Il racconto al di fuori della legge, di Ricardo Piglia

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Edizioni Arcoiris pubblica Il gemello di Luis Gusmán, tradotto da Loris Tassi, proibito per immoralità nel gennaio del 1977 dalla dittatura. Un’opera fondamentale dell’avanguardia letteraria argentina della seconda metà del Novecento, un libro trasgressivo, nella forma e nel contenuto, che non risente del trascorrere dei decenni.

Cattedrale vi propone la postfazione al libro di Ricardo Piglia, per gentile concessione dell’editore.



Il racconto al di fuori della legge
di Ricardo Piglia

traduzione di Raul Schenardi


Si dovrebbe dire che Il gemello è un romanzo poliziesco nel quale l’assassino, la vittima, il detective e il narratore sono la stessa persona: un gemello è stato assassinato, l’altro viene incolpato, torturato sotto gli occhi di tutti; il sospettato cerca una via d’uscita, il suo racconto va e viene, articolandosi fra la ripetizione e la suspense di un senso sempre differito. In realtà, si ricostruisce un crimine che nessuno ricorda e l’unico “enigma” che questa confessione permette di decifrare è il “mistero” della paternità.

 

L’oro e il padre: l’assassino

Storia familiare, in questo testo al di fuori della legge regna l’oro, e il suo luccichio è lo specchio in cui si sostituisce il padre assente. Cantante di tango, Carlos Montana entra in scena e ne esce, organizzando intorno alla sua presenza la ragione di un racconto di cui è al contempo genesi ed effetto. Equivalente generale, sta sempre “da un’altra parte”: ubbidisce alla logica dell’oro, che deve stare fuori dal sistema e non entrare nelle relazioni di scambio per significare, per essere l’emblema, il segno, la metafora di ogni possesso: «Mio padre scintillante con i suoi anelli, i gemelli, l’orologio d’oro, splende così tanto che non riesco a guardarlo». Assente, lascia nel racconto soltanto la memoria di quel luccichio che segnala il suo posto nel testo familiare: ogni volta che appare l’oro o se ne vedono le qualità, si sta parlando del padre e qualcuno cerca di (o desidera) occupare quel posto. Alla fine non si potrà separare l’accecamento che quel fulgore provoca da una funzione insieme magica e naturale che, nel dare un nome alle cose, decide il senso e impone la legge.
Abbaglio trasversale al racconto è la fascinazione che cattura lo sguardo della madre e l’acceca: quando quella luce irrompe, lei «agita le mani in aria come se fosse diventata cieca, con lo sguardo perso». Scura, cupa: «Le brillano gli occhi per il piacere e le si illumina lo sguardo, come se l’arcobaleno le stesse comparendo sulla faccia». Se ciò che acceca la madre e la illumina è l’oro del padre, si capisce perché il narratore parli di uno strano «animale bicolore»: immagine trasparente che collega in uno stesso registro simbolico la «valle profonda e terribile» della madre con quella luce del padre che è la ragione del testo.
Costruendo una metafora nella quale il racconto stabilisce la sua prima relazione con il crimine che lo genera, quell’«animale bicolore» che ha divorato il gemello, tale accostamento rappresenta la sventura di una funzione negata, colpevole, a cui il testo allude fin dall’inizio.
