di Giordana Restifo
Dopo quattro anni di scrittura, ricerca, studio, incontri, in quattro continenti diversi, è finalmente arrivato in Italia Come sfamare un dittatore (titolo originale Jak nakarmić dyktatora) di Witold Szabłowski, pubblicato dalla casa editrice Keller e tradotto da Marzena Borejczuk. Spostandosi dall’Iraq all’Uganda, dall’Albania a Cuba e passando dalla Cambogia, il giornalista polacco per il suo ultimo “reportage letterario”, come egli stesso ha definito il suo genere di scrittura in un’intervista, ha incontrato i cuochi di cinque tra i più spietati personaggi della storia mondiale. Cosa mangiavano Saddam Hussein, Idi Amin, Enver Hoxha, Fidel Castro e Pol Pot mentre i loro popoli morivano di fame e stenti? Mentre ordinavano deportazioni e sparizioni forzate? La curiosità di rispondere a queste e altre domande, unita a una fascinazione per le figure dei cuochi, ha spinto Szabłowski ad affrontare questo lungo e impegnativo viaggio. Arduo è stato, infatti, il compito dapprima di trovare queste persone e poi di persuaderle ad aprirsi, a fidarsi, a vincere le proprie resistenze e paure; come si vedrà più avanti con certuni c’è riuscito più che con altri.
Dopo l’antipasto, che consiste in una breve introduzione, arriva il menu completo, ovvero l’indice. Ogni pasto – prima colazione, lunch, pranzo, cena, dolce – corrisponde a un capitolo, ognuno intitolato con il nome della pietanza preferita dai dittatori. Leggendo i nomi dei piatti (Zuppa di pesce alla ladrona, Capra al forno, Sheqerpare, Pesce in salsa di mango, Insalata di papaia) a qualcuno potrebbe anche venire l’acquolina in bocca, ma non c’è da preoccuparsi, la sensazione passerà non appena ci si addentrerà nella lettura. Ogni capitolo è poi intervallato da brevi incursioni – spuntini – in cui Yong Moeun, l’unica donna cuoca del reportage, racconta aneddoti sulla vita accanto a Pol Pot. L’impostazione dell’indice sotto forma di menu sembra sfiziosa, leggera, finché non si arriva quasi alla fine dell’opera, proprio al dolce, e si scopre, o ci si ricorda, che nel marzo 1969 l’allora nuovo governo americano di Richard Nixon ha intrapreso un’operazione militare, dal singolare nome in codice “Menu”, contro i vietnamiti che avevano allestito alcuni campi base anche in Cambogia. Per “colazione” furono sganciate più di duemila tonnellate di esplosivo, altre per l’ora del “lunch” e via dicendo fino al “dessert”, per un totale di quasi centodiecimila tonnellate di bombe cadute, inevitabilmente, anche sulle teste dei civili. Ed ecco che ci si sente in colpa per aver sorriso di quel particolare indice. Nonostante l’amara sorpresa, sin da subito si ha l’impressione che Szabłowski abbia attuato una sorta di contrapposizione tra dolore e gioia, tragedia e commedia, morte e vita. Questo anche grazie ai peculiari caratteri dei cuochi che ha incontrato, ma non solo. Alternando le loro storie, i loro aneddoti, con le testimonianze di coloro che erano al di fuori della cerchia dei dittatori, quindi tra chi subiva i regimi, spaziando tra le ricette di alcuni piatti tipici e la realtà dei fatti, della vita sotto la tirannia, è riuscito a imprimere al suo lavoro non solo originalità ma anche la capacità di arrivare appuntito dentro di noi.
Per rintracciare Abu Alì, il cuoco di Saddam Hussein, sono serviti quasi due anni e quasi uno per convincerlo a incontrarsi. Il motivo è la paura per una rappresaglia da parte «degli americani per il fatto di aver cucinato per uno dei loro maggiori nemici». Per tale motivo gli incontri tra i due sono avvenuti dentro la stanza d’albergo del giornalista polacco, in una Baghdad caratterizzata da palazzi sventrati dalle bombe e mai ricostruiti, da numerosi posti di blocco militari, da attentati frequenti e da taxi gialli che sfrecciano per le strade della città. Per ben due volte Alì, che sin da ragazzo aveva fatto esperienza nelle cucine, ha dovuto rinunciare al proprio sogno di lavorare in un hotel a cinque stelle. La prima quando venne chiamato alle armi e mandato a Erbil, nel nord dell’Iraq, dove era scoppiata la rivolta dei curdi,
«Così, anziché andare a lavorare in hotel, andai a combattere in guerra. Con i curdi si combatteva per lo più sulle montagne. Mi mandarono lassù con un mitra. Non ne ero felice; avevo poco più di vent’anni e non avevo niente contro i curdi, di certo non desideravo morire in una guerra contro di loro», la seconda al termine del periodo di leva: «Fu così che anziché nel mio sospirato hotel, finii a lavorare nella cucina del presidente».
