Elettra: la collana breve Effequ dedicata al paterno

Effequ ha dato vita a Elettra, una collana di narrativa breve che viene presentata dalla casa editrice così: una collana in cui le figlie raccontano i padri.

Per dare rilievo a questa operazione attenta alla forma breve ma anche al tipo di contenuto così importante di questi tempi, abbiamo deciso di presentarvi i titoli della collana proponendo i commenti delle autrici stesse con un piccolo estratto dei loro testi.
Prima, però, concediamo la parola alle curatrici e alle ideatrici di questo progetto.

Di seguito la seconda puntata con le autrici Alessandra Sarchi, Giusi Marchetta e Francesca Scotti.
La prima puntata, con Marta Zura-Puntaroni e Francesca Manfredi, la trovate qui.

Olga Campofreda, Eloisa Morra
Curatrici della serie Elettra

Perché Elettra? L’idea di una serie diffusa è nata da un nostro dialogo iniziato a distanza tre anni fa e risponde a una serie di letture, spunti e riflessioni comuni.

La necessità di riportare l’attenzione sul rapporto col paterno — in senso ampio, non a caso la radice linguistica è plurale: padre, padrone, padrino, santo padre, padre spirituale…— è nato sia riflettendo sugli effetti del #metoo, in cui le ragazze sembravano aver acquisito una nuova consapevolezza del loro ruolo di genere, sia dai tanti testi in cui da lettrici ci era capitato di imbatterci. Tra il 2017 e il 2021 sono stati parecchi i romanzi in cui autrici più o meno della nostra generazione iniziavano un’indagine sulla figura paterna, di solito misteriosa e imprendibile, o costruivano narrazioni in cui i padri apparivano solo in quanto portatori di potenzialità narrative inespresse. Un testo importante a livello teorico è stato Bella di papà di Katherine Angel (uscito in italiano per Blackie), che analizzava il mito di Elettra rovesciandone il punto di vista: non erano tanto le figlie a essere innamorate dei padri, quanto i padri contemporanei a sentirsi messi da parte, ‘innamorati delusi’ intimoriti dalla rinnovata indipendenza delle figlie.

Quale che sia il rapporto specifico, lo spieghiamo nella prefazione, “scrivere del proprio genitore è un’operazione ambigua: significa da un lato ritrovarlo, dall’altro individuare un nodo che spesso viene sciolto con dolore e consapevolezza”. Una doppia valenza che è ben riflessa nell’immagine di copertina ideata dall’illustratrice Carla Indipendente, un’Elettra che scioglie la treccia liberandosi e al contempo liberando i padri stessi dalle armature imposte dal patriarcato (immagine identica in tutti i racconti, declinata in sfumature diverse). I cinque racconti che compongono la serie di Elettra attraversano il mito, e finiscono per metterlo in discussione. Leggerli uno dopo l’altro spinge a confrontarsi con una costellazione di padri molto diversi tra loro (padri distanti e silenziosi, dominanti o timidi), e anche ad affrontare diversi modi attraverso cui i figli cercano di affrancarsi dal loro giudizio.

La nostra scelta per le voci che avrebbero dato forma a questo progetto è stata guidata prima di tutto dal desiderio di investigare non uno, ma una molteplicità di punti di vista sull’argomento. Abbiamo scelto scrittrici che appartenessero alla generazione successiva a quella delle lotte femministe degli anni Settanta, ma all’interno di questo gruppo ciascuna ha affrontato il tema centrale secondo la propria sensibilità, influenzata da esperienze di vita diverse e da diverse influenze culturali. Lavorare con loro a stretto contatto nella fase di editing e di ideazione dei racconti, ci ha anche rivelato quanto doloroso e complesso sia portare avanti un ragionamento sul patriarcato associando ad esso dei volti, che fossero questi di impronta autobiografica o meno. Con il primo volumetto firmato da Marta Zura-Puntaroni, L’olivastro, la riflessione sul padre rompe il primo sigillo sfociando nei toni della letteratura weird e uscendo dallo stereotipo che associa le donne/madri alla natura e gli uomini/padri alla razionalità. Ci è parsa questa una dichiarazione importante con cui cominciare: volevamo fosse chiaro che le nostre Elettre, più che combattere i padri, avrebbero continuato ad amarli liberandoli dagli stereotipi di genere. Con Bestiario parentale di Francesca Manfredi siamo entrate nel territorio del personal essay, con l’autrice che riflette sul ruolo del padre-amico e della sua posizione in una famiglia di stampo fortemente matriarcale; con Scintille di Francesca Scotti, un esempio di realismo magico, la presenza dei padri si fa quasi fantasmatica, ma torna come un’ombra attraverso e gesti e le parole dei ragazzini; il quarto episodio, Quella è la porta di Giusi Marchetta, offre l’affresco realistico di una famiglia con tre sorelle, tutte legate al padre da un rapporto diverso, mentre questo vede evolvere la propria identità attraverso grandi eventi della vita, come la malattia della moglie e l’esperienza di essere nonno. Il racconto conclusivo, Ragazza senza nome di Alessandra Sarchi, con i toni della parabola filosofica ci porta addirittura riflettere su come un paterno ‘sufficientemente buono’ debba non per forza essere cercato in un padre biologico, aprendo a nuove forme di possibilità. Visti i diversi punti di vista espressi dai racconti, volti a comporre un ritratto multiforme del volto del paterno, non ci ha sorpreso vedere i librini passare di mano in mano, amati da lettori di età e gusti molto diversi tra loro.

L’esperienza Elettra è stata per noi gioiosa e dolorosa insieme. Gioiosa perché ci ha permesso di lavorare con storie e voci straordinarie, dolorosa perché questo lavoro ha fatto vibrare corde molto profonde del vissuto di ciascuna. Liberare i padri ha significato anche liberare noi stesse da demoni personali e politici. Allo stesso modo, leggere le cinque Elettre, una dopo l’altra, è un percorso che non lascerà inalterati gli animi e le coscienze di coloro che decideranno di addentrarsi in queste storie.

Alessandra Sarchi
Ragazza senza nome

Ragazza senza nome nasce da un ripensamento del personaggio di Elettra come figura della ribellione. L’Elettra antica si si rivolta infatti tanto quanto il padre quanto contro la madre. È l’istituzione familiare stessa a venire messa in discussione. La protagonista del mio racconto ha in apparenza come avversario alla propria crescita e all’acquisizione della propria identità un padre castrante e anaffettivo, ma in realtà anche la madre è un’alleata del padre nel conservare un ordine che garantisce solo a quest’ultimo autorevolezza e possibilità di decisione. La mia protagonista vuole sovvertire quest’ordine, ma non ne ha gli strumenti e per tutta l’adolescenza interiorizza rabbia e impotenza. Solo l’incontro con un’altra donna più grande che le farà da guida professionale consentirà alla ragazza senza nome di liberarsi dalla rabbia e trovare uno spazio di affermazione positiva. Volutamente l’ho lasciata senza nome, perché la sua vicenda è abbastanza paradigmatica di quello che può accadere a qualunque ragazza all’interno di un sistema familiare imbevuto di valori patriarcali.
La messa in discussione della figura del padre da parte della ragazza senza nome è radicale in quanto non si limita solo al proprio genitore, ma critica il principio stesso delle religioni monoteiste che identificano la divinità con un principio maschile. La ragazza senza nome contesta Dio padre, quanto contesta il proprio dispotico padre.

Su quella Ragazza non avrei scommesso nemmeno mille delle vecchie lire – buone appena per comprarci un gelato, ma piccolo, a metà degli anni Ottanta – perché si vedeva da lontano che era rovinata, nel senso che le mancava qualcosa, ma terribilmente, o qualcosa le era stato tolto e chissà se mai ce l’avrebbe fatta a riempire quel vuoto. Precipitata come molte delle sue coetanee nell’equivoco che le femmine potessero fare quello che volevano e potessero divertirsi in una grande festa danzante che iniziava dai poster dei cantanti appesi in camera e proseguiva nelle sale di ricreazioni dei circoli Arci, dei circoli parrocchiali, delle discoteche autorizzate e di quelle abusive, dei primi rave e delle spiagge, sempre fischiettando lo stesso motivetto che si avvolgeva su sé stesso – Girls just wanna have fun – la Ragazza si era accorta di divenire tale, cioè un essere con desideri che uscivano dal perimetro del giardino di casa e fastidi che coinvolgevano in maniera incresciosa il suo corpo – tette, mestruazioni, una irrazionale e costante fame – quando il Padre le aveva impedito di andare alla sala giochi appena aperta nel cuore di un paese di ottomila anime della bassa padana.


Giusi Marchetta
Quella è la porta

L’idea è nata dalla voglia di raccontare una dinamica familiare che si manifesta tutta in una sola giornata, in una data importante. Natale è passato da qualche giorno e tre sorelle tornano a casa del padre (o almeno dovrebbero perché la più piccola pare non avere intenzione di farsi viva) per onorare un impegno. In realtà inseguono tutte l’approvazione paterna: Vera, la più grande, cerca di guadagnarsela conducendo una vita inappuntabile anche se questo le costa una grande fatica e la continua rinuncia ad ascoltare la propria voce; (Com’è buona, dicevano le maestre. Non sapevano che in casa c’era una corda sospesa su cui camminare, Vera per prima, io dietro, con le mani appoggiate sulle sue spalle). Aver dato la luce al piccolo di casa sembra aver completato l’impresa con l’unico svantaggio di essere vista dal padre solo in quanto madre del nipote. La sorella più piccola, Iole, gioca da tempo a nascondersi e ad allontanarsi, in attesa se decidere di tagliare tutti i ponti con chi ha sempre dichiarato che se le regole di casa non vengono seguite, “quella è la porta”. Inadatta a seguire leggi che impongono anche chi amare, lei che è sempre stata la preferita di lui è forse pronta a disobbedire e ad essere tagliata fuori per sempre dalla famiglia. (Iole mi ha lasciato la mano e ha cominciato a fissarlo cercando nel suo viso il segno di una crepa, qualcosa in grado di cedere con gli anni o con l’amore. Adesso so che non l’ha trovata).
Sarebbe tutto abbastanza in linea con il lento disgregarsi di una famiglia contemporanea se non fosse per Gaia, protagonista e voce narrante, che per motivi personali e che nulla hanno a che vedere con l’amore filiale, ha bisogno che prima della fine dell’anno i rapporti col padre e le sorelle trovino una felice forma di convivenza. La posta in gioco non è più l’approvazione e paterna ma la sua stessa sopravvivenza.
Mi sorprendo, nel rileggere il racconto, di quanto al centro di questa storia ci sia solo in apparenza un padre desideroso di un maschio e incastrato con tre figlie femmine che non capisce e non vuole capire, un terno al lotto che ha trovato nel nipotino l’unico, tardo, rimedio. Il senso forse di raccontare questa storia è nella casa e in chi la abitava prima, la madre che col suo amore ha costruito questa prigione familiare, l’ha resa accogliente in attesa di un futuro migliore. (La verità è che c’è qualcosa in questa stanza, in tutte le stanze di questa casa e che quello che c’è non riesce ad andare oltre la porta. Qui pregavamo insieme per un fratellino prima che nascesse Iole, qui dormivamo le notti che papà era al lavoro; qui guardavamo la tv io e lei mentre Vera dormiva e Iole borbottava nella culla. Sotto queste coperte, mi ascoltava, poi mi prendeva la mano e rispondeva: quando voi ve ne andate, me ne vengo anch’io”). Le gabbie sono sempre terribili anche quelle costruite con amore.
Ma se Elettra avesse amato la madre quanto il padre, forse, le sarebbe stato più facile trovare una via d’uscita e un modo per essere felice.   

Quando sono nata io, l’obbiettivo in famiglia era avere un maschio per equilibrare le cose. Avere un fratello per Vera, un erede per il cognome, un figlio per far pensare a mio padre che tutto sommato qualcosa era andato per il verso giusto. Vera e la mamma pregavano tutte le sere per un ‘bimbo sano’ e la vecchia stanza della nonna venne svuotata in fretta per fare spazio a un armadio, a un fasciatoio e a una culla che doveva sostituire la carrozzina rosa in cui mia sorella aveva dormito per quasi un anno prima di passare al lettino.


Francesca Scotti
Scintille

Gennaio è arrivato di domenica, con il cielo limpido e un’aria poco invernale. Lea, Rebecca e Giulia sono sulla spiaggia, mani nelle tasche, occhi all’orizzonte. La pelle liscia della fronte è appena increspata dal cruccio della luce. Con loro ci sono anche Bebè, la sorellina di Giulia, e Stefano. Lui però non ha le mani nelle tasche perché l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale si è rotto un braccio. È caduto dal faggio del giardino dove si era arrampicato durante l’intervallo, e il tappeto di foglie secche ormai scure di terra non è bastato ad attutire l’impatto.

Elettra: la collana breve Effequ dedicata al paterno

Effequ ha dato vita a Elettra, una collana di narrativa breve che viene presentata dalla casa editrice così: una collana in cui le figlie raccontano i padri.

Per dare rilievo a questa operazione attenta alla forma breve ma anche al tipo di contenuto così importante di questi tempi, abbiamo deciso di presentarvi i titoli della collana proponendo i commenti delle autrici stesse con un piccolo estratto dei loro testi.
Prima, però, concediamo la parola alle curatrici e alle ideatrici di questo progetto.

