Parole d’altro genere. Come le scrittrici hanno cambiato il mondo. Intervista a Vera Gheno


di Debora Lambruschini

«Le nostre società sono di stampo patriarcale; c’è chi lo nega, o chi afferma che questo non corrisponda più a verità; ma, come ho già scritto precedentemente, basta sfogliare un’antologia scolastica, un testo di storia, o di storia della filosofia, per rendersi facilmente conto che noi viviamo, ma soprattutto cresciamo, in un contesto socioculturale in cui la donna, se compare, lo fa come personaggio secondario, come spalla; in cui è normale che siano gli uomini a decidere rispetto a cos’è giusto o sbagliato per una donna, come debba vivere, a che cosa possa aspirare»

 

In questo lungo brano che ho scelto come apertura dell’intervista a Vera Gheno, sono condensati i presupposti e lo scopo di questo libro, Parole d’altro genere, che la linguista, traduttrice ed esperta di comunicazione digitale ha curato per Bur Rizzoli. Si parte da una mancanza, quindi, dalla marginalizzazione delle donne nel mondo culturale – per non dir del resto, ma in questa area ci concentriamo – tra difficoltà di accesso all’istruzione, ostracismi, fraintendimenti e stereotipi con cui è ancora necessario confrontarsi. Se oggi pensiamo alla short story moderna, per esempio, è innegabile che il contributo delle scrittrici a cavallo tra Otto e Novecento sia stato determinante a definire la forma, eppure la critica letteraria solo dagli anni Settanta del Novecento si è adoperata per sottolineare l’importanza del ruolo delle scrittrici di fin de siècle nella costruzione del racconto come lo conosciamo. E tutti noi siamo passati per antologie scolastiche in cui le scrittrici erano un numero ridicolo a fronte delle presenze maschili, quasi sempre le stesse e nemmeno adeguatamente approfondite. Il canone letterario occidentale è patriarcale.
Oggi il dibattito letterario è particolarmente attento a colmare questo gap, ma prima ancora che dentro le aule accademiche, è nell’ambiente culturale, tra i professionisti e i lettori che tale discorso si va animando e arricchendo di contributi. Il testo di Vera Gheno si inserisce in questo dibattito ed è un mezzo potente di confronto: quarantadue testi, dall’antichità a oggi, tutti scritti da donne di epoche, aree geografiche, generi e forme letterarie diverse, introdotti da un lemma legato ai brani o alla biografia dell’autrice cui seguono di volta in volta riflessioni e ragionamenti in un dialogo ininterrotto con la contemporaneità.
Una delle cose più interessanti di questo volume è proprio la sua complessità strutturale ed eterogeneità: i testi (quasi sempre integrali o comunque brani autonomi/autodeterminanti) si legano a riflessioni linguistiche, sociologiche, militanza, consigli di lettura. Una scelta che risulta efficace, di agevole lettura, ma dalla quale si intuisce anche la stratificazione del progetto.

È partita dai lemmi, dai testi o dalle autrici? E come una cosa ha influenzato le altre?

V.G. È partita da criteri misti: alcune volte avevo in mente una parola, altre un’autrice, altre ancora uno specifico brano. Il volume nasce dall’incrocio di queste tre ispirazioni, per cui a volte ho dovuto trovare un’autrice che fosse adatta alla parola che mi interessava, altre viceversa. Ho proceduto in un felice caos, che è stato reso possibile dal rigore della gabbia che mi ero messa in testa di costruire: parola-consiglio di lettura-brano.

 

Viene naturale leggendo questo volume interrogarsi su quanto sia ancora forte il pregiudizio sulle scrittrici e confrontarci con Gheno su tale spunto:

V.G. Abbastanza forte da ritenere “normale” che in un’antologia delle superiori ci siano moltissimi più autori che autrici. Abbastanza forte da pensare alla letteratura scritta da donne come a una nicchia, a un genere, rivolto prevalentemente a donne. In una società androcentrica, la donna è “collaterale”, come lo è la sua scrittura. Si fa ancora fatica a vedere le donne fuori dalla loro nicchia, dalla loro categoria, per esempio semplicemente come appartenenti al canone.

 

Dei 42 testi selezionati, ampio spazio è riservato alla forma racconto, soggetta a molti stereotipi e fraintendimenti, specie nel nostro panorama editoriale.

Le ragioni che l’hanno spinta a sceglierli sono legate alla brevità che li rende adatti a un’antologia o c’è anche dell’altro?

V.G. Abbiamo voluto, per quanto possibile, inserire brani autoconclusivi. Per questo, è normale che ci siano molti racconti. Però c’è anche un altro motivo: sono la mia forma letteraria preferita, quella con cui sento più affinità. Quindi le scelte del libro rispecchiano un po’ il mio gusto personale.

 

Alcuni dei testi presenti nell’antologia sono tradotti per la prima volta in italiano e concorrono a creare un canone letterario nuovo, inclusivo, non solo perché opera di scrittrici ma anche per la selezione stessa, che affianca autrici note al grande pubblico come per esempio Jane Austen,  Edith Wharton, Virginia Woolf, Fausta Cialente, Matilde Serao, anche scrittrici meno conosciute fuori dall’ambito accademico e contemporanee.
La cosa più straordinaria della selezione operata è appunto il dialogo ininterrotto con il lettore e con la contemporaneità, che se da una parte interpretiamo come un segno positivo dell’assoluta modernità di opere capaci di trascendere il tempo e lo spazio, dall’altro guardiamo con amarezza per una serie di problematiche e discriminazioni con cui ancora è necessario fare i conti.