La sua esperienza come cuoco presidenziale è terminata dopo quindici anni alle dipendenze di Hussein, trascorsi tra momenti d’ira e momenti di calma, due guerre (con l’Iran e con il Kuwait), cucine da campo, fughe da un’abitazione all’altra. Stanco dell’imprevedibilità di quel lavoro lo ha lasciato proprio qualche anno prima che gli americani iniziassero la ricerca convulsa di Saddam Hussein. Mentre la guerra contro l’Iran costava oltre un milione di vite umane, mentre decine di migliaia di persone venivano sterminate, mentre gli iracheni sprofondavano nella fame e letteralmente ne morivano, Saddam Hussein, oltre a far costruire innumerevoli e sontuosi palazzi presidenziali, continuava a consumare le proprie pietanze irachene preferite: kebab, shawarma, basturma, kofta, zuppa di gombo ma soprattutto la sua amata zuppa di pesce. Nonostante l’instabilità, le atrocità, il terrore, Abu Alì ha sempre considerato il presidente «la sola persona buona di tutta la famiglia degli Al-Tikriti» (persone originarie di Tikrit, città nella quale è nato e cresciuto Saddam Hussein, le uniche di cui si fidava e si circondava).
Il secondo capitolo, Lunch – Capra al forno, è dedicato all’incredibile storia di Otonde Odera, cuoco di Idi Amin, sanguinario dittatore ugandese «che gettava i propri oppositori in pasto ai coccodrilli» e «di cui si dice che mangiava carne umana». Odera, appena nato, era stato risparmiato da un branco di iene, da ragazzo era sopravvissuto all’aggressione di un ippopotamo e alle molte malattie che, invece, avevano stroncato tutti e tredici i suoi fratelli. Così, grazie all’aiuto di un cugino, era partito in nave dal suo Kenya alla volta dell’Uganda per andare a lavorare come aiuto cameriere. A Kampala conobbe i Robertson, una famiglia di mzungu (bianchi) che lo assunse per lavorare nella propria casa, da loro imparò a cucinare e la sua vita trascorse tranquilla fino al 1962, anno in cui l’Uganda proclamò l’indipendenza. I Robertson tornarono in Gran Bretagna e lui si ritrovò senza lavoro. La carriera come cuoco presidenziale ebbe inizio con il premier Milton Obote, amante della cucina inglese, che lo scelse perché «i neri capaci di cucinare il cibo dei bianchi erano molto pochi». Per anni fu sottopagato, ma con il golpe di Idi Amin cambiò tutto. Uno stipendio triplicato, macchine nuove fiammanti, abiti alla moda e delle marche più famose, e ben presto Odera, anche se a palazzo erano tutti consapevoli di lavorare «per uno svitato capace di alzarsi un bel mattino e farci fuori tutti», si ritrovò totalmente assoggettato al volere di Amin; l’uomo durante il cui regime furono uccisi circa trecentomila ugandesi. Non andò meglio quando al potere tornò Obote, né quando questi venne nuovamente spodestato, stavolta dalle forze ribelli guidate da Yoweri Museveni (attuale presidente dell’Uganda dal 1986). E Otonde Odera che fine fece nel frattempo? Fu portato in una cella sotterranea vicino al lago Vittoria ma scampò anche a quest’altra occasione di morte certa. Così a ottant’anni, in una casa in Kenya che cade a pezzi, circondato da figli e nipoti, ha raccontato la sua storia a Witold Szabłowski e insieme a lui ha cucinato un piatto che avrebbe preparato anche per Amin.