Di seguito la prima puntata con le autrici Marta Zura-Puntaroni e Francesca Manfredi.
Troverete la seconda puntata venerdì 24 Gennaio, sempre in questa sezione, con le autrici Alessandra Sarchi, Francesca Scotti e Giusi Marchetta.


Olga Campofreda, Eloisa Morra
Curatrici della serie Elettra

Perché Elettra? L’idea di una serie diffusa è nata da un nostro dialogo iniziato a distanza tre anni fa e risponde a una serie di letture, spunti e riflessioni comuni.

La necessità di riportare l’attenzione sul rapporto col paterno — in senso ampio, non a caso la radice linguistica è plurale: padre, padrone, padrino, santo padre, padre spirituale…— è nato sia riflettendo sugli effetti del #metoo, in cui le ragazze sembravano aver acquisito una nuova consapevolezza del loro ruolo di genere, sia dai tanti testi in cui da lettrici ci era capitato di imbatterci. Tra il 2017 e il 2021 sono stati parecchi i romanzi in cui autrici più o meno della nostra generazione iniziavano un’indagine sulla figura paterna, di solito misteriosa e imprendibile, o costruivano narrazioni in cui i padri apparivano solo in quanto portatori di potenzialità narrative inespresse. Un testo importante a livello teorico è stato Bella di papà di Katherine Angel (uscito in italiano per Blackie), che analizzava il mito di Elettra rovesciandone il punto di vista: non erano tanto le figlie a essere innamorate dei padri, quanto i padri contemporanei a sentirsi messi da parte, ‘innamorati delusi’ intimoriti dalla rinnovata indipendenza delle figlie.

Quale che sia il rapporto specifico, lo spieghiamo nella prefazione, “scrivere del proprio genitore è un’operazione ambigua: significa da un lato ritrovarlo, dall’altro individuare un nodo che spesso viene sciolto con dolore e consapevolezza”. Una doppia valenza che è ben riflessa nell’immagine di copertina ideata dall’illustratrice Carla Indipendente, un’Elettra che scioglie la treccia liberandosi e al contempo liberando i padri stessi dalle armature imposte dal patriarcato (immagine identica in tutti i racconti, declinata in sfumature diverse). I cinque racconti che compongono la serie di Elettra attraversano il mito, e finiscono per metterlo in discussione. Leggerli uno dopo l’altro spinge a confrontarsi con una costellazione di padri molto diversi tra loro (padri distanti e silenziosi, dominanti o timidi), e anche ad affrontare diversi modi attraverso cui i figli cercano di affrancarsi dal loro giudizio.

La nostra scelta per le voci che avrebbero dato forma a questo progetto è stata guidata prima di tutto dal desiderio di investigare non uno, ma una molteplicità di punti di vista sull’argomento. Abbiamo scelto scrittrici che appartenessero alla generazione successiva a quella delle lotte femministe degli anni Settanta, ma all’interno di questo gruppo ciascuna ha affrontato il tema centrale secondo la propria sensibilità, influenzata da esperienze di vita diverse e da diverse influenze culturali. Lavorare con loro a stretto contatto nella fase di editing e di ideazione dei racconti, ci ha anche rivelato quanto doloroso e complesso sia portare avanti un ragionamento sul patriarcato associando ad esso dei volti, che fossero questi di impronta autobiografica o meno. Con il primo volumetto firmato da Marta Zura-Puntaroni, L’olivastro, la riflessione sul padre rompe il primo sigillo sfociando nei toni della letteratura weird e uscendo dallo stereotipo che associa le donne/madri alla natura e gli uomini/padri alla razionalità. Ci è parsa questa una dichiarazione importante con cui cominciare: volevamo fosse chiaro che le nostre Elettre, più che combattere i padri, avrebbero continuato ad amarli liberandoli dagli stereotipi di genere. Con Bestiario parentale di Francesca Manfredi siamo entrate nel territorio del personal essay, con l’autrice che riflette sul ruolo del padre-amico e della sua posizione in una famiglia di stampo fortemente matriarcale; con Scintille di Francesca Scotti, un esempio di realismo magico, la presenza dei padri si fa quasi fantasmatica, ma torna come un’ombra attraverso e gesti e le parole dei ragazzini; il quarto episodio, Quella è la porta di Giusi Marchetta, offre l’affresco realistico di una famiglia con tre sorelle, tutte legate al padre da un rapporto diverso, mentre questo vede evolvere la propria identità attraverso grandi eventi della vita, come la malattia della moglie e l’esperienza di essere nonno. Il racconto conclusivo, Ragazza senza nome di Alessandra Sarchi, con i toni della parabola filosofica ci porta addirittura riflettere su come un paterno ‘sufficientemente buono’ debba non per forza essere cercato in un padre biologico, aprendo a nuove forme di possibilità. Visti i diversi punti di vista espressi dai racconti, volti a comporre un ritratto multiforme del volto del paterno, non ci ha sorpreso vedere i librini passare di mano in mano, amati da lettori di età e gusti molto diversi tra loro.

L’esperienza Elettra è stata per noi gioiosa e dolorosa insieme. Gioiosa perché ci ha permesso di lavorare con storie e voci straordinarie, dolorosa perché questo lavoro ha fatto vibrare corde molto profonde del vissuto di ciascuna. Liberare i padri ha significato anche liberare noi stesse da demoni personali e politici. Allo stesso modo, leggere le cinque Elettre, una dopo l’altra, è un percorso che non lascerà inalterati gli animi e le coscienze di coloro che decideranno di addentrarsi in queste storie.


Marta Zura-Puntaroni
L’Olivastro

Quando Eloisa e Olga mi hanno chiesto un contributo per Elettra ero inizialmente scettica: pensavo di aver scritto tutto quello che volevo – o ancor meglio, tutto quello di cui ero capace – sulla figura del padre – un padre che assomigliava molto al mio, e che rientrava nei canoni dei padri della mia generazione di scrittrice: padri assenti, anaffettivi, terreno fertile per daddy issues e successive relazioni sentimentali problematiche – e non credevo di avere altro di interessante da dire. Ho passato diverse settimane senza trovare nulla da scrivere, a dirmi vabbè: ora mi invento una maniera per sfilarmi da questo progetto.
Poi mi è arrivata in testa, non so esattamente da dove, la scena finale dell’Olivastro, i suoi due protagonisti: da quel momento conoscere Caterina e Pacifico è diventato necessario, scrivere il racconto l’unica maniera per capire cosa era successo, come erano arrivati a questo punto.
Con Pacifico ho trovato un padre diverso da quello che avevo già narrato e diverso da quello che conoscevo: un padre che non era l’essere assente e emotivamente incapace dei miei altri libri ma che non era neanche “decostruito” in maniera classica: una persona che comunque appartiene alla provincia, che fa un lavoro non intellettuale, che appartiene a una certa generazione però a suo modo capace di dolcezza, di dialogo, di comprensione.

Alla fine per la foto del giornale scelsero Simonetta Calamante.
«È più materna» disse Filippo.
«Rassicurante» aggiunse, dopo una pausa.
Caterina finse di non prendersela e annuì.
Con Simonetta Calamante aveva passato buona parte dell’infanzia e delle scuole elementari, come è normale che accada in un paese piccolo, dove ogni anno il numero di nuovi nati difficilmente supera il centinaio. Simonetta Calamante da bambina era una bulla con le braccia grosse che riusciva a dare manate dolorosissime su tutti i punti del corpo che più difficilmente potevano venire notati dalle maestre – già a pochi anni era falsa e manipolatrice, ladra di giocattoli, distruttrice di disegni e costruzioni, leccaculo coi potenti e prepotente coi deboli.


Francesca Manfredi
Bestiario Parentale

Quando Eloisa e Olga mi hanno contattato per partecipare a Elettra, nella mail di invito scrivevano: “Ci sei venuta in mente tu, per il carattere volitivo di molti tuoi personaggi femminili.” Mi sono messa a riflettere su un tratto effettivamente ricorrente delle mie storie, ma sul quale non mi ero mai soffermata troppo. Istintivamente, le famiglie che scrivo presentano un modello tradizionale ma non del tutto aderente alla consuetudine del patriarcato. Vengo da una famiglia che potrebbe essere definita matriarcale, e non solo per una questione di superiorità numerica: eppure, in questa etichetta ci ho sempre trovato un’imprecisione, se non addirittura una bugia. Le donne della mia famiglia si potrebbero descrivere con due aggettivi: indipendenti, se la si vede dal lato positivo; sole, se la si guarda con più attenzione.
Avevo molto materiale, quindi, e ho deciso di allontanarmi dalla forma racconto per avventurarmi nel territorio (per me) inesplorato del personal essay. Mio padre è una figura complessa, quello che comunemente si definirebbe bigger than life: non basterebbe un romanzo per inquadrarlo. Ho deciso così di osservarlo a partire da una crepa, una debolezza, che mi è stata riferita da lui stesso, in uno dei suoi (piuttosto frequenti, a dire il vero) momenti di onestà, e che per me parlava anche di altro. Parlava di un doppio standard, al quale siamo tuttora piuttosto abituati, di una condizione femminile ancora subalterna ma anche di una sconfitta maschile, che forse comincia (finalmente) a farsi più bruciante.

Leoni

Ogni volta che inizio a scrivere qualcosa di nuovo, e ho quell’orrendo e insensato timore che mi capita sempre davanti a una pagina bianca, mi viene da pensare a mio padre. Avevo quattordici o quindici anni, frequentavo i primi anni delle superiori e dovevo scrivere un tema, non ricordo su quale argomento. Me la cavavo bene in italiano, scrivere temi mi piaceva. “Il problema”, dissi a mio padre, “è che non so mai come cominciare. All’inizio mi blocco sempre, perdo almeno una mezz’ora a fissare il foglio. Le prime righe sono le più difficili, non sembra anche a te?”. Anni più tardi avrei saputo che una poetessa di nome Wislawa Szymborska, in occasione del ricevimento del premio Nobel, aveva formulato quel pensiero alla maniera in cui avrei voluto farlo io.

La narrazione del sè attraverso il conflitto: un'antologia di sedici racconti d'autore

Pidgin Edizioni porta in libreria L’ora senza ombre, la prima antologia a cura di In allarmata radura. Realizzata in collaborazione con Pidgin Edizioni, mette insieme sedici scrittori e sedici fotografi attorno a un unico tema, quello della narrazione del sé, nella convinzione che questo tipo di scritture, apparentemente funzionali ad alimentare ego ipertrofici, possano invece funzionare come coltelli aprendo ferite dentro il corpo del testo.

I saggi narrativi sono a opera di: Veronica Galletta, Ester Armanino, Francesca Mattei, Simone Sauza, Francesco Spiedo, Alessandro Busi, Fabiana Castellino, Deborah D’Addetta, Livia Del Gaudio, Aurora Dell’Oro, Leonardo Ducros, Antonio Esposito, Gabriele Esposito, Mario Emanuele Fevola, Maria Teresa Rovitto, Alexandrina Scoferta.
La curatela fotografica è di Tito Ghiglione.

Per presentarvi il volume Cattedrale vi propone la prefazione di Livia Del Gaudio e Fabiana Castellino, per gentile concessione dell’editore.


IL BIANCO E IL NERO LE NARRAZIONI DEL SÉ ATTRAVERSO IL CONFLITTO
di Livia Del Gaudio e Fabiana Castellino

“Così noi continuiamo a opporre alle abbaglianti vociferazioni del sole la certezza immemorabile che su ogni cosa trionfa il niente. E che nei nostri occhi, finché non li chiudiamo, sono destinati a combattersi e ad amarsi per sempre la luce e il lutto.”
Gesualdo Bufalino

Dare inizio alle danze. Il bianco e il nero da Voltaire alla Bestia di Gévaudan

Nel 1764, quando Voltaire dà alle stampe Il bianco e il nero, un’ambigua novella morale ambientata in un Oriente fantastico, la Francia combatte contro un mostro. È scaltro, affamato, apparentemente immune alla morte. Si ciba di donne e di bambini i cui corpi giacciono dilaniati al limitare dei boschi dell’Occitania. In una lettera ai sacerdoti della sua diocesi, il vescovo di Mende, Gabriel-Florent de Choiseul-Beaupré, conte del Gévaudan, scrive, citando la Bibbia: “Il dente delle belve manderò contro di loro”, e ordina quaranta ore di preghiere da recitare per tre domeniche consecutive. In quegli stessi giorni, il capitano Duhamel e il suo reggimento lasciano Langogne e si stabiliscono nel sud del Paese. Per tre anni, dall’autunno del 1764 alla primavera del 1767, gli uomini del capitano setacciano la regione raccogliendo le testimonianze dei pochi sopravvissuti, senza arrivare a una descrizione certa della Bestia. C’è chi dice che sia un ibrido tra un orso e un leone; chi un feroce assassino nascosto sotto le spoglie di un enorme lupo. L’unica cosa su cui tutti sono concordi è nel descriverne il manto: nero come la notte sul dorso, bianco come la neve sulla pancia.
Come la Bestia di Gévaudan, anche il racconto di Voltaire sfugge ai cacciatori. Il motivo è anticipato dal titolo, quel doppio che si sviluppa lungo l’arco dell’intera narrazione a partire da un dettaglio: due servitori che accompagnano il protagonista, Rustano, nella ricerca della sua principessa. Topazio, bianco e saggio consigliere al servizio della luce; ed Ebano, scaltro cortigiano dalla pelle nera come il legno a cui allude il nome.
A muovere le vicende è un oracolo (“Se vai a oriente, sarai a occidente. Se possiedi, non possiederai, se sei vincitore, non vincerai, se sei Rustano, non lo sarai”) di cui Topazio ed Ebano forniscono a seconda dei momenti una doppia lettura, spingendo o allontanando il loro padrone dall’azione. Lo sciogliersi del vaticinio nel finale coincide con la morte del protagonista ma anche, stranamente, con la sua liberazione. Ormai affrancato dal proprio destino, impossibilitato dalla morte dal compiere una scelta bianca o nera, Rustano comprende che la natura degli opposti non è né buona né cattiva ma semplicemente necessaria, e in questo modo arriva a comprendere se stesso. Nel momento in cui il suo corpo è sanguinante, aperto da una ferita infertagli per errore da colei che era venuto ad amare, e che ricorda lo smembramento delle vittime attuato della Bestia di Gévaudan, l’eroe rinuncia a restare intero e cede la parola al filosofo.
Il libro che avete tra le mani parla di questo: parla di bianco, e parla di nero, e lo fa nell’unico modo che ci sembrava possibile: attraversando nel mezzo tutte le sfumature crepuscolari del grigio a sottolineare il carattere ingannevole e sfuggente di ogni immagine unitaria dell’io.