Aveva già a mente questo dualismo nel momento in cui ha ricercato i testi o le si è palesato in seguito? In un caso o nell’altro che cosa ha comportato?

V. G. Mi si è palesato strada facendo. Onestamente, non pensavo che le autrici avessero così tanto da dire a me e alla contemporaneità, e questa è stata un po’ una sorpresa. Colpa mia, comunque. Mi sono sempre ritenuta troppo linguista per avere qualcosa da dire sui testi delle altre persone, e come la mia editrix di BUR, Caterina Campanini, ben sa, a lungo ho nicchiato prima di accettare di fare questo progetto. Credo che non le sarò mai abbastanza grata per avermi convinta.

Tornando sulla forma racconto: se guardiamo alla storia letteraria della short story e prendiamo per esempio il caso specifico di quella in lingua inglese degli ultimi due secoli, notiamo come sia attraversata da un grado di sperimentazione linguistica e strutturale notevoli; il contributo delle scrittrici allo sviluppo della forma e allo svincolamento dal romanzo è stato importante. Penso per esempio a George Egerton, Charlotte Perkins Gilman, Mona Caird, solo per citarne alcune, e alla carica esplosiva dei loro racconti. Lo dimostrano anche i testi da lei selezionati, gli argomenti che trattano, dalla sessualità alla contestazione del matrimonio di stampo vittoriano, passando per il diritto all’istruzione femminile, alla ricerca della propria identità.

Nella sua esperienza che cosa c’è nella forma racconto che permette questo grado di sperimentazione e come si inserisce nel dibattito contemporaneo? Che cosa le si è svelato componendo questa antologia?

V.G. A costo di dire una banalità, che le scrittrici non hanno davvero nulla da invidiare agli scrittori in termini di temi trattati, profondità della scrittura, maturità dello stile ecc. Per il resto, magari l’investimento su una short story è più sostenibile di quello su un romanzo, e quindi permette, in un certo senso, un maggior grado di spensieratezza nello scrivere.

 

Per molto tempo – e per certi versi tuttora – le donne sono state ridotte al silenzio, marginalizzate, la loro opera minimizzata a un solo testo/dettaglio/immagine.

Anche per questo inserisce alcuni dati biografici sulle autrici, non solo per contestualizzarle ma per restituire complessità alla figura? Quanto conta per lei il dettaglio biografico in un testo di questo tipo?

V.G. Conta più di quanto io stessa pensassi. Aiuta forse a rendere almeno minimamente l’idea di quanto queste donne si siano dovute sforzare per poter studiare, per poter accedere al potere della parola. Oggi tendiamo a darlo per scontato, ma a lungo le società hanno ritenuto che le donne fossero biologicamente inferiori… quindi perché permettere loro di studiare?

 

Interessarsi anche al dato biografico significa quindi ridare corpo e voce alle scrittrici selezionate, comprenderne meglio il coraggio delle scelte, contestualizzare l’opera.
Come si legge questo libro, come lo si vive? C’è una struttura cronologica interna, c’è la riscrittura del canone letterario e per questo si potrebbe pensare che ci sia quindi un lettore – una lettrice – tipo, ma questo volume scardina anche questo stereotipo e si rivolge a lettori e lettrici tutti/e. È evidente il rigore e la ricerca su cui il suo lavoro si basa ma anche a mio avviso la capacità di arrivare a un pubblico variegato, non specialistico e questo a mio modesto parere è un grande pregio data anche la natura e l’importanza dell’opera che abbiamo tra le mani. Perché se vogliamo riscrivere il canone letterario, se vogliamo davvero parlare di inclusività, è anche fuori dalle aule accademiche che questo deve accadere. La società, ce lo “insegna” la politica, è passi avanti rispetto alle sedi del potere.
Che cosa ne pensa di queste considerazioni?

V.G. Sono incapace di scrivere in altri modi. Faccio moltissima fatica a esprimermi per iscritto in maniera accademica, e quindi quando posse evito; evidentemente questa è la forma con la quale mi ritrovo più in sintonia. Ho sofferto tanto, quando studiavo all’università, per la difficoltà che trovavo nel leggere i testi per molti esami. Poi, però, in quella selva di saggi accademici astrusi (che mi portavano a questionare le mie capacità interpretative), ho incontrato persone dalla scrittura cristallina come Tullio De Mauro, Alessandro Duranti e Giorgio Raimondo Cardona. Sono loro i miei modelli, la dimostrazione vivente del fatto che si può scrivere di qualunque argomento in maniera semplice, e che semplice non vuol dire banale. Quindi, da anni lavoro sul migliorarmi in questo specifico genere. Non è facile scrivere facile, ma almeno ci provo. Perché per me è importante dare il mio contributo a ricucire la cesura tra “alto” e “basso” in ambito culturale. L’alto, per me, non ha senso senza il basso, così come il basso non ha senso senza l’alto. Quando cultura popolare e cultura accademica sono in osmosi, possono a mio avviso alimentarsi a vicenda in maniera generativa.