di Giordana Restifo
«Raccontare un’unica storia crea stereotipi.
E il problema degli stereotipi
non è tanto che sono falsi,
ma che sono incompleti.
Trasformano una storia in un’unica storia».
Chimamanda Ngozi Adichie
Con queste parole si è espressa Chimamanda Ngozi Adichie durante la sua prima conferenza TED Talk, The Danger of a Single Story, nel 2009, cui si rifà il volume Il pericolo di un’unica storia, edito nel 2020 da Giulio Einaudi Editore. Un rischio, quello di affrontare la storia e le vicende di un paese, di un popolo, da un unico punto di vista, scadendo in stereotipi e pregiudizi, che ho corso in questi anni. La cosa più grave è che, senza rendermene conto, ci sono cascata anche io, ho creduto all’unica storia; nello specifico a quella sui serbi, che ho sempre considerato come aggressori e nazionalisti. Non posso negare di aver continuato a sguazzare nelle mie credenze fino a qualche settimana fa, quando mio padre, storico, mi ha regalato La cicala di Belgrado di Marina Lalović, pubblicato nel 2021 da Bottega Errante Edizioni (BEE). Leggendolo mi sono tornati in mente quel turbamento e quella sensazione di vergogna provati dalla scrittrice nigeriana nello scoprire che i messicani non erano come li descrivevano il governo e i media americani: «Ricordo il mio primo giorno a passeggio per Guadalajara. Osservavo la gente che andava al lavoro, che preparava tortillas al mercato, che fumava e rideva. Ricordo di aver provato, all’inizio una leggera sorpresa seguita da un moto di vergogna. Mi sono resa conto di essere stata talmente immersa nella narrazione mediatica sui messicani, che nella mia mente erano diventati soltanto una cosa: l’abietto immigrato. Avevo abboccato. Avevo creduto all’unica storia sui messicani, e non avrei potuto provare più vergogna di me stessa». Con questo sentimento è iniziato il viaggio alla scoperta di un popolo rivelatosi ai miei occhi fragile, confuso dagli avvenimenti della storia, alla disperata ricerca di una “normalità”, che si è anche ribellato al proprio “padre-padrone”, Slobodan Milosevic.
Il testo di Marina Lalović è stato inserito nella collana di BEE Le città invisibili, che raccoglie scritti di giornalisti, studiosi, autori, sulle parti meno conosciute di determinate città, battendo itinerari non propriamente turistici. All’interno di questi tascabili si trovano le illustrazioni di Elisabetta Damiani, che si occupa anche delle copertine.
L’autrice, insieme alla migliore amica Kristina, ci accompagna alla scoperta di Belgrado in una lunga passeggiata (della durata di circa 35 anni!), attraversando quartieri, epoche e cambiamenti sociali fondamentali. È impossibile, infatti, percorrere le strade della capitale serba senza notare gli stravolgimenti che hanno caratterizzato gli anni ’80 e ’90 del paese, per poi arrivare agli interrogativi del XXI secolo sulla propria identità.
Un’agognata “normalità”
La cicala di Belgrado inizia con una partenza, quella dell’autrice che, nel 2000, ha lasciato la propria città “sul più bello”, come molti dei suoi amici e parenti le hanno ripetuto negli anni. Ovvero quando il lungo regime di Milosevic stava per cadere e si prospettava, questa era la speranza di molti serbi, una nuova fase storica. Subito dopo le elezioni del settembre 2000, alle quali Lalović e i suoi amici, appena maggiorenni, avevano partecipato per la prima volta, che avrebbero segnato (a seguito di manifestazioni e proteste) la destituzione dell’ex presidente serbo, si è trasferita in Italia, «quando, dopo un decennio di buio nei Balcani, finalmente si vedeva la fine di un politico e di un’epoca. Allora partivo perché sapevo che per vedere quella luce ci sarebbero voluti diversi anni». L’autrice non ha desistito, nonostante le difficoltà per ottenere il visto studio, imparare e comprendere una nuova lingua. Non solo questioni pratiche, anche la paura per il futuro e la nostalgia per ciò che si sta abbandonando, hanno giocato un ruolo fondamentale, perché «prima di diventare immigrato, sei un emigrato. Prima di arrivare in un paese, hai dovuto abbandonarne un altro, e i sentimenti di una persona verso la terra che ha abbandonato non sono mai semplici. Se si è partiti, si sono abbandonate delle cose: la repressione, l’insicurezza, la povertà, la mancanza di orizzonti. Ma è frequente che tale rifiuto si accompagni a un senso di colpa» (in questo passaggio Marina Lalović riporta le affermazioni di Amin Maalouf).