«Dimmi ragazza quante volte ti ho detto di stare attenta… Ti pare normale che per un minuto di piacere ti devo dare un figlio»: questa frase, che mette in contrapposizione piacere e paternità, apre il testo e lo maschera. L’istante di piacere è un fulgore, una breve esplosione, ma se il piacere lascia il marchio quel minuto è un destino: in questo modo, fra il presente del godimento e la “condanna” della procreazione si decide il viavai che articola in un solo movimento la temporalità del racconto e la sua “morale”.
Per Montana la paternità è il supporto del piacere: «A lui viene duro solo con mammina»; e inoltre vuole «farlo» senza «guanto», senza «il diaframma». La madre, da parte sua, “perde” i figli, “abortisce”, obbliga il padre a usare il preservativo: per lei, il padre dev’es-sere la garanzia, il contratto che assicuri l’economia familiare: siccome Montana “non garantisce”, lei si rifiuta di diventare madre. Nella sua logica la paternità si oppone al desiderio e la necessità lo implementa: in effetti mette il seme nello stesso posto dell’oro e pensa il piacere a partire dal denaro. Siccome nel romanzo l’oro del padre è un emblema inutile, la madre – Marx lo aveva già detto del denaro – è una prostituta: «Lei ci gridava sempre che per procurarci il cibo doveva andare in giro a farsi rompere il culo». Prostituendosi, sostituisce: non concepisce di alienare il desiderio nella procreazione, e usandolo per guadagnarsi da vivere lo mette a disposizione di tutti. Se il padre reprime e dal di fuori vuole imporre la legge, la madre crea disordine e corruzione dal centro stesso del racconto in cui regna. Rifiutandosi di “essere madre” devia la storia dal suo alveo “naturale” e trasforma la paternità in un valore di scambio: nel legare produttivamente l’oro e il seme, nel guadagnare denaro e dare il latte, per cacciare il padre dal suo posto, lo sostituisce. O meglio, lo scambia.
Queste sostituzioni sono l’illusione di uno scambio impossibile: «I Pepe», il Pastore e il Paraguayano che, già a partire dall’iniziale del nome, nel racconto fanno da padre, subendone invero le conseguenze. In un testo che pensa la paternità a partire dal crimine, è necessario mascherarsi per correre il rischio: nell’occupare quel posto, sono tutti dei simulacri, delle maschere, e perdono il nome; così, lo pseudonimo dietro cui sono nascosti rende più evidente il fatto che Carlos Montana è l’unico, nel romanzo, in grado di sopportare un cognome. Emblema di una funzione sacra e colpevole, un nome è qualcosa che si conquista: ma d’improvviso il narratore perde il suo («ti chiamerai Federico, e non Luis come il tuo involucro sulla terra») e quando riceve la promessa del padrino Pepe («Il mio padrino Pepe voleva sposare mammina e voleva che io portassi il suo cognome») in realtà si illude con la legittimità di una filiazione che il racconto stesso rende impossibile. Non è un caso dunque se alla fine, quando l’Altro, allucinato, riappare, il «portachiavi d’oro» sia l’unica eredità che il padre lascia come segno della propria identità.

