Emanuel Carnevali, il poeta maledetto dell’immigrazione italiana

di Alice Pisu

Riscoprire oggi l’opera di Emanuel Carnevali in un volume che racchiude le sue memorie (Il primo Dio), i racconti, e le lettere a Benedetto Croce, Giovanni Papini e Carlo Linati (L’ultimo maledetto, prefazione di Valerio Valentini, readerforblind) permette di addentrarsi nel pensiero del poeta intravedendo il legame inscindibile tra la disperata e inesausta ricerca lirica e la travagliata storia privata. La vicenda editoriale complessa vede l’uscita in vita solo di alcune poesie e dei racconti. Il romanzo e le altre pubblicazioni usciranno postumi nell’ambito di un progetto di nuova valorizzazione e traduzione, con un’attenzione da parte dell’editoria italiana arrivata solo qualche decennio dopo un lungo oblio.
Ritenuto il poeta maledetto dell’immigrazione italiana, Carnevali gravita attorno al modernismo americano, che accoglie forme poetiche dalle istanze rivoluzionarie. Rivendica l’unicità della sua voce e l’indipendenza del pensiero, brama di far parte dell’élite letteraria pur riconoscendo le anomalie del sistema culturale. Nonostante le barriere linguistiche (abbattute memorizzando gli avvisi pubblicitari), la povertà, l’assenza di tutele sociali, la precarietà nel continuo passaggio da un lavoro all’altro (dall’aiuto cameriere, al potatore di rami malati al trasportatore di sacchi di sughero) con intervalli in cui comprende cosa voglia dire “morire lentamente di fame”, Carnevali riesce a contribuire, da poeta italiano in lingua inglese, al rinnovamento dell’avanguardia letteraria americana del primo Novecento.
Il doloroso maneggiamento dei reperti del passato è affrontato dal poeta quando è già affetto da un’encefalite letargica che lo costringerà a trascorrere gli ultimi vent’anni della sua vita tra sanatori, cliniche e pensioni. Assegna tonalità diverse alla memoria per definire drammi e euforie, dal bianco dell’infanzia toscana e piemontese, nel rimpianto di non essere morto prematuramente, al rosa degli anni del collegio, nei continui cambiamenti da Firenze a Bologna e Venezia, al giallo dell’iniziazione amorosa, sino al nero delle prime visioni cupe di New York al suo arrivo a sedici anni nel 1914.

La lettura delle sue memorie e dei racconti illumina drammi e visioni che connotano il suo fervore intellettuale, permette di rintracciare un’evoluzione stilistica e una maturità espressiva collocandole nelle diverse fasi di un percorso artistico inscindibile da quello personale. La sua esistenza è segnata dalla perdita della madre, dal rapporto con la malattia che incideranno nei suoi trasferimenti, dal conflitto perenne con un padre crudele (“Nella sua mente o nel suo cuore non c’è mai stato e non c’è nessun tralcio verde che getti i suoi riccioli al vento”). Il ricorso alla figura materna è inesorabilmente connesso alla raffigurazione di un dolore che lambisce la follia, in un dramma che, assieme a quello della zia dell’autore – la Regina Bianca protagonista del primo testo della serie Racconti di un uomo che ha fretta – premerà nella definizione di una poetica del dolore.
Le prime istantanee dell’arrivo del giovane Emanuel a New York attestano il crollo del mito americano, il disincanto del “sogno di chi non sogna, il rifugio di chi non ha casa, questa città impossibile”. Al buio che opprime l’America, il poeta contrappone una piccola luce, simbolo della sua consapevolezza lirica e delle sue ambizioni nonostante la povertà sfacciata nel portare “la propria fame e la propria rabbia da una strada all’altra”.

Emblematica, nel racconto Immigrazione e importazione, la storia di un grasso vecchio Yankee che si propone come il poeta degli immigrati italiani che apparentemente conforta ma, in realtà, sbeffeggia quegli ingenui

 

mangiaspaghetti dal collo taurino, dal collo equino, dal collo coriaceo, con il rosario in una tasca e un fazzoletto rosso, che penzola di fuori come una bandiera!

 

A scandire le fasi di un graduale e inesorabile inabissamento interiore saranno il travagliato periodo newyorkese, l’arrivo del fratello con cui condividere la miseria, l’esperienza del matrimonio, gli albori della carriera tra club letterari e conoscenze fondamentali nel trasferimento a Chicago, i nuovi amori tormentati, la disperazione e le fantasie sulla fine, le fascinazioni creative e le disillusioni, il rientro definitivo in Italia a causa della malattia (coinciso con l’avvento del fascismo di cui non farà in tempo a vedere la fine).

