di Debora Lambruschini
«Siamo figlie, finché non diventiamo mogli». Del racconto Phyllis e Rosamond di Virginia Woolf non ricordo esattamente la trama ma, a distanza di molto tempo dalla lettura, ho ancora ben incisa in testa questa frase. È una lama, una delle tante di cui la narrativa e la riflessione critica di Woolf sono disseminate. Parto dai racconti, che la critica e i lettori tendono ancora a considerare meno nella bibliografia woolfiana per rivolgere lo sguardo quasi esclusivamente ai romanzi e in parte ai saggi, eppure è proprio lì, nella forma breve, che la scrittura di Woolf parla magnificamente ai lettori, sperimenta, esempio della polifonia che ne contraddistingue sempre la prosa. Al racconto l’autrice non ha mai dedicato scritti specifici, eppure è possibile rintracciare in numerosi saggi di Woolf la costruzione di una personale teoria letteraria dedicata alla forma breve che ancora oggi risulta particolarmente efficace nel ragionare su questo aspetto, anche alla luce degli ibridismi contemporanei. E se i racconti, sostiene Woolf, sono costruiti su un momento di straordinaria intensità emozionale sulla base della quale creare un’alleanza fra lettore e scrittore, ecco quindi la necessità di leggerli affidandosi alle emozioni, e tale intensità si crea mediante il rispetto di adeguate proporzioni ossia il rifiuto di tutto ciò che è superfluo e nella profonda adesione tra contenuto e forma.
Parto da qui, dai racconti, perché in quella frase c’è già moltissimo dell’universo woolfiano, delle tematiche, degli interessi letterari e critici che si rivelano tra le pagine, nei discorsi pubblici o privati, nei diari, nelle lettere. È l’interesse per la condizione femminile – non amo questo termine, “condizione”, come fosse una malattia, ma non trovo di meglio per quel che voglio dire – che Woolf indaga con tutti i mezzi di cui dispone. Una riflessione che molto spesso si è intrecciata al discorso letterario, nei saggi, negli articoli, negli scritti privati e che oggi ritroviamo nel volume Virginia Woolf, la sorella di Shakespeare e altri ritratti di scrittici a cura di Oriana Palusci per Mondadori: un tassello fondamentale nella bibliografia dell’autrice inglese che comprende una ricca selezione di testi critici pubblicati nei due volumi di The Common Reader o apparsi su rivista, efficacemente organizzati e proposti anche al pubblico non anglofono.
Che cosa ci fa questo volume, vi chiederete, qui sulle pagine di Cattedrale, osservatorio sulla narrativa breve? È qui perché nel tempo Cattedrale ha ampliato i suoi confini – non a caso è questo il nome dato a una rubrica specifica – senza per questo perdere mai la propria identità e perché è proprio di Woolf quell’istinto alla «demolizione dei confini letterari» oggi più che mai evidente già a partire dall’ibridismo di testi che rifuggono etichette troppo rigide – penso, per esempio ai saggi letterari di Lorrie Moore, alle storie-memoir di Judith Schalansky, al gioco metaletterario di Dominique Fortier.
L’interesse critico di Woolf non comprende quindi solo il novel, su cui da sempre si concentra l’attenzione generale, ma con pari intensità e autorevolezza considera forme letterarie “minori” quali gli epistolari e le biografie, si interroga sugli ibridismi biografia – invenzione narrativa, fiction – critica letteraria.
Del resto, l’impegno critico di Virginia Woolf – e la sua ricostruzione di un itinerario femminile – nasce anche dal lavoro di riscoperta di testi considerati minori (autobiografie ed epistolari) da parte della cultura vittoriana. (da Introduzione, p. 9)
E sono proprio questi generi “minori”, biografie ed epistolari, a risultare di particolare rilievo nella riflessione di Woolf sulla scrittura delle donne, per moltissimo tempo le uniche forme letterarie entro i cui confini era loro concesso di muoversi. La sorella di Shakespeare è quindi un importante studio dell’esperienza letteraria femminile dal Seicento fino alle scrittrici contemporanee di Woolf, efficacemente organizzato dalla curatrice in ordine cronologico. Woolf costruisce quindi un canone letterario alternativo, in cui le scrittrici reali sono qui e là affiancate da personaggi fittizi e insieme concorrono non soltanto a costruire una storia della letteratura inglese femminile ma anche e soprattutto una presa di coscienza:
Ciò che Woolf vuole ricostruire, pur rifiutando la sistematicità di un discorso critico tradizionale, è una storia della letteratura inglese scritta da donne, fatta di nomi e di opere, a cominciare dal Seicento, e, insieme, una storia della coscienza femminile che si batte per affrancarsi e far udire la propria voce distinta e autonoma. (da Introduzione, p. 8)