In allarmata radura e la scrittura del sé

L’ora senza ombre è la prima antologia a cura di In allarmata radura. Realizzata in collaborazione con Pidgin Edizioni mette insieme sedici scrittori e sedici fotografi attorno a un unico tema, quello della narrazione del sé. Non è la prima volta che In allarmata radura si cimenta con questo tipo di scritture. Nata nell’aprile del 2021 in forma digitale, la rivista ha spesso trattato l’argomento proponendo ai lettori ibridi tra saggistica, autofinzione, memoir, autobiografia e autobiofiction, e lo ha fatto nella convinzione che questo tipo di scritture, apparentemente funzionali ad alimentare ego ipertrofici, potessero invece funzionare come coltelli aprendo ferite dentro il corpo del testo. Narrazioni in grado di trasformarsi in vortici che, a partire dall’ombelico dell’io, esplodessero poi verso l’esterno. Il problema, quando ci siamo trovati davanti all’occasione di concretizzare in volume la nostra ricerca, era quello di trovare l’immagine adatta a rappresentare il conflitto: è stato in quel momento che è venuto in soccorso il colore. L’opposizione tra il bianco e il nero non è un’esperienza nuova. Attraversa la storia dell’arte come quella della letteratura, è alla base di ogni religione come di ogni filosofia; è la traccia lasciata dal primo segno impresso sulla pagina bianca. Polarizzare l’io tra due estremi poteva, però, rischiare di ridurlo a un’eccessiva semplificazione, per questo siamo andati alle origini del nome1 della rivista, concentrando l’attenzione sul rapporto tra radura e luce nel gioco chiaro/scuro dell’ombra:

“L’aggettivo licht (rado) è lo stesso che leicht (lieve, leggero). Etwas lichten (diradare qualcosa) significa: rendere qualcosa rado, libero e aperto, per esempio liberare in un posto il bosco dagli alberi. Lo spazio libero e aperto che ne risulta è la Lichtung, la radura. Il rado nel senso di ciò che è libero e aperto non ha nulla in comune, né linguisticamente né quanto alla cosa in questione, con l’aggettivo licht nel significato di “chiaro”. Ciò va tenuto presente per la diversità tra Lichtung (radura) e Licht (luce). Nondimeno sussiste la possibilità di una connessione oggettiva tra i due termini. La luce può cadere infatti nella radura, nel suo spazio aperto, e farvi avvenire il gioco di chiaro e scuro. Ma non è mai la luce a creare per prima la radura, bensì quella, la luce, presuppone questa, la radura.
Tuttavia, la radura, l’aperto, è libera non solo per il chiaro e lo scuro, per l’eco e il suo perdersi, per il risonare e il suo smorzarsi. La radura è l’aperto per tutto ciò che viene alla presenza e che ne esce”2 . Il risultato è un’antologia che si propone come un viaggio, una catabasi che dal bianco avanza verso il nero per poi risalire ancora verso il bianco.
L’ora senza ombre. L’antologia e i suoi temi Per i greci, l’ora più temibile era il mezzogiorno: l’ora del sole allo zenit che spacca in due il tempo e libera i demoni dalla loro prigione d’ombra. A riprendere l’antica credenza, e a contrapporla al mito della mezzanotte di origine cristiana, è Roger Caillois che scrive, ne I demoni meridiani: “La presenza del sole allo zenit, che divide il giorno in parti uguali sulle quali regnano i segni contrapposti della crescita e del declino, le conferisce un significato di passaggio assai spiccato. Per di più, essendo l’ora della massima diminuzione dell’ombra, rappresenta il momento più pericoloso per l’anima, che è esposta a rischi di ogni sorta”3 . L’esperienza che si ha della luce in un assolato pomeriggio di agosto può fornire da sostegno alla tesi. Il passaggio dall’abbagliamento al buio è immediato. Delle forme resta solo il contrasto; il controluce, la sagoma: quel bianco e quel nero da cui siamo partiti. Per questo il titolo dell’antologia allude al paradosso del mezzogiorno, nell’idea che nel bianco accecante si annidi il suo opposto, e che solo restando nella contraddizione, sostenendo la frustrazione che comporta, sia possibile una qualche forma di consapevolezza, anche se precaria e in continuo movimento. In questo senso, L’ora senza ombre è da leggersi come unità; un flusso continuo che attraversa un gradiente di grigi, dal più chiaro al più scuro e viceversa, nel rispetto della differenza di sguardo di fotografi e scrittori.
L’ora senza ombre, il mezzogiorno che divide la luce più intensa dall’oscurità più profonda, non racchiude soltanto i testi nel suo insieme, ma trova riscontro nelle scelte grafiche dell’antologia. Ogni testo, infatti, lascia fra un paragrafo e l’altro uno spazio bianco, contraddistinto da nessun segno. Questo spazio bianco è senza ombre, rompe il testo nelle sue fasi, permette il cambio di argomentazione o registro, consente un passaggio. La presenza dello spazio bianco esalta la moltitudine di immagini e di io all’interno dell’antologia in generale e nei singoli testi in particolare; come il mezzogiorno è l’ora del riposo, così lo spazio bianco è una sospensione che prepara al salto: un nuovo messaggio, un nuovo io. Nella diversità di sguardi, ecco che i testi possono essere riconosciuti come unità. È infatti in seno a quest’ultima che possono essere letti e intesi i sedici brani dell’antologia. Connessi fra loro secondo fili più o meno visibili, più o meno impliciti, fino a costruire un’unica inestricabile trama. I fili che connettono le diverse scritture non si possono dire linee rette, bensì richiamano quel movimento di discesa e risalita che consente l’esplorazione del sé. Ogni connessione, ogni richiamo segue lo stesso movimento, da un inizio segnato dalla luce – una prima chiarezza – si scende nelle profondità, stanziando nell’oscurità, finché non si è pronti a risalire mostrando una nuova consapevolezza o prospettiva.
In questo senso va inteso l’ordine in cui sono stati disposti i sedici testi, laddove sono state riconosciute scritture bianche e scritture nere. Le scritture bianche hanno permesso il movimento di discesa prima, e di risalita poi; le scritture nere, invece, posizionate esattamente al centro consentono di soffermarsi, addentrarsi, per esplorare e guardare dentro l’io.



Vi sono alcuni legami, che possono considerarsi maggiori per la frequenza con cui compaiono all’interno dell’antologia. Essi, in primis, riguardano la scrittura e l’arte, come se, nel momento in cui l’io si rivolge a se stesso per capire se stesso, non possa fare a meno di soffermarsi sul mezzo di espressione scelto. E dunque si riscontra principalmente una riflessione sulla scrittura in quanto tale, come forma d’arte più intima e immediata. Così la scrittura è prima limpida, con il testo di Ester Armanino, in cui l’autrice riflette, nel suo essere disordinata o fluida, il rapporto di perdita o riappropriazione con la propria essenza; poetica nel testo di Alexandrina Scoferta, laddove nella forma forse più sottile e difficile della scrittura – la poesia – la lingua diviene senso di appartenenza. Ed è a partire da qui che inizia la discesa, in una gradazione di grigi: dal testo di Veronica Galletta, in cui la scrittura recupera il suo senso originario, cioè tracciare dei segni che divengono strumento di ordine nel caos; da Francesca Mattei, in cui il linguaggio assume importanza grafica, cioè la distinzione del segno, di parole piccole per esprimere il piccolo, e maiuscole per esprimere gravità, diviene mezzo per trascendere se stessi e raggiungere quante più persone possibili. Si sprofonda nel nero con il testo di Gabriele Esposito, in cui la parola scritta non è più mezzo, ma fine in se stessa, bramosia per un inedito in cui si racconta una storia di desiderio. Con il testo di Antonio Esposito, invece, il desiderio diviene amore, laddove i libri, ma anche i libri narrati nei libri, sono luoghi di scoperta, accompagnati da una scrittura sperimentale, a sottolinearne le infinite possibilità. Infine, il movimento di risalita si ha con il testo di Leonardo Ducros, in cui la scrittura si fa sincero strumento, linguaggio che determina e che nella sua immediatezza svela la propria natura.
La scrittura non è intesa soltanto in se stessa, ma anche in relazione ad altre forme d’arte, rivelando ancora un movimento di discesa e risalita. Con il testo di Deborah D’Addetta l’esplorazione dell’io passa attraverso la fotografia, accompagnata da riflessioni letterarie; sprofonda nel testo di Livia Del Gaudio, in cui la pittura diviene criterio per tracciare i contorni della luce e dell’ombra, e la scrittura è feroce nel ricomporre immagini e ricordi ritrovati. Si riemerge con la dedica al cinema di Maria Teresa Rovitto, in cui la storia della propria famiglia è narrata come fiaba e ripresa; e infine il proprio passato trova collocazione tramite la visione di una statua che rappresenta la metamorfosi per eccellenza con il testo di Aurora Dell’Oro.
Se volessimo riconoscere un ultimo legame che intercorre fra gli autori e le autrici, non si può non nominare l’argomento che più di tutti è avvolto dal silenzio: la morte. La morte trova in questa antologia spazio di riflessione come espediente per trascenderla. La morte si sperimenta così nel sonno e nel sogno, come suggerisce Mario Emanuele Fevola; diviene concreta nell’immagine dell’autopsia, nel testo di Fabiana Castellino, come varco fra il non più e il non ancora. Nel testo di Simone Sauza la morte si fa spazio inquieto, città tetra e nervosa, finché non si ricomincia a risalire. Per Alessandro Busi la morte diviene processo, non solo di scrittura, ma di elaborazione del sé. La risalita si conclude con Francesco Spiedo, in cui la morte della salamandra diviene simbolo non solo del collasso della natura, ma anche ironia, motivo di derisione.
La scrittura, l’arte e la morte sono così i fili principali della trama di questa antologia; sono, in altre parole, i temi più urgenti, quelli che le autrici e gli autori hanno sentito l’esigenza di esprimere. Fili connessi fra loro da percorsi minori, più sottili, che compongono la complessità della trama.
Ricorrono espedienti e immagini come quella del sogno, dello specchio, o ancora del delicato rapporto con i padri, le madri, i fratelli. Si riscontrano ossa e vertebre nelle scritture più nere, luoghi precisi e delimitati nelle scritture bianche. In alcuni testi, il nero e il bianco ritornano esplicitamente in una scacchiera, nella lucentezza della natura, o nel manto scuro degli animali, nello sfondo dei dipinti.
Perché il bianco e il nero non sono mai privi di profondità, ma si alternano con tutte le loro possibili sfumature. Lo stesso movimento di discesa e risalita non è unico, bensì composto da un numero indefinito di discese e risalite, a ricordare le maree, i movimenti tellurici e il magma sotto la crosta. Questa è, dopo tutto, l’esplorazione dell’io: movimenti invisibili sotto la pelle.
Da questa trama complessa fin qui descritta, emerge un paradosso: per esplorare e comunicare se stessi si ha bisogno di uscire da sé. Per questo tutti i racconti si rivolgono a un tu, che sia un fratello, un amico scomparso; che sia uno sdoppiamento che consenta di guardarsi dall’alto. L’altro non è solo fuori da sé, ma si cerca dentro di sé, per spiegarsi e vedersi. Nello sfondo nero che è la propria interiorità si cerca quell’unico punto bianco che può illuminare tutto.