 

Un’economia

Nutrire e alimentare sono la “mancanza” del padre che la madre deve risolvere: il “latte”, insufficiente per tutti, segna la carenza che definisce l’altra origine del racconto. «Mammina grida bisogna ucciderlo, lo ha ucciso perché voleva le due mammelle solo per sé, per cupidigia». Se il desiderio rappresentato dalla metafora dell’«animale bicolore» divora il gemello, la necessità fa della cupidigia l’eccesso che motiva il crimine. A collegare questi due livelli è il rituale del cibo: dalla «santa cena» del Pastore che nutre mammina fino al delirio cannibalistico che chiude la scena in cui il paraguayano mangia «cotolette dorate», nel testo c’è una vera e propria etnografia alimentare. A questo livello il racconto giustappone, in modo immaginario, carenza e soddisfazione, in un sistema unico di relazioni necessità/desiderio i cui limiti – cannibalismo, incesto – fanno della trasgressione per-versa la negazione stessa della funzione “dispensatrice” della famiglia. Ne è un esempio la relazione del protagonista con la zia, che somiglia alla madre e gli lascia occupare il letto al posto dello zio, e gli dà da mangiare «ananas con crema», «crêpes», «a letto fa tutto quello che mi piace». Questo “eccesso” è il passaggio verso il piacere sessuale: dal lusso alla lussuria, le leccornie sono la ricchezza che soddisfa una volta per sempre tutta la «cupidigia». Questa illusione si infrange ogni volta che rinasce: ottenere cibo è una delle ossessioni del testo, e la scarsità che collega la fame alla prostituzione riprende su un altro piano l’opposi-zione della madre e del padre. Infatti, mentre lei deve «impegnare anche il culo» per portare a casa il cibo, il padre – «con il pacchetto bianco della rosticceria sotto il braccio, le bottiglie di Don Valentín, la birra speciale, il prosciutto cotto, il prosciutto crudo, il dulce de batata al cioccolato, le costate di manzo, l’insalata con olio d’oliva, la tovaglia, per tutti, tutti possiamo mangiare, ha portato questo bendidio per farcelo mangiare e non per farcelo guardare» – mette in scena la commedia di una ricchezza che, quando viene esibita, distrugge. La sua comparsa gioca nell’economia della famiglia la stessa funzione di quell’istante di piacere che nella sessualità la madre opponeva alla paternità irresponsabile. Montana non produce, consuma, e questo spreco è il sintomo stesso della sua arbitrarietà e del suo fascino. Fra il presente assoluto di una soddisfazione che fa del consumo un rituale “miracoloso” e la necessità quotidiana di garantire il futuro, la miseria e l’abbondanza della famiglia si organizzano in un registro arbitrario che dipende dalla logica del padre. Dato che lui entra nel racconto e ne esce senza alcun ordine, il suo arrivo provvidenziale dipende dal caso: è un’apparizione. Quando se ne va lascia «sempre i soldi sotto il cuscino o sopra il comodino, accanto all’orologio, all’anello d’oro, ai gemelli d’oro […] sempre la stessa somma, che poi mammina annota minuziosamente su un quaderno, l’importo e vicino la data». Nel futuro il piacere si paga sempre con denaro, con la paternità, vale a dire con il denaro di una paternità che, essendo negata, sprofonda la famiglia nel bisogno. Nesso sociale, il denaro sostituisce i legami di sangue e, siccome è l’unica cosa che in realtà assicura il futuro (diceva Marx), trasforma in destino la vita degli uomini.
Mammina, nell’annotare minuziosamente la data e l’importo, cerca di mettere ordine: dal momento che la somma è sempre la stessa, annotare la data è come mostrare, nella discontinuità, il disordine di un futuro imprevedibile. Collegando il denaro alla temporalità, da un lato “ripete” il viavai del «minuto di piacere» e quello sempre incerto della paternità che governa – come abbiamo visto – lo schema temporale del racconto. Nel contempo, però, sembra che cerchi di convertire in legge – nella scrittura – l’arbitrarietà di quella apparizione, vale a dire che sembra voglia assicurare nelle leggi “naturali” della paternità la distribuzione “miracolosa” di quel denaro che collega la famiglia alla società. Non è un caso che al centro di questa “economia” ci sia il Banco dei pegni. Luogo magico, al di fuori della produzione, dove l’oro viene scambiato (come la madre) con denaro, mostra la “razionalità” capitalistica allo stato puro: il lavoro non è la fonte del valore, bisogna avere per poter avere. Avere fortuna, volontà, virtù personali, «il vestito della prima comunione», «l’anello del nonno», «la catenina d’oro». Per qualche tempo questa perdita, sospesa, produce: dopo «che [questi oggetti] sono stati messi all’asta» infrange l’illusione di un duplice possesso che consentirebbe di avere allo stesso tempo il denaro e la sua riserva. Correlativamente, al di sotto di questa “economia” si organizza una morale feticistica nella quale gli oggetti raffinati del padre (Chesterfield, camicie di dacron, whisky, ecc.) sono ancora una volta la sostanza di ogni ricchezza. Legato dalla legge dello scambio in cui l’oro governa da “fuori” ciò che il denaro collega “dentro”, il padre torna sempre come fondamento del valore, maschera e specchio della miseria della famiglia.