Con il signor K., il cuoco di Enver Hoxha, che ha chiesto di mantenere segreta la sua identità, gli incontri si sono svolti nel ristorante del piccolo albergo che gestisce attualmente insieme alla moglie in una località della costa albanese. Ha paura a parlare dell’epoca di Hoxha e non vuole dare molte spiegazioni sul «posto in cui lavorava mentre il popolo albanese faceva la fame». Nonostante ciò si è sciolto parlando dapprima della propria filosofia culinaria e a poco a poco si è addentrato nella sua vita passata, durante la quale ogni decisione veniva decretata dal Partito. Dopo qualche anno di lavoro per gli Hoxha, il signor K. trascorse un capodanno insieme alla loro famiglia. In quell’occasione cucinò un dolce tradizionale della città di Peshkopi, lo sheqerpare, e la sua buona riuscita gli valse un posto seduto a tavola con loro. Nel racconto, il cuoco fornisce a Szabłowski e, dunque, ai lettori anche la ricetta; tutta l’opera è disseminata di ricette, ma sfido a riproporle sulle proprie tavole a lettura conclusa. Lavorare per Enver Hoxha non fu facile, sia perché con la chiusura nei confronti degli altri paesi molti prodotti erano irreperibili sia perché soffriva da anni di diabete e tutto ciò che arrivava sulla sua tavola doveva essere pesato con il bilancino. La dieta scrupolosa che seguiva potrebbe essere uno dei motivi per cui era sempre nervoso. K., che con il tempo aveva imparato a decifrare l’umore del suo datore di lavoro, in giornate nere cucinava qualche pietanza tipica di Argirocastro, la città natale di Hoxha, e aveva anche escogitato un metodo per sopravvivere perché:
«Lavorare per Enver mi ha dato grande soddisfazione e mi ha permesso di imparare tantissime cose. Ma avevo sempre paura. Ogni membro dello staff aveva paura. Temevamo che un bel giorno Hoxha si sarebbe svegliato con la luna storta e ci avrebbe mandati in un lager o al patibolo».
Molti cittadini non riuscirono a sopravvivere al regime, vennero fucilate circa seimila persone durante quegli anni e circa duecentomila furono deportate nei campi di prigionia, nei lager e nelle carceri politiche.
In un ristorante, a molti chilometri di distanza dall’Albania, lavora anche uno dei cuochi di Fidel Castro, Erasmo Hernandez. Lo si può trovare fuori dal Mama Ines, il suo ristorante, con occhiali dalla montatura rossa all’ultima moda e camicia aperta sul petto, ma a sedici anni non sapeva ancora che futuro lo aspettava. Era partito con il suo migliore amico da Santa Clara, la sua città natale, alla volta delle montagne dell’Escambray, dove si era stabilita una parte dei ribelli guidati dai fratelli Acevedo e dal comandante Che Guevara. Tra un caffè e una pietanza preparata insieme, Hernandez ha raccontato a Szabłowski come da guardaspalle personale del Che è diventato il cuoco di Fidel Castro. Nel frattempo, però, il giornalista polacco ha saputo dell’esistenza di un altro cuoco caro alla Rivoluzione: Flores. Sembra che l’anziano viva in estrema indigenza e solitudine e che abbia anche qualche disturbo mentale. Nonostante ciò vale la pena ascoltare la sua testimonianza, anche se frammentaria. E così, tra il racconto cauto del primo (Fidel Castro è ancora vivo durante i loro incontri) che si adira se il giornalista calca un po’ troppo la mano e la costante paranoia della deportazione del secondo, il lettore si addentra in una Cuba che custodisce migliaia di tragedie umane.
«Il tragitto fra il ristorante di Erasmo e il posto in cui vive Flores è un salto tra due Paesi diversi. La Cuba di Erasmo porta la montatura degli occhiali colorata e vestiti alla moda, guadagna bene e desidera guadagnare ancora meglio. La Cuba di Flores sogna di rimediare qualcosa da mettere in pentola. E di non rimanere a corto di sigarette. O quantomeno di mozziconi».