La sconfitta del nero da parte del nero. La lotta tra immagini e parole nella narrazione del sé

Una delle ultime pubblicazioni in vita di Eugène Ionesco è uno strano libretto, Le blanc et le noir. Finito di stampare a Ginevra nel 1981, non è né un testo teatrale né un racconto ma un ibrido di parole e immagini che contiene quindici litografie, incise su pietra per mano del drammaturgo, accompagnate dai suoi commenti e da un lungo testo introduttivo. L’intento dell’opera, apparentemente misterioso, è in realtà quello di scandagliare il processo creativo, di ridurlo ai suoi elementi essenziali – il movimento della mano, la traccia sul foglio, il delicato equilibrio tra peso e struttura. Gli elementi utilizzati sono due, ridotti al limite: il bianco e il nero, la linea e l’assenza di linea: le componenti fondamentali di disegno e scrittura.
In poco più di settanta pagine l’autore, ormai anziano, mette in scena tutti i suoi mostri e lo fa trasformando quella parola, che fino a questo momento è stata la sua unica fonte di espressione, in segno.
“Possiamo dire tanto, se non meglio di quello che ho detto per più di un quarto di secolo con le mie opere teatrali, con i miei racconti, con il mio romanzo, con i miei saggi”4 , scrive. E ancora: “Non è mai la stessa cosa. Questa volta ho un nero che, paradossalmente, sembra esitare. Sembra voglia rivoltarsi contro se stesso, quando potrebbe conquistare l’intero posto. Chi lo ferma? Può fare quello che vuole. Non gli oppongo nulla. Sì, una sconfitta del nero da parte del nero”5 . La lotta che Ionesco ingaggia nel campo del foglio è una lotta dell’anima, una battaglia contro l’angelo. Il paradosso è che nello scontro tra forma e parola non è possibile alcuna vittoria: l’unico esito è la sparizione di entrambe, il superamento della dicotomia.
È questo il motivo per cui L’ora senza ombre non è un’antologia illustrata ma un dialogo aperto tra parola e immagine. La scelta operata per accostare fotografie e testi è cromatica: lo stesso gradiente di grigi accompagna racconti e fotografie, che sono stati selezionati in totale autonomia. Se esistono nessi tra immagini e parole è del tutto casuale, e ha stupito noi per primi nel trovarvi assonanze.
Dentro questo volume, come nello spazio virtuale del sito, continua la ricerca di In allarmata radura diretta verso l’autonomia dei linguaggi: l’arte visuale non è al servizio delle parole e le parole non sono al servizio dell’arte visuale. Queste si compenetrano, si supportano a vicenda; ciò che rimane silenzioso viene mostrato dall’immagine, e ciò che è astratto è raggiungibile tramite le parole: L’ora senza ombre è il luogo in cui avvengono queste commistioni e nuovi passaggi vengono costruiti. Per lo stesso motivo, l’antologia è da intendersi come un sentiero, non una strada battuta; una pista nel bosco in cui perdersi, arretrare, scegliere alternative. L’unico limite imposto, agli autori come ai lettori, è questo: “racconta semplicemente senza cercare di mostrare dello spirito a ogni proposito, e senza fronzoli. – Tanto meglio, disse Rustano, così mi piacciono i racconti”6 .

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1  Giorgio Caproni, Radura in Il franco cacciatore, Garzanti editori, Milano, 1982.
2  Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi editore, Milano, 1971.
3  Roger Caillois, I demoni meridiani, trad. Alberto Pelissero, Bollati Boringhieri editore, Torino, 1988.
4  Eugène Ionesco, Le blanc et le noir, Editions Gallimard, Paris, 1985, trad. a cura di L. Del Gaudio.
5  Ivi.
6  Voltaire, Il bianco e il nero in Tutti i romanzi e i racconti e Dizionario Filosofico, trad. Paola Angioletti e Maurizio Grasso, Newton Compton editori, Roma, 1995.

Tobias Wolff: l’invenzione, la memoria, il dubbio

di Debora Lambruschini

 

Si dice spesso che la scrittura si nutre di ossessioni. Per Tobias Wolff, scrittore classe 1945 originario di Birmingham, Alabama, l’ossessione sono le parole e la letteratura stessa: parole da limare con cura artigiana, una letteratura che si dispiega in tutte le sue molteplicità e che trova un equilibrio ideale nell’intreccio di finzione e memoria. «Se questa sembra vagamente la biografia di un autore, non è un caso», scrive in Old school (Quell’anno a scuola, Einaudi, 2005, novella) e il confine tra ciò che è invenzione e ciò che è memoria è sempre più sfumato, in una commistione riuscitissima tra personale e letteratura. È una delle declinazioni di quella che conosciamo come autofiction, ma che in certa misura è il fondamento della scrittura stessa, quell’io che si frantuma sulla pagina in milioni di pezzi e si fa altro dall’autore. In Woolf non c’è inganno e l’esperienza personale – soprattutto l’infanzia vagabonda al seguito della madre e gli anni da soldato in Vietnam – sa intrecciarsi all’invenzione quanto restare ancorata alla realtà nella forma del memoir, i due poli principali – non gli unici, è autore anche di romanzi – intorno a cui gravita la sua scrittura.
Come scrittore esordisce piuttosto tardi, alla soglia dei quarant’anni: la prima raccolta, In the garden of the North American Martyrs è del 1981 e si impone all’attenzione di pubblico e critica proprio per quell’intreccio di finzione e memoria che caratterizzerà tutta la sua produzione letteraria, per il rigore dato alle parole, per il racconto di uomini e donne di fronte ai dilemmi morali del quotidiano che diventano una sorta di soggetto tematico delle storie. Pochi anni dopo pubblica la novella The Barracks Thief (Il ladro in caserma,[RM1]  prima edizione italiana Einaudi 2002, poi nuova edizione Racconti del 2023) che gli vale il Pen Faulkner Award for fiction, primo di una serie di riconoscimenti importanti che culmina con la National Medal of Arts consegnatagli nel 2015 dall’allora Presidente Obama per come ha affrontato nella sua opera «i temi dell’identità americana e della morale individuale, riflettendo sulle verità dell’esistenza». Si alternano negli anni raccolte di racconti, romanzi, memoir, tra cui: Back in the World (Racconti, 1985), The boy’s life (Un vero bugiardo, Einaudi, 2003, memoir sulla sua infanzia vagabonda al seguito della madre), In Pharaoh’s army (Nell’esercito del faraone, Einaudi 1996, memoir sull’esperienza in Vietnam), The night in question (Proprio quella notte, ultima edizione Racconti, 2024), Old school (Quell’anno a scuola, Einaudi, 2005, novella), Our story begins (La nostra storia comincia, Einaudi, 2008, racconti scelti). In Italia la fortuna editoriale di Wolff è stata altalenante, alcune delle sue opere più importanti sono state pubblicate da Einaudi e non tutte ancora a catalogo, mentre dallo scorso anno Racconti edizioni ha avviato una riscoperta dell’autore riportando sugli scaffali la novella The Barracks Thief, Il colpevole, e, da pochi mesi, la splendida raccolta The night in question, Proprio quella notte, con una traduzione rivista di Laura Noulian e la prefazione di Paolo Cognetti.
E se, come dicevo all’inizio, la scrittura si nutre di ossessioni, anche la lettura lo fa e immergersi nel mondo di Tobias Wolff significa confrontarsi appunto con il materiale da cui nasce la scrittura, con i dilemmi morali dei protagonisti delle sue storie, con le conseguenze delle scelte, l’ambizione, la scrittura stessa, mentre i confini tra i racconti e noi si fanno labili. Ecco, la scrittura, fil rouge che attraversa in varie forme e intensità la produzione tutta di Wolff:

 

Non si può spiegare in modo veritiero come o perché si diventa scrittori, né esiste un qualche momento del quale si possa dire: è stato allora che sono diventato uno scrittore. Tutto viene rabberciato insieme più tardi, con maggiore o minore sincerità, e solo dopo che le storie sono state ripetute più e più volte ci si mette sopra il marchio della memoria, bloccando la strada all’esplorazione.
(Quell’anno a scuola, p. 123
)

 

Non solo, ci dice Wolff per mezzo del protagonista della novella, è impossibile dire con esattezza quando si diventa scrittori, ma menzogneri sono anche il come e il perché. Di certo c’è, nella memoria del protagonista e dell’autore, la passione viscerale per la letteratura, l’ambizione, il rapporto con la scrittura e gli scrittori. Quell’anno a scuola è il testo in cui la componente autobiografica è particolarmente presente, ma è soprattutto una riflessione assai interessante appunto sulla scrittura, da angolazioni diverse. Ma partiamo dallo spunto personale: Wolff, dopo l’infanzia vagabonda si stabilisce con la madre e il nuovo compagno a Newhalem, una company town tra le montagne dell’estremo Nord-Ovest al confine con il Canada e da cui sogna di fuggire iscrivendosi in un college nei pressi di Philadelphia, sulla costa opposta; nella lettera di presentazione si finge figlio di un barone tedesco, viene ammesso – non per quella finta parentela ma grazie agli ottimi voti – e approda alla Hill School. L’inganno però viene scoperto da un docente che ne chiede e ottiene l’espulsione. Messo alla porta, appena diciottenne, Wolff è tra i primi a partire volontario per il Vietnam, inaugurando quella che sarà una fase molto importante per la sua vita, di uomo e di scrittore, ma questa è un’altra storia (e ce la racconterà lui stesso nel memoir Nell’esercito del faraone). La finzione, dicevamo: nella novella Quell’anno a scuola, il protagonista approda alla Hill School carico di desiderio di riscatto e ambizione letteraria, ma un inganno – diverso da quello dell’autore – gli costerà il posto nella scuola, forse precludendogli ogni possibilità di successo. O forse no.
La materia biografica viene rielaborata e sublimata in una storia – faccio fatica a chiamarla romanzo, forse l’etichetta più appropriata è proprio novella – che ha il suo centro nel ruolo della letteratura, nel mestiere di scrivere, nel rapporto tra scrittore e lettori, ma che riflette anche sull’insegnamento, sulle radici ebraiche, sulle differenze di classe. Una lettura che apre a numerosi spunti, su cui vale ancora la pena soffermarsi, a partire dal rapporto tra scrittore e opera:

 

Ci avevano insegnato a non confondere lo scrittore con l’opera, ma non riuscivo a separare l’immagine che avevo di Nick dall’immagine che avevo di Hemingway. E sentivo di non essere tenuto a farlo davvero, sentivo che una certa confusione fra autore e personaggio era intenzionale. Ma l’uomo che viveva in quei racconti non era il genio e il guerriero d’acciaio la cui immagine aveva tanto annebbiato le mie prime impressioni. Sotto moltissimi aspetti era un uomo insignificante, addirittura banale; non capiva le cose, soffriva di nervosismo e aveva paura, paura perfino del lavorio della propria mente,
e a volte non sapeva come comportarsi.
(Quell’anno a scuola, p. 79)

 

È un passaggio molto interessante e che riguarda non solo il protagonista della novella e il suo rapporto con Hemingway e la sua opera, ma più in generale l’artista con ciò che realizza, l’idea stessa che abbiamo dell’arte e di chi la produce, in una commistione spesso pericolosa. Il caso di Hemingway, poi, è del tutto peculiare per la leggenda che ne ha avvolto la figura, ma in questo passaggio Wolff attraverso la voce del suo giovane protagonista pare ricondurre lo scrittore amatissimo a una dimensione più umana, complessa, ben più reale di molte altre narrazioni su di lui. E se ci viene insegnato a non confondere lo scrittore, in generale, con l’opera, che cosa facciamo con Tobias Wolff e la commistione di finzione e memoria?
Se la scrittura è uno dei fil rouge che attraversano le pagine di Wolff, la vita di chi la produce «non può essere descritta», nonostante sia tra le domande più gettonate agli incontri con gli autori e forse proprio per il carico di egoismo che comporta, almeno per qualcuno:

 

È una vita che si svolge al di là della consapevolezza dello stesso scrittore, sotto il rumore e il lavorio della mente, in pozzi oscuri e profondi dove messaggeri fantasma avanzano verso di noi e si ammazzano lungo il percorso, uno dopo l’altro; e quando i pochi sopravvissuti si affacciano alla nostra attenzione, li accogliamo con cortesia, come camerieri che ci portano altro caffè.

(Quell’anno a scuola, p. 79)

 

Quella del protagonista è senza dubbio una visione estrema, ma è innegabile che l’arte richieda una certa dose di egoismo e di sottrarsi alle ingerenze della quotidianità.

La scrittura, ancora, da un’altra angolazione, questa volta esterna: la raccolta Our story begins (La nostra storia comincia, Einaudi 2014), copre un arco temporale di trent’anni, con racconti che vanno dagli esordi negli anni Ottanta alle storie più recenti, del 2007 (la raccolta è stata infatti pubblicata originariamente nel 2008); un arco temporale di per sé molto lungo quindi, che nella scrittura significa una voce e una prospettiva che forse non sono più le stesse, mutate nel tempo dalla vita, dall’esperienza, dal mestiere. È lo stesso Wolff nella nota introduttiva a interrogarsi su questo:

 

Nel preparare l’attuale selezione mi sono dovuto porre una domanda: è meglio che presenti i miei racconti, a qualunque anno risalgano, nella loro forma originale?

 O posso prendermi la libertà di rimaneggiarli in qualche punto?

