Una storia vera, di Nicola Feninno

Edizioni Industria e Letteratura, porta il secondo volume della collana L’Invisibile, diretta da Martino Baldi, in libreria. L’invisibile è la collana che ospita testi brevi, ma non troppo, dedicando uno specifico luogo di lettura alle storie di media lunghezza che poco riconoscimento hanno nel panorama letterario. Il racconto lungo è una dimensione interessante, invece, che offre margini di sperimentazione, narrazione e sensibilità specifici, in grado di spaziare in modo efficace e convincente sia nelle esigenze degli autori che in quelle del lettore. Dopo l’esordio della collana con Cittadino Cane di Giordano Meacci, il 12 maggio sarà in libreria Una storia vera, di Nicola Feninno. Si tratta del racconto di un evento poco conosciuto della Seconda Guerra Mondiale, accaduto nella cittadina di Castelnuovo al Volturno, in provincia di Isernia: nell’estate del 1944 gli americani la utilizzano come set per un cinegiornale di propaganda, inscenando degli scontri a fuoco per le strette vie del paese con dei figuranti travestiti da nazisti e, infine, anche con un bombardamento, ripreso dal cielo. Questo episodio è l’espediente che serve all’autore per addentrarsi nel groviglio insidioso e perturbante dei meccanismi della narrazione, per chiedersi cosa accade a una storia quando deve attraversare il tempo, le tradizioni di un luogo, i traumi di una società. Cosa resta di vero. Cosa fanno gli esseri umani alla propria storia. Feninno ci restituisce un evento dimenticato riportando a galla, però, anche gli interrogativi del presente, cercando attraverso il gioco della scrittura qualche barlume di verità. La sua scrittura è di una fascinanzione rara: ipnotica, assertiva, senza ammiccamenti e scorciatoie, in cui idioletto, discorso indiretto libero e registro dialogico, si mescolano a momenti di visionaria, istintiva poesia. Una sorta di Pedro Pàramo italiano, contemporaneo e più maldestro, in cui, però, il rimbombo della guerra, il frastuono del terremoto, gli echi ancestrali di riti popolari, ancorano il racconto alla concretezza della realtà più misera, abbandonandosi, talvolta, all’incantamento del sogno.

Cattedrale vi propone un’anteprima del testo, pubblicando un estratto dell’incipit, per gentile concessione dell’editore.

I

Stavamo a camminare sulla mulattiera. Clic. Statti fermo, mi dice Leonardo Rufo. Io mi sono sudato tutto in un secondo. Lui s’avvicina, s’inginocchia, mi guarda con degli occhi che non gli avevo visto mai. Lo guardo pure io. Poi non lo guardo più, fisso l’aria tra me e lui, tengo la suola della scarpa sinistra piantata per terra, ma senza premere troppo. Resto così, il sudore mi tappa i buchi delle orecchie, sento che Leonardo Rufo, in ginocchio, pettina via il terreno intorno alla mia scarpa, piano, con le dita, continua a dirmi di stare fermo, poi di colpo si blocca. È una mina antiuomo. Tedesca. E mo’ come cazzo fa a sapere che è tedesca? Vedi che prima di saltare per aria l’ultima scena che mi porto dentro agli occhi è Leonardo Rufo in ginocchio che fa l’esperto di mine. Per qualche secondo se ne sta zitto e assorto. Poi mi dice che è troppo vecchia per esplodere, secondo lui, la mina. Dev’essere qua sotto da almeno settant’anni: ne è passata di pioggia, neve, grandine e siccità, bestie al pascolo, pure qualche turista ci avrà camminato sopra. E i terremoti: quello dell’Irpinia del 1980, poi quello del 1984, l’Aquila nel 2009, Amatrice nel 2016. L’involucro sarà danneggiato ormai, la carica esplosiva sarà tornata alla natura. Mi guarda di nuovo: un’altra volta uno sguardo che non avevo visto mai in faccia a Leonardo Rufo, amico mio dai tempi delle scuole elementari. Si rimette in piedi. Si allontana di una decina di passi. Poteva pure essere che quella mina era già esplosa, magari mo’ sottoterra è rimasto solo il dischetto d’acciaio del fondo, quello che ha fatto clic. Perché sopra, continua lui con un tono che si sforza di mantenere rassicurante, le mine tedesche tenevano i rilevatori della pressione, poi più sotto la linguetta di sicurezza, più sotto ancora le molle, e poi vabbuò, non lo ascolto più. Lui si allontana un altro paio di passi ancora. Si pulisce le ginocchia dei pantaloni. Mi sorride. Io faccio tre respiri lunghi, aspetto ancora un poco, alzo il piede. Clic. Non succede niente.
Vuoi un amaro? Una genziana?