 La peculiarità stilistica è il tratto maggiormente significativo della sua scrittura, dovuta agli anni di preparazione in istituti prestigiosi (tra cui il Collegio Marco Foscarini di Venezia da cui dopo due anni viene espulso per la relazione con un suo compagno di studi), e dagli insegnamenti dello scrittore e critico Adolfo Albertazzi, declinati in modo personale da Carnevali nel rifiuto di stilemi carducciani e dannunziani. Trova nell’inglese la dimensione linguistica ideale, lo spazio d’elezione che non abbandonerà neppure al suo rientro in Italia. L’amore per il verso libero, le sue espressioni derivanti dall’italiano e la personale visione sensibile resa nello stupore per odori, sapori, suoni, segnali, contraddistinguono uno stile poetico innovativo e originale e rendono quella di Carnevali una voce letteraria inconfondibile tra i suoi contemporanei.
Le prose poetiche traducono l’orrore della morte nell’effigie di volti trasfigurati, definiscono le illusioni amorose nella purezza della loro intensità, tracciano l’isterismo, la rabbia, il senso di esclusione, lo spirito di ribellione, eleggono nella nostalgia un compenso per la sofferenza.
Le insistenze descrittive su spazi minimi e degradati, come le innumerevoli camere ammobiliate che Carnevali  cambierà negli anni, restituiscono un potente ritratto sociale. Arriverà a descriversi come l’inquilino “di una delle case dei senzatetto, degli orfani, delle puttane, dei papponi, delle zitelle povere, dei poveri scapoli, degli omosessuali, delle giovani stenografe che non se la passano bene, dei camerieri e dei portieri, le case degli inutili e degli stranieri”.

Sul continuo parallelo casa/corpo l’autore torna anche nei racconti, nel tradurre le pulsazioni del dolore fisico della terra muovendosi idealmente tra le stanze di una casa improvvisamente ignota, mostruosa.

 

Lascerò che la struttura della casa spezzi il pesante groviglio delle mie ossa, che sorga dall’ammasso della mia carne – ed essa incomberà sulla città, contro le vostre case, spaventosamente, perché sarà un fantasma, il fantasma di una canzone dimenticata, il fantasma di un uomo che fu lasciato morire, il fantasma di una canzone che fu dimenticata per sempre e per sempre ritorna a scuotere le quattro pareti del cielo.

 

Grazie al premio del Poetry Magazine diretta da Harriet Monroe, Emanuel lavorerà all’interno della rivista per un breve periodo, tra continui cambiamenti anche sul piano personale e affettivo. L’attenzione crescente nei riguardi di Carnevali arriva dopo l’uscita delle prime poesie e la pubblicazione dei racconti Tales of a Hurried Man: schegge narrative, critiche, in cui si interroga sull’arte, sullo stato della poesia, sul cambiamento, in un equilibrio labile tra illusione e disincanto. La distanza dai modelli correnti, la coerenza formale nella continua tensione espressiva tra ebbrezza e afflizione, dramma e sottile ironia, negli anni gli faranno guadagnare l’apprezzamento, tra gli altri, di Waldo Frank, William Carlos Williams, Ezra Pound, Sherwood Anderson, Robert McAlmon. Tra le esperienze significative nel passaggio da New York a Chicago, la collaborazione come traduttore per Others, che però sarà destinata a finire presto per l’irruenza con cui esprime le proprie posizioni con i colleghi.
Nonostante la crescente fatica di vivere, Emanuel continua a fare progetti. Le lettere inviate a Benedetto Croce, Giovanni Papini e Carlo Linati, attestano l’entusiasmo, le intuizioni, l’irrequietezza di un poeta che fantastica ancora su traduzioni e nuove realtà editoriali, come emerge dagli accorati appelli rivolti in particolare a Papini, a cui propone di far uscire a puntate la traduzione de L’uomo finito su una nuova rivista poetica americana, finendo per tradire, tuttavia, il profondo sconforto che lo attanaglia da tempo.
“Che la solitudine le sia molto dolce, caro Sig. Papini. Sono stanco morto anch’io, in questa incessante esauriente infinita imbecillità universale”.
Le opere tracciano ansie e tormenti, misurano la crisi interiore legata alla scrittura: una perdita di contatto con la realtà assimilabile allo smarrimento della propria identità. L’esilio e la ricerca inesausta imprimono il passo a una prosa limpida e essenziale lacerata da visioni provocate da assilli inestinguibili. Il senso di alienazione che caratterizza la sua scrittura non si riduce alla sua natura di apolide, ma risiede nel deplorare un sistema che annienta il singolo e favorisce l’ineguaglianza sociale. A fronte di tali urgenze si delinea la sua peculiare visione spirituale nell’amore sfrenato per Cristo e nel rifiuto di Dio, ritenuto solo un simbolo sentimentale, utile per non perdere del tutto la fiducia nell’umanità.