Per tenere a bada quel senso di colpa arriva con il pullman in Piazza Partigiani a Perugia carica di foto, oggetti e vestiti che le riportino subito alla memoria la casa appena lasciata.
Durante gli anni passati nel capoluogo umbro la studentessa serba, che ha frequentato l’Università per Stranieri, si è scontrata più volte con le proprie origini. Ha conosciuto ragazzi e ragazze provenienti dal Montenegro, dalla Croazia, dalla Bosnia, dal Kosovo; con loro ha scoperto la “jugosfera”, ha costruito tanti rapporti anche se non è stato sempre facile a causa della diffidenza nei confronti di chi proviene dalla Serbia. Trovarsi a chilometri di distanza dalla ex Jugoslavia, in territorio neutro, ha aiutato, ma gli stereotipi e la percezione di chi ti vede sempre come cittadino di un paese nemico, come invasore, sono stati duri da affrontare:
In Italia la mia provenienza doveva essere sempre accompagnata da una contestualizzazione: dalla spiegazione che io non ero nazionalista, che stavo in Italia proprio perché il nazionalismo lo detestavo, che i miei amici e i miei genitori avevano passato gli anni a protestare contro il regime. Questo era l’indispensabile preludio a tutte le nuove conoscenze che esigevano la conferma che fossi “normale” e non una minaccia.
Negli anni ho conosciuto brillanti architetti, donne e uomini, serbi; non ho mai avuto il coraggio di chiedere loro cosa pensassero, che ricordi avessero di quegli anni tumultuosi, per paura che le risposte fossero solo una conferma dei pregiudizi che avevo. Abbiamo sempre parlato di Belgrado, di street art, di cibo tipico, di vacanze. «Vorremmo andare in Montenegro prossimamente» ho detto in una sera di settembre mentre ci trovavamo in un locale della zona di Cetinjska a uno di loro, «eh sì, il Montenegro è molto bello, d’altronde è tutta Serbia». Una frase. Una sensazione. Sono bastate per confermarmi quell’unica storia. Eppure leggendo La Cicala di Belgrado ho compreso quanto anche i serbi abbiano sofferto. Non era facile rendersi conto di ciò che stava accadendo attorno al proprio paese:
Vivere succubi di un regime; conoscere la parola embargo a dodici anni e l’inflazione galoppante con quantità enormi di banconote stampate, dai numeri impossibili da leggere perché contenevano innumerevoli zeri, prive di valore e usate per addobbare gli alberi di Natale; le code davanti ai negozi perché vigeva il razionamento del cibo; le restrizioni all’elettricità, all’acqua e poi il suono dei fischietti per le strade di quelli che dal 1996 si opponevano al regime. Gli anni Novanta erano tutto questo. All’inflazione galoppante e all’embargo si aggiungevano le frontiere chiuse, i visti, il regime, il turbo-folk, gli eroi di guerra, il nazionalismo, le proteste dal ’96 al ’98, gli scontri con la polizia [inoltre, la propaganda dettata attraverso la tv e la radio debilitava ancor più le menti]. Il lavoro non c’era ed essere licenziati era una cosa ordinaria. Un isterismo costante. Una vita sospesa e vissuta nella completa inconsapevolezza di ciò che succedeva nelle altre ex repubbliche jugoslave: la guerra, l’assedio, il genocidio.
Questa insicurezza ha spinto la gente alla ricerca smodata di una banale normalità, necessaria anche per la «sopravvivenza mentale». Durante le ore che precedevano il coprifuoco, l’autrice andava in bicicletta con l’amica Kristina alla scoperta della città; la popolazione esprimeva il proprio desiderio di vivere organizzando feste e spettacoli nei teatri nelle ore diurne. Quando ciò che la capitale aveva da offrire non è più bastato, i belgradesi, soprattutto i giovani, hanno cercato questa agognata normalità all’estero, tanto che, come scrive Lalović, negli ultimi venticinque anni la sua città natale ha vissuto una vera e propria emorragia demografica.
Le cose che abbiamo in comune
Potremo studiare, leggere, ascoltare i racconti e sforzarci di immedesimarci, ma noi europei, nati dagli anni ’80 in poi, non potremo mai comprendere fino in fondo cosa significhi vivere succubi di un regime, durante una guerra. Il “nostro mondo” e il “loro mondo”, quello dei paesi della ex Jugoslavia, sono sempre apparsi, agli occhi di molti, distanti e diversi. Eppure non immaginano gli italiani quanti aspetti abbiamo in comune con la società serba. C’è un capitolo, “La corrente ammazza”, nell’opera di Marina Lalović che mi ha fatto pensare ai nostri riti scaramantici, alle nostre superstizioni.
