di Giordana Restifo
È arrivato quel periodo dell’anno in cui chi può riscopre la montagna, con i suoi paesaggi immensi, la meraviglia dei colori autunnali e di quelli invernali, le sagome dei larici e delle creste rocciose che si stagliano di notte contro la volta stellata. Per esplorarla, per addentrarcisi, però, bisogna essere preparati, attrezzati. E per valicarla senza abiti adatti, con i militari alle calcagna, con la paura di essere scoperti da un momento all’altro ed essere riportati al punto di partenza? Bisogna disperatamente desiderarlo.
Salif, Antoine, Thierno e Mamadou, sono alcuni dei ragazzi che hanno tentato più volte questa impresa, protagonisti, insieme ad altri, del reportage di Raphaël Krafft, Les Enfants de la Clarée, I rgagazzi della Clarée pubblicato nel 2021 in Francia da Editions Marchialy, e quest’anno in Italia dalla casa editrice Keller, grazie alla traduzione dal francese di Luisa Sarlo.
La Clarée è una valle situata nel dipartimento delle Alte Alpi francesi. Connette, tramite il valico alpino del Colle della Scala, la Francia all’Italia, la Val della Clarée alla Val di Susa in Piemonte. Nel dipartimento delle Alte Alpi si trovano, tra gli altri, i comuni di Névache, di Val-des-Prés, di Briançon, questi luoghi hanno un’importanza rilevante nella cronistoria del giornalista francese. La valle della Clarèe ha fama di essere uno dei paesaggi più preziosi in Francia. Nell’opera il suo splendore, il biaou (si chiamano così in occitano i ruscelli che attraversano il villaggio) che scorre scintillante, il cielo limpido, il candore della neve, stride con l’austerità dell’ambiente in cui si muovono Salif, Antoine, Thierno, Mamadou e tutti gli altri ragazzi.
I compagni della Clarée
Nel novembre del 2017, il giornalista francese, dopo aver letto due articoli sulla scoperta di una nuova via di transito percorsa dai migranti tra l’Italia e la Francia, si è recato nella regione di Briançon per capirne di più. Così ha conosciuto, giorno per giorno, una rete di volontari impegnati sulle montagne e a valle per aiutare, ognuno come può, i migranti di passaggio. Bernard Liger, un’ottantunenne ex ufficiale di carriera, «considerato un po’ il capo, il ‘decano coordinatore’ dei compagni della Clarée», Bruno Jonnard, pompiere volontario e battipista per il comune di Névache, ovvero autista del gatto delle nevi sulla pista da sci di fondo, e Jean-Gabriel, gestore, insieme alla moglie Catherine, del rifugio Ricou, sono i primi abitanti di Névache che Krafft conosce in questo viaggio. Insieme ad altre persone si occupano di ospitare i migranti che arrivano dal Colle della Scala stremati, letteralmente congelati, danno loro un letto, da mangiare e da bere, degli abiti caldi e adatti, provano a portarli a Briançon, dove vi sono diverse associazioni che possono sostenerli per affrontare tutti i problemi amministrativi e iniziare il loro nuovo percorso di vita in Francia.
Krafft, a casa di Bernard Liger, ha conosciuto Justin, un ragazzo del Camerun di circa trent’anni, arrivato in Francia al primo tentativo, anche se con una caviglia dolorante per essere sfuggito alla polizia che gli ha dato la caccia dal Colle della Scala fino al bosco, con i piedi sanguinanti, una leggera ipotermia, la pancia vuota e la gola così secca che riusciva a malapena a parlare.
Liger spiega al giornalista che è difficile fissare una data di inizio di questo transito, anche perché probabilmente alcuni sono passati senza che gli abitanti se ne accorgessero, potrebbe essere iniziato nel 2015-2016.
L’episodio che ha commosso tutti e fatto realmente prendere coscienza di ciò che avveniva sulle montagne, nella valle, nei boschi attorno a loro, è avvenuto nella primavera del 2016: Mamadou, un ragazzo ivoriano di 28 anni, è stato trovato congelato mentre provava a passare il Colle della Scala e all’ospedale di Briançon gli hanno dovuto amputare i piedi. Qualche settimana prima un altro ragazzo, di 17 anni, sempre ivoriano, era stato trovato in ipotermia sul colle.