Nella forma breve Carnevali sonda le inquietudini del vivere attraverso prove espressive diverse, dalla serie Racconti di un uomo che ha fretta, al poema per il lago Michigan in Dichiarazione lunga un miglio, ai frammenti poetici fulminanti che immortalano gli entusiasmi fugaci, il disgusto di quanti hanno perso ogni slancio nel presente, le anomalie che diventano letteratura. Conferma la sua ossessione cromatica in narrazioni che scandagliano turbe personali, come nel racconto Suicidio in Italia, dove un uomo bianco nel viso, nelle mani, nell’anima, che si lava col latte e si veste di bianco, vive nel terrore che il suo corpo prenda colore, “per questo, aveva poche idee, pochissime sensazioni e ancora meno emozioni”.
L’impronta lirica dei racconti riserva attenzione a particolari fisici resi portatori di significati assoluti, come le sue mani di uomo giovane che fremono per uscire dalle tasche, “vogliono fermarsi e chiedere e dubitare e cominciare a tremare, poi si piegano nel dolore, di nuovo, nel loro movimento forzato di ogni giorno!”.
Affascinato dal grottesco e dal perturbante, nei racconti Carnevali esplora un bizzarro campionario umano, come il corteo di personaggi a Villa Rubazziana. Gli innesti lirici delle narrazioni celano il profondo amore per la natura, di cui sin da adolescente percepisce l’oltraggio nel sopravvento della città sulla campagna, esplicitato nella particolare attenzione per le sue manifestazioni – “I fiori sono i colori dell’infanzia del mondo” –, e reso nella necessità di ricongiungersi agli elementi per riappacificarsi con i suoi tormenti, come accaduto nella parentesi di “estasi sulla sabbia”, sulle dune dell’Indiana.
Il rapporto con la malattia, tra fasi che alternano il panico dell’attesa e un’angoscia perenne e insopprimibile, è essenziale nella sua poetica. Permette all’autore di calarsi in un dramma collettivo nelle intense descrizioni della deviata umanità del reparto di “pazzi encefalitici ballerini della morte”, e di rischiarare, al contempo, il proprio terrore oscuro. Il delirio di onnipotenza rievocato nelle memorie è vissuto nel reparto psicopatici sotto forma di un glorioso vapore: convinto di salvare il mondo da desideri fatui e di essere Dio – “il Primo Dio, l’unico Dio” – sente di poter annullare il confine con la morte. Per ironia della sorte, quella fine tanto scongiurata arriverà per soffocamento: morirà a causa di un tozzo di pane nel 1942 all’età di quarantacinque anni nella Clinica Neurologica di Bologna.

La scelta editoriale di accorpare il romanzo, i racconti e le lettere, permette oggi al lettore di scorgere le ragioni della scrittura tra il furore e i sogni che influenzano la profonda versatilità stilistica di Carnevali. Accanto a sperimentazioni fiabesche come preludio al tragico, trovano spazio componimenti brevi, schizzi, ibridi, note poetiche fulminanti su bagliori lontani e purificatori, anomalie che diventano letteratura, tesori nascosti in una città nella notte che suggeriscono al poeta di comporre una biografia delle piccole ombre.
L’ultimo maledetto è il testamento ideale di Emanuel Carnevali, il manifesto politico di un poeta che rintraccia nelle fantasie di riscatto una forma di resistenza, capace, nel dramma, di farsi sorprendere dall’incanto della ricerca dell’amore, e di rendersi preda di fugaci e salvifiche euforie.

 

Ora sono di nuovo un vagabondo, seminando parole da un buco della tasca e conosco soltanto altri vagabondi come me e li esorto a vagare senza meta. A vagare e ad andare, di fretta, come faccio io.