Dalla catena allo sguardo

Dietro questa economia magica c’è, come sempre, una “religione” che ne decreta il significato: Dio, Gesù, gli Spiriti, il Pastore, il Guaritore, collocati nel posto del padre hanno il potere di soddisfare ogni domanda e stabiliscono una legge superstiziosa che segna il mondo ideologico del libro. Siccome la ricchezza (del padre) circola nel racconto senza alcun ordine, tale inspiegabile arbitrarietà si sacralizza: se il lavoro non è la fonte del valore e occorre avere per avere, l’unico modo per entrare in questa razionalità – quando non si ha niente – è confidare nel caso (in un Dio) che provvederà. Ma nel contempo, per equilibrare il vuoto dell’indecifrabile arbitrarietà, bisogna credere nella fatalità naturale di un’esistenza segnata. Metafisica lumpen del miracolo opposto al lavoro produttivo, che ha come controparte la necessità di assicurarsi il futuro, nell’immutabilità di un destino fatale. Caso, predestinazione: mentre si esclude la ricchezza dalla produzione, si fa dipendere la soddisfazione dalla provvidenza. In tal senso, nel romanzo, per poter pensare l’assenza del padre nell’economia familiare c’è tutta una dimensione magica, di superstizione popolare, che a partire da un certo ancoraggio immaginario assicura il “senso” della realtà. In questo mondo chiuso, nel quale è escluso ogni riferimento politico, la religione (“quella cattolica”, “quella protestante”) è una forma di coscienza sociale e gli “idoli” sono lo specchio in cui si cancellano le differenze di classe affinché una “storia comune” si identifichi nella “vita trionfale” di Óscar Gálvez, Gardel, o Lucho Gatica. Negazione della storia e della produzione, al centro di questa ideologia ci sono gli spiritisti: sono loro a ricostruire un ordine e un senso per la famiglia. Quando si prendono per mano per «formare la catena», fissano la struttura di una certa società, e nel racconto della medium “gli spiriti” stabiliscono il testo di una storia familiare. Cerimonia in grado di fare qualsiasi cosa con il linguaggio (Gardel parla per bocca di una donna, il gemello racconta la propria morte «con le sue stesse parole»), nella rete di questo racconto magico si cerca soltanto di incatenare il padre per farlo tornare.
Ricerca, evocazione, l’altro passo in questa direzione è la “catena delle lettere”, la continuazione logica di un rituale che nel sacralizzare le parole le trasforma (come l’oro) in oggetto di culto. Nel decifrare o costruire un destino nel linguaggio, queste “catene” (d’oro, di mani, di lettere) sono la metafora di un ordine che dissolve e lega ripetutamente la famiglia nell’andirivieni cieco della fatalità e della provvidenza, del caso e del miracolo, in cui l’assenza del padre “si spiega”. Se non c’è paternità che legittimi la filiazione, né lavoro che assicuri l’economia, fissarsi in una catena significa trovare nella ripetizione il luogo che assicuri il senso e al contempo costruire un’economia, una parentela e una religione. «La nonna mi ha detto che non devo lasciarle la mano perché se lo faccio mammina mi impegna come ha fatto con la catenina d’oro». Lasciare è perdere la ragione: la famiglia, costituita da anelli fissi e incatenati che nel loro legame lasciano fuori il caso, si ricostruisce al di là di quell’assenza che la disgrega.
D’altra parte, dato che in realtà è il padre a sostenere, da fuori, i due estremi di questa catena familiare, il suo ingresso la disarticola, e allora la famiglia “si unisce” intorno a Montana nel disordine tribale di uno scambio selvaggio, primitivo. Nell’antropofagia, nello stupro, nella tortura o nell’uso di droghe, durante queste riunioni familiari l’ordine si spezza, come se la comparsa del padre scatenasse il desiderio che prima lui stesso incatenava, come se, infrangendo i limiti, rendesse la presenza della legge la ragione stessa della trasgressione.
Nello stesso tempo, ciò che impedisce la disgregazione e insieme collega fra loro queste cerimonie è la dimensione spettacolare: realizzate in piena luce e sempre con un pubblico, contemplano una “perversione” che fa dell’esibizionismo il proprio sostegno “morale”. Accordo comune degli sguardi che instaura le regole e organizza gli eccessi: tutti guardano, e quello sguardo molteplice che costituisce la scena familiare rende complici gli spettatori; finché ci sarà qualcuno “capace di vedere”, sembra dire il testo, si avrà un ordine sociale e l’autorità sarà garantita. Non è un caso se “il poliziotto” viene descritto da subito come colui che «non dorme mai», colui che sorveglia, sempre con la luce accesa: questa sorveglianza è la legge stessa. In realtà, bisognerebbe dire che in questo testo chi ha la “luce” ha la ragione: accecarsi significa smarrire il senso («ma uno di questi giorni non ci vedrà più e la ucciderà»), la medium sembra una cieca e «gli spiriti non ce la fanno a guardarli [i cappelli colorati indossati dagli spiritisti]». In questo gioco di luci Il gemello separa il Bene dal Male e istituisce un codice morale “illuministico” che associa l’o-scurità, le ombre, la cecità, all’irrazionalità e alla morte: vale a dire, alla madre che – lo abbiamo visto – è accecata dal luccichio del padre.