Una storia che parte da una scrittrice che non è mai esistita eppure grazie a Woolf ben impressa nel nostro immaginario: Judith Shakespeare. La sorella del drammaturgo inglese, vive grazie alla penna di Woolf per raccontare un mondo – letterario e non solo – dominato dagli uomini, in cui una donna che avesse avuto l’audacia di seguire le proprie ambizioni sarebbe stata condannata alla rovina. La sorella di William, anche lei particolarmente dotata e smaniosa di avventure, non ha avuto ovviamente le stesse opportunità del fratello, non è stata mandata a scuola e le sue letture personali sono continuamente interrotte dai doveri domestici e gli ammonimenti dei genitori; forse scriveva di nascosto, ma la vita che l’aspettava era quella cui ogni ragazza era destinata, diventare moglie – di chi era stato scelto per lei – e madre. Forse il genio di Judith e il suo desiderio di avventura non possono essere imbrigliati e così fugge, arriva a Londra appena diciasettenne e tra le risa generali e le porte sbattute in faccia tenta di assecondare la sua inclinazione per il teatro; ma dalla condizione femminile non si può fuggire e per la sorella di Shakespeare non può esserci gloria ma solo un tragico finale. È un personaggio immaginario, dobbiamo ripetercelo più volte mentre leggiamo di lei in questo brano estratto dal celebre Una stanza tutta per sé, tale è la verosimiglianza con una situazione che si protrae molto più a lungo di quanto vorremmo e di certi echi non ci siamo ancora del tutto liberati. Ed è, per Woolf, lo spunto ideale per riflettere su tutte le voci che la società patriarcale ha costretto al silenzio, a tutto ciò che quindi abbiamo perduto:
Ogni qualvolta leggiamo di una strega che è stata affogata, di una donna posseduta dal demonio, di una levatrice che vende piante medicinali, o persino dell’esistenza della madre di qualche personaggio straordinario, allora io credo che siamo sulle tracce di una romanziera mancata, di una poetessa condannata al silenzio, di una Jane Austen muta e senza gloria, di una Emily Brontë che doveva essersi bruciata il cervello nella brughiera o si aggirava gemendo per le strade, resa folle dalla tortura che il suo stesso talento le infliggeva. (p. 37)
Il discorso critico di Woolf si basa su una conoscenza approfondita della letteratura inglese che, come sottolineato anche da Palusci, «consente alla scrittrice di non chiudersi in una visione puramente di gender, ma di mettere a confronto identità maschili e femminili» e ricostruire quindi una mappa che risulta particolarmente interessante tanto per l’attenzione anche verso autrici spesso ai margini – se non del tutto escluse – del discorso letterario che per il desiderio di Woolf di quella che oggi forse definiremmo inclusività.
C’è però un aspetto che è giusto considerare di fronte a questi saggi e che anche Palusci non manca di osservare nelle sue note introduttive ai testi: la vivacità intellettuale e le molteplici sfumature che caratterizzano la scrittura di Woolf e che restano ben evidenti anche qui, sono pure attraversate da quello snobismo letterario che l’ha sempre contraddistinta e che in alcuni casi ne fa vacillare l’accuratezza critica. Traspare per esempio nelle pagine – peraltro bellissime – dedicate a Mary Wollstonecraft in cui non si fa minimamente menzione (e neppure altrove) all’eredità raccolta dalla figlia Mary Shelley e al suo testo più noto, Frankenstein; o, ancora, nel giudizio che dà dell’opera di Elizabeth Gaskell, esempio di modalità narrative «relitto del passato letterario ormai estinto» (Palusci), di cui condanna soprattutto la mancanza di personalità che apparirebbe evidente al lettore moderno. Eppure della stessa stagione vittoriana Woolf ama profondamente George Eliot, la cui scrittura ha profondamente segnato la propria, e ulteriore esempio delle conseguenze sulla condizione femminile del dominio patriarcale.
La ricchezza dei saggi qui organizzati è davvero notevole e le chiavi di lettura con cui affrontarli sono molteplici, a partire come già detto dalla costruzione di un canone letterario alternativo, l’imprigionamento intellettuale cui a lungo sono state costrette le scrittrici – e a tal proposito, un saggio particolarmente illuminante a mio avviso è Vietato scrivere, di Joanna Russ, uscito un paio di anni fa per Enciclopedia delle Donne – , le numerose sfaccettature della riflessione letteraria di Woolf, la presa di coscienza di scrittrici e intellettuali, lo sconfinamento dei generi letterari. Tanti, tantissimi gli spunti che emergono dalle pagine, come numerose sono le scrittrici poco note fuori dall’ambito accademico – e talvolta anche lì – la cui voce Woolf contribuisce a far riaffiorare dall’oblio della storia letteraria. Donne che si sono dedicate professionalmente alla scrittura o che l’estro letterario l’hanno riversato “solo” in quei generi che sono convenzionalmente considerati minori ma che pure per lungo tempo hanno costituito la sola forma di possibilità letteraria, i diari e le lettere, cui Woolf intreccia sempre un particolare interesse per la vicenda biografica. Realmente esistite o frutto dell’immaginazione woolfiana, scrittrici professioniste o autrici di scritti privati, personalità note o conosciute solo come mogli, sorelle, figlie, le donne di queste pagine si presentano a noi lettori contemporanei come uno studio assai puntuale dell’esperienza letteraria femminile, aprendo a tutta una serie di considerazioni letterarie e non. Non da ultimo in termini di rilevanza, il discorso sul professionismo della scrittura che in Aphra Behn ha la sua pioniera:
Aphra Behn seppe dimostrare che si poteva guadagnare del denaro scrivendo, con il sacrificio, semmai, di certe piacevoli qualità; e così a poco a poco scrivere non fu più soltanto un segno di follia e di disagio mentale, ma un’attività che aveva un’importanza pratica […]. Il denaro conferisce dignità a ciò che è frivolo quando non viene pagato. (p. 75)
Ancora, una di quelle lame di cui la scrittura di Woolf è disseminata.