Gli orsi danzanti di Witold Szabłowski


di Giordana Restifo

Il nuovo anno è iniziato ma c’è un’opera del 2022 da recuperare. Si tratta del reportage Orsi danzanti. Storie di nostalgici della vita sotto il comunismo di Witold Szabłowski, pubblicato dalla casa editrice Keller, nella traduzione dal polacco di Leonardo Masi. Se non fosse per quel sottotitolo, che chiarisce, almeno in parte, cosa il lettore troverà nelle pagine del giornalista polacco, si potrebbe pensare a una delle storie fantastiche di Dino Buzzati. Al contrario di Re Leonzio, Tonio, Salnitro, Teofilo e di tutti gli altri personaggi de La famosa invasione degli orsi in Sicilia, gli orsi di Szabłowski non hanno sogni, desideri, non sono in attesa di alcunché né liberi di girovagare tra montagne e città. No, anzi, quando Vela, Mima, Mišo, Svetla e gli altri orsi hanno sperimentato la libertà in età adulta non sono stati in grado di affrontarla da soli.

1.      Mondo animale

Il reportage è diviso in due parti. Nella prima, l’autore ci porta in Bulgaria a conoscere gli ultimi proprietari di orsi danzanti. Capitolo dopo capitolo, attraverso i luoghi, Drjanovec, Gecovo, Jagoda, Belitsa e altri, e i racconti delle famiglie, ci addentriamo anche nella storia di un paese che non ha ancora superato l’impasse della fine del lungo regno di Todor Živkov, della caduta del modello sovietico e, dunque, del tramonto del socialismo. Per decenni, una fetta di popolazione ha vissuto addestrando orsi. Alcuni non conoscevano altro lavoro se non questo, l’avevano ereditato dalla propria famiglia, di generazione in generazione, come oggi potrebbe essere per uno studio medico o notarile; altri, si sono dovuti reinventare una professione all’inizio degli anni Novanta, a seguito della caduta del comunismo, quando la Bulgaria è stata investita da una grave crisi economica che ha causato licenziamenti massivi, carenza di merci, e perdita delle certezze. Per riuscire ad addomesticare questi animali così possenti li compravano da cuccioli, gli estraevano i denti (per evitare ritorsioni future), li picchiavano, li legavano con delle catene, somministravano loro alcolici e dolciumi per ammansirli, forgiavano il loro carattere e gli insegnavano danze o imitazioni di personaggi famosi da proporre come spettacolo durante le fiere e le feste. Per far sì che gli orsi li seguissero e ubbidissero, gli addestratori infilavano nei loro nasi un anello di ferro (holka) al quale legavano una catena, come una sorta di feroce guinzaglio. Una pratica dolorosissima per l’animale, almeno a livello fisico. Il naso è, infatti, una parte molto sensibile. Per quanto riguarda, invece, la sfera psicologica vien da chiedersi se chi nasce schiavo, in cattività, riesca a immaginare la libertà mai conosciuta. Con la catena al naso imparavano a ballare ascoltando la musica della gusla (strumento tipico dei popoli slavi) e, a suon di botte, si alzavano su due zampe muovendo i primi passi. Tra gli addestratori c’è anche chi ha confessato a Szabłowski di aver voluto bene al proprio orso come a un famigliare:

Dio mi è testimone, le ho voluto bene come fosse una persona. Le volevo bene come a uno di famiglia. Il pane non le è mai mancato. Gli alcolici migliori. Fragole. Cioccolato. Merendine. Se avessi potuto, l’avrei portata sulle spalle.
Se dici che la picchiavo, che con me non stava bene, allora dici una bugia
.

