Tradurre La moglie di Martin Guerre, di Janet Lewis

La moglie di Martin Guerre di Janet Lewis, è il recente testo pubblicato da Racconti Edizioni, nella collana Sacrafaggi, dedicata alla novella e al racconto lungo. Eva Allione, traduttrice del libro, ci regala una sua riflessione sull’esperienza e sul suo lavoro sulla scrittura di Lewis.

di Eva Allione

 «Ho fatto l’offerta per Lewis.»
È fine novembre quando ricevo l’email. Vorrei gridare di gioia ma mi freno. È presto, mi dico. Non sarebbe la prima volta che una traduzione promessa si arena sull’offerta. La moglie di Martin Guerre di Janet Lewis è una mia creazione. L’ho trovato, letto, amato, proposto; è piaciuto, si può fare, forse si farà: ma è troppo presto per l’euforia.
Comincio lo stesso a fantasticare: e se andasse in porto? Se andasse in porto sarebbe non solo la prima volta che propongo un libro e arrivo a tradurlo; sarebbe la prima volta che traduco qualcosa che ho amato prima da lettrice e solo in seguito da traduttrice. Sarebbe quel libro, quello che aspettavo da un pezzo: il libro da propinare al parentado, agli amici e al parentado degli amici. Perché Martin Guerre è un ibrido trasformista, un romanzo passe-partout. È la storia di una donna, ma non è women’s fiction (qualunque cosa voglia dire). È storico, ma non è di genere. È letterario, ma non è pretenzioso: se lo può leggere la zia del true crime e l’amico snob che legge solo classici. È troppo breve per stancare il lettore debole, troppo intenso e penetrante per annoiare quello forte. È fiction ma è una storia vera. È limpido ma imprevedibile. È denso ma non è un riassunto. Cerco da un sacco di tempo di tradurre un romanzo così. Ma è ancora presto per esultare.

È fine giugno quando firmo il contratto. Ho tre mesi pieni per meno di cento cartelle, è tutto il tempo del mondo e anche di più, è talmente tanto tempo che voglio provare un azzardo, un esperimento, un’idea vagheggiata e mai messa in atto. Tradurrò il romanzo come se fosse un racconto (vorrei tanto tradurre racconti ma l’occasione continua a sfuggirmi): prima lo leggerò attentamente, da capo a fondo. Cercherò tutte le parole che non conosco, cercherò quelle che credo di conoscere e anche quelle che conosco, per accertarmi che sia proprio vero che le conosco. Ascolterò rime e assonanze e le segnerò a penna per non smarrirle, scioglierò i nodi sintattici e rischiarerò le oscurità semantiche. Farò ricerche in francese (non so il francese) per assicurarmi di cogliere tutto, per illuminare del testo ogni nicchia, crepa e anfratto. Lo farò mio. Solo allora, e dico, solo allora, aprirò Word e comincerò a scrivere.

Non è la prima volta che ci provo. Perdersi nel testo inglese e dimenticare l’italiano è un piacere dolcissimo, almeno all’inizio: quando la consegna è lontana e ci si può abbandonare alle velleità, ci si può immaginare lettori e amanti platonici e scordare il lavoro sporco dietro l’angolo. Poi i giorni passano, si avverte la pressione, subentra anche un po’ di noia: ma che ci fai qui a un mese e mezzo dalla consegna a cincischiare sull’analogico? Dai, mettiti al lavoro, ché si fa tardi.
Ma con Martin Guerre è diverso. Sarà il languore dell’estate che quest’anno, per la prima volta da secoli, ho deciso di passare al mare; sarà il lavoro grosso e noioso che si è insinuato nel mentre e che ispira pensieri di fuga. Sarà che il lessico di Lewis mi è divenuto familiare, che nella sintassi vedo una trasparenza seducente, di quelle che promettono faville col minimo sforzo; fatto sta che in questa lettura attenta e dilatatissima mi ci trovo da dio e non ho nessuna fretta di finirla.

È l’11 settembre quando comincio a scrivere, mancano diciannove giorni alla consegna. Ho fatto i calcoli: un’ottantina di cartelle, dieci cartelle al giorno per otto giorni, ce la posso fare.
L’inizio è faticoso; l’inizio è sempre faticoso, ma le difficoltà di quest’incipit me le porterò dietro fino alla revisione. Dopo mesi in gradevole e placida compagnia del testo originale, a esplorarne la bellezza come un’amante in venerazione, sono costretta a rientrare nell’italiano e vedere se e come è ricreabile, questa bellezza.

 

Una mattina di gennaio del 1539, nel villaggio Artigues si celebrò un matrimonio. Quella sera i due bambini che erano convolati a nozze si misero a letto nella casa del padre dello sposo. Erano Bertrande de Rols, di undici anni, e Martine Guerre, della stessa età, entrambi eredi di famiglie contadine benestanti, antiche, tradizionali e fiere come tutte le casate feudali di Guascogna.

 

Mi accorgo quasi subito che le costruzioni sintattiche dell’inglese, robuste e precise come le avesse tracciate un ingegnere, in italiano sembrano gli scarabocchi di un bambino. La familiarità col lessico si trasforma in un piattume di ripetizioni. Il sinonimo che sembrava perfetto rivela un ironico retrogusto disneyano. L’ambivalenza dello «you» diventa una ridda senza soluzione. La nicchia, la crepa, l’anfratto accuratamente esplorati e illuminati non sono riproducibili; in compenso spuntano armadi a muro col triplo fondo segreto che m’erano sfuggiti.
Temo di non farcela, ma non c’è il tempo di andare nel panico.
Scrivo a testa bassa, non importa se viene male, se non sta in piedi, se ricalca l’inglese. Vado avanti. E a ogni pagina scritta, il peso, la paura, la fatica di questa traduzione sembrano farsi un poco più leggeri. Rinuncio alle geometrie dell’originale in nome della stabilità. Riscopro il «voi» universale (siamo o non siamo a ridosso del Medioevo, in una regione arretrata della Francia?). Mi rassegno all’ironia del sinonimo, e rammento a me stessa che c’è anche in originale. Godo della possibilità di usare qualche espressione un po’ retrò come «il Maligno» (quando mi ricapita?). Mi diverto a scansare le frasi dove Martin Guerre va alla guerra. Ci prendo gusto. E in qualche modo, con quest’atto di forza e di fiducia, vesto i panni che l’esperimento, a mia insaputa, mi imponeva di vestire: divento la scrittrice che in testa ha già tutto, deve solo trovare il modo di metterlo giù.

Finisco in tempo e ho l’ardire di prendermi un paio di giorni in più (editore comprensivo) per un’ultima rilettura. Rileggo con paura: temo, con questa scrittura impetuosa e istintiva, di aver devastato l’originale e di non trovarlo più. È con sommo sollievo che, invece, lo riconosco.
Quando riesco a vincere la riluttanza e lascio finalmente andare la traduzione, mi rendo conto che sarei felice di passare il resto della vita traducendo testi come questo, e traducendoli così.

È il 3 ottobre quando consegno, e sono di nuovo innamorata.