 (La nostra storia comincia, Una nota dell’autore, p. 5)

 

L’autore in questo caso sceglie di rimaneggiarli, intervenendo laddove lo ritiene opportuno: i racconti, per Wolff, non sono sacri e intoccabili, ma materia viva che desidera esprimere al meglio. Una scelta su cui è interessante come lettori soffermarsi, che dà la misura di quanto la scrittura sia malleabile, viva, soprattutto forse nel campo del racconto e della necessità intrinseca di selezionare con attenzione ogni parola. Una malleabilità di forma che è specchio per certi versi invece dell’incertezza dei personaggi, ognuno di loro a più livelli preda del dubbio: preoccupazioni quotidiane che sono il «soggetto tematico» delle storie tutte di Wolff di cui questa raccolta rappresenta una selezione importante, operata dallo stesso autore, da cui l’edizione Einaudi sceglieva di escludere i testi che già erano apparsi nell’altra raccolta pubblicata dall’editore, Proprio quella notte. Una soluzione editoriale che non condivido – tanto più che l’altra raccolta era finita a lungo fuori catalogo e solo quest’anno nuovamente disponibile grazie al recupero di Racconti edizioni – come del resto non condivido mai la scelta di presentare un autore e una raccolta privi di opportuni riferimenti critici-bibliografici, in questo caso tralasciando anche la data di pubblicazione originale delle singole storie, di quale raccolta fanno parte, su quali riviste sono apparse. Peccato avere così poca attenzione verso un autore che delle parole, al contrario, si è sempre preso profondamente cura, e che la maggior parte del pubblico italiano non conosce così bene. Si può ovviare al problema, certo, le informazioni in rete tra approfondimenti e note biografiche non mancano, ma resta lo stesso un’occasione sprecata e indice di scarsa attenzione.
I racconti, comunque, sono uno squarcio: gli uomini e le donne di Wolff sono esseri umani fatti di carne e sangue, fallibili, preda di dubbi morali di cui quasi mai l’autore ci darà soluzione, perché in fondo non è la cosa che più conta. È il dubbio stesso e ciò che li ha condotti a quel punto il perno intorno cui tutto ruota, è la distanza sempre più ravvicinata tra i personaggi e noi lettori. L’ex soldato che si è allontanato dalla moglie incinta e dal figlio rimasti in panne a una stazione di servizio nel deserto tornerà a riprenderli o proseguirà da solo verso Los Angeles e la promessa del successo? E loro saranno ancora lì ad aspettarlo o una nuova consapevolezza si è ormai fatta strada? Il “fratello ricco” del racconto omonimo continuerà ad accorrere per salvare il più piccolo o sono arrivati a un punto di non ritorno?
C’è un’indefinitezza nelle storie – nei finali – di Wolff che è l’essenza stessa della forma breve, e il carico di domande che scatena nel lettore culmina nelle ultime battute ma è già intriso in ogni pagina, come evidente anche e soprattutto nei racconti di Proprio quella notte. Quindici storie di dilemmi, scelte morali che determinano ogni cosa ed epifanie, scevri di giudizi dell’autore. Scelte che possono portare anche a fatali conseguenze, come nei racconti “La vita del corpo”, “Neve fresca”, “La catena”, tra famiglie sfaldate, lutti, decisioni con cui fare i conti. La quotidianità è scossa dall’imprevisto, dalla direzione che decidiamo di prendere, da una scelta dalla quale non si torna indietro.
Con quello stile minimalista e accuratissimo che lo contraddistingue, i racconti di Wolff si concedono anche corpose digressioni che forse proprio tali non sono: è esattamente lì, talvolta, che risiede la storia, come in “L’altro Miller”, “Proprio quella notte”, “Il bugiardo”.
Dirty realism, è il termine coniato dalla rivista Granta nel 1984 in riferimento al modo di scrivere, tra gli altri, di Dubus, Wolff, Carver e Ford: uno stile asciutto, privo di orpelli, l’interesse tutto puntato sul quotidiano osservato con «un distacco inquietante, che a volte sconfina nella commedia», in storie «sobrie, ironiche, a volte selvagge, ma insistentemente compassionevoli». Titolava proprio Dirty realism il numero dell’84 in cui appariva anche un racconto di Wolff, “Il colpevole” (Racconti, 2023), splendido esempio di quel fantasma letterario che accompagna buona parte delle storie dell’autore: il padre, Arthur Samuels Wolff innanzitutto, uomo complicato, verso il quale per tutta la vita nutrirà sentimenti ambivalenti e ispirazione per tutti i padri letterari di cui disseminerà le sue opere. «Lui mi spaventava, mi terrorizzava, perché riconoscevo in me le stesse tendenze che lo avevano portato alla rovina», dirà Tobias Wolff nel memoir Nell’esercito del faraone, un sentimento che trova una sorta di eco, per esempio, nel bellissimo racconto “Neve fresca”, dalla raccolta Proprio quel giorno. La tensione tra quel figlio che ha imparato a essere l’adulto e il padre scapestrato, si traduce in un’avventura la sera della vigilia di Natale, che rimarrà per sempre impressa nella mente del ragazzo.
«Il nostro compito non è vivere grandi vite, il nostro compito è capire e portare avanti le vite che abbiamo» faceva dire a un personaggio di un suo racconto lo scrittore Andre Dubus, un altro che disseminava le sue storie di corrispondenze con la propria vita, in un’aderenza che a volte era quasi totale e che, come Wolff ancora, aveva lo sguardo tutto puntato sul quotidiano, scosso dal turbamento. Per Wolff il punto di osservazione è un altro rispetto a Dubus che sceglieva di raccontare il momento dopo la deflagrazione, ma sempre nel quotidiano affonda le radici. 

 E la realtà su cui si innesca il racconto è, si è detto, quella dell’esperienza personale, dai vagabondaggi dell’infanzia al periodo in Vietnam, dall’esperienza al college all’insegnamento e dove la realtà si fonde all’invenzione, tra padri assenti, desiderio di rivalsa sociale, ambizione, sessualità, relazioni, scrittura. Se è vero che l’etichetta di Granta stava un po’ stretta a Wolff – ma in effetti quali autori si riconoscono appieno e per tutta la loro carriera in un’etichetta imposta dalla critica? – è vero anche che la compagnia con la quale la condivide è la più ideale per inquadrare il contesto della sua scrittura e gli autori con cui ha percorso almeno un pezzo di strada, tanto dal punto di vista umano che letterario, seppur con le dovute differenze.  
Penso ancora a Dubus scrivendo di Wolff, perché entrambi in qualche modo sembrano essere scrittori per scrittori, amatissimi e ben noti da chi pratica il mestiere di scrivere, forse meno dai lettori italiani; un filo rosso lega Wolff a Dubus, a Carver, a Ford. Che l’uno possa richiamare l’altro, che la scrittura e la lettura dei loro racconti si possa espandere ancora.

Arriva Azúcar, la nuova collana di narrativa breve di Oligo

di Davide Barilli
curatore di Azúcar

Da pochi mesi sono rientrato dalla capitale cubana dove ho partecipato alla XXXII edizione della Feria internacional del libro, presentando in anteprima il mio nuovo libro “Bestiario habanero” sottotitolo “Itinerari sbiecati di una capitale” (ed.Oligo). Si tratta di un viaggio nel cuore oscuro di una città nascosta, lontana dagli stereotipi turistici, che mostra in controluce un luogo ferito e martoriato, di cui Cayo Hueso è un percorso tortuoso, misterioso e poco battuto. Guida reale e simbolica di questi luoghi iconici, il più grande scrittore cubano vivente, Pedro Juan Gutiérrez.

Inoltre a la Feria del libro ho annunciato i primi due titoli della collana di narrativa cubana contemporanea che ho ideato e che curo, sempre per Oligo editore, di cui “Bestiario habanero” è una sorta di prologo. La collana si chiama Azúcar, un po’ come implicita speranza e provocazione rispetto a un Paese un tempo grande produttore di zucchero e ora costretto a importarlo…
Si tratta di testi brevi di autori cubani di varie generazioni. Con una cadenza di uscite da un minimo di due a un massimo di quattro all’anno. Un progetto che, dopo essere stato presentato al Festival Encuentro di Perugia, l’unico festival letterario italiano dedicato alla Letteratura iberoamericana, e al festival Pordenonelegge verrà presentato a BookCity di Milano per approdare fisiologicamente alla prossima Feria internacional del libro de La Habana del 2025.

Oggi la narrativa cubana è in fermento dal suo interno. Gli scrittori più giovani sono bravi, ma faticano a farsi conoscere all’estero. Manca la carta per pubblicare libri, ma internet ha consentito di far sentire la propria voce. Basta visitare il sito del Centro Onelio Cardoso per farsi un’idea di come sia in atto un cambiamento fra più giovani, coloro che la Rivoluzione l’hanno solo sentita raccontare. Venuto meno il discrimine fra realismo hemingwayano per un verso e barocco – o real maravilloso – per l’altro, lasciati alle spalle gli anni dell’epica rivoluzionaria e quelli del ripiegamento di chi dentro al sistema è cresciuto, superata l’epoca del realismo sucio e dei “novissimi”, dispersi nella diaspora i protagonisti della generacion 0, fra gli scrittori cubani si assiste attualmente, anche grazie alle aperture conseguenti a una comunicazione più agevole, tra blog e accesso a internet, a un periodo di trasformazione e di fluidità caratterizzato dal tentativo di internazionalizzare la narrativa isolana. Oggi molti scrittori giovani per far sentire la propria voce pubblicano sul web. Altri raccontano Cuba parlandone da fuori, ambientando le loro storie a New York o in Russia. Altri indagano la realtà metaforicamente attraverso la scienza fiction. Altri ancora, infine, continuano a vivere a Cuba cercando di raccontarne le modificazioni che stanno avvenendo in questi ultimi anni o tentando di recuperare una narrazione del territorio che esuli da una prospettiva politicamente indirizzata. Da queste considerazioni ho ideato Azùcar, un progetto che ha convinto Giulio Girondi e Giada Scandola, editori di Oligo a cui sono infinitamente grato. Si tratta di volumetti da bolsillo (da tasca), in edizione raffinata, con foto di copertina appositamente realizzate da Paolo Simonazzi, che presentano al lettore italiano una Cuba inedita o poco conosciuta, al di là di ogni ideologia o contro ideologia, attraverso le storie di autori per nulla o poco conosciuti nel nostro Paese. Il progetto va a coprire uno spazio attualmente scoperto: in Italia non esistono infatti collane dedicate esclusivamente alla narrativa cubana contemporanea. Pubblicheremo autori viventi, di varie generazioni, allo scopo di dare una panoramica dell’attuale narrativa cubana. In tale ottica, oltre a individuare titoli e autori fra scrittori consolidati, vincitori dei più importanti premi, effettueremo una sorta di scouting indirizzato a giovani autori esordienti.


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Il primo libro di questa collana si intitola “ Fine del cammino”. L'autore è il narratore e poeta
Ariel Fonseca Rivero, un libro in cui I racconti – spesso in prima persona – ci immergono nei silenzi amniotici della vita di coppia, nelle luci sfumate degli interni spiati con perizia. La penna dell’autore, lucida, lirica, affilata, a tratti onirica, è un bisturi che incide le nostre fragilità, con elegante spietatezza. In un incessante susseguirsi di inizi troncati, di finali intuìti, di mariti distanti, di mogli esasperate, riesce a toccare con sorprendente levità i tasti dolenti dell’esistenza.

Di seguito un estratto del libro.



Lo faccio solo per soldi: Fitzgerald e l’arte del racconto

Minim fax porta in libreria lo splendido cofanetto che raccoglie la produzione breve di Francis Scott Fitzgerald. Per la prima volta in Italia, e non solo, minimum fax ha deciso di pubblicare questi gioielli tutti assieme, per ordine di raccolta. Si parte così da Maschiette e filosofi, del 1920, lo stesso anno del romanzo Di qua dal paradiso; si prosegue con Racconti dell’età del jazz, forse la sua raccolta più celebre, uscita nell’anno di Belli e dannati, per passare a All the Sad Young Men, del 1926, l’anno successivo alla pubblicazione de Il Grande Gatsby e concludere il percorso con Taps at Reveille del 1935, un anno dopo Tenera è la notte.

Cattedrale vi propone la prefazione di Luca Briasco, per gentile concessione dell’editore.