Così gli orsi crescevano, con diete iperglicemiche, ritmi biologici inesistenti e sprangate. Giravano per tutto il paese facendo spettacoli di danza, imitazioni di personaggi famosi come sportivi e politici, ma erano addestrati anche per fare massaggi alle persone che ne avevano bisogno. Non riesco davvero a immaginare un orso che ti sta sulla schiena massaggiandotela mentre sei a pancia in giù, ma forse uscendo dagli schemi della razionalità è possibile figurarselo. Nel 2007 la Bulgaria è entrata a far parte dell’Unione Europea e questo lavoro, quantomeno bizzarro, è diventato illegale. Come in una favola, è arrivato il forestiero a salvare gli oppressi. Il liberatore ha le fattezze di un’associazione austriaca, “Quattro Zampe”, fondata nel 1988, che ha istituito il parco degli orsi danzanti (attualmente chiamato il Santuario degli orsi) a Belitsa, vicino la capitale Sofia. Dodici ettari di terreno nei quali si insegna agli orsi a «vivere in libertà». La realtà, però, è cosa assai diversa dalle fiabe. Infatti, quando gli animali sono arrivati al parco, dopo lunghe contrattazioni da parte dei dipendenti dell’associazione con i proprietari, si sono trovati spaesati, incapaci di pensare da soli a sé stessi; per tutta la vita avevano avuto qualcuno che organizzava le loro giornate, che governava le loro esistenze. Allora, i dipendenti di Belitsa hanno capito che la prima lezione di questo laboratorio di libertà doveva essere incentrata sull’insegnare agli orsi che essere liberi ha i suoi limiti. Nel loro caso il confine è un recinto elettrico attorno al parco. Nella riserva hanno tutto, dal cibo alla compagnia (anche se in natura sono animali abbastanza schivi), dalle tane al laghetto artificiale, hanno spazio per muoversi. Se superassero il recinto entrerebbero in un mondo nel quale non sono in grado di districarsi, non avrebbero chance di sopravvivenza. A spiegare tutto ciò è Dimităr Ivanov, il direttore del parco, intervistato da Szabłowski.  Questi racconta di come danno agli orsi la libertà per gradi, cercando di risvegliare i loro istinti e i loro ritmi biologici (come, ad esempio, l’ibernazione), e, parafrasando una famosa frase attribuita a Stalin, dice «La libertà è una cosa terribilmente complicata. Bisogna darla a piccole dosi». In seguito alla visita al parco, l’autore riflette sul fatto che questo è sì, un racconto sugli orsi, ma anche sugli esseri umani, perché quando alla fine degli anni ’80 un grande pezzo di mondo è diventato libero ha ricevuto

«una libertà alla quale non era stato preparato. In casi estremi non se la aspettava, e neppure la voleva. […] perché la libertà non ha portato alle persone soltanto nuovi sapori, nuove possibilità e nuovi orizzonti», ma anche «nuove sfide, davanti alle quali non sempre riescono a cavarsela. Ha portato la disoccupazione, che durante il socialismo era cosa sconosciuta. Ha portato la mancanza di un tetto.
Ha portato il capitalismo, spesso in una forma molto selvaggia
».

Subentra così, per alcuni, quel sentimento tanto vivo quanto attuale del “si stava meglio prima”, molto diffuso nei paesi balcanici e, da qualche tempo, anche in alcuni paesi occidentali: «E si è capito che la paura di un mondo che cambia, la nostalgia per qualcuno che ti alleggeriva le spalle dalla responsabilità, il bisogno di qualcuno che ti dica che tornerà a essere come prima (cioè meglio) sono sentimenti universali». Così, la riflessione dell’autore ci spinge a porci interrogativi sul significato intrinseco di “libertà”.

Tornando a Buzzati, c’è un punto fondamentale per capire questo rapporto innaturale instauratosi tra animali e uomini. Come nella favola gli orsi vengono «contagiati dall’atmosfera cittadina» (D. Buzzati, La famosa invasione degli orsi in Sicilia, Oscar Mondadori, 1980) indossando uniformi e mantelli, mangiando a più non posso, fumando sigari, dicendo parolacce e scommettendo soldi in bische clandestine, così anche gli orsi che vivono a Belitsa, involontariamente, sono stati corrotti dal mondo umano, in modo più realistico. Infatti, i dipendenti del parco non riescono a eliminare il pane dalla dieta degli animali, o ancora, i veterinari hanno notato che si ammalano e muoiono per le stesse patologie degli uomini (tumori, diabete, cirrosi epatica, cataratta). La morte è un altro tema in comune con la storia degli orsi in Sicilia, intesa in senso reale e figurato, ovvero come «decadenza, abbrutimento, come annullamento di un modo di vivere e di comportarsi. Una morte psicologica e spirituale, quindi» (La famosa invasione degli orsi in Sicilia – cit., p. XIV). Con molta probabilità, gli orsi del parco staranno meglio, si adegueranno alla nuova situazione, o riusciranno almeno ad arrivare alla fine della loro vita un po’ più in connessione con la natura, anche se il luogo in cui vivono «ha solo la parvenza della libertà», ha concluso tristemente il direttore Ivanov. Una parvenza data non solo dalle azioni dei dipendenti che accudiscono gli orsi giorno e notte, ma soprattutto dal fatto che, e di questo ne parlano malvolentieri e con imbarazzo, nonostante gli sforzi «quasi tutti gli orsi ancora oggi ballano». Alle volte basta che vedano l’ombra di un uomo o sentano un odore che li riporta con la mente alla vita precedente e allora si alzano sulle zampe posteriori e iniziano a fare tutto ciò che hanno sempre fatto per ottenere alcol, dolciumi e pane.