Gli specchi, il doppio

Dato che in realtà è una ricerca di riconoscimento, questa ossessione visiva si associa al fascino esercitato nel testo dagli specchi e da qualsiasi superficie splendente su cui si riflette un’immagine. Se soltanto lo sguardo – al limite – impedisce che la famiglia si “perda”, gli specchi sono il legame che, nel duplicare l’immagine, permette di trovare nell’altro che sta lì l’identità. Allora (scrive il narratore) «io sono la ripetizione di mio padre». Nella ripetizione (del padre, del fratello gemello) i temi del doppio e dello specchio fanno dell’assassinio del gemello un gioco con l’eredità e la filiazione: nel fratello si uccide – ha scritto Deleuze parlando di Caino – la somiglianza con il padre. Anello che organizza la catena dello scambio familiare, questa somiglianza si articola nella madre: è lei a stabilire la sintassi, perché è l’unica che conosce la differenza (con il padre, tra i fratelli, tra i Pepe). Questo sapere la identifica («l’unica parola che abbiamo in comune») e insieme la divide: prostituta fra i Pepe, mammina con i figli, è “buona” proprio perché si prostituisce per provvedere: nel guadagnarsi da vivere “si perde”, e in quella duplice funzione è due donne nello stesso tempo: «L’altra e lei, lei e l’altra», quella che se ne va «di notte per poi rincasare la mattina»: il padre è l’unico che può averle entrambe, mammina e «la bambola» con «la chioma morbida e bionda», «scoparle entrambe». Bigamo, questo sdoppiamento è insieme il suo privilegio e la sua condanna: il padre è il centro di una storia duplice («due donne, due case»), e nel passaggio da un luogo all’al-tro il racconto percorre il tragitto che ne stabilisce il significato. Come se fosse messa davanti a uno specchio, la famiglia si sdoppia e ciascuno si riflette in un doppio “perverso”: il gemello buono e il gemello cattivo, mammina e la donna bionda, il padre bigamo. Nel pretesto di questa ripetizione c’è l’oblio dell’origine: la relazione di parentela si disgrega nell’incrocio dei doppi, delle maschere, delle falsificazioni. O meglio: mediante la ripetizione (i gemelli, le due donne, le due case, il bigamo) si nega la ripetizione della paternità, e nella differenza si vuole vedere l’identità.
«Gli specchi e la copula» scrisse Borges, «sono abominevoli perché moltiplicano il numero degli uomini». Il luccichio di quell’oro che identifica la paternità è il luogo in cui tutti cercano una filiazione, ma nel contempo avere un doppio significa perdersi nello specchio dell’Altro. Collegando gli specchi, il luccichio e il doppio alla funzione del padre, Il gemello fa di quel riflesso una condanna in cui ciascuno si perde «diviso in due», o si traveste con la maschera illusoria di un doppio che, invece di occultare la somiglianza, la riconosce.