Lo faccio solo per soldi: Fitzgerald e l’arte del racconto
di Luca Briasco

Francis Scott Fitzgerald cominciò a scrivere racconti – e a trovare riviste che glieli pubblicassero – nell’estate del 1919, mentre lavorava alla revisione del suo romanzo d’esordio ed era ancora un illustre sconosciuto. Dopo essere stato ospitato su Smart Set e su Scribner’s Magazine, vendette «La testa e le spalle» al Saturday Evening Post per la cifra di 400 dollari. Pubblicato sul numero di febbraio del 1920, il racconto segnò la prima apparizione di Scott in una rivista ad ampia circolazione, con quasi tre milioni di lettori e un gettito di cinque milioni di dollari a numero solo in pubblicità. Se nel 1919 la sua attività di scrittore gli aveva fruttato 800 dollari, nel 1920 i guadagni erano decollati a 18.000; il cachet per i suoi racconti era passato da 30 a 1000 dollari e avrebbe continuato a salire, fino ai 4000 pagatigli dal Post per un solo racconto, nel 1929. I guadagni complessivi per anno sarebbero cresciuti a loro volta, raggiungendo circa 30.000 dollari nel 1927, 31.500 nel 1928 e 27.000 nel 1929. Guadagni quasi interamente derivati dalla vendita di racconti alle riviste, se è vero che le royalties dei libri ammontarono a 153 dollari nel 1927 (due anni dopo la pubblicazione di Gatsby) e a soli 32 dollari nel 1929.
Inevitabile, quindi, che nel momento in cui le cifre offerte per un racconto cominciarono a calare sensibilmente, Scott fosse costretto a cercare altre fonti di guadagno e a cedere al richiamo di Hollywood. Fallita l’esperienza come sceneggiatore, il tentativo di tornare a testi brevi da vendere a riviste sempre meno interessate si tradusse in un sostanziale flop, e nell’autunno del 1939 Fitzgerald confessò al dottor Carroll, che aveva in cura Zelda ma era diventato un suo interlocutore abituale, di non essere più in grado di produrre il tipo di racconti che il Saturday Evening Post aveva acquistato in passato per cifre altissime: «A quanto pare ho perso completamente il dono che mi permetteva di scrivere racconti commerciali, basati sul tema “un-ragazzo-conosce-una-ragazza”, e il risultato in termini di guadagni è catastrofico». Così, dei ventiquattro racconti scritti negli ultimi mesi della sua vita – sedici dei quali avevano come protagonista Pat Hobby ed erano ambientati nel mondo spietato degli studios hollywoodiani – ben ventidue furono venduti a Esquire, ma per un compenso ridotto a 250 dollari l’uno.
La ricchezza e la fama che avevano scandito la vita di Fitzgerald negli anni Venti, come racconta Jeffrey Myers nella sua biografia, gli avevano creato diversi problemi intellettuali ed emotivi. Scott «si sentiva colpevole perché non meritava tanta buona sorte. Avendo raggiunto il picco del successo commerciale e critico, trovava estremamente difficile superare i risultati ottenuti con le sue prime opere. Avrebbe potuto riuscirci solo scrivendo un romanzo più serio e ambizioso, che inevitabilmente gli avrebbe procurato un guadagno inferiore, costringendolo a ripiegare su racconti dalla vena smaccatamente commerciale, per poter sostenere uno stile di vita a dir poco dispendioso».
Nell’aprile del 1925, il mese in cui Il grande Gatsby venne pubblicato, ripensando al lavoro svolto nei sei mesi precedenti e subito dopo la consegna definitiva del romanzo a Scribner’s, Scott, in una lettera a John Peale Bishop, scriveva: «Guadagno 2000 dollari a racconto e la qualità continua a peggiorare: la mia ambizione è arrivare a un punto nel quale potrò scrivere solamente romanzi. L’ultimo anno ho scritto almeno dieci autentiche porcherie, e senza neppure la spontaneità delle mie prime cose».
Eppure, accanto a una produzione breve spesso formulaica e tutta risolta in una superficialità glamour, Fitzgerald si avventurava in racconti dall’architettura complessa, ricchi di sfumature, impareggiabili per ritmo, ironia e accensioni quasi surreali, come «Il palazzo di ghiaccio», che avrebbe trovato spazio nella prima raccolta, Maschiette e filosofi; o come «Primo maggio», «Lo strano caso di Benjamin Button» e «Il diamante grosso come il Ritz», punte ineguagliabili dei Racconti dell’età del jazz. L’alternanza tra racconti cheap, concepiti e realizzati nell’arco di pochi giorni, e di altri che, per complessità di concezione e raffinatezza stilistica, non hanno nulla da invidiare al Fitzgerald romanziere, avrebbe continuato a riproporsi nell’arco di tutta la sua carriera, anche quando il livello dei compensi avrebbe cominciato a calare vertiginosamente.
Quando morì, il 21 dicembre del 1940, Fitzgerald era uno scrittore quasi dimenticato. A riportarlo al centro dell’attenzione e della scena letteraria furono una serie di eventi editoriali che può essere utile elencare in rapida successione: nel 1941 uscì The Last Tycoon [in italiano, Gli ultimi fuochi], l’ultimo e incompiuto romanzo, a cura di Edmund Wilson; nel 1945, sempre con la curatela di Wilson, fu il turno di The Crack-Up, seguito un mese dopo da The Portable F. Scott Fitzgerald, un’antologia della sua opera selezionata da Dorothy Parker. La rinnovata fama dell’autore fu ulteriormente consolidata nel 1951 grazie alla pubblicazione di altri due libri: F. Scott Fitzgerald. The Man and His Work, raccolta di trenta fra saggi e recensioni assemblati da Alfred Kazin, e The Stories of F. Scott Fitzgerald, antologia curata da Malcolm Cowley e composta da ventotto racconti, dei quali solo diciotto tratti dalle quattro raccolte di short stories pubblicate in vita. Una discrepanza dovuta in larga parte al fatto che Adunata, ultima delle quattro raccolte, uscì nel 1935, e che nei suoi ultimi cinque anni di vita Fitzgerald continuò a scrivere racconti, con esiti discontinui ma anche con picchi notevoli come «Pomeriggio di uno scrittore» o «Il decennio perduto».
Le selezioni operate da Fitzgerald per ognuna delle sue quattro raccolte furono comunque il frutto di una riflessione attenta e prolungata. Scott, essendo perfettamente consapevole della qualità come minimo disuguale della sua produzione breve, cercò di isolarne gli apici, accompagnandoli con racconti più leggeri ma rappresentativi di un’epoca e di una fase precisa del suo progetto letterario e provvedendo spesso a intervenire sui testi, modificandoli, integrandoli, conferendo a essi una maggiore rotondità ed efficacia. Di questo intenso lavoro di assemblaggio si trova ampia traccia nell’affascinante corrispondenza con quello che fu il suo editor di una vita intera, Maxwell Perkins.

[…] Su Racconti dell’età del jazz, il lavoro di costruzione della raccolta rivela un livello di consapevolezza molto diverso. Il 6 febbraio 1922 Fitzgerald invia un indice completo e ragionato, diviso per sezioni, con il titolo provvisorio In One Reel, distinguendo tra i racconti scritti «nella mia nuova maniera» («Il diamante grosso come il Ritz», «Lo strano caso di Benjamin Button», «Tarquinio 10 di Cheapside» e «Oh, strega dai capelli rossicci!»), le «Ultime maschiette» («Il posteriore del cammello», «Primo maggio») e le «Commedie» («Il signor Icky», «Porcellana e rosa», «Jemina, la ragazza di montagna»): uno schema che, senza variazioni particolarmente significative, verrà riproposto in volume. Con altrettanta decisione Fitzgerald difenderà la scelta finale del titolo dalle critiche che, in una lettera dell’8 maggio, Perkins gli aveva riportato: durante una riunione della rete vendita di Scribner’s molti promotori si erano lamentati, affermando che era in pieno corso «una reazione violenta contro il jazz in tutte le sue forme», e che pertanto il termine, «in qualunque accezione venga usato», avrebbe rischiato di danneggiare le sorti del libro. La replica dell’autore viene affidata a una lettera in otto punti nella quale, tra l’altro, Scott sottolinea come l’argomentazione dei promotori sarebbe corretta se riferita a un romanzo, per il quale le parole flapper («maschietta») o jazz avrebbero un sapore passé e potrebbero compromettere l’esito commerciale. I racconti, però, «non vendono», e Maschiette e filosofi rappresenta un’eccezione, dovuta in larga parte al successo del romanzo d’esordio e all’attualità del titolo. Non aspettandosi grandi prenotazioni o grandi vendite per la sua seconda raccolta, Scott preferisce assicurarsi che venga acquistata dal suo pubblico personale, vale a dire dalle «innumerevoli maschiette e dagli studenti di college che mi considerano una specie di oracolo».

[…] Negli anni successivi i racconti accompagnano la crescita dell’autore, privilegiando sulla freschezza, l’ironia pungente, lo spirito dei tempi che contraddistinguevano molti fra i testi assemblati per Maschiette e filosofi e Racconti dell’età del Jazz, quella stessa profondità di concezione ed esecuzione che indurrà T.S. Eliot a definire Il grande Gatsby il primo passo avanti della letteratura americana dopo Henry James. In una lettera del 24 aprile 1925, Scott annuncia di avere «un libro di racconti, tutti buoni, per l’autunno». E aggiunge: «Ora ne scriverò altri più facili e modesti fino a quando non avrò accumulato materiale sufficiente per il prossimo romanzo». È ormai evidente la distinzione tra le «marchette», scritte – quasi sempre per il Saturday Evening Post – al solo scopo di guadagnare, e testi più complessi ed elaborati, che assecondano e accompagnano la ricerca narrativa destinata a tradursi in romanzo. Se «Assoluzione», forse il racconto più sorprendente e inquietante di Tutti i giovani tristi, era stato inizialmente concepito addirittura come incipit e antefatto di Gatsby, è lo stesso Scott, in una lunghissima lettera a Perkins inviata da Parigi il 7 giugno del 1925, a sottolineare come la raccolta, nel suo insieme, sia pienamente all’altezza delle precedenti ma soprattutto contenga «solo uno di quei racconti pubblicati sul Post che hanno fatto arricciare il naso a parecchia gente», mentre tutti gli altri testi «erano così buoni che ho fatto fatica a venderli». Tra questi, «Sogni invernali», pubblicato su Metropoli tan nel 1923, viene descritto come «un primo abbozzo dell’idea di Gatsby”. Fitzgerald si spinge addirittura a proporre un testo per la quarta di copertina del libro: «Un esempio del passaggio dai racconti esuberanti della giovinezza, che hanno creato una nuova tipologia di ragazza americana, alla vena più recente e più seria che ha prodotto Il grande Gatsby, facendo dell’autore uno dei pochi, autentici maestri della narrativa americana». E Perkins risponde il 12 ottobre, sottolineando a sua volta come i racconti di Tutti i giovani tristi, soprattutto «Il ragazzo ricco» e «La festa dei bambini», abbiano un respiro decisamente superiore rispetto a quelli delle altre raccolte, senza per questo perdere la capacità di attrarre e divertire il lettore.

Molto più complessa è la gestazione di Adunata, legata anche all’allungarsi dei tempi tra Gatsby e Tenera è la notte e a un periodo difficilissimo, nel quale alle costanti peregrinazioni di Scott e famiglia tra Europa e Stati Uniti si aggiunge l’incedere della malattia mentale che porterà Zelda, per tutti gli anni Trenta, a un’interminabile serie di ricoveri e degenze ospedaliere. Per questo già il 21 luglio del 1928, annunciando che il suo nuovo romanzo sarà pronto entro settembre (ci vorranno invece ancora più di cinque anni prima della consegna), Scott dichiara la sua intenzione di pubblicare, subito dopo – dunque nel pieno rispetto di quella che è ormai una tradizione – un libro con tutti i racconti che hanno per protagonista Basil Lee, e che potrebbero formare, nel loro insieme, una sorta di romanzo leggero. Bisognerà attendere il 15 maggio del 1934 perché Fitzgerald torni sull’argomento con il suo editor, ma lo fa con un tale livello di consapevolezza, anche progettuale, che la lettera merita di essere citata quasi per intero:

Ho grosso modo quattro progetti distinti per un libro da pubblicare quest’autunno. Secondo me dobbiamo mettere da parte, almeno entro una certa misura, l’idea che una raccolta ampia e non organica possa vendere bene, al netto dei risultati passati miei o di Ernest [Hemingway. Ovviamente farò ogni tentativo possibile per unificare ciò che preparerò grazie a un titolo inclusivo e definitivo, che è ancora più importante per una raccolta di racconti di quanto non lo sia per un romanzo, per ché è necessario legare i testi uno all’altro e fare appello a uno specifico stato emotivo nel lettore. Inoltre, vista la quantità di materiale da cui scegliere, credo che la raccolta dovrebbe avere un’autentica unità, anche se si dovesse scegliere di includere al suo interno racconti di genere differente. Ecco, in linea generale, le mie idee: Piano 1. Una sorta di omnibus che includa sia racconti nuovi, sia il meglio delle tre raccolte precedenti. Piano 2. I racconti di Basil Lee, 60.000 parole circa, e quelli di Jo sephine, 37.500, con l’aggiunta di un paio di altri testi, l’ultimo dei quali riunirà Basil e Josephine, andando a comporre un libro di circa 120.000 parole con un titolo semplice, qualcosa come Ba sil e Josephine. Questa scelta mi sembrerebbe la migliore sul piano commerciale, perché il libro potrebbe essere accolto come Gentle Julia o Penrod di Booth Tarkington ed essere considerato quasi alla stregua di un romanzo, ma sarebbe anche la più pericolosa a livello artistico, e per la stessa ragione: la gente che compra i miei libri potrebbe pensare che la sto fregando, vendendogli sotto falso nome dei materiali rubacchiati a un altro autore.
Piano 3. Una raccolta di racconti del tutto nuovi. Ne ho a disposizione una quarantina, tra i quali ventinove plausibili da cui sceglierne quindici, con l’aggiunta di un altro paio molto seri, non commerciali, che ho in mente da tempo ma non ho ancora scritto, per innalzare il tono del volume. Questa scelta potrebbe essere unificata da un titolo che evidenzi come si tratta di racconti dei gloriosi anni Venti, o, in modo ancor più specifico, Nuovi racconti dell’età del jazz […].
Piano 4. Questa è un’idea basata sul successo di libri come While Rome Burns, di Alexander Woollcott. Come sai, non ho mai pubblicato in volume cose personali, perché le ho utilizzate tutte per le mie opere narrative; ciononostante, molti dei miei articoli e interventi occasionali hanno suscitato una notevole attenzione, il che potrebbe accadere nuovamente se riuscissimo a trovare un legame stretto tra il titolo e il materiale utilizzato.