1.      Mondo umano

E se degli orsi si prende cura l’organizzazione Quattro Zampe, degli esseri umani chi si occupa? In questa storia degli orsi danzanti ci sono, infatti, anche dei risvolti ai quali nessuno ha pensato, ma che ci vengono indicati dal giornalista polacco. In primo luogo, ci sono gli abitanti di Belitsa, ai quali non va giù con quanta cura vengano trattati gli orsi e quanti soldi vengano spesi annualmente per il parco, nonostante non sia sovvenzionato dallo Stato ma da privati. Si sentono abbandonati nella loro personale transizione verso la libertà, tanto da arrivare a pronunciare frasi come «Mi dispiace di non essere nato orso». In secondo luogo, e qui si entra in un terreno minato, ci sono gli ex addestratori che, seppur pagati per lasciar andare via gli orsi, non hanno saputo reagire alla perdita. È simbolica la storia personale di Dimităr Stanev, ammalatosi subito dopo la partenza degli orsi e morto di nostalgia, nostalgia per il suo Mišo, come spiegano i famigliari a Szabłowski. Stanev non ha potuto consultare nessun medico né terapeuta, nessuno gli ha prescritto medicine per l’umore, ma, soprattutto, nessuno ha pensato alla difficoltà di dover trovare un nuovo lavoro quando per tutta la vita se n’è fatto solo uno, e che questo, per quanto si possa considerare barbaro, gli ha fatto instaurare un rapporto esclusivo con l’orso. Legame che, sicuramente, non siamo in grado di capire fino in fondo.

A separare le due parti del reportage vi sono alcune foto in bianco e nero degli addestratori con gli orsi particolarmente di impatto. Nella seconda parte si susseguono storie di nostalgici, caudatari, tour operator dell’orrore, sognatori, malfattori, esseri umani. Tutti parlano con Witold Szabłowski e hanno qualcosa da raccontare su come si viveva prima, su come si vive oggi. Ci sono gli uomini e le donne di Cuba, alcuni inneggiano a Fidel Castro e alla rivoluzione, altri sono più cauti e ammettono che «il comunismo non ha funzionato» ma, allo stesso tempo, non vogliono introdurre un capitalismo fast-food, anche se sull’isola c’è già chi si sta preparando a quest’apertura drastica al libero mercato. Ci sono gli abitanti di un villaggio in Polonia, Sierakowo Sławieńskie, che hanno deciso di reagire alla miseria e alla disoccupazione portate dalla transizione democratica degli anni ’90, creando il “Villaggio degli Hobbit”. Hanno sfidato i pregiudizi dei compaesani, forse anche i loro, e hanno deciso di travestirsi da personaggi di Tolkien per combattere la vergogna della povertà ed essere in qualche modo liberi di decidere del proprio presente.

A Londra, invece, vive, per ora, una signora di nome Alicja, nome d’arte Lady Binario, che va in giro per il mondo e dorme nelle stazioni in cui si ferma, pur essendo invalida dalla nascita. Lady Binario non si arrende all’ingiustizia sociale, nonostante l’età avanzata, arringa contro i potenti del mondo e contro l’occidente.  

C’è la storia di chi è ancorato al passato e non riesce ad andare avanti, come le donne che lavorano al Museo di Stalin a Gori, in Georgia. Queste «vestali», come le soprannomina il giornalista polacco, custodiscono la maschera mortuaria del leader sovietico, oltre ad alcune fotografie appese alle pareti e a una serie di oggetti suoi e della sua famiglia. Gli abitanti di Gori vivono sospesi in un tempo che non esiste più, se ne rendono conto, ma per alcuni il rimpianto del passato è più forte del richiamo del presente (e del futuro). Ognuno, a modo proprio, si sente in debito con Stalin: «Perché nella nostra cittadina non succede nient’altro. Se non fosse per il museo, sarebbe già morta da tempo […] noi qui, a parte il nostro Stalin, non abbiamo niente». Se da un lato ci sono cittadini con questo attaccamento morboso ai ricordi e al modo di pensare che “si stava meglio prima”, dall’altro c’è un intero Paese in rivolta per un domani più equo, senza crisi e magari senza capitalismo. Come in Grecia, culla della democrazia, gli abitanti non si sono ancora arresi e continuano a dimostrarlo con gli scioperi, le manifestazioni, le sommosse: «Perché non abbiamo inventato la democrazia affinché poi siano altri a decidere alle nostre spalle». Nel quartiere di Exarchia si riunisce la gioventù che sogna di cambiare il proprio Paese e il mondo intero.