Lui si chiama Andrea e questo episodio della mina che non è esplosa deve averlo raccontato parecchie volte. È il proprietario e il pizzaiolo dell’unico posto dove si può mangiare la sera, separato dal resto del paese dalla curva di una strada provinciale da cui non passa nessuno; quella da cui sono venuto io poche ore fa, prima di parcheggiare vicino al cimitero e ritirare le chiavi dell’appartamento che ho prenotato con Airbnb: l’unico alloggio disponibile qui a Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta a Volturno, provincia di Isernia, Molise; oggi ci vivono 237 persone secondo l’Istat, 62 di queste hanno più di 74 anni, 8 tra 0 e 4 anni, 3 sono analfabeti, 7 stranieri, la chiesa è dedicata all’Assunzione della Vergine Maria.


Sei qui per l’Uomo Cervo? Dico di sì. Mi sorride. Si allontana dal mio tavolo, torna verso il bancone, resta un po’ di farina nel punto in cui raccontava. Con me c’è Valeria, la nipote dei proprietari dell’appartamento in cui ho lasciato i bagagli, i signori Miniscalco. Deve avere all’incirca trentacinque anni, vive a Bologna, ha studiato Antropologia, è cresciuta qui a Castelnuovo e torna tutti gli anni per l’Uomo Cervo. Le propongo di uscire a fumare.

Andrea ci raggiunge con le genziane, l’aria è infida, le montagne qui intorno la raffreddano.
A far rinascere il Cervo è stato mio padre, dice. È nato qui nel 1952, si trasferì molto giovane a Milano, con mia madre, per lavorare alla Montedison; non stettero bene e se ne tornarono giù che tenevano ancora vent’anni. Poi ci fu il terremoto, non quello dell’Irpinia, che qui ha fatto poco danno, quell’altro, della primavera dell’84, un disastro, fu il 7 maggio. Ci dettero un container, pensa tu i casi della vita, il container stava proprio qui – indica il ghiaione di fronte a noi, che è il parcheggio del suo ristorante – a quel tempo era un campo da calcio. Sette anni siamo stati in quel container. Comunque, stavo a dire: quando mio padre se ne tornò da Milano, all’inizio degli anni Settanta, s’incontrò con Ernest che invece tornava dall’America. Si organizzarono e fecero rinascere il rito, che era morto con la guerra e con la distruzione del paese, che poi si svuotò nel dopoguerra: le poche persone rimaste, quasi tutte, se le pigliò il Nord. Nicola, dammi il numero tuo, domani ci vediamo in piazza alle undici e ti presento Ernest, mo’ ti faccio uno squillo.
Mentre salvo il suo numero in rubrica – ANDREA CASTELNUOVO – lui tira fuori dalla tasca dei pantaloni la locandina ripiegata del rito di quest’anno: c’è un tizio con delle corna da cervo piantate sopra un copricapo di pelo nero, indossa un vello nero, il volto è dipinto di nero, risaltano le sclere bianche degli occhi, sullo sfondo un cielo striato di nuvole tutto in scala di grigi.
Questo sono io – si indica, sorride – sono stato l’Uomo Cervo per otto anni di fila. Ti racconto una cosa. Qualche giorno dopo il mio primo rito, nel 2006, mi si avvicina Gianni Barilone, mi prende da parte e mi dice: oh, ma lo sai che mio nonno ha la costola incrinata? Mannaggia, mi dispiace, e come è successo? L’hai buttato tu nella fontana. Io? E quando? Quando facevi il Cervo. Gianni, ti giuro, non me lo ricordo, non mi sono accorto, ti giuro. Mi dispiace, gli dico, sto mortificato, perdonami, e ora il nonno sta bene?
Andrea ha dei tratti del viso fin troppo comuni, ti mette a tuo agio, ma senti che è anche altrove.
Mi devi credere, Nicò: la vestizione, il trucco in faccia, il copricapo con le corna, tutto questo mascheramento che ti calano addosso…credimi, non sei più tu. Corri nella piazza e urli in faccia a chi capita, una voce da bestia che non sapevi di avere, e non conosci manco più la gente, hai le luci piantate in faccia e non le vedi proprio le persone, le facce… È tutta un’altra cosa.