William T. Vollmann: scenografo di vite umane

di Fabrizia Gagliardi

«L’attesa del fallimento, e poi sentire addosso la tristezza e la realtà sincera dell’errore, mi aiuta a essere più presente nel mondo reale.» Lo afferma William T. Vollmann in un’intervista sul Tascabile, e immediatamente la sua immagine di autore postmoderno, degno erede di Tom Wolfe e Thomas Pynchon, fluttua riconoscibile nell’olimpo stilistico imponendo però un’identità che lo rende una creatura terrena. Non è una maledizione e neanche una punizione: l’incontro in prima persona con la realtà è la porta d’accesso alla conoscenza del mondo. Nelle opere di Vollmann tutta l’ironia, l’autoreferenzialità, l’accentramento pop e inconsapevolmente cieco del sentire americano, si annullano progressivamente con un processo d’ingenua scoperta simile a quello di un bambino.
Per averne un’idea basta leggere Storie dell’arcobaleno una raccolta di racconti e reportage pubblicata nel 1989, che minimum fax ha riportato in libreria, con la traduzione totalmente rivista di Cristiana Mennella, un ulteriore tassello dell’opera di recupero dell’autore americano da parte della casa editrice romana.
L’esergo che apre la raccolta è tratto da Berenice di Edagr Allan Poe e fornisce da subito le coordinate utili per orientarsi nel modo di sentire dell’autore: «Molteplice è l’infelicità. La sventura terrestre è multiforme. Sovrastando come l’arcobaleno la vastità dell’orizzonte, i suoi colori non sono meno vari dei colori dell’iride: altrettanto nitidi, e tuttavia altrettanto mescolati».
Nella San Francisco di fine anni Ottanta, fino all’antica Babilonia e in India, fiction e non-fiction si mescolano continuamente per restituire, con acutezza di sguardo ed empatia inedita, il ritratto di skinhead in declino, prostitute di quartieri malmessi, sovrani e condottieri della Bibbia. Sono tutte creature tragicamente umane avvolte da una verità che non risulta mai morbosa nella sua spietatezza. L’essere completamente senza filtri nella scrittura di Vollmann non si traduce in una mancanza di umanità o nella freddezza della deontologia professionale: tutta la distanza è colmata da una logica poetica narrativamente controllatissima.
Per comprenderlo basta iniziare da Lo spettro visibile che si apre con una serie di scene che si svolgono all’interno di un ospedale. Il destino dei pazienti è determinato dal colore della linea che li conduce al prossimo reparto. Lo spettro visibile non è altro che la luce percepita da tutti, il compito dell’autore sarà disperdere la gamma di colori attraverso il prisma della scrittura.
Come far coincidere l’identità fortuita di ogni testimonianza con l’astrattezza del colore? L'impronta stilistica di Vollmann sceglie due approcci: il primo è la contingenza dei corpi e delle ideologie, il secondo è l’uso di visioni al limite dell’allucinogeno che stabiliscono una corrispondenza simile a quella che si ravvede nell’Estasi di Santa Caterina: una teatralità sacra pervasa da carnalità erotica e ultraterreno in cui chi scruta il peccato riconosce, a sua volta, le proprie colpe.
La curiosità con cui si osserva un corpo è un’allucinazione bella e buona perché a raccontare la storia è la persona che lo abita. È disturbante pensare alla finitezza della carne, quasi offensivo per il vivente, una curiosità patologica che ha paura di scrutare il senza vita, il destino fortuito riassunto nella fatalità di un’amputazione, la distorsione di un osso, la lacerazione di tessuti. È disturbante pensare a un corpo senza le associazioni mentali che suscita perché rassicurano l'osservatore di poter avere un pre-giudizio. Dalle indagini di Vollmann non sembra così scontato e ne I cavalieri bianchi leggiamo del suo periodo di convivenza con degli skinhead del Tenderloin. Oltre alla chiara connotazione d’immagine dei neonazisti il resto dell’ideologia si disperde in tentativi di affermarsi non dissimili dalla frustrazione provata da chi è incastrato in una vita che non ha scelto:

Mentre gli altri sconfitti, lo storpio, il cieco che piroettava in strada tra le fiamme delle allucinazioni, tiravano avanti appoggiandosi alla pietà degli altri, gli skinhead trovavano forza dal loro isolamento e si autoincensavano fino a convincersi che le cose che sapevano fare erano le uniche da fare. Era la retorica dell’inevitabile declino, i loro corpi tesi sapevano di essere in decadenza, sapevano che la città era al tramonto e gli Skinz scrivevano disperatamente SF SKINZ in Sunset, Haight e Church e Duboce, a North Beach; era bello ma non serviva a niente.
Idee politiche a parte, non erano tanto diversi dai pendolari intrappolati sul tram che, in tenuta d’ufficio, si fissavano i piedi nervosi, e aspettavano, aspettavano, aspettavano.

In Signore e luci rosse l’ironica indicazione delle cifre spese per il tempo trascorso con le prostitute intervistate si alterna alla vita di strada e al rallentare del tempo quando lo scrittore si ritrova solo con loro.

Il giudizio di Vollman non comparirà mai, fagocitato dalle maglie della cronaca che, a una prima lettura, potrà sembrare un elenco sterile di avvenimenti messi uno accanto all’altro. In seguito questa accortezza farà percepire la vastità di un panorama composto da un abile scenografo di vite umane.

La tecnica di accostare la vicenda del singolo al coro dell’umanità e della storia è anche più efficace nei pezzi di reportage come ne Gli Ingegneri Indaco in cui il fanatismo ideologico del gruppo di performer dei Survival Research Laboratories è accostato alla vicenda di un amico polacco durante la seconda guerra mondiale.

Le parti più suggestive della raccolta sono costituite dalle descrizioni frammentate dei quartieri malfamati con i bar sudici, spacciatori e prostitute in ogni angolo, gang di skinhead che presiedono il territorio. La metropoli si tinge di un orrore e di un tipo di anomalia che stimola una curiosità al confine tra la perdizione e la comprensione.

Era una notte fredda e senza luna. Certe notti sono trasparenti proprio a causa del freddo, tanto che sembra di scorgere i freddi e vuoti spazi interstellari, finché lo sguardo non si spinge sempre più lontano e approda nell’aldilà nero e senza vita, e anche le stelle cominciano a sprofondare, come i primi fiocchi di neve invernali che atterrano sulla superficie di uno stagno nero non ancora ghiacciato, e i fiocchi di neve scendono sempre più giù, nell’acqua così torbida che nessuno sa se si scioglieranno o se raggiungeranno il fango putrido ai confini delle galassie. A Chinatown, però, il tramonto delle stelle era oscurato da luci più vicine e solitarie. I fari delle auto sfrecciavano verso North Beach come meteore addomesticate. Le gioiellerie e i ristoranti facevano luce con le insegne e le vetrine, suscitando gli appetiti di chi doveva essere sazio di comprare e di spendere, mentre i vagabondi si giravano dall’altra parte.
I lampioni splendevano imperiosi come puttane bionde a testa alta.

