Le cose perdute di Judith Schalansky


di Debora Lambruschini

 

Come tutti i libri, anche questo è mosso dal desiderio di far sopravvivere qualcosa, di far rivivere il passato, rievocare le cose dimenticate, dare la parola a quelle ammutolite e rimpiangere quelle che abbiamo mancato di fare. Nulla può essere riportato indietro con la scrittura, ma tutto si può rendere esperibile.
(Inventario di alcune cose perdute, introduzione, p. 26)

 

Le intenzioni di Inventario di alcune cose perdute, di Judith Schalansky pubblicato da Nottetempo nel 2020 nella traduzione di Flavia Pantanella, sono ben applicabili all’intero universo letterario dell’autrice, già nota al pubblico per il suo Atlante tascabile delle isole remote (edito da Bompiani nel 2015, per la traduzione di Francesca Gabelli). Costruendo di volta in volta storie diverse, partendo da spunti nuovi, ogni testo di Schalansky dialoga con l’altro, in un’occorrenza di tematiche e stile che ben rendono l’idea di un continuum letterario.
Inventario di alcune cose perdute si apre con un’isola, quasi fosse la cinquantunesima di quelle terre remote esplorate con l’Atlante antecedente, ma sono molti i rimandi, talvolta evidenti come in questo caso altre più sottili, che creano un flusso ininterrotto tra i suoi libri. Continuo a usare il termine generico “libro”, procedendo sceglierò “storia”, perché mi paiono gli unici adatti a indicare Inventario di alcune cose perdute e il più recente Il blu non ti dona, sempre edito da Nottetempo; Schalansky rifugge le etichette e questi due testi si muovono tra i confini labili del racconto, del romanzo, del saggio, del memoir, creando un ibridismo di forma che risulta particolarmente affascinante ed efficace.
Inventario si compone di dodici storie, tutte della stessa lunghezza, precedute ognuna da brevi ritratti di cose appunto andate perdute: oggetti, luoghi, personaggi dimenticati, che forniscono lo spunto – non sempre immediato ed evidente – per l’invenzione letteraria. Isole sommerse, scheletri di unicorni, carmi d’amore, dipinti distrutti da un incendio, sono solo alcuni degli elementi perduti «per negligenza o distruzione mirata» che Schalansky tratteggia nel tentativo di salvare. Dodici elementi, quindi, dai quali sgorga l’invenzione letteraria, in un intreccio di storie reali o inventate, in cui la scrittura si fa di volta in volta diversa: la voce, il punto di vista mutevole in funzione di racconti realistici o fantastici, storie al confine con il saggio o, ancora, con il memoir. Una polifonia che arricchisce la narrazione, di cui solo qualche volta percepiamo la tecnica sovrastare la narrazione, nel complesso assai efficace. Schalansky si muove con destrezza, per esempio, fra l’invenzione di una Greta Garbo sul viale del tramonto, sola e fragile, e la ricostruzione del mito di Saffo fra stralci dei carmi e dati contraddittori.

 

Se ne stava lì col naso gocciolante. Il moccio che colava. E nessuno la fermava. Che tristezza! Non c’era nessuno che si occupasse di lei. Che le prestasse attenzione, la riconoscesse, l’aiutasse. Tutti passavano di corsa. Senza accorgersi di lei. Era solo una donna che rovistava nella borsa con le dita guantate.

(p. 105)

 

Occorrono diverse pagine per rendersi conto di chi sia, appunto, questa donna sola, sconcertata dall’indifferenza delle persone, che vaga senza meta in una città che non le presta più attenzione e quando infine scopriamo la sua identità, Greta Garbo, ci siamo forse resi conto che taluni aspetti, un certo grado di tristezza e solitudine, si posano allo stesso modo sulle persone comuni rimaste prive di affetti. E la vecchiaia, la decadenza del corpo, il non riconoscersi più negli sguardi degli altri, il rifiuto di trovare riflesso nello specchio un volto che non appartiene al ricordo, è l’idea di un’altra cosa perduta, la giovinezza, che nemmeno questo inventario potrà salvare.
E si trovano molte occorrenze fra i testi di Schalansky, in un dialogo ininterrotto. Fra questi, un luogo: il palazzo della Repubblica di Berlino, noto al tempo della DDR come la Casa del Popolo. Rovine, costruite su altre rovine. Le due Germanie unite, la decisione di smantellare quella costruzione contaminata dall’amianto, cancellando insieme anche il passato. Lo stesso luogo ritorna tra le pagine di Il blu non ti dona, la sua assenza, il mancato riconoscimento, la nostalgia, il ricordo. Sono in queste pagine frammenti che si intrecciano fra loro, Storia e invenzione letteraria si sovrappongono insieme ai piani temporali su cui l’autrice si muove: l’infanzia sulle coste del mar Baltico, le partenze, lo sgretolarsi dei rapporti, le ricerche, la ricostruzione, il desiderio di ricordare per non perdere. È, dei due, il libro più intimo e personale, che scava dentro la propria memoria, ma prende le distanze dall’autofiction e le sue derive recenti e autocentriche per farsi qualcosa di altro, assai più interessante, mentre realtà e invenzione s’intrecciano. Lo sguardo di Schalansky è concentrato all’esterno, su quei luoghi e oggetti della memoria, sulle storie che evocano, nel tentativo di salvarle. 

Ancora una volta il narratore si fa molteplice, si confonde dentro le storie, e i luoghi tornano protagonisti pieni di fascino e mistero, siano essi ambienti naturali o costruzioni dell’uomo, scomparsi, leggendari, mutati. Un’isola, poco lontano dalla costa ma ugualmente irraggiungibile:

 

La Oie esisteva solo in lontananza. Un segno per le navi e per le condizioni di visibilità del nonno. In realtà non era chiaro se la Oie esistesse per davvero.

Il nonno non aveva forse raccontato dell’esistenza delle fatemorgane, quelle oasi o isole che apparivano nell’arsura tremolante e si dissolvevano quando ti avvicinavi?

Magari anche la Oie era solo una fatamorgana e sarebbe scomparsa se mai qualcuno le si fosse avvicinato.

(Il blu non ti dona, p. 19)

 

La fascinazione per il mare e le sue leggende pervade ogni pagina: mare che è struggente bellezza, sostentamento, vita, ma anche distruzione, morte, tempesta, pericolo. Ed è intorno al mare che Schalansky costruisce questa storia, ogni frammento ne riverbera un altro, in una narrazione priva di plot ma in cui la rotta resta ugualmente chiara, in mezzo alle deviazioni date dal ricordo, dalle digressioni, cosicché anche la storia sommersa prende forma. Ogni personaggio, ogni racconto, reclama il proprio posto e in questa alternanza fra realtà e invenzione presto i due piani si confondono, le connotazioni formali perdono di importanza.
Ciò che conta, ancora una volta, è far sopravvivere qualcosa. Fare in modo che le cose perdute continuino a esistere attraverso le narrazioni, per farsi incantare dal mistero di un’isola irraggiungibile, di una città finita sommersa:

 

Al riverbero della torcia le pietre lampeggiavano nel buio come piccoli occhi, e non bisognava far altro che raccoglierle. Senza questo trucco era difficile scovarle tra i fili arricciati delle alghe verde bottiglia e quei pezzi di legno lucidissimi risalenti a chissà quale epoca. Magari uno di quelli era stato l’albero di una nave affondata, o l’asse di una zattera, oppure una trave del tetto della chiesa di Vineta.

(p. 111)