Foto, scene

Al centro di questa duplicità “perversa” ci sono le foto pornografiche. Da una parte sono il rovescio delle foto e delle immagini “sante” che popolano il racconto: oggetti di culto, queste “presenze” sacralizzate sono un’evocazione e un’esortazione. Nel romanzo nessuno conserva una foto “come ricordo”: alla stregua di certi rituali primitivi, avere l’immagine è avere la “presenza”. Mammina si inginocchia per pregare davanti alla foto del paraguayano messa nelle sue mutande gialle, costruisce un santuario in cui si celebra un culto perverso che collega il desiderio alla religione. Al limite di questo feticismo dell’immagine, le foto pornografiche sopportano tutto il peso del desiderio familiare e fissano – rendono visibile – quel «minuto di piacere» che il racconto nega e occulta.
“Ricordo” della scena primaria, quelle stampe che il narratore conosce «a memoria» provocano, inoltre, l’unico movimento reale di tutto il romanzo. «Li cercavo per le strade di Once, di Constitución, ovunque avrei riconosciuto quella donna e quell’uomo pelato»; questa ricerca spezza lo spazio chiuso della scena familiare. Questa “avventura” – epopea in cui si sintetizzano tutte le identificazioni – è l’unico aneddoto che il libro tenta di “narrare”. Non c’è suspense né sorpresa: chiunque può indovinare l’identità di quella donna che «non era come le altre che usavano una maschera», che somiglia alla zia; d’altra parte, la morte di Montana alla fine risolve l’enigma. «Il morto aveva con sé più di settanta ricevute del banco dei pegni […] lo avevano pelato». Il tragitto che permette, nel registro “pornografico” di immagini e foto, di specchi e sguardi, di luci e luccichii, di trovare nell’«uomo pelato» il padre (alla fine) impoverito, è in realtà l’inverso della scena che organizza tutto il testo: Montana «si era chiuso in bagno e aveva iniziato a farsi una sega». La masturbazione («se me ne facevo una al giorno poi si sarebbe seccato e da grande non avrei avuto figli perché lo avrei svuotato tutto») dissolve il padre nell’atto solitario di un piacere “segreto”: morte e degradazione, il finale del racconto e la sua genesi si rinchiudono in questo funerale. La “narrazione” ricomincia nel momento in cui finisce il racconto degli “avvenimenti”. Allo stesso modo in cui nelle foto pornografiche (che sono nascoste assieme al diaframma) quel «minuto di piacere» resterà per sempre nell’immagine, Montana vuole fissare la sua perdita facendo «entrare la sborra in quel vasetto»: per fare del seme un segno (uguale all’oro), l’emblema di una funzione dimenticata. «Manifestazione visibile dell’invisibile» (come scrive Guy Rosolato), l’eiaculazione fa vedere quel “mistero” – la paternità – nel momento stesso in cui il padre se ne va. Come mammina che, nel prostituirsi, si faceva pagare il piacere, Montana converte il seme nella moneta (fuori circolazione) di un desiderio che intende riscattare. Quando il padre “viene”, quel seme “sprecato” chiude la storia dei fatti per aprire la scrittura (dopo ha cominciato a scrivere) come negazione della paternità. Al contrario della lettera della catena in cui la madre faceva un’evocazione, qui la scrittura si appoggia su questo consumo inutile per tentare un pagamento: invertendo il piacere e la paternità si garantisce il senso che certifica il collegamento della madre e del padre nel duplice gioco della masturbazione e della prostituzione, specchi privilegiati e perversi della relazione familiare.


