalogo dei destini che posso darsi a un uomo o a una donna”, per usare le parole di Calvino, non può essere disgiunto da quello delle altre creature, e che lo stesso concetto di essere vivente va esteso a ciò che solo apparentemente risulta inanimato, perché rocce e terra e acqua sono anch’essi vivi.

Casualmente - o forse no - il mio primo contatto con la scrittura di Francesca Matteoni è avvenuto grazie alla condivisione su Facebook di un suo articolo su Nazione Indiana in cui recensiva Antropologia del turchese di Ellen Meloy. Può sembrare strano citare un modo così traverso di avvicinarsi a un’autrice, ma in quell’articolo mi avevano colpito una particolare sensibilità, un uso poetico del linguaggio, un modo gentile di entrare nelle parole dell’altra, di trovare una corrispondenza con il proprio orizzonte di riferimento, tanto che avevo comprato subito il libro e salvato l’articolo. Soprattutto c’erano una riflessione sul paesaggio non come qualcosa da guardare o che ci guarda, ma qualcosa che “coopera, ci mette alla prova, si stanca o si prende gioco di noi”, e un’idea di terra - deserto, sabbia, colori - come presenza in grado di entrare in relazione con chi la abita, che si compone delle loro memorie, e stabilisce legami con altri luoghi.
Anche in “Io sarò il rovo” molti racconti hanno a che fare con la memoria, con il ritorno a una casa attraverso porte nascoste e oggetti del passato. “Sapevo la via come si sa il corpo in cui si cresce” dice la protagonista di Lamponaia tornando al luogo della sua infanzia. E ancora

“La pelle robusta degli anni cade quando si viaggia nel luogo d’origine: dev’essere per quelle spine che trovano sempre la via al sangue, anche se ci hanno punto molte stagioni prima”.

Ma il ritorno a sé implica anche una perdita più o meno consapevole della strada maestra, una deviazione, un’erranza. Laura Pugno, un’autrice che Matteoni cita spesso, in un libretto edito da Nottetempo che si chiama “In territorio selvaggio” si interroga sulla differenza fra letteratura giardino, che conforta, e letteratura bosco, che è perdersi, fare esperienza, cercare l’oltre. E l’oltre è proprio quello che cerca Ovest, il pellegrino, uno degli erranti di questi racconti:

 

«Cerco l’oltre». Rispose Ovest, muovendo una fulgida coda volpina. «Cerco il corpo slacciato dalla mente, che non sia più tormentato dai dubbi e dalle paure. Cerco l’ebbrezza».

 

Il tema del viaggio, dell’erranza, è presente fin dall’indice del libro, disegnato con tratto sottile in forma di mappa. Un indice che ti innamora fin dall’inizio e fa da viatico tra i racconti, dai monti fino alla valle, per fermarsi su una riva e procedere alla Discesa finale. In un percorso inverso ai viaggi di ascensione che ricercano la verticalità e l’incontro con il cielo, con lo spirituale, qui si parte dall’alto per calarsi nei rovi, nella terra, negli abissi marini.

“Ci sono molti modi per perdersi, ma uno solo per tornare” dice l’Eremita a Ovest, che si lamenta della fatica del viaggio intrapreso. Per trovare lo spirito, in grado di conciliare corpo e mente, non c’è il conforto del giardino, ma l’azzardo della strada. Si può tornare solo perdendosi, accettando di continuare a camminare anche quando non si sa più dove si sta andando. Affidandosi al cammino.

 

“Si percorre la via del sognare fino a diventare una via noi stessi”

 

Tra incontri, prove e oggetti magici, i protagonisti di questi racconti si sottomettono a un apprendistato, imparano ad accettare la solitudine, e la necessità, in ogni rapporto d’amore, di definire la giusta distanza fra noi e l’altro. Imparano, e impariamo con loro, la dolcezza e il pericolo della protezione, simboleggiato dalla duplicità del rovo che dà il titolo alla raccolta. Un rovo materno, che si erge a difendere il bosco, il corpo della figlia, ma che può anche rivolgere le spine al contrario, soffocare e uccidere. Si arrendono alla brutalità delle fiabe, dove la perdita dell’innocenza e delle illusioni, così come il passaggio a un nuovo sé, sono spesso simboleggiati da mutilazioni fisiche o da metamorfosi.

 

Gli arti mancanti erano ferite luminose che riaccendevano in loro la memoria di un luogo dove erano stati appena nell’infanzia: un luogo nel quale si crede alle promesse, si ama senza perché, si sente che il cielo e l’acqua e la terra bastano a questa vita, che questa vita assomiglia a un fratello da proteggere, un segreto da custodire.

 

In un linguaggio poetico, a tratti salmodiante, Matteoni segna il ritmo del passo adatto a ogni luogo attraversato, dalle corse rotolanti di creature proteiformi, alla pacata ampiezza delle radure, fino alla melmosità convulsa della riva silenziosa.
E il linguaggio ha una funzione spirituale, di ricucitura dei mondi, di ricomposizione. Con le parole sussurrate si stabiliscono segnaposti a cui aggrapparsi lungo il cammino:

 

camminare fa bene ai pensieri, li accorda, li raccoglie nel cuore. Alora è come se respirassero: diventano pensieri-passo, pensieri-terra, pensieri- albero, pensieri-cielo.