Ci siamo accorti che le autorità non si preoccupavano, o non volevano preoccuparsi, della sicurezza di queste persone. Allora abbiamo deciso di farcene carico noi. Ci sembrava assurdo rimanere con le mani in mano mentre delle persone rischiavano di morire in montagna.
Quante volte abbiamo sentito questa frase rivolta ai naufraghi del Mediterraneo? Infatti, continua Liger, «non li chiamiamo i “naufraghi della montagna” per caso. Quello che sta succedendo nel Mediterraneo è paragonabile in tutto e per tutto alla traversata delle Alpi, anche se noi abbiamo meno morti. Per ora. Per la gente di mare e la gente di montagna vale la stessa legge: salvare le persone in difficoltà».
Per questo motivo, tra i volontari c’è anche un gruppo di guide alpine con cui, dopo molte difficoltà, Krafft riesce a mettersi in contatto. Cédric, uno di loro, insieme ad altri amici, per organizzare i pattugliamenti ha contattato Alain, una guida di media montagna in pensione molto esperta. Con quest’ultimo e con Caroline, una collega svizzera invitata a Névache per documentare anch’essa ciò che accade ai migranti, il giornalista esce in notturna per una ricognizione, ed è proprio durante questa camminata che conosce Salif, Antoine, Mamadou e Thierno, tutti sedicenni tranne Antoine che ha 17 anni, i primi tre provenienti dalla Guinea, Thierno dal Senegal.
I ragazzi della Clarée
In momenti diversi, hanno tutti attraversato il Sahara, la Libia e il Mediterraneo. Uno di loro ha le cicatrici delle frustate ricevute in Libia, un altro i «segni dei morsi alla caviglia tipici dei sopravvissuti ai naufragi nel Mediterraneo». Salif è partito a 13 anni insieme allo zio, a seguito della morte di sua madre. Il suo viaggio è stato una triste odissea senza lieto fine: dal loro villaggio, Konkokan, a Conakry, la capitale della Guinea, poi Kourémalé alla frontiera con il Mali, poi, servendosi di un passeur (chi trasporta clandestinamente merci o persone attraverso un confine), Bamako (capitale del Mali), dove per tre giorni hanno dormito su una panchina della stazione. Da lì hanno raggiunto Gao, attraversato il Sahara a bordo di un pick-up pieno di gente per arrivare in Algeria, a Orano, e raccogliere la somma necessaria per proseguire il viaggio. Arrivati alla zona detta “delle tre frontiere”, al confine tra Tunisia, Libia e Algeria, in mezzo al deserto, un altro passeur li ha portati fino a Gadames (in Libia) e li ha venduti a dei sequestratori, assecondando «una pratica purtroppo ricorrente in Libia, dove i migranti africani sono facili prede di uno Stato in rovina». Dopo essere stati brutalmente picchiati per tre giorni, fino a quando le loro grida al telefono hanno convinto parenti e amici a mandare il denaro sufficiente per farli liberare, sono arrivati in una casa occupata a 600 km da Tripoli. Il primo tentativo di attraversare il Mediterraneo non è andato a buon fine. A Sabratha (Libia nord-occidentale) sono rimasti per settimane in alcune capanne vicino alla spiaggia fino a quando un altro passeur ha deciso che era il momento di partire. Alcuni uomini armati li aspettavano intorno a un gommone. Una volta spinto in acqua, sono partiti scortati dai libici per qualche centinaio di metri per poi essere abbandonati al loro amaro destino, e cioè quello di incappare nella guardia costiera libica che, a colpi di frustate, li ha fatti salire sulla propria imbarcazione e trasferiti nel carcere di Zawiya (sempre nella Libia nord-occidentale). Per ottenere la libertà, hanno nuovamente subito minacce e torture, e pagato i propri carcerieri. Il secondo tentativo è avvenuto il 31 agosto 2016, primo giorno della festa del Sacrificio. Profetico. Un’altra volta in mare, un’altra volta su un gommone strapieno di gente. La descrizione di quegli attimi è angosciante, si va avanti nella lettura sperando che non accada ciò che tutti conosciamo fin troppo bene, eppure intorno alle sei del mattino avviene il naufragio della barca, Salif si guarda intorno in cerca di suo zio. Non lo trova e non lo vedrà mai più. Soccorso in mare e portato a Pozzallo (Sicilia sud-orientale), inizia il nuovo viaggio, da minorenne non accompagnato, attraverso l’Italia.