La porta e le finestre non devono mai rimanere aperte contemporaneamente, la nonna dell’autrice le ripeteva di continuo «promaja ubija», la corrente ammazza, appunto.
Evitare di sedersi all’angolo del tavolo (il rischio è di non sposarsi mai).
Percorrere sempre la stessa strada.
Evitare le fughe tra una mattonella e l’altra sul marciapiede. Portare con sé in viaggio immaginette sacre della Madonna o di qualche Santo.
Ci ricorda qualcosa?
Non solo fede, fobie, credenze popolari, vi è un anche un altro aspetto che potrebbe essere familiare, una pratica che in Serbia è conosciuta come gluvarenje (perdigiorno).
Il tempo libero a Belgrado ha una durata particolare. Nei giorni delle più svariate crisi i bar erano sempre pieni. Anche nei momenti in cui la busta paga mensile ammontava a due marchi tedeschi, la gente andava a prendersi un caffè e a chiacchierare. Il rito del caffè rivela che il tempo può scorrere diversamente rispetto al luogo dove si consuma. Quando una persona ti invita al bar a Belgrado solitamente ci si aspetta di passare almeno una o due ore assieme a chiacchierare.
Dai bar si passa alle Kafane, trattorie tipiche che riempivano la città, nelle quali non si andava solo per mangiare ma avevano uno specifico valore sociale, culturale, politico ed economico. Con il tempo molte città sono scomparse, alcune si sono modernizzate per aprirsi anche al turismo. In altre, invece, è ancora possibile ascoltare le vecchie canzoni della tradizione, essere accolti da nuvole di fumo (a Belgrado finora non è entrato in vigore il divieto di fumare nei locali) e da gente che urla, e, soprattutto, uscire con addosso un forte odore di rakija (immancabile la bevanda più popolare dei paesi balcanici).
Topografia, architettura. Tutto si trasforma per non cambiare
Attraverso la lunga passeggiata di Marina Lalović si percepisce la trasformazione, avvenuta negli anni, della gente, della moda, della topografia e della morfologia dei quartieri. «A Belgrado», spiega l’autrice, «abbattono e costruiscono palazzi ogni sei mesi e Vračar è il punto di riferimento di questi cambiamenti repentini. Gli stili architettonici si schiaffeggiano ed è facile passare dall’imitazione del barocco al modernismo sfrenato».
Come se abbattere e costruire fosse il metro di paragone per dimostrare una modernità incalzante. Toza Vlajković, la cicala del quartiere Čubura, conserva solo dentro di sé ciò che è stato il suo quartiere, perché guardandosi attorno non ne riconosce affatto lo spirito, la gente che ci vive è soffocata dai palazzi, da quelle parti ci sono «morti viventi che camminano: vittime del neoliberismo forzato». Per il vecchio romanziere «Belgrado è la città delle distruzioni e degli sconfitti».
Da qualche anno, poi, c’è un acceso dibattito sul gigantesco progetto urbanistico Belgrade Waterfront, la Belgrado sull’acqua, che sta nascendo sulle sponde del fiume Sava. La popolazione si è nuovamente spaccata in due fazioni: da un lato i prezzi inaccessibili degli appartamenti e le famiglie sfrattate dalle proprie case storiche per fare posto ai palazzi, agli hotel e ai centri commerciali; dall’altro la creazione di posti di lavoro e un aspetto più contemporaneo della città.
Non è bastato modificare la forma urbis per cambiare la percezione di molti belgradesi: «Dopo ogni periodo tormentato anche la topografia della città cambia. Il mero cambiamento dei nomi delle strade non ha regolato i conti con il passato e non ha portato giustizia all’ingiustizia storica». Purtroppo non è sufficiente trasformare tutto per cambiare la storia; i vecchi attriti, le questioni non risolte, per quanto sepolte da colate di cemento, rimangono sopite là sotto, pronte a esplodere se innescate.
C’è un altro suggerimento di Chimamanda Ngozi Adichie, di cui potremmo e dovremmo fare tesoro: «Le storie sono importanti. Molte storie sono importanti. Le storie sono state usate per espropriare e per diffamare. Ma le storie si possono usare anche per dare forza e umanizzare. Le storie possono spezzare la dignità di un popolo. Ma le storie possono anche riparare quella dignità spezzata».