 

Imparando la lingua dell’altro, ci si riconosce simili oltre la differenza della specie, si crea una lingua dell’amore per conversare con i propri compagni animali, persino raccontare loro una storia.
E allenando lo sguardo a posarsi sulle cose, si impara a riconoscere il risvolto del dolore:

 

I suoi occhi avranno senz’altro visto, ma non hanno guardato a fondo. Se avessero guardato avrebbero scoperto i nomi delle cose che accadono e che a volte ci sembrano orribili, mo- struose. Smarrimento, perdita, violenza, inganno, crudeltà, pazzia. Se non si tiene lo sguardo anche su questo non si scorgeranno i loro fratelli e sorelle: entusiasmo, volontà, ricordo, gaiezza, compassione, gratitudine».

 

Accettare la complessità del mondo vuol dire arrendersi alla trasformazione, accogliere il mistero dell’altro, la capacità di sentire le cose invisibili, la possibilità per la luce di entrare nelle crepe, e per le persone di diventare volpi. Solo chi chiude la porta per paura non si tramuta, e non conosce “il languore, la bizzarria” che ti rimane dentro anche quando ritorni nella forma umana.

 

A volte, poi, bisogna accettare la trasformazione e basta. Come nel finale delle Streghe di Roald Dahl, il protagonista di Terra dello spirito cigno si rassegna a vivere nella forma di animale, pur di rimanere accanto alla sorella. D’altronde è labile il confine tra una specie e l’altra, perché pur nella diversità, si condivide qualcosa di sostanziale, quel filamento primigenio, sostanza carnale, minerale e vegetale insieme, che più di una volta ritorna come immagine in queste storie che raccontano, per riprendere le parole di Calvino, “la sostanza unitaria del tutto, uomini, bestie, piante, cose, l’infinita metamorfosi di ciò che esiste”.

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Il racconto al di fuori della legge, di Ricardo Piglia

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Edizioni Arcoiris pubblica Il gemello di Luis Gusmán, tradotto da Loris Tassi, proibito per immoralità nel gennaio del 1977 dalla dittatura. Un’opera fondamentale dell’avanguardia letteraria argentina della seconda metà del Novecento, un libro trasgressivo, nella forma e nel contenuto, che non risente del trascorrere dei decenni.

Cattedrale vi propone la postfazione al libro di Ricardo Piglia, per gentile concessione dell’editore.



Il racconto al di fuori della legge
di Ricardo Piglia

traduzione di Raul Schenardi


Si dovrebbe dire che Il gemello è un romanzo poliziesco nel quale l’assassino, la vittima, il detective e il narratore sono la stessa persona: un gemello è stato assassinato, l’altro viene incolpato, torturato sotto gli occhi di tutti; il sospettato cerca una via d’uscita, il suo racconto va e viene, articolandosi fra la ripetizione e la suspense di un senso sempre differito. In realtà, si ricostruisce un crimine che nessuno ricorda e l’unico “enigma” che questa confessione permette di decifrare è il “mistero” della paternità.

 