La sua storia è intervallata ora dal racconto degli incontri e delle giornate a Névache, ora dalle riflessioni di Krafft su questa ulteriore via di transito. Un’altra via d’accesso alla Francia molto battuta era quella tra Ventimiglia e la regione di Mentone, e anche qui prosperavano i passeur, che accompagnavano le persone in macchina attraverso i colli meno sorvegliati (il giornalista inserisce un breve excursus su queste figure, ma per approfondire si consiglia il suo precedente reportage realizzato nel 2015 proprio nell’area di questa frontiera – R. Krafft, Passeur, Keller, 2020). Per Krafft «le statistiche smentiscono l’idea per cui il rafforzamento dei controlli di polizia a Mentone da solo avrebbe fatto spostare il flusso dei profughi verso nord». Chi arriva in Piemonte proviene dall’Africa dell’Ovest, moltissimi dalla Guinea Conakry, in Liguria i migranti arrivavano dall’Afghanistan, dall’Eritrea o dal Sudan. Potrebbe trattarsi allora di un fenomeno scaturito dal passaparola? Per Salif è andata proprio così, al centro di accoglienza ad Alessandria, dove si trovava da mesi, ha conosciuto dei giovani ivoriani che, una volta partiti per la Francia e superato il confine, gli hanno inviato delle indicazioni via Whatsapp sul percorso e i diversi ostacoli, ma anche dei contatti di gente del luogo (i compagni della Clarée) in caso di necessità.
È da quelle statistiche che a Krafft viene l’idea, proposta alla scuola comunale di Névache, di partire alla volta della Repubblica di Guinea come inviato speciale per conto degli alunni, in modo che possano scoprire di più su questo paese e sui suoi abitanti. Così nel novembre 2018 si trova a Conakry con i reportage da realizzare commissionati non solo dai ragazzi di Névache ma anche da altre 15 classi di scuole elementari, medie e licei della Francia metropolitana e d’oltremare.
La narrazione del viaggio è avvincente, Krafft fa conoscere al lettore la brutalità della dittatura di Sékou Touré, presidente della Repubblica dal 1958 al 1984; racconta dell’incontro con un uomo influente che gli dice «i ragazzi guineani sono ladri e bugiardi», di quello con infermieri e ostetriche di un centro sanitario che lavorano senza stipendio da anni e in condizioni precarie senza elettricità né acqua, e di quello con un guardaparco incaricato di sorvegliare e regolamentare la riserva naturale dei monti Nimba sprovvisto di benzina e di un mezzo adatto per svolgere le sue mansioni. Anche qui la meraviglia della natura, il fiume Ya che nasce in cima alla montagna e si getta nell’Oceano Atlantico, la foresta di Ziama, la savana, la coppia di elefanti che cammina vicino alla strada attorniata da bambini e abitanti del villaggio, la storia dell’animale totem, si fonde indissolubilmente con la desolazione delle vite umane. Durante la permanenza in Guinea, Krafft ha avuto modo di indagare più in profondità anche la questione delle politiche di accoglienza attuate dalla Francia, delle campagne di propaganda dell’Unione Europea e in particolare dell’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni – entrata a far parte nel 2016 delle Nazioni Unite) per scoraggiare i migranti a partire con la diffusione della «buona novella della “sedentarietà felice”», del programma dei rimpatri “volontari”, il più delle volte dovuti alla stanchezza e alla disperazione che non a una volontà di ritorno a casa.