Nella sua risposta, datata 17 maggio, Maxwell Perkins sottolinea come tutti, alla Scribner’s, siano decisamente a favore del Piano n° 2, incentrato sui racconti di Basil e Josephine, sempre che Scott sia in grado di organizzare e soprattutto completare la raccolta in tempi ragionevoli. Ma il 21 maggio Fitzgerald mostra di aver già cambiato idea. Il progetto gli sembra impossibile da realizzare, e non è questione di tempi: semplicemente, i racconti di Basil e Josephine «non sono buoni come pensavo. Sono pieni di Tarkington, e Tarkington sta scrivendo una nuova serie di romanzi adolescenziali, il che provocherà inevitabili paragoni, forse non a mio vantaggio». Meglio ripiegare sul Piano n° 3, e sul titolo Nuovi racconti dell’età del jazz.
La soluzione finale, già ventilata in una lettera del 4 giugno 1934, sarà in realtà il frutto di un compromesso e di un assemblaggio che lo stesso Scott non esita a definire «arbitrario»: Adunata sarà la sua raccolta più lunga, e al tempo stesso la più disorganica, pur contenendo autentici gioielli, primo fra tutti «Babilonia rivisitata», che nell’amarezza e nella disillusione di cui sono costellate le sue pagine rappresenta il controcanto più autentico di Tenera è la notte.
Per quanto Fitzgerald riveda e sistemi quelli che gli sembrano i racconti più deboli, modificando la sequenza originale e ritardando a più riprese la pubblicazione – a conferma della serietà con la quale, sin da Maschiette e filosofi, ha affrontato la conversione in volume della sua produzione breve – Adunata passerà quasi inosservato: il primo segnale di quell’oblio che scandirà gli ultimi, tristissimi anni di vita di un grande scrittore.

Inno ai pavimenti e ai pensieri sporchi. La flash fcition di Diane Williams

Black Coffee porta in libreria Insomma siete ricche, di Diane Williams, tradotto da Chiara Barzini.
In questi racconti la vita è appena sbocciata, ed è qualcosa di pericoloso; che si tratti di una tresca amorosa, di una richiesta di denaro, di un pomeriggio trascorso in giardino o del semplice gesto di portare una torta da una stanza all’altra, Williams ci offre modi nuovi – splendidi e sconcertanti – di guardare alla vita quotidiana. Con frasi perfettamente cesellate e punteggiate di umorismo, questi racconti ci dimostrano che qualsiasi momento di un giorno qualunque può generare delusione, piacere e nuove possibilità.

Cattedrale vi propone la prefazione di Chiara Barzini, per gentile concessione dell’editore.

Inno ai pavimenti e ai pensieri sporchi
di Chiara Barzini

Il giorno in cui lo scrittore Ben Marcus presentò il suo primo libro nella biblioteca della mia università, andai con la mia migliore amica Kate. Eravamo appena entrate al corso di scrittura creativa e ricordo lo stupore sui volti degli altri studenti quando Marcus cominciò a leggere con la sua voce ferma e caustica dal palco. Il titolo della raccolta era The Age of Wire and String (L’età del fil di ferro e dello spago, Alet Edizioni) e i racconti avevano una lingua asciutta ed epica al tempo stesso. Ogni storia era brevissima e dava indicazioni precise per attraversare un mondo in cui le cose più banali, come i nomi propri maschili, gli Stati americani o il cibo, prendevano forme radicalmente diverse da quelle a cui eravamo abituati. Eravamo estraniati da quella forma così nuova eppure riuscivamo a identificarci in ogni storia. Non a caso il titolo del libro faceva riferimento a un’epoca comandata dal fil di ferro e dallo spago, elementi di un mondo analogico che stavamo cominciando a lasciarci alle spalle. Tempo e spazio si restringevano.

Ma cos’era questo modo di scrivere? Chi lo aveva autorizzato? I racconti erano compatti, esilaranti, il linguaggio preciso, ogni immagine un pugno. Poesie? Racconti brevissimi? Haiku narrativi? Fotografie letterarie? Qualche anno dopo, Kate andò a lavorare per un’estate come volontaria per il giornale letterario noon diretto dalla scrittrice Diane Williams. Dopo il primo giorno mi chiamò in tutti gli stati. Aveva scoperto la madrina di Ben Marcus. Diane Williams è una delle pioniere americane del racconto breve breve, quello che oggi viene chiamato flash fiction. Quell’estate fu interamente dedicata ai suoi libri e racconti. Come con Ben Marcus, scoprimmo che la sensualità del suo linguaggio passava per vie trasversali. Nella sua novella sperimentale e quasi pornografica Romancer Erector, i turbamenti, le brame, le erezioni e le forze propulsive della vita percorrevano una strada adiacente a quella del racconto canonico, senza attraversarla mai. Alla fine di quell’estate Kate mi regalò qualche edizione di noon. Scoprire quel giornale fu come entrare nel salotto della casa in cui avevo sognato di vivere per anni: Lydia Davis, Deb Olin Unferth, Ottessa Moshfegh, Christine Schutt.

Quella scrittura era una nuova frontiera. Non erano quindi solo gli uomini a essere autorizzati a quella forma breve. Nei racconti di noon c’erano urgenza, tensione, narratrici instabili e inaffidabili. Le scrittrici tagliavano la vita a pezzi, buttavano via la cornice per far emergere il nucleo scintillante sotto la superficie. Queste scrittrici conoscevano la carica surreale di Leonora Carrington, le fiabe oscure rivisitate di Angela Carter, l’immaginario killer di Ljudmila Petruševskaja con i suoi racconti natalizi horror di genitori imprigionati e abeti decorati da polli morti, donne che tentavano di uccidere i neonati delle proprie vicine di casa.

Diane Williams aveva studiato con l’editor di Raymond Carver, Gordon Lish, dal quale aveva imparato (e poi trasformato) una rigorosissima tecnica di editing. Quando timidamente riuscii a sottoporle un racconto di venti pagine, mi rispose che lo avrebbe pubblicato ma che avrei dovuto accettare i suoi «tagli». Su venti pagine ne tirò fuori quattro. Mi mandò a casa via posta gli edits sul racconto stampato. Pagine intere erano state cancellate con un segno di penna. Cercavo tra le righe, sperando di poter salvare almeno qualche frase dal naufragio, ma niente. Poi vidi la bellezza di quello che aveva fatto. Tutto era più forte, più teso, più crudo. Accettai e diventai un’assidua lettrice di noon.

I racconti di Diane Williams erano violenti e primordiali come leggende antiche. C’era il sesso, la morte, il terrore. In quelli di Lydia Davis c’era anche la quotidianità, la ritualità degli eventi mondani, il tentativo di riscoprire azioni banali per rivelarne un fondo grottesco. La sua raccolta Can’t and Won’t (in Italia tradotta da Adelaide Cioni con il titolo Osservazione sulle faccende domestiche, Mondadori) è un inno agli orrori dei nostri pavimenti sporchi, l’ammissione che le faccende di casa sono spesso più violente e drammatiche di un romanzo russo.

«La cosa utile di essere una persona egoista è che quando i tuoi figli si fanno male, non ti preoccupi troppo perché tu invece stai bene» scrive Lydia Davis in un racconto. I figli nelle storie di Diane Williams sono innocenti e pieni di istinti omicidi allo stesso tempo. Quando la flash fiction si insinua nella vita di famiglia, regala a ogni scrittrice un via libera fenomenale. Per me raccontare la casa in forma breve significa immergersi in una fiaba paranormale in cui qualche volta può capitare che una madre ansiosa si trasformi in un piccolo mammifero selvatico, una baby-sitter annoiata pugnali gli orsacchiotti di una bambina, un marito cerchi di convincere la famiglia a togliersi la vita tutti insieme.

Se oggi ho la libertà di esplorare le zone d’ombra delle cucine disordinate e delle vasche da bagno sporche di terra, lo devo molto a queste donne che si sono prese rischi quando era difficile farlo. Alla fine degli anni Ottanta Gordon Lish rifiutò di pubblicare un romanzo di Diane Williams. Le disse che la sua scrittura così scarna ed eccentrica le avrebbe spezzato il cuore e procurato anni di rifiuti. Oggi Jonathan Franzen la definisce come una delle «eroine viventi dell’avanguardia americana».

Dalla Munro alla Hempel: l’arte del racconto secondo Joy Williams

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di Fabrizia Gagliardi

Vedo questa donna dai capelli di fieno. Porta occhiali scuri ma dalle increspature del viso so che sorride. Ha impiegato un po’ per scendere dalla sua Ford Bronco perché aveva due figure nere e scodinzolanti da tranquillizzare. A malincuore ha lasciato i suoi pastori e pregusta già il momento in cui rientrerà. Una delle sue regole è avere sempre un animale nel racconto per dare ai personaggi la sua benedizione, un’innocenza ingenua e del tutto in contrasto con la volontà umana. Siede al tavolo, ordina la colazione e scrive. Sa tutto di una vita che non è la sua. Allo stesso modo divora le strade statunitensi, tra Arizona, Florida e New England, ospite di università e di motel.
Quando una volta le chiesero di raccontare il proprio mestiere si mise a parlare delle sottilette Kraft. E poi, continuando, disse che a guidare i grandi autori non è la tecnica ma il desiderio. Secondo Joy Williams una parte imprescindibile dell’essere scrittori americani è «assorbire l’esperienza americana, assorbire il calore, l’imprudenza, la spietatezza e la piccolezza dell’America, come anche il suo ottimismo e il suo sentimentalismo pericoloso». È stata proprio lei a darne un esempio ne L’ospite d’onore, una raccolta di 46 racconti pubblicata da Edizioni Black Coffee con la traduzione di Sara Reggiani e Leonardo Taiuti.
Nell’affresco della Williams la natura nomade dell’identità americana è in divenire in ogni racconto. Indipendentemente dal sesso e dall’estrazione sociale dei protagonisti, i ritratti, diversi l’uno dall’altro, quasi discordanti nelle storie raccontate, si uniscono in un unico coro per l’inno alle avversità. I personaggi sono l’esperienza umana così scarna nella sua verità da non condurre mai a una risoluzione vera e propria. C’è chi, come il critico James Wood, apprezza l’essenza così canonica e quotidiana dei protagonisti della Williams da trasformarli in tante piccole particelle elementari che diventano la componente principale di quella materia nascosta, universale, reale, da scovare in ogni motel o cittadina americana.
La volatilità dei nomi che ricorrono da un racconto all’altro annulla il destino nominale e compone una mappa impazzita di solitudine, alcolismo, dolore e rimorso. La piccola Lizzie di Fughe è alle prese con la dipendenza della madre, la Lizzie di Ruggine contempla l’auto di suo marito, un uomo molto più grande di lei, che diventa spettro di un disagio più profondo.

«La narrativa riguarda tutto ciò che è umano, e noi siamo fatti di polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi non dovreste tentare di scrivere narrativa»

così Flannery O’Connor ribadiva la priorità dell’esperienza. Il fatto che la narrativa sia concreta, però, non giustifica uno scrittore che se ne lascia inghiottire. La contemplazione non deve essere partecipata, ma defilata in una posizione al di fuori della cornice del quadro, ancora più ai margini degli emarginati. Per Joy Williams c’è qualcosa di malsano e distruttivo nell’intero processo di scrittura, perché lo scrittore è un “agente trasfigurante”, un codificatore della realtà senza adesione. È vero che finirà per stabilire il contatto con i lettori, ma non è il suo obiettivo ultimo: lui serve qualcosa che è protetto «dalle ali del nulla».

Flannery O'Connor

Flannery O'Connor


Il nulla americano che si rintraccia nei suoi racconti è quel momento di svolta attorno al quale ruota un paradosso temporale. La brevità del racconto ritrae anni come attimi e secondi come interminabili anni. Non è detto che la svolta si svolga al presente: a seconda della sua collocazione nella storia può assumere nomi come rimorso, rimpianto o occasione. Prendendo Riguardati, il racconto che apre L’ospite d’onore, il meccanismo è immediatamente chiaro:
In ospedale sua moglie aspetta di essere decifrata, non più una donna, la donna che lui ama, ma una situazione. Il suo sangue si muove misterioso come costellazioni. È sotto osservazione, sotto attacco, e ha abbandonato James. È una nuotatrice che attende di poter continuare ad affogare. Jones è sulla battigia. In Messico sua figlia cammina sulla spiaggia con due uomini. Mette in scena una recita diventata ormai la sua vita. Jones è sulla vetta della montagna.
La contemporaneità è divisa in tre persone che, però, vivono lo stesso attimo anche se dovessero viverlo in diversi momenti. Ne L’escursione l’espediente temporale assume una vera e propria caratterizzazione stilistica: il susseguirsi di frasi in contrapposizione sinestetica che in altri racconti si palesava nella lingua («L’aria sembra distante, usata») qui contagia il tempo della prosa sdoppiandolo in due dimensioni. La storia della Jenny bambina, di quell’esperienza caratterizzata da piccoli drammi che oscurano per un momento la felicità infantile, passa a una vita adulta alle prese con la maturità brusca e mortale di un uomo. Le due storie procedono parallelamente collegandosi grazie a piccoli punti di raccordo.
Jenny si sveglia piangendo e si precipita nella stanza dei genitori. Non sa che ore siano. Non è sicura di trovarli. Invece sì che li trova. Jenny è soltanto una bambina […] Jenny si sente crescere e ha paura di crescere troppo. Dopo essere stata confortata torna nella sua stanza stringendo un fiore tra le dita.
All’uomo piacciono i fiori, ma non l’immaturità di Jenny. Le sfila la camiciola di maglia sottile. Le posa dei fiori tra i seni, tra le gambe. La casa è colma di fiori. Siamo in Messico ed è il Giorno dei Morti. Milioni di calendule sono state intrecciate alle trame dei tappeti e depositate sulle tombe. Jenny sente dolore alla bocca, allo stomaco. No, all’uomo la sua maturità non piace. Le si inginocchia accanto, le mette le mani sui fianchi e la costringe a guardare la sua faccia calda, impassibile.