L’oro e il padre: l’assassino

Storia familiare, in questo testo al di fuori della legge regna l’oro, e il suo luccichio è lo specchio in cui si sostituisce il padre assente. Cantante di tango, Carlos Montana entra in scena e ne esce, organizzando intorno alla sua presenza la ragione di un racconto di cui è al contempo genesi ed effetto. Equivalente generale, sta sempre “da un’altra parte”: ubbidisce alla logica dell’oro, che deve stare fuori dal sistema e non entrare nelle relazioni di scambio per significare, per essere l’emblema, il segno, la metafora di ogni possesso: «Mio padre scintillante con i suoi anelli, i gemelli, l’orologio d’oro, splende così tanto che non riesco a guardarlo». Assente, lascia nel racconto soltanto la memoria di quel luccichio che segnala il suo posto nel testo familiare: ogni volta che appare l’oro o se ne vedono le qualità, si sta parlando del padre e qualcuno cerca di (o desidera) occupare quel posto. Alla fine non si potrà separare l’accecamento che quel fulgore provoca da una funzione insieme magica e naturale che, nel dare un nome alle cose, decide il senso e impone la legge.
Abbaglio trasversale al racconto è la fascinazione che cattura lo sguardo della madre e l’acceca: quando quella luce irrompe, lei «agita le mani in aria come se fosse diventata cieca, con lo sguardo perso». Scura, cupa: «Le brillano gli occhi per il piacere e le si illumina lo sguardo, come se l’arcobaleno le stesse comparendo sulla faccia». Se ciò che acceca la madre e la illumina è l’oro del padre, si capisce perché il narratore parli di uno strano «animale bicolore»: immagine trasparente che collega in uno stesso registro simbolico la «valle profonda e terribile» della madre con quella luce del padre che è la ragione del testo.
Costruendo una metafora nella quale il racconto stabilisce la sua prima relazione con il crimine che lo genera, quell’«animale bicolore» che ha divorato il gemello, tale accostamento rappresenta la sventura di una funzione negata, colpevole, a cui il testo allude fin dall’inizio.
«Dimmi ragazza quante volte ti ho detto di stare attenta… Ti pare normale che per un minuto di piacere ti devo dare un figlio»: questa frase, che mette in contrapposizione piacere e paternità, apre il testo e lo maschera. L’istante di piacere è un fulgore, una breve esplosione, ma se il piacere lascia il marchio quel minuto è un destino: in questo modo, fra il presente del godimento e la “condanna” della procreazione si decide il viavai che articola in un solo movimento la temporalità del racconto e la sua “morale”.
Per Montana la paternità è il supporto del piacere: «A lui viene duro solo con mammina»; e inoltre vuole «farlo» senza «guanto», senza «il diaframma». La madre, da parte sua, “perde” i figli, “abortisce”, obbliga il padre a usare il preservativo: per lei, il padre dev’es-sere la garanzia, il contratto che assicuri l’economia familiare: siccome Montana “non garantisce”, lei si rifiuta di diventare madre. Nella sua logica la paternità si oppone al desiderio e la necessità lo implementa: in effetti mette il seme nello stesso posto dell’oro e pensa il piacere a partire dal denaro. Siccome nel romanzo l’oro del padre è un emblema inutile, la madre – Marx lo aveva già detto del denaro – è una prostituta: «Lei ci gridava sempre che per procurarci il cibo doveva andare in giro a farsi rompere il culo». Prostituendosi, sostituisce: non concepisce di alienare il desiderio nella procreazione, e usandolo per guadagnarsi da vivere lo mette a disposizione di tutti. Se il padre reprime e dal di fuori vuole imporre la legge, la madre crea disordine e corruzione dal centro stesso del racconto in cui regna. Rifiutandosi di “essere madre” devia la storia dal suo alveo “naturale” e trasforma la paternità in un valore di scambio: nel legare produttivamente l’oro e il seme, nel guadagnare denaro e dare il latte, per cacciare il padre dal suo posto, lo sostituisce. O meglio, lo scambia.
Queste sostituzioni sono l’illusione di uno scambio impossibile: «I Pepe», il Pastore e il Paraguayano che, già a partire dall’iniziale del nome, nel racconto fanno da padre, subendone invero le conseguenze. In un testo che pensa la paternità a partire dal crimine, è necessario mascherarsi per correre il rischio: nell’occupare quel posto, sono tutti dei simulacri, delle maschere, e perdono il nome; così, lo pseudonimo dietro cui sono nascosti rende più evidente il fatto che Carlos Montana è l’unico, nel romanzo, in grado di sopportare un cognome. Emblema di una funzione sacra e colpevole, un nome è qualcosa che si conquista: ma d’improvviso il narratore perde il suo («ti chiamerai Federico, e non Luis come il tuo involucro sulla terra») e quando riceve la promessa del padrino Pepe («Il mio padrino Pepe voleva sposare mammina e voleva che io portassi il suo cognome») in realtà si illude con la legittimità di una filiazione che il racconto stesso rende impossibile. Non è un caso dunque se alla fine, quando l’Altro, allucinato, riappare, il «portachiavi d’oro» sia l’unica eredità che il padre lascia come segno della propria identità.

 

Un’economia

Nutrire e alimentare sono la “mancanza” del padre che la madre deve risolvere: il “latte”, insufficiente per tutti, segna la carenza che definisce l’altra origine del racconto. «Mammina grida bisogna ucciderlo, lo ha ucciso perché voleva le due mammelle solo per sé, per cupidigia». Se il desiderio rappresentato dalla metafora dell’«animale bicolore» divora il gemello, la necessità fa della cupidigia l’eccesso che motiva il crimine. A collegare questi due livelli è il rituale del cibo: dalla «santa cena» del Pastore che nutre mammina fino al delirio cannibalistico che chiude la scena in cui il paraguayano mangia «cotolette dorate», nel testo c’è una vera e propria etnografia alimentare. A questo livello il racconto giustappone, in modo immaginario, carenza e soddisfazione, in un sistema unico di relazioni necessità/desiderio i cui limiti – cannibalismo, incesto – fanno della trasgressione per-versa la negazione stessa della funzione “dispensatrice” della famiglia. Ne è un esempio la relazione del protagonista con la zia, che somiglia alla madre e gli lascia occupare il letto al posto dello zio, e gli dà da mangiare «ananas con crema», «crêpes», «a letto fa tutto quello che mi piace». Questo “eccesso” è il passaggio verso il piacere sessuale: dal lusso alla lussuria, le leccornie sono la ricchezza che soddisfa una volta per sempre tutta la «cupidigia». Questa illusione si infrange ogni volta che rinasce: ottenere cibo è una delle ossessioni del testo, e la scarsità che collega la fame alla prostituzione riprende su un altro piano l’opposi-zione della madre e del padre. Infatti, mentre lei deve «impegnare anche il culo» per portare a casa il cibo, il padre – «con il pacchetto bianco della rosticceria sotto il braccio, le bottiglie di Don Valentín, la birra speciale, il prosciutto cotto, il prosciutto crudo, il dulce de batata al cioccolato, le costate di manzo, l’insalata con olio d’oliva, la tovaglia, per tutti, tutti possiamo mangiare, ha portato questo bendidio per farcelo mangiare e non per farcelo guardare» – mette in scena la commedia di una ricchezza che, quando viene esibita, distrugge. La sua comparsa gioca nell’economia della famiglia la stessa funzione di quell’istante di piacere che nella sessualità la madre opponeva alla paternità irresponsabile. Montana non produce, consuma, e questo spreco è il sintomo stesso della sua arbitrarietà e del suo fascino. Fra il presente assoluto di una soddisfazione che fa del consumo un rituale “miracoloso” e la necessità quotidiana di garantire il futuro, la miseria e l’abbondanza della famiglia si organizzano in un registro arbitrario che dipende dalla logica del padre. Dato che lui entra nel racconto e ne esce senza alcun ordine, il suo arrivo provvidenziale dipende dal caso: è un’apparizione. Quando se ne va lascia «sempre i soldi sotto il cuscino o sopra il comodino, accanto all’orologio, all’anello d’oro, ai gemelli d’oro […] sempre la stessa somma, che poi mammina annota minuziosamente su un quaderno, l’importo e vicino la data». Nel futuro il piacere si paga sempre con denaro, con la paternità, vale a dire con il denaro di una paternità che, essendo negata, sprofonda la famiglia nel bisogno. Nesso sociale, il denaro sostituisce i legami di sangue e, siccome è l’unica cosa che in realtà assicura il futuro (diceva Marx), trasforma in destino la vita degli uomini.
Mammina, nell’annotare minuziosamente la data e l’importo, cerca di mettere ordine: dal momento che la somma è sempre la stessa, annotare la data è come mostrare, nella discontinuità, il disordine di un futuro imprevedibile. Collegando il denaro alla temporalità, da un lato “ripete” il viavai del «minuto di piacere» e quello sempre incerto della paternità che governa – come abbiamo visto – lo schema temporale del racconto. Nel contempo, però, sembra che cerchi di convertire in legge – nella scrittura – l’arbitrarietà di quella apparizione, vale a dire che sembra voglia assicurare nelle leggi “naturali” della paternità la distribuzione “miracolosa” di quel denaro che collega la famiglia alla società. Non è un caso che al centro di questa “economia” ci sia il Banco dei pegni. Luogo magico, al di fuori della produzione, dove l’oro viene scambiato (come la madre) con denaro, mostra la “razionalità” capitalistica allo stato puro: il lavoro non è la fonte del valore, bisogna avere per poter avere. Avere fortuna, volontà, virtù personali, «il vestito della prima comunione», «l’anello del nonno», «la catenina d’oro». Per qualche tempo questa perdita, sospesa, produce: dopo «che [questi oggetti] sono stati messi all’asta» infrange l’illusione di un duplice possesso che consentirebbe di avere allo stesso tempo il denaro e la sua riserva. Correlativamente, al di sotto di questa “economia” si organizza una morale feticistica nella quale gli oggetti raffinati del padre (Chesterfield, camicie di dacron, whisky, ecc.) sono ancora una volta la sostanza di ogni ricchezza. Legato dalla legge dello scambio in cui l’oro governa da “fuori” ciò che il denaro collega “dentro”, il padre torna sempre come fondamento del valore, maschera e specchio della miseria della famiglia.