Non c’è uno scorcio che sia uguale all’altro e tutti contribuiscono a dare unità al luogo narrativo con una visione che riserva sempre qualche fascino nascosto. L’osservatore non è mosso da un sadico compiacimento e non ha un gusto particolare per la decadenza, ma entra nell’ottica che l’attenzione ai reietti negli angoli in cui nessuno guarda può individuare indizi di speranza («Niente è più bello del buio più oscuro» scriverà nella prefazione).
In un’altra recente intervista Vollmann ha affermato che la sfida è stata «ricercare una varietà all’interno di qualcosa di uniforme» perché «la nostra mente cosciente, per aiutarci ad andare avanti nella vita, crea delle categorie ben definite». L’obiettivo è di creare unità all’interno dell’eterogeneo e così anche i colori dell’arcobaleno, così diversi l’uno dall’altro, in fondo sono inevitabilmente uniti. In tredici racconti attraverseremo tutte le sfumature dello spettro visibile e ognuna avrà un significato preciso: il rosso per il sangue e la prostituzione, il giallo fino all’arancione per il mito e l’amore romantico, il verde per l’erotismo, il blu profondo per la spietatezza della morte.
Lo stesso narratore che ha descritto la sinuosità di un bisturi su un corpo durante un’autopsia, o gli occhi ingialliti di alcolizzati e le vene esauste di drogati prossimi alla morte, è in grado di trasportarci nei sentimenti più puri e sinceri in Rosa gialla. Tutto inizia dal fluttuare in un mondo alterato da funghi allucinogeni, fino ad approdare all’ingenuità di un amore per Jenny, la ragazza coreana quasi impossibile da conquistare per la differenza culturale.
Allo stesso modo rimarremo stranamente affascinati dalla purezza dell’ossessione del protagonista de Il vestito verde, il racconto dell’infatuazione del narratore per l’abito verde di una vicina di casa.
La comprensione profonda delle persone ai margini ha come conseguenza la consapevolezza di sapere poco dell’America e del modo di guardare americano e, infatti, Storie dell’arcobaleno è un’esperienza così determinante da convincere Vollmann a partire per l’Afghanistan durante l’invasione sovietica. Usando la non-fiction comporrà Afghanistan picture show. Ovvero, come ho salvato il mondo, l’esperienza diretta della resistenza dei mujaheddin dalla casa di un generale afghano in esilio.
Per oltre un decennio ha poi lavorato al ciclo di romanzi I sette sogni: un libro di paesaggi nordamericani che si concentra sul rapporto tra i colonizzatori e i conquistati tra Canada e Stati Uniti (di cui minimum fax ha pubblicato I fucili e La camicia di ghiaccio).
La sua produzione non si ferma qui e altre opere includono antologie di racconti sul viaggio come Tredici storie per tredici epitaffi; Storie della farfalla, un’esperienza fra Oriente e Occidente alla scoperta di turisti del sesso, perdizione e amore; e il romanzo Europe Central – che gli è valso il National Book Award nel 2005 – che descrive una miriade di personaggi coinvolti nella guerra tra Germania e Unione Sovietica durante la seconda guerra mondiale.
Una curiosità torrenziale continua a fargli concepire lavori mastodontici sempre curati minuziosamente in cui si percepisce una lenta metamorfosi di stile: se prima l’immaginazione giocava sulla spettacolarità visiva mano a mano si sposta sull’attenzione alla struttura narrativa.
Imperial del 2009 è un saggio di oltre 1.300 pagine che racconta l’omonima contea californiana al confine col Messico, mentre i volumi No Immediate Danger: Volume One of Carbon Ideologies (2018) e No Good Alternative: Volume Two of Carbon Ideologies (2018), di circa 600 pagine ciascuno, sono stati definiti l’Infinite Jest del cambiamento climatico.
La natura misantropa di Vollmann non gli ha impedito di continuare a produrre rimanendo fedele a se stesso. Ne La fine della fine della terra Jonathan Franzen gli dedicherà un piccolo saggio sull’amicizia e, oltre a riconoscerne la statura letteraria paragonandolo a Dickens e Balzac, si lascerà andare a un elogio sullo stile che riassume alla perfezione la vita artistica: «Anche lui è pieno del tipico disprezzo americano per l’autorità, intraprende vasti progetti, e ogni tanto fa fiasco. Quella che è diventata la sua forma caratteristica – passaggi relativamente brevi, organizzati secondo una logica più poetica che narrativa, con titoli elusivi o ironici – rispecchia il suo modo di affrontare argomenti che la maggior parte degli scrittori troverebbe troppo enormi da trattare: nebulizzandosi e disseminando nel vento le proprie percezioni. Sembra che non ci sia nulla che non gli interessi».