L’ultima storia, il dolce, quella di Yong Moeun è molto differente dalle altre. Szabłowski ha trovato la cuoca ad Anlong Veng, l’ultima roccaforte dei khmer rossi, dove vi si erano ritirati quelli che avevano creduto nella Rivoluzione fino alla fine. La risata sonora di Moeun è contagiosa, per resistere il giornalista si è legato concettualmente all’albero maestro della nave ripetendo tra sé argomenti come «Genocidio», «Killing fields» ma anche «Quasi due milioni di vittime in meno di quattro anni». Il lettore ha già avuto qualche assaggio della devozione della donna nei confronti di Saloth Sar, vero nome di Pol Pot. La cuoca ne parla anche come Fratello Pouk, che in lingua khmer significa “materasso”, perché «cercava sempre di mitigare i contrasti. Era morbido come un materasso, e in questo stava la sua forza». Far mangiare abbastanza Pol Pot era diventata a un certo punto la sua missione di vita. Una volta diplomata, era stata reclutata da suo fratello e dal cugino per entrare a far parte dell’Organizzazione, con la promessa che i contadini cambogiani non sarebbero più stati sfruttati, gli operai delle fabbriche non sarebbero più morti e che ci sarebbe stato così tanto cibo da bastare per tutta la popolazione. Così era iniziata la sua militanza votata totalmente all’Angkar (Partito Comunista Khmer o di Kampuchea) e al benessere di Fratello Pouk. Non solo Moeun ma anche le altre donne a fianco dei leader del regime erano cuoche, tutte tranne Khieu Ponnary, la prima moglie di Pol Pot. La cucina era intrinsecamente legata alla politica, l’atto di preparare i pasti era un atto politico. Come accadeva anche negli altri stati sotto regime, anche in Cambogia, mentre il capo supremo si faceva preparare l’adorata insalata di papaia alla tailandese, con gamberetti essiccati o in alternativa con pasta di pesce e arachidi, la popolazione era stremata dalla fame. I cambogiani arrivarono a mangiare ratti, cavallette, grilli, lucertole, pipistrelli, persino specie rare di delfini. D’altronde, lo diceva anche Odera nelle pagine precedenti, «La fame fa impazzire la gente». Secondo Laurence Picq, una delle mogli degli alti funzionari dei khmer, anche lei inizialmente assoldata come cuoca, la fame era utilizzata come strumento politico.
«La fame era la punizione per la disobbedienza. La fame era la punizione per le radici sbagliate. La fame era la punizione per la malattia; per essere inservibili alla Rivoluzione. La fame aiutava a mantenere la disciplina».
Un aspetto in comune con il regime di Hoxha era quello delle sessioni di autocritica, per ore ognuno doveva confessare le proprie colpe e trasgressioni, inventate o reali, e denunciare quelle di amici e conoscenti. Ancora oggi per Yong Moeun «Pol Pot non era un assassino. Pol Pot era un sognatore. Sognava un mondo giusto. Un mondo dove nessuno patisse la fame. Un mondo dove nessuno si desse arie di superiorità né si sentisse migliore degli altri. Pol Pot non avrebbe mai tolto il cibo di bocca a nessuno».
Szabłowski avverte i lettori che tutte queste testimonianze presentano minime discrepanze tra le interviste rilasciate dai cuochi negli anni, le biografie e le fonti bibliografiche. Forse sono dovute all’età avanzata o forse a omissioni e ammissioni degli intervistati, ad ogni modo ognuno ha raccontato la storia della propria vita per come voleva raccontarla. Anche se geograficamente distanti e avvenuti in decenni differenti, ci sono molti punti in comune tra i racconti dei personaggi: la paura, la voglia di sopravvivere, sogni, ideali, il desiderio di compiacere il proprio dittatore. Il filo conduttore mi è sembrato, però, dall’inizio alla fine, la stretta connessione tra i verbi “sfamare” e “affamare”. Purtroppo in queste storie non sembra esserci, invece, pentimento, carità, vergogna, non c’è dio o divinità da invocare, non c’è Demetra né Cerere, non c’è eucaristia per i popoli assoggettati ai regimi. Alcuni di questi dittatori erano molto “tirchi” (parola dei loro cuochi) e risparmiavano spesso sui diritti della popolazione, nonostante si trattasse sempre di soldi pubblici; ciò su cui non lesinavano erano, ad esempio, capre al forno, castagne, torte di compleanno e qualunque cosa potesse allietare loro e i familiari. Mi sono venute in mente alcune parole di Enzo Bianchi: «condividere il pane o negarlo significa dare o togliere vita al prossimo» e ancora che la «sapiente memoria del ‘pane nostro’ ricorda a tutti che il pane o è ‘nostro’, condiviso, oppure cessa di essere pane» (Prefazione in P. Matvejević, Pane nostro, Garzanti, 2017, pp. 8-9). Dunque cosa può fare la letteratura, il reportage letterario in questo caso, se non esprimere preoccupazione, inquietudine, e avvertirci sui pericoli di una storia recente che sembra ritrovare terreno fertile nella contemporaneità?