Dalla catena allo sguardo

Dietro questa economia magica c’è, come sempre, una “religione” che ne decreta il significato: Dio, Gesù, gli Spiriti, il Pastore, il Guaritore, collocati nel posto del padre hanno il potere di soddisfare ogni domanda e stabiliscono una legge superstiziosa che segna il mondo ideologico del libro. Siccome la ricchezza (del padre) circola nel racconto senza alcun ordine, tale inspiegabile arbitrarietà si sacralizza: se il lavoro non è la fonte del valore e occorre avere per avere, l’unico modo per entrare in questa razionalità – quando non si ha niente – è confidare nel caso (in un Dio) che provvederà. Ma nel contempo, per equilibrare il vuoto dell’indecifrabile arbitrarietà, bisogna credere nella fatalità naturale di un’esistenza segnata. Metafisica lumpen del miracolo opposto al lavoro produttivo, che ha come controparte la necessità di assicurarsi il futuro, nell’immutabilità di un destino fatale. Caso, predestinazione: mentre si esclude la ricchezza dalla produzione, si fa dipendere la soddisfazione dalla provvidenza. In tal senso, nel romanzo, per poter pensare l’assenza del padre nell’economia familiare c’è tutta una dimensione magica, di superstizione popolare, che a partire da un certo ancoraggio immaginario assicura il “senso” della realtà. In questo mondo chiuso, nel quale è escluso ogni riferimento politico, la religione (“quella cattolica”, “quella protestante”) è una forma di coscienza sociale e gli “idoli” sono lo specchio in cui si cancellano le differenze di classe affinché una “storia comune” si identifichi nella “vita trionfale” di Óscar Gálvez, Gardel, o Lucho Gatica. Negazione della storia e della produzione, al centro di questa ideologia ci sono gli spiritisti: sono loro a ricostruire un ordine e un senso per la famiglia. Quando si prendono per mano per «formare la catena», fissano la struttura di una certa società, e nel racconto della medium “gli spiriti” stabiliscono il testo di una storia familiare. Cerimonia in grado di fare qualsiasi cosa con il linguaggio (Gardel parla per bocca di una donna, il gemello racconta la propria morte «con le sue stesse parole»), nella rete di questo racconto magico si cerca soltanto di incatenare il padre per farlo tornare.
Ricerca, evocazione, l’altro passo in questa direzione è la “catena delle lettere”, la continuazione logica di un rituale che nel sacralizzare le parole le trasforma (come l’oro) in oggetto di culto. Nel decifrare o costruire un destino nel linguaggio, queste “catene” (d’oro, di mani, di lettere) sono la metafora di un ordine che dissolve e lega ripetutamente la famiglia nell’andirivieni cieco della fatalità e della provvidenza, del caso e del miracolo, in cui l’assenza del padre “si spiega”. Se non c’è paternità che legittimi la filiazione, né lavoro che assicuri l’economia, fissarsi in una catena significa trovare nella ripetizione il luogo che assicuri il senso e al contempo costruire un’economia, una parentela e una religione. «La nonna mi ha detto che non devo lasciarle la mano perché se lo faccio mammina mi impegna come ha fatto con la catenina d’oro». Lasciare è perdere la ragione: la famiglia, costituita da anelli fissi e incatenati che nel loro legame lasciano fuori il caso, si ricostruisce al di là di quell’assenza che la disgrega.
D’altra parte, dato che in realtà è il padre a sostenere, da fuori, i due estremi di questa catena familiare, il suo ingresso la disarticola, e allora la famiglia “si unisce” intorno a Montana nel disordine tribale di uno scambio selvaggio, primitivo. Nell’antropofagia, nello stupro, nella tortura o nell’uso di droghe, durante queste riunioni familiari l’ordine si spezza, come se la comparsa del padre scatenasse il desiderio che prima lui stesso incatenava, come se, infrangendo i limiti, rendesse la presenza della legge la ragione stessa della trasgressione.
Nello stesso tempo, ciò che impedisce la disgregazione e insieme collega fra loro queste cerimonie è la dimensione spettacolare: realizzate in piena luce e sempre con un pubblico, contemplano una “perversione” che fa dell’esibizionismo il proprio sostegno “morale”. Accordo comune degli sguardi che instaura le regole e organizza gli eccessi: tutti guardano, e quello sguardo molteplice che costituisce la scena familiare rende complici gli spettatori; finché ci sarà qualcuno “capace di vedere”, sembra dire il testo, si avrà un ordine sociale e l’autorità sarà garantita. Non è un caso se “il poliziotto” viene descritto da subito come colui che «non dorme mai», colui che sorveglia, sempre con la luce accesa: questa sorveglianza è la legge stessa. In realtà, bisognerebbe dire che in questo testo chi ha la “luce” ha la ragione: accecarsi significa smarrire il senso («ma uno di questi giorni non ci vedrà più e la ucciderà»), la medium sembra una cieca e «gli spiriti non ce la fanno a guardarli [i cappelli colorati indossati dagli spiritisti]». In questo gioco di luci Il gemello separa il Bene dal Male e istituisce un codice morale “illuministico” che associa l’o-scurità, le ombre, la cecità, all’irrazionalità e alla morte: vale a dire, alla madre che – lo abbiamo visto – è accecata dal luccichio del padre.


Gli specchi, il doppio

Dato che in realtà è una ricerca di riconoscimento, questa ossessione visiva si associa al fascino esercitato nel testo dagli specchi e da qualsiasi superficie splendente su cui si riflette un’immagine. Se soltanto lo sguardo – al limite – impedisce che la famiglia si “perda”, gli specchi sono il legame che, nel duplicare l’immagine, permette di trovare nell’altro che sta lì l’identità. Allora (scrive il narratore) «io sono la ripetizione di mio padre». Nella ripetizione (del padre, del fratello gemello) i temi del doppio e dello specchio fanno dell’assassinio del gemello un gioco con l’eredità e la filiazione: nel fratello si uccide – ha scritto Deleuze parlando di Caino – la somiglianza con il padre. Anello che organizza la catena dello scambio familiare, questa somiglianza si articola nella madre: è lei a stabilire la sintassi, perché è l’unica che conosce la differenza (con il padre, tra i fratelli, tra i Pepe). Questo sapere la identifica («l’unica parola che abbiamo in comune») e insieme la divide: prostituta fra i Pepe, mammina con i figli, è “buona” proprio perché si prostituisce per provvedere: nel guadagnarsi da vivere “si perde”, e in quella duplice funzione è due donne nello stesso tempo: «L’altra e lei, lei e l’altra», quella che se ne va «di notte per poi rincasare la mattina»: il padre è l’unico che può averle entrambe, mammina e «la bambola» con «la chioma morbida e bionda», «scoparle entrambe». Bigamo, questo sdoppiamento è insieme il suo privilegio e la sua condanna: il padre è il centro di una storia duplice («due donne, due case»), e nel passaggio da un luogo all’al-tro il racconto percorre il tragitto che ne stabilisce il significato. Come se fosse messa davanti a uno specchio, la famiglia si sdoppia e ciascuno si riflette in un doppio “perverso”: il gemello buono e il gemello cattivo, mammina e la donna bionda, il padre bigamo. Nel pretesto di questa ripetizione c’è l’oblio dell’origine: la relazione di parentela si disgrega nell’incrocio dei doppi, delle maschere, delle falsificazioni. O meglio: mediante la ripetizione (i gemelli, le due donne, le due case, il bigamo) si nega la ripetizione della paternità, e nella differenza si vuole vedere l’identità.
«Gli specchi e la copula» scrisse Borges, «sono abominevoli perché moltiplicano il numero degli uomini». Il luccichio di quell’oro che identifica la paternità è il luogo in cui tutti cercano una filiazione, ma nel contempo avere un doppio significa perdersi nello specchio dell’Altro. Collegando gli specchi, il luccichio e il doppio alla funzione del padre, Il gemello fa di quel riflesso una condanna in cui ciascuno si perde «diviso in due», o si traveste con la maschera illusoria di un doppio che, invece di occultare la somiglianza, la riconosce.

Foto, scene

Al centro di questa duplicità “perversa” ci sono le foto pornografiche. Da una parte sono il rovescio delle foto e delle immagini “sante” che popolano il racconto: oggetti di culto, queste “presenze” sacralizzate sono un’evocazione e un’esortazione. Nel romanzo nessuno conserva una foto “come ricordo”: alla stregua di certi rituali primitivi, avere l’immagine è avere la “presenza”. Mammina si inginocchia per pregare davanti alla foto del paraguayano messa nelle sue mutande gialle, costruisce un santuario in cui si celebra un culto perverso che collega il desiderio alla religione. Al limite di questo feticismo dell’immagine, le foto pornografiche sopportano tutto il peso del desiderio familiare e fissano – rendono visibile – quel «minuto di piacere» che il racconto nega e occulta.
“Ricordo” della scena primaria, quelle stampe che il narratore conosce «a memoria» provocano, inoltre, l’unico movimento reale di tutto il romanzo. «Li cercavo per le strade di Once, di Constitución, ovunque avrei riconosciuto quella donna e quell’uomo pelato»; questa ricerca spezza lo spazio chiuso della scena familiare. Questa “avventura” – epopea in cui si sintetizzano tutte le identificazioni – è l’unico aneddoto che il libro tenta di “narrare”. Non c’è suspense né sorpresa: chiunque può indovinare l’identità di quella donna che «non era come le altre che usavano una maschera», che somiglia alla zia; d’altra parte, la morte di Montana alla fine risolve l’enigma. «Il morto aveva con sé più di settanta ricevute del banco dei pegni […] lo avevano pelato». Il tragitto che permette, nel registro “pornografico” di immagini e foto, di specchi e sguardi, di luci e luccichii, di trovare nell’«uomo pelato» il padre (alla fine) impoverito, è in realtà l’inverso della scena che organizza tutto il testo: Montana «si era chiuso in bagno e aveva iniziato a farsi una sega». La masturbazione («se me ne facevo una al giorno poi si sarebbe seccato e da grande non avrei avuto figli perché lo avrei svuotato tutto») dissolve il padre nell’atto solitario di un piacere “segreto”: morte e degradazione, il finale del racconto e la sua genesi si rinchiudono in questo funerale. La “narrazione” ricomincia nel momento in cui finisce il racconto degli “avvenimenti”. Allo stesso modo in cui nelle foto pornografiche (che sono nascoste assieme al diaframma) quel «minuto di piacere» resterà per sempre nell’immagine, Montana vuole fissare la sua perdita facendo «entrare la sborra in quel vasetto»: per fare del seme un segno (uguale all’oro), l’emblema di una funzione dimenticata. «Manifestazione visibile dell’invisibile» (come scrive Guy Rosolato), l’eiaculazione fa vedere quel “mistero” – la paternità – nel momento stesso in cui il padre se ne va. Come mammina che, nel prostituirsi, si faceva pagare il piacere, Montana converte il seme nella moneta (fuori circolazione) di un desiderio che intende riscattare. Quando il padre “viene”, quel seme “sprecato” chiude la storia dei fatti per aprire la scrittura (dopo ha cominciato a scrivere) come negazione della paternità. Al contrario della lettera della catena in cui la madre faceva un’evocazione, qui la scrittura si appoggia su questo consumo inutile per tentare un pagamento: invertendo il piacere e la paternità si garantisce il senso che certifica il collegamento della madre e del padre nel duplice gioco della masturbazione e della prostituzione, specchi privilegiati e perversi della relazione familiare.


La scrittura del crimine

Dare alla luce, dare l’oro, a partire da questa duplice articolazione. Il gemello si organizza in una coppia in cui un significante (l’oro, il seme) si duplica in un significato (il denaro, il latte) fino a fare del padre quell’Altro che, nel chiudere il racconto, apre la catena del senso e rende possibile la scrittura. In questo movimento la scrittura esibisce la sua genesi, mostra i suoi protocolli: un’evocazione, un pagamento, per scrivere bisogna occupare il posto del padre, garantire il possesso di quel sostegno che permette di “fare i conti” (come fa la madre, minuziosamente, nel quaderno), sistemare «l’importo» e «la data» del romanzo familiare nel doppio del linguaggio. Nel contempo, attraverso la crepa che si apre fra il soggetto dell’e-nunciato e il soggetto dell’enunciazione, l’ossessione del doppio e della comparazione riappare nella struttura stessa del libro. Questo abisso tra colui che scrive e colui che è (di cui parla Émile Benveniste), tale distanza, è qui un’altra volta del padre: la sua doppia faccia fa del testo lo specchio nel quale colui che scrive sorveglia la sua differenza con l’Altro. Questa frattura che organizza il racconto intorno alla coppia, la somiglianza e la ripetizione (gemello, bigamo, specchi, mammina e l’altra), è registrata mediante la scrittura a partire dal gioco di metafore che al suo interno definiscono lo “stile”. Non c’è casualità o procreazione: c’è comparazione, un regime di sostituzioni e condanne che affronta e collega “causalmente” due anelli. L’arbitrarietà di questo collegamento, quasi sempre basato sull’avverbio comparativo “come”, fa vedere la convenzione verbale che organizza il racconto al di là di qualsiasi “normalità”. D’altra parte, nel mettere in relazione strutture indipendenti una dall’altra, il racconto riproduce, non già nelle frasi, bensì nel discorso narrativo propriamente detto, questo procedimento metaforico. In tal senso, non c’è a rigore “narrazione”, dato che la narrazione presuppone un continuum; ci sono momenti statici, anelli: non si collegano “fatti”, ma testi, frasi, metafore, parole. Ciascuno di questi “capitoli”, ogni momento del racconto, è un linguaggio che possiede la propria grammatica: lo spostamento sintattico costruisce sulla ripetizione di quegli anelli una sintassi discontinua. Questa struttura formale di concatenazione che sostiene il passaggio arbitrario da un momento all’altro del testo fa della catena la forma dominante del racconto.
Da un lato la catena della scrittura mostra la sua genesi e nel sostegno della paternità certifica il fondo che garantisce la sua forma; dall’altro lato il racconto narra la propria genesi. «Mi torturano […] vogliono che canti». Fin dall’inizio, la violenza che scatena la narrazione spiega il suo sviluppo: vogliono che canti come il padre, che occupa quel posto. Il testo che questa confessione provoca non fa altro che narrare la forma di quello spostamento. Nell’opporre scrittura e paternità il racconto si pone fuori dalla legge; scrittura colpevole, “fa i conti” e si maschera per realizzare il crimine.
Collegato a una certa corrente marginale della letteratura argentina (il sainete, la poesia gauchesca), Il gemello spezza le verosimiglianze che segnalano la forma della letteratura “popolare” a partire dai codici trasparenti di una leggibilità. Con il suo trattamento elusivo dei miti popolari, in un linguaggio spasmodico e “basso”, questo testo recupera e mostra la “colpevolezza” implicita in qualsiasi scrittura che si faccia carico dell’arbitrarietà che decreta, a partire da una certa lettura sociale, i “valori” che un sistema letterario decide di imporre a quegli usi privati del linguaggio che abbiamo convenuto di chiamare “letteratura”.

 

ricardo piglia

Agosto 1972

Luis Gusmán

Luis Gusmán

Vedi quello che puoi fare, di Lorrie Moore

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di Debora Lambruschini

 

Qualche mese fa il nome di Fran Lebowitz è diventato piuttosto popolare anche in Italia, dove per molto tempo non si era praticamente mai parlato di questa scrittrice newyorkese caustica e brillante. Complice la popolarità di una docu serie realizzata da Martin Scorsese, le stilettate di Lebowitz hanno suscitato l’interesse del pubblico italiano e presto è seguita la pubblicazione per Bompiani di una raccolta di saggi in cui ritrovare parte di quella voce, dall’emblematico titolo La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire. Eccentrica, divertente, brutale a tratti, Lebowitz ha incantato anche il pubblico nostrano nonostante le riflessioni contenute in questo volume siano apparse originariamente tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, ma riuscendo in parte a mantenere intatta la forza dell’ironia e anticipando perfino alcune tendenze e derive del mondo contemporaneo.
Parto dalla felice riscoperta di Fran Lebowitz perché anche i saggi raccolti in Vedi quello che puoi fare della scrittrice statunitense Lorrie Moore sono tradotti e pubblicati oggi in italiano ma a distanza, in alcuni casi, di trent’anni dalla prima uscita su rivista. E qui probabilmente finiscono le similitudini fra le due autrici, ad esclusione di un’ironia capace di spiazzare il lettore, lo sguardo attento sul mondo e soprattutto le persone mediante cui coglierne contraddizioni e debolezze. Sono due voci diverse ma ugualmente forti che non temono – e perché mai dovrebbero – di esprimere opinioni non automaticamente allineate con il pensiero comune e, nel caso di Moore, non hanno la minima esitazione nel vivisezionare l’opera di autori e protagonisti della scena culturale contemporanea sottolineando, laddove è il caso, mancanze e debolezze appunto. La voce e il personaggio di Moore sono probabilmente meno appariscenti e adatti a farne la protagonista di un esperimento come quello di Scorsese con Lebowitz, ma Lorrie Moore è una scrittrice, anzi, un’ottima scrittrice, e molti dei suoi romanzi e racconti – nella forma breve Moore rivela il proprio potenziale letterario – hanno trovato spazio nel panorama editoriale nostrano, a partire dalle prime pubblicazioni per Sperling e Bompiani fino alla recente traduzione di Chiara Spaziani e acquisizione dei diritti da parte de La Nave di Teseo, che si sta occupando di un attento lavoro di traduzione e riscoperta dell’autrice. Trentadue articoli, saggi e critiche che rappresentano anche un excursus sulla carriera critica di Moore in cui accanto agli approfondimenti letterari compaiono anche pezzi su serie tv, film, personaggi e momenti storici fondamentali di questi ultimi decenni. Un tassello interessante nella bibliografia dell’autrice che permette anche una lettura a ritroso di autori e libri di cui al momento della stesura era impossibile conoscerne gli sviluppi futuri e difficile immaginare come un tale titolo si sarebbe collocato nel quadro generale della produzione artistica di quel dato autore. Saggi che per loro natura risultano parziali e, in un certo senso, sconfitti dalla prova del tempo, ma che a mio parere proprio per questi tratti peculiari si fanno ancor più interessanti: attraverso le sue considerazioni su Roth, Atwood, Cheever, Ford e, ancora, Obama, l’11 settembre, Titanic e molto altro, Moore ci permette oggi di considerare quella pubblicazione o quel momento storico specifici con tutte le variabili date dalla contemporaneità, fra sguardo critico e aneddotica, attraverso la fallibilità intrinseca nel mestiere, la componente soggettiva, le molteplici influenze che entrano a far parte del discorso interpretativo.
I saggi letterari sono originariamente apparsi su riviste come New York Times, Guardian, Harper’s Magazine, New Yorker, e proprio il titolo richiama una frase che era solito rivolgerle Roger Silvers, editor di Moore alla New York Review of Books, nel proporle qualcosa da cui partire per scrivere un articolo: un nome, un libro, un evento, come una porta da aprire e sorprendersi per ciò che avrebbe potuto trovarvi una volta varcata. Testi che, sottolinea Moore, sono per loro natura «personali e soggettivi» e che hanno la funzione di «risposte culturali a risposte culturali». Recensioni o saggi critici, a seconda del caso, che rappresentano una possibile lettura di un certo libro o del percorso artistico di un autore e della loro parzialità e soggettivismo non fanno alcun mistero. Per cui, ne consegue, contengono opinioni che possono risultare fallibili, ma nelle quali Moore si guarda bene dall’esprimere giudizi categorici e assoluti. In questo senso possiamo leggere questi saggi anche come una piccola lezione di cura di cui il mestiere di critico letterario ha costantemente bisogno, nel ricordarci quanto un’opinione seppur consapevole resti pur sempre un’opinione e il giudizio su un’opera letteraria – ma direi artistica in genere – sia soggetta a influenze variabili, quanto un certo senso della misura possa aiutarci a evitare scivoloni.
Moore è ben conscia della duttilità della critica letteraria e nell’esprimere le proprie opinioni si tiene lontana da eccessive esaltazioni o nette stroncature, ma analizza con sguardo attento il materiale che ha di fronte, lo colloca nel contesto letterario e culturale di riferimento, rifiuta il «cannibalismo letterario» che spinge alla ricerca morbosa del dato biografico. È, come sottolinea lei stessa nell’introduzione, una scrittrice di narrativa che scrive recensioni, un’artista quindi che osserva il lavoro di un altro artista, condividendo con i lettori un discorso il più possibile chiaro, utile, puntuale.
Insomma, ci dà in un certo senso una breve lezione di critica letteraria e, cosa ancor più importante e utile a tutti, di lettura attenta e consapevole.
Inevitabile trovare in queste pagine anche interessanti riflessioni sul mestiere di scrivere stesso, un fil rouge che lega buona parte dei saggi presenti ma che ben si condensa in un articolo incentrato sulla scrittura:

 

Scrivere è un’escursione dentro e fuori la propria esistenza. Un antipatico paradosso della vita artistica. È ciò che, come l’amore, ci rimuove sia con dolore che con piacere dalla forma ordinaria del vivere.

(Sulla scrittura, p. 71)

 

La scrittura che in qualche modo salva dall’ordinario del vivere, ma che racchiude in sé sempre una componente di mistero:

 

Quello degli scrittori è un lavoro minuzioso, tenace, competente. Che sappiamo fare. Ma è anche misterioso. E il mistero incluso nell’atto di creare una storia è legato ai misteri della vita, e della creazione della vita: il fatto che esistiamo; che c’è qualcosa invece di niente.

(Sulla scrittura, p. 65)

 

Il discorso sulla scrittura, quindi, è osservato tanto all’esterno – i libri e gli autori protagonisti di questi saggi – quanto all’interno – il proprio ruolo di autrice – , si intreccia all’identità di lettore o, per essere più precisi, di lettrice attenta alle peculiarità e discriminazioni che hanno determinato un canone letterario fortemente maschile; e nelle scrittrici Moore rintraccia una caparbietà, una determinazione e un riconoscimento che non è tale negli scrittori, in quanto inseriti in una tradizione più «rigonfia», «chiassosa» in cui è difficile immaginare per un esordiente la possibilità di aggiungere qualcosa di nuovo, uno sguardo inedito, peculiare.
Rincorrendo le considerazioni sul mestiere di scrivere, Moore si sofferma in più occasioni sulla questione legata al dato biografico, la curiosità morbosa che spesso spinge lettori e critici – e ovviamente gli stessi biografi – nel vivisezionare l’opera alla ricerca di indizi o contaminazioni, l’universo privato che entra nella narrazione. Di queste considerazioni e spunti troviamo traccia nel modo con cui i saggi di Moore inquadrano l’autore al centro della riflessione specifica, ricaviamo qualche dato biografico funzionale alla narrazione, ma in generale dimostra coerenza nel rifiutare questo sterile gioco di intromissione che poco o nulla ha a che fare con la critica letteraria. In un’intervista pubblicata su The Paris Review, all’inevitabile domanda su quanto ci sia di lei stessa nei suoi personaggi, Moore risponde:

 

I’m never writing autobiography—I would be bored, the reader would be bored, the writing would be nowhere. One has to imagine, one has to create (exaggerate, lie, fabricate from whole cloth and patch together from remnants), or the thing will not come alive as art. Of course, what one is interested in writing about often comes from what one has remarked in one’s immediate world or what one has experienced oneself or perhaps what one’s friends have experienced. But one takes these observations, feelings, memories, anecdotes—whatever—and goes on an imaginative journey with them. What one hopes to do in that journey is to imagine deeply and well and thereby somehow both gather and mine the best stuff of the world. A story is a kind of biopsy of human life. A story is both local, specific, small, and deep, in a kind of penetrating, layered, and revealing way.

 

Ecco, ancora, un condensato di ciò che è mestiere. In questo caso, il mestiere di scrivere.

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