La scrittura del crimine

Dare alla luce, dare l’oro, a partire da questa duplice articolazione. Il gemello si organizza in una coppia in cui un significante (l’oro, il seme) si duplica in un significato (il denaro, il latte) fino a fare del padre quell’Altro che, nel chiudere il racconto, apre la catena del senso e rende possibile la scrittura. In questo movimento la scrittura esibisce la sua genesi, mostra i suoi protocolli: un’evocazione, un pagamento, per scrivere bisogna occupare il posto del padre, garantire il possesso di quel sostegno che permette di “fare i conti” (come fa la madre, minuziosamente, nel quaderno), sistemare «l’importo» e «la data» del romanzo familiare nel doppio del linguaggio. Nel contempo, attraverso la crepa che si apre fra il soggetto dell’e-nunciato e il soggetto dell’enunciazione, l’ossessione del doppio e della comparazione riappare nella struttura stessa del libro. Questo abisso tra colui che scrive e colui che è (di cui parla Émile Benveniste), tale distanza, è qui un’altra volta del padre: la sua doppia faccia fa del testo lo specchio nel quale colui che scrive sorveglia la sua differenza con l’Altro. Questa frattura che organizza il racconto intorno alla coppia, la somiglianza e la ripetizione (gemello, bigamo, specchi, mammina e l’altra), è registrata mediante la scrittura a partire dal gioco di metafore che al suo interno definiscono lo “stile”. Non c’è casualità o procreazione: c’è comparazione, un regime di sostituzioni e condanne che affronta e collega “causalmente” due anelli. L’arbitrarietà di questo collegamento, quasi sempre basato sull’avverbio comparativo “come”, fa vedere la convenzione verbale che organizza il racconto al di là di qualsiasi “normalità”. D’altra parte, nel mettere in relazione strutture indipendenti una dall’altra, il racconto riproduce, non già nelle frasi, bensì nel discorso narrativo propriamente detto, questo procedimento metaforico. In tal senso, non c’è a rigore “narrazione”, dato che la narrazione presuppone un continuum; ci sono momenti statici, anelli: non si collegano “fatti”, ma testi, frasi, metafore, parole. Ciascuno di questi “capitoli”, ogni momento del racconto, è un linguaggio che possiede la propria grammatica: lo spostamento sintattico costruisce sulla ripetizione di quegli anelli una sintassi discontinua. Questa struttura formale di concatenazione che sostiene il passaggio arbitrario da un momento all’altro del testo fa della catena la forma dominante del racconto.
Da un lato la catena della scrittura mostra la sua genesi e nel sostegno della paternità certifica il fondo che garantisce la sua forma; dall’altro lato il racconto narra la propria genesi. «Mi torturano […] vogliono che canti». Fin dall’inizio, la violenza che scatena la narrazione spiega il suo sviluppo: vogliono che canti come il padre, che occupa quel posto. Il testo che questa confessione provoca non fa altro che narrare la forma di quello spostamento. Nell’opporre scrittura e paternità il racconto si pone fuori dalla legge; scrittura colpevole, “fa i conti” e si maschera per realizzare il crimine.
Collegato a una certa corrente marginale della letteratura argentina (il sainete, la poesia gauchesca), Il gemello spezza le verosimiglianze che segnalano la forma della letteratura “popolare” a partire dai codici trasparenti di una leggibilità. Con il suo trattamento elusivo dei miti popolari, in un linguaggio spasmodico e “basso”, questo testo recupera e mostra la “colpevolezza” implicita in qualsiasi scrittura che si faccia carico dell’arbitrarietà che decreta, a partire da una certa lettura sociale, i “valori” che un sistema letterario decide di imporre a quegli usi privati del linguaggio che abbiamo convenuto di chiamare “letteratura”.

 

ricardo piglia

Agosto 1972

Luis Gusmán

Luis Gusmán