Tra speranze e incertezze ci sono le storie degli albanesi che stanno ancora affrontando, da decenni, una lunghissima trasformazione politica, sociale, economica. A proposito, c’è un tempo limite entro il quale si può dedurre che la transizione democratica è terminata e da lì in avanti andrà tutto meglio? O ammettere che ha fallito? Perché questo limbo rischia di far impazzire anche le menti più sane. Ci sono anche le storie dei polacchi e degli ucraini che, nella totale precarietà delle loro società, hanno fiutato affari remunerativi, non del tutto legali, e che mentre trasportano macchine da un confine all’altro sperano che l’Ucraina entri il più tardi possibile nell’Unione Europea (attualmente, gennaio 2023, candidata a farne parte). Quelle dei serbi che hanno intravisto un business dove prima stavano solo orrore e dolore e hanno organizzato un macabro tour a Belgrado sulle tracce del «Boia dei Balcani», Radovan Karadžić, per il quale hanno scelto il nome di «Pop-art Radovan». Già, perché il politico serbo (che oggi si trova nel carcere britannico di massima sicurezza dell’Isola di Wight, a scontare l’ergastolo) ha trascorso tredici anni da latitante tra i bar, i ristoranti e gli ospedali della sua città d’adozione prima di essere arrestato nel 2008 per genocidio proprio a Belgrado … ricorda qualcosa?

C’è un’altra nicchia buia della storia, quella dove vivono i russi d’Estonia. Nella ex repubblica sovietica un abitante su tre è russofono, molti hanno la cittadinanza estone, alcuni quella russa, altri nessuna perché per la prima non hanno superato l’esame e la seconda non la vogliono. Il governo vorrebbe rispedire i russi (nati e/o cresciuti in diverse parti dell’Estonia) in Russia, la popolazione estone non li apprezza, e molti hanno perso il loro senso di appartenenza: l’Estonia non li vuole più o non li riconosce e in Russia non si sentono a casa. Una ricerca indica che dal 1991 il numero di suicidi tra la popolazione russa di Estonia è salito del quaranta per cento. Minimi dati per una situazione tesa e dolorosa di cui in pochi sono a conoscenza.

Infine, c’è una storia, un conflitto, possiamo farlo risalire alla fine degli anni ’90 ma realmente va avanti da secoli (potremmo andare indietro nel tempo fino al 1300), che si appiglia giornalmente ai dettagli per rinfocolarsi, è quello tra Serbia e Kosovo. L’ultima diatriba (per usare un termine cortese) è stata quella sulle targhe automobilistiche. In Kosovo vivono circa centomila persone di origine serba (su una popolazione di 1,8 milioni), molte delle quali posseggono una vettura con targa serba, risalente a prima della guerra del 1999. Ciò ha creato forti tensioni, finite anche sul tavolo dell’Unione Europea, e da poco conclusesi con una nuova Embrassons Nous. Così, mentre i governi attendono il prossimo particolare sgradito, la popolazione, automunita e non, cerca la propria strada, consapevole che arriverà un nuovo divieto, un nuovo cavillo, a ostacolare la loro libertà di movimento e di pensiero.

Witold Szabłowski ci ha donato un reportage incredibile, in cui reale, fantascientifico, assurdo, si mescolano per farci sorridere, arrabbiare, sbigottire; ma quello del giornalista polacco è soprattutto un modo per farci pensare o ripensare a cosa sia la libertà. A tal proposito, fa riflettere la voce “libertà” nel dizionario analogico della lingua italiana Garzanti, che colloca le parole in un ordine logico, secondo l’appartenenza a campi semantici: a questa sono legati una serie di sostantivi – indipendenza, affrancamento, autodeterminazione, libero arbitrio e altri – e una serie di azioni – essere padrone di sé stesso, appartenersi, liberarsi da una servitù, spezzare le catene e altre. La stessa catena legata alla holka che gli orsi di Belitsa non sono riusciti a spezzare perché mai nessuno gli aveva spiegato che quella non era libertà. Un termine che, in tutta l’opera di Szabłowski, compare cinquantasette volte e nonostante tutto sembra così inafferrabile, sfuggente, ma, allo stesso tempo, appare così evidente come questo abbia un peso differente a seconda del luogo e del tempo in cui si nasce e si vive. Quindi, cos’è per ognuno di noi questa libertà? E per gli altri? Mi risuona in testa una frase, non riesco a ricordare se l’ho letta da qualche parte, sentita o solamente sognata: «Libertà, è una parola gettata al vento, è un portento, altro non è che la nostra dignità».