Se la narrativa deve essere concreta e ricercare il contatto dei lettori in una reciprocità che si stabilisce in modi misteriosi, a rendere particolare la narrazione non è solo la storia ma soprattutto il modo di raccontarla. A questo punto sembra d’obbligo una breve incursione nel racconto femminile per capire dove si colloca Joy Williams.

«Diversamente da quanto accade a molti altri scrittori, che trovano logico organizzare i ricordi, il pensiero, il comportamento e le azioni in una forma lineare, a me interessa riportarli a una scrittura frammentaria» afferma Amy Hempel, altra maestra americana del racconto dalle sfumature maggiormente minimaliste della Williams. La predominanza dell’ordine cronologico ingabbia la verosimiglianza, ma nessuna verità è ordinata. Quando Amy Hempel incontrò Gordon Lish per la prima volta l’imperativo dell’editor la colse in pieno: «scrivere il peggior segreto», la cosa che avrebbe demolito il senso di se stessi. La rivisitazione autobiografica non è affatto un omaggio cieco al mondo del lettore, si collega, anzi, al modo di scrivere che diventa analogo alla vita stessa. I suoi racconti si compongono di una sintassi contratta e tronca quando devono alludere al significato complessivo. La conclusione di Fine settimana, una racconto di poco più di una pagina, contenuto in Ragioni per vivere recita così:

Poi i bambini andarono a letto o se non altro andarono di sopra, e gli uomini si unirono alle donne per una sigaretta in veranda, staccando distrattamente le zecche gonfie come uva dal dorso dei cani addormentati. E quando gli uomini diedero alle donne il bacio della buona notte, graffiando le loro guance con la barba da fine settimana, le donne non pensarono raditi, pensarono: resta.

Amy Hempel

Amy Hempel

Grace Paley è stata un’altra anima intimamente rivoluzionaria nella vita e nel racconto che ha affrontato con ironia e amarezza tutte le implicazioni di essere donna. Nei racconti degli inizi di Contrattempi del vivere, giovani bambine alla scoperta del loro essere donne conoscono l’illusione dell’amore e l’amaro per le piccole delusioni. Sprazzi di Bronx e Lower East Side sono lo sfondo di una solidarietà femminile che spesso si svolge nell’ironia dell’amicizia, nel dolore della morte di una cara compagna o nell’illusione di un uomo.

Grace Paley

Grace Paley

Nel novero della scrittrici che hanno costruito mondo e stile sull’impalcatura della vita c’è anche Lucia Berlin, portata per la prima volta in Italia da Bollati Boringhieri poco tempo fa con La donna che scriveva racconti (traduzione di Federica Aceto). In uno dei suoi racconti confessa: «L’unico motivo per cui ho vissuto tanto a lungo è che ho lasciato andare il passato. Ho chiuso la porta in faccia al dolore, al pentimento e al rimorso» e l’ha aperta alla narrativa. I suoi racconti sono l’eterno ritorno di vicende di vita che ogni volta assumono conclusioni diverse. Si aprono all’interpretazione allargando le possibilità di un’unica vita in maniera inedita rispetto al romanzo. Si legge di donne delle pulizie, madri alcolizzate, dipendenze, e tutto è raccontato dalla parte di chi ha vissuto tutto questo.

Lucia Berlin

Lucia Berlin

Alice Munro è la maestra che ha saputo sfruttare a pieno il potere del racconto. Sin da In fuga l’esplorazione delle relazioni umane passa per la vita quotidiana. Leggiamo la conclusione, ma niente sarà più importante delle strade per arrivare. La Munro rovescia l’impianto narrativo canonico della sequenzialità cronologica facendo emergere dai personaggi e dal paesaggio i segni di uno sviluppo intimo e naturale.
Dopo aver attraversato il minimalismo e le potenzialità salvifiche - e maledette - del racconto è il caso di nominare un’ultima valida rappresentante del racconto femminile. Le storie di Flannery O’Connor sono abitate da personaggi di umili origini nella cui vicenda si verifica un avvenimento che è in grado di spazzare via il mondo razionale per accogliere il mistero. Il contrasto tra il presente e il passato prima dello sconvolgimento sono tali da convertire la vittima che, anche se colpevole, si lascia travolgere dalla contemplazione del disastro, come se fosse una forma di redenzione.

Alice Munro

Alice Munro

Il mistero del nulla

Dove va a collocarsi Joy Williams in tale contesto? Mi chiedo, cioè, lo scopo della sua scrittura, e qual è il significato del nulla da lei cercato. Abita il realismo americano con le altre esponenti del racconto, ma lo fa in un modo del tutto personale. Joy Williams attraversa quello di cui parlava Carver quando affermava che «per scrivere un romanzo, mi sembrava, uno scrittore dovrebbe vivere in un mondo dotato di senso, un mondo in cui poter credere, da poter mettere a fuoco per bene e su cui poi scrivere accuratamente». Il romanzo vuole esserti amico, dice la Williams, il racconto no, perché nel romanzo la consuetudine del personaggio e dell’ambiente attecchiscono nel lettore per stimolare la familiarità. Il racconto dimezza il tempo, ingrandisce l’obiettivo fino a sgranare l’immagine ed esclude molti dei particolari che nel romanzo avrebbero occupato più spazio.
Le storie della Williams sono sporche perché non hanno il respiro profondo e riflessivo di una narrazione unica, che darebbe ai personaggi troppo tempo per rimediare. Non c’è niente di risolutivo negli indizi disseminati, solo un senso di inevitabile e tragica umanità. Esercitare l’arte dell’interpretazione con i racconti della Williams significa privarli dell’universalità con cui sono stati creati. Si offrono alla lettura personale ma si allontanano dall’imposizione di un’unica visione per rimanere profondamente sconosciuti. A titolo di esempio basta prendere la struttura tripartita che divide il punto di vista anche in presenza di un unico narratore.
In Pastore la morte del pastore tedesco suggerisce l’infelicità di una dimensione narcotizzata. Compaiono il pastore tedesco, la protagonista e Chester che le chiede di sposarlo. L’equilibrio di quella che poteva essere una storia di coppia si spezza per una nota tanto innocente quanto fondamentale («Tre giorni prima che il pastore annegasse, Chester le aveva chiesto di sposarlo. Si conoscevano da quasi un anno. “Sposiamoci” aveva detto. Si erano calati un metaqualone ed erano andati a letto»). L’eco della morte riverbera come ancora di un unico evento reale nel marasma della vita immaginata.
Chimica invernale è uno dei racconti migliori della raccolta e, anche qui, l’amicizia di due amiche in piena tempesta adolescenziale deve vedersela con l’infatuazione per un terzo elemento: un insegnante.
Ricorro ancora una volta alla teoria proposta da Flannery O’Connor quando sostiene che l’accumulazione di dettagli simbolici – e cioè investiti di un significato altro rispetto a quello canonico – espande e approfondisce la superficie narrativa. Nella Williams i simboli si manifestano grazie a un’illusione interna per i personaggi e di un’elusione esterna per il lettore. Nel primo caso i piccoli indizi, presagi del futuro, sono disseminati nel testo, immediatamente sopraffatti dallo scorrere di eventi. «Quando era con Daniel sentiva di essere vicina a qualcosa, a una comprensione di ciò che ancora le restava da desiderare» è la bugia che si racconta Joan in Bianco mentre contempla l’innamoramento per un altro uomo. Nell’elusione i muri invisibili che incanalano la storia nell’unica sorte possibile sfuggono e allo stesso tempo vengono sorvolati dallo sguardo interpretativo del lettore. Spesso basta una sola, vaga, visione per chiarire il senso del racconto, proprio come succede in Bianco:
 

«Abbiamo mollato tutto e ci siamo messi in strada di notte, e al mattino ci siamo fermati in una piccola piazzola di sosta vicino a un fiume, e c’erano due vecchi che stavano lavando quel grosso cane bianco. Un cane bianco grosso e vecchio. Lo lavarono con grande cura e poi lo asciugarono con un telo. Era tutto ciò che avevano».
«Stanno per andarsene tutti» disse Bliss. «Scendiamo a salutare».
«Non voglio che diventiamo come quei due vecchi» disse Joan.
«Mai» disse Bliss. «Scendiamo a salutare. Un’altra volta soltanto».

«È richiesta una certa freddezza nell’esecuzione», uno degli ingredienti della Williams per i racconti. Eppure nelle sue storie non si avverte un tale distacco, si percepisce, piuttosto, il contrario: un’aderenza dolorosa alla realtà, un’osservazione così viscerale delle possibilità della realtà da ritrarre psicologie impazzite e concrete allo stesso tempo. Ecco spiegato il suo “nulla”, l’impossibilità di definire il mistero che muove la storia e il tentativo di non riassumerlo in un’unica parola.

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Racconti crudeli, di Abelardo Castillo

Del Vecchio Editore porta in libreria Racconti crudeli, di Abelardo Castillo, tradotti da Elisa Montanelli. Julio Cortazár diceva di questi racconti: «rimangono come cicatrici indelebili nel corpo di ogni lettore che li meriti: sono creature viventi, organismi completi, cicli chiusi, e respirano».
Con Racconti crudeli prende il via il progetto di pubblicazione dell’intero corpus dei racconti di Abelardo Castillo a cura di Del Vecchio. In questo primo volume trovano spazio le due raccolte: Le altre porte e Racconti crudeli.

Cattedrale vi propone la prefazione al libro di Loris Tassi, per gentile concessione dell’editore.

Il “libro incessante” di Abelardo Castillo
di Loris Tassi

I. Arlt e Borges

Secondo Ricardo Piglia, «unire Arlt e Borges […] è una delle grandi utopie della letteratura argentina. Credo che questa tentazione, più o meno cosciente, sia presente in Onetti, in Cortázar e in Marechal». (1). A differenza di Juan Dahlmann, il protagonista del celebre racconto borgesiano Il Sud che sentiva il «conflitto tra i suoi due lignaggi» (2) e optava per uno dei due, Piglia ritiene fondamentale la mescolanza, la fusione dei due antenati (la letteratura, per l’autore di Respirazione artificiale, è un museo, un gigantesco contenitore da cui attingere idee, situazioni, personaggi, ma è allo stesso tempo un laboratorio in cui sperimentare nuove forme). Alla piccola lista stilata da Piglia potremmo aggiungere il nome di Abelardo Castillo (1935-2017). Nel primo tomo dei Diarios (1954-1991), un giovane e ambizioso Castillo, senza mostrare soggezione nei confronti di quelli che all’epoca erano già chiamati maestri, difende Borges dagli attacchi dell’amato-odiato Ernesto Sabato e afferma: «Grazie a Dio abbiamo Borges»; poche righe dopo, dimostrando una certa sintonia con le tesi esposte da Witold Gombrowicz nei suoi Diari, denuncia i mali della letteratura argentina (la ricerca ossessiva dell’ultima novità straniera, un complesso di inferiorità nei confronti di tutto quello che proviene da fuori) per concludere infine: «Meno male che è esistito Arlt». (3)
Castillo, come del resto Piglia, non si limita ad analizzare le opere dei suoi precursori da un punto di vista critico, al contrario spesso, nelle sue finzioni degli anni Sessanta e Settanta, le mescola, le riscrive, le reinventa. È palese la “tentazione” di tenere assieme Arlt e Borges, senza peraltro rinunciare ad altri innesti, nazionali (Marechal, Cortázar, la tradizione fantastica argentina) o esteri (i tragici greci, Dante, Dostoevskij e la grande narrativa dell’Ottocento, Kafka, Sartre, il primo Hemingway, Malcolm Lowry). (4). A pensarci bene, questo potrebbe essere un possibile punto di contatto tra Castillo e Juan José Saer, il quale afferma: «Ogni opera autentica della nostra cultura tende all’integrazione di elementi eterogenei come conseguenza della nostra particolare sedimentazione storica e si costituisce, mediante il dosaggio, variabile ma sistematico, di un apporto locale e di un apporto universale». (5) Leónidas Lamborghini si spinge ancora oltre: «E se tutta la nostra letteratura non fosse che un grande guazzabuglio?». (6) Ma procediamo con ordine.

II. