Io sarò il rovo, di Francesca Matteoni

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di Anna Lo Piano

(Le fiabe) sono, prese tutte insieme, nella loro ripetuta e varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita,(…) il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo o a una donna, soprattutto per la parte di vita che è il farsi di un destino…

 Italo Calvino, Prefazione a “Fiabe Italiane”

 

 

C’era una volta un bosco. Si apre con la formula delle fiabe il primo racconto della raccolta “Io sarò il rovo” di Francesca Matteoni, edito da Effequ. E delle fiabe questi racconti hanno il ritmo, le ripetizioni, gli schemi.
Sono però favole moderne, e non perché parlino di tecnologia o contesti urbani. Al contrario, non ne parlano affatto. La loro modernità è nello svolgere oggi il compito antico delle storie, che è quello di aiutare gli esseri umani a orientarsi nel caos del mondo, ad accettare la propria esistenza e darle un senso. Per farlo ricorrono al simbolo, che è capace di irradiare significati, di accedere a livelli remoti della coscienza, di intrecciare un dialogo con la nostra memoria, con le paure e i desideri.
I temi sono quelli eterni dell’amore, della ferita, del riscatto, eppure si sente a ogni pagina la ricerca di risposte allo sgomento che viviamo qui e ora come abitanti di questa strana epoca, ai nostri dubbi sul futuro, alla messa in discussione dei concetti di identità e confine, ai nuovi significati da dare alle parole solitudine e intimità. Ma prima di ogni cosa si sente la volontà di risanare la ferita che abbiamo inferto alla Terra.
Se la fiaba tradizionale parte da un’assenza – per perdita o desiderio – che è così feroce da indurre il/la protagonista ad abbandonare la propria casa per mettersi in viaggio, nel racconto che apre la raccolta è un bosco intero a muoversi per andare alla ricerca del torrente scomparso, risucchiato dalla terra per fare spazio alle strade degli esseri umani. Di fronte all’escissione di una parte di sé il bosco insorge, si sveglia da un lungo sonno, recupera una lingua comune, e parte per il proprio viaggio come un organismo complesso, capace di essere allo stesso tempo unico e molteplice:

 

“Zampe, piume, pellicce, code, spine, bacche, petali, rami – si intrecciarono camminando, viaggiarono per le colline. Ogni tanto si univa un animale, una pianta vagabonda”

 

È chiaro fin dall’inizio che in questo mondo “il catalogo dei destini che posso darsi a un uomo o a una donna”, per usare le parole di Calvino, non può essere disgiunto da quello delle altre creature, e che lo stesso concetto di essere vivente va esteso a ciò che solo apparentemente risulta inanimato, perché rocce e terra e acqua sono anch’essi vivi.

Casualmente - o forse no - il mio primo contatto con la scrittura di Francesca Matteoni è avvenuto grazie alla condivisione su Facebook di un suo articolo su Nazione Indiana in cui recensiva Antropologia del turchese di Ellen Meloy. Può sembrare strano citare un modo così traverso di avvicinarsi a un’autrice, ma in quell’articolo mi avevano colpito una particolare sensibilità, un uso poetico del linguaggio, un modo gentile di entrare nelle parole dell’altra, di trovare una corrispondenza con il proprio orizzonte di riferimento, tanto che avevo comprato subito il libro e salvato l’articolo. Soprattutto c’erano una riflessione sul paesaggio non come qualcosa da guardare o che ci guarda, ma qualcosa che “coopera, ci mette alla prova, si stanca o si prende gioco di noi”, e un’idea di terra - deserto, sabbia, colori - come presenza in grado di entrare in relazione con chi la abita, che si compone delle loro memorie, e stabilisce legami con altri luoghi.
Anche in “Io sarò il rovo” molti racconti hanno a che fare con la memoria, con il ritorno a una casa attraverso porte nascoste e oggetti del passato. “Sapevo la via come si sa il corpo in cui si cresce” dice la protagonista di Lamponaia tornando al luogo della sua infanzia. E ancora

“La pelle robusta degli anni cade quando si viaggia nel luogo d’origine: dev’essere per quelle spine che trovano sempre la via al sangue, anche se ci hanno punto molte stagioni prima”.

Ma il ritorno a sé implica anche una perdita più o meno consapevole della strada maestra, una deviazione, un’erranza. Laura Pugno, un’autrice che Matteoni cita spesso, in un libretto edito da Nottetempo che si chiama “In territorio selvaggio” si interroga sulla differenza fra letteratura giardino, che conforta, e letteratura bosco, che è perdersi, fare esperienza, cercare l’oltre. E l’oltre è proprio quello che cerca Ovest, il pellegrino, uno degli erranti di questi racconti:

 

«Cerco l’oltre». Rispose Ovest, muovendo una fulgida coda volpina. «Cerco il corpo slacciato dalla mente, che non sia più tormentato dai dubbi e dalle paure. Cerco l’ebbrezza».

 

Il tema del viaggio, dell’erranza, è presente fin dall’indice del libro, disegnato con tratto sottile in forma di mappa. Un indice che ti innamora fin dall’inizio e fa da viatico tra i racconti, dai monti fino alla valle, per fermarsi su una riva e procedere alla Discesa finale. In un percorso inverso ai viaggi di ascensione che ricercano la verticalità e l’incontro con il cielo, con lo spirituale, qui si parte dall’alto per calarsi nei rovi, nella terra, negli abissi marini.

“Ci sono molti modi per perdersi, ma uno solo per tornare” dice l’Eremita a Ovest, che si lamenta della fatica del viaggio intrapreso. Per trovare lo spirito, in grado di conciliare corpo e mente, non c’è il conforto del giardino, ma l’azzardo della strada. Si può tornare solo perdendosi, accettando di continuare a camminare anche quando non si sa più dove si sta andando. Affidandosi al cammino.

 

“Si percorre la via del sognare fino a diventare una via noi stessi”

 

Tra incontri, prove e oggetti magici, i protagonisti di questi racconti si sottomettono a un apprendistato, imparano ad accettare la solitudine, e la necessità, in ogni rapporto d’amore, di definire la giusta distanza fra noi e l’altro. Imparano, e impariamo con loro, la dolcezza e il pericolo della protezione, simboleggiato dalla duplicità del rovo che dà il titolo alla raccolta. Un rovo materno, che si erge a difendere il bosco, il corpo della figlia, ma che può anche rivolgere le spine al contrario, soffocare e uccidere. Si arrendono alla brutalità delle fiabe, dove la perdita dell’innocenza e delle illusioni, così come il passaggio a un nuovo sé, sono spesso simboleggiati da mutilazioni fisiche o da metamorfosi.

 

Gli arti mancanti erano ferite luminose che riaccendevano in loro la memoria di un luogo dove erano stati appena nell’infanzia: un luogo nel quale si crede alle promesse, si ama senza perché, si sente che il cielo e l’acqua e la terra bastano a questa vita, che questa vita assomiglia a un fratello da proteggere, un segreto da custodire.

 

In un linguaggio poetico, a tratti salmodiante, Matteoni segna il ritmo del passo adatto a ogni luogo attraversato, dalle corse rotolanti di creature proteiformi, alla pacata ampiezza delle radure, fino alla melmosità convulsa della riva silenziosa.
E il linguaggio ha una funzione spirituale, di ricucitura dei mondi, di ricomposizione. Con le parole sussurrate si stabiliscono segnaposti a cui aggrapparsi lungo il cammino:

 

camminare fa bene ai pensieri, li accorda, li raccoglie nel cuore. Alora è come se respirassero: diventano pensieri-passo, pensieri-terra, pensieri- albero, pensieri-cielo.

 

Imparando la lingua dell’altro, ci si riconosce simili oltre la differenza della specie, si crea una lingua dell’amore per conversare con i propri compagni animali, persino raccontare loro una storia.
E allenando lo sguardo a posarsi sulle cose, si impara a riconoscere il risvolto del dolore:

 

I suoi occhi avranno senz’altro visto, ma non hanno guardato a fondo. Se avessero guardato avrebbero scoperto i nomi delle cose che accadono e che a volte ci sembrano orribili, mo- struose. Smarrimento, perdita, violenza, inganno, crudeltà, pazzia. Se non si tiene lo sguardo anche su questo non si scorgeranno i loro fratelli e sorelle: entusiasmo, volontà, ricordo, gaiezza, compassione, gratitudine».

 

Accettare la complessità del mondo vuol dire arrendersi alla trasformazione, accogliere il mistero dell’altro, la capacità di sentire le cose invisibili, la possibilità per la luce di entrare nelle crepe, e per le persone di diventare volpi. Solo chi chiude la porta per paura non si tramuta, e non conosce “il languore, la bizzarria” che ti rimane dentro anche quando ritorni nella forma umana.

 

A volte, poi, bisogna accettare la trasformazione e basta. Come nel finale delle Streghe di Roald Dahl, il protagonista di Terra dello spirito cigno si rassegna a vivere nella forma di animale, pur di rimanere accanto alla sorella. D’altronde è labile il confine tra una specie e l’altra, perché pur nella diversità, si condivide qualcosa di sostanziale, quel filamento primigenio, sostanza carnale, minerale e vegetale insieme, che più di una volta ritorna come immagine in queste storie che raccontano, per riprendere le parole di Calvino, “la sostanza unitaria del tutto, uomini, bestie, piante, cose, l’infinita metamorfosi di ciò che esiste”.

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