La polizia della Clarée
La notte dell’incontro in montagna con Salif, Antoine, Mamadou e Thierno, resterà a lungo impressa nella memoria di Krafft, perché come lui stesso dice: «un conto è sapere che minori non accompagnati percorrono una rotta migratoria d’inverno attraverso le Alpi, un altro conto è trovarsi faccia a faccia con loro». Quella notte Alain ha rifocillato i ragazzi e ha subito organizzato un piano d’azione per portarli al caldo presso il rifugio solidale di Briançon, visto che erano congelati. La zona in cui si trovano è completamente militarizzata, le forze dell’ordine pattugliano massicciamente il colle dalla primavera del 2017, addirittura «i vecchi del paese paragonano la situazione alla Seconda guerra mondiale», bisogna prestare molta attenzione. Nonostante le precauzioni, il piano fallisce a causa di un posto di blocco della gendarmeria nazionale. Ce ne sono ovunque e molti abitanti della valle, fermati con a bordo dei migranti, sono stati multati o arrestati con l’accusa di essere dei passeur. Non è solo questo il problema per i volontari, ma anche che la polizia non rispetta le leggi atte a proteggere i minori. «La legge impone alla polizia di consegnarli ai servizi sociali per la tutela dell’infanzia», invece sempre più spesso hanno visto che questi ragazzi vengono riportati, nel cuore della notte, al gelo, alla fermata più vicina al di là della frontiera.
Bruno Jonnard ha raccontato a Krafft dei suoi primi incontri con i “naufraghi della montagna”. Una notte di gennaio durante il suo turno con il gatto delle nevi ha trovato due uomini che si erano persi in alta montagna, avevano scarpe da ginnastica e jeans zuppi fino al ginocchio, volevano denunciarsi alla polizia francese ma «per quel poco che ne sapeva di Calais, dei campi di Parigi, della Grecia e di altri posti visti alla televisione, si era detto che la polizia francese non sarebbe stata per forza la migliore alleata di quei due poveracci», così li ha affidati a un collega, il cui padre era un appassionato difensore della causa dei migranti, per farli arrivare a Briançon.
Durante un altro turno di notte ha incontrato tre minorenni sul colle, conscio della legge che mira a tutelarli li ha lasciati ai gendarmi, che prontamente li hanno rispediti in Italia. Quell’esperienza, vissuta malissimo, lo ha turbato e gli ha fatto cambiare sguardo, anche per questo motivo è entrato a far parte della rete di volontari: «con Bernard e Jean-Gab, abbiamo capito che i poliziotti non rispettavano la legge e che la loro presenza sul colle rappresentava un grande pericolo per i migranti». Eppure Jonnard non si considera un passeur, anzi ci tiene ostinatamente a rispettare la legge; che sia semplicemente umano?
D’altro canto Jean-Louis Chevalier, sindaco della piccola cittadina francese,
ha discretamente fatto sapere agli addetti al servizio tecnico che non avrebbe tollerato alcun morto sul territorio di Névache, e li ha invitati a utilizzare tutti i mezzi disponibili – a cominciare dal gatto delle nevi – per il soccorso delle persone in difficoltà sul colle, anche a rischio di contraddire
gli ordini del prefetto.
Le azioni dei governi e della polizia hanno colpito tutti. Alain, durante un incontro con Krafft gli ha svelato il motivo della diffidenza delle guide alpine nei confronti dei giornalisti e del perché poi abbiano accettato di autorizzarlo a seguirle:
ci tenevamo a muoverci con discrezione per evitare di inimicarci le autorità. Pensavamo davvero che la nostra proposta di smilitarizzare la montagna per renderla meno pericolosa per i rifugiati sarebbe stata accolta dalle istituzioni. È successo esattamente il contrario. Quindi ci siamo detti che è il momento di mostrare al Paese quello che succede alla frontiera.
La guida spiega anche che oltre alle classiche pattuglie sulle strade è stato impiegato «un intero arsenale composto in estate da moto e quad, in inverno da motoslitte, e poi da elicotteri, tutti equipaggiati con svariati strumenti di visione notturna per fermare i migranti in montagna». L’uso di così tanti mezzi da parte di polizia, gendarmeria ed esercito ha reso ancora più pericolosa la traversata delle Alpi, «al di là dell’imbarazzo provato da alcuni nel dover braccare persone pacifiche e indifese, dello sconcerto dei turisti e della gente del posto, che hanno visto le montagne militarizzarsi».
Tornando al posto di blocco la notte dell’incontro con i ragazzi, la gendarmeria ha invitato gli accompagnatori a presentarsi l’indomani al commissariato per rispondere di favoreggiamento dell’ingresso, della circolazione, del soggiorno di persone in situazione irregolare sul territorio nazionale, e intimato ad Antoine, Salif, Thierno e Mamadou di salire sul furgone. Mentre i giornalisti provavano a ribadire che si trattava di minori e cercavano di ottenere i loro numeri di telefono per poter conoscere almeno la sorte che le autorità avevano in serbo per loro, i ragazzi sono rimasti spettatori silenziosi del loro destino, hanno obbedito «senza un sorriso agli ordini ricevuti», come hanno fatto anche con Alain, Krafft e Caroline sul colle e «ovunque durante la loro epopea, senza tradire negli occhi alcuna preoccupazione o sorpresa, come sfiniti dalla commedia grottesca degli adulti».
I ragazzi sono stati abbandonati in un parcheggio a Pian del Colle, l’indomani il giornalista francese li ha ritrovati alla stazione di Bardonecchia infreddoliti e a digiuno da molte ore, ma con la voglia, il desiderio, l’ostinazione di ritentare l’impresa. Perché, come scrive l’autore all’inizio del reportage con macabro sarcasmo, «Chiunque abbia provato gli spari dei poliziotti turchi sui monti Zagros al confine iraniano, le bastonate della polizia greca di Patrasso o le prigioni libiche, prenderebbe i poliziotti francesi per dei chierichetti».
Il paradosso della frontiera è che chi abita in quei luoghi potrebbe avere tutto l’interesse di “difenderli”, di “preservarli”, ma vede con i propri occhi ciò che accade ai migranti e si prodiga per aiutarli, chi sta lontano, nei palazzi del potere, o chi viene inviato lì per sorvegliare quelle linee immaginarie segnate solo sulle carte geografiche, li caccia trattandoli disumanamente.
Dopo essere stati interrogati al commissariato, i due giornalisti, rientrati nelle rispettive città, anche se Krafft tornerà ancora una volta su quel confine l’anno seguente, hanno pubblicato i loro reportage. Invano. Nessuna eco, la notizia non ha fatto scalpore, non ha suscitato indignazione.
Nell’agosto del 2018 Bernard Liger è morto, lasciando una lettera aperta indirizzata al Presidente della Repubblica e al governo per aiutare i migranti che rischiano la vita in alta montagna; ci sono alcuni passaggi davvero toccanti: «Per noi, cittadini di Névache, l’imperativo umanitario è essenziale, anche se la polizia cerca di dissuaderci. Dobbiamo trovarli, accoglierli, rimetterli in forze, curarli e poi portarli a Briançon dove possono iniziare ad affrontare i problemi amministrativi con le associazioni che si occupano di sostenerli nel loro percorso», per citarne solo uno.
Infine, Krafft registra alcuni dati preoccupanti (fino all’ottobre del 2020, periodo in cui il libro era in fase di pubblicazione in Francia): quattro persone sono morte tentando l’attraversamento delle Alpi, molti sono rimasti segnati a vita a causa di amputazioni, congelamenti, ferite; più di diecimila migranti, che avevano attraversato i colli della Scala e del Monginevro, erano stati identificati e accolti presso il rifugio solidale di Briançon, luogo che rischiava di chiudere per una sanzione amministrativa (ad oggi sembrerebbe ancora operativo). Inoltre la popolazione migrante è cambiata nel tempo, fino al 2019 era composta principalmente da africani occidentali, successivamente sono arrivate sempre più persone dalla rotta balcanica, perlopiù afgani e iraniani. La maggior parte di loro con «i segni dell’incontro al confine bosniaco con la polizia croata, famosa per il suo zelo e la sua brutalità». L’unica nota non negativa è la notizia che Salif ha finalmente iniziato la sua nuova vita, è stato riconosciuto minorenne, ha svolto un tirocinio nell’ambito di un percorso di formazione personale ed è entrato, così, nel mondo del lavoro.
Da lettori giungiamo all’epilogo con una feroce malinconia e con un senso di colpa profondo, anche solo per il fatto di leggere delle disavventure di questi ragazzi dalla nostre case in vestaglia; ma non si può, leggendo questo libro, non provare a immedesimarsi nelle sofferenze subite da queste giovani vite, mentre speravamo che arrivassero sani e salvi a destinazione, mentre tremavamo negli attimi in cui la gendarmeria stava per scoprirli, mentre scoprivamo le loro speranze congelate e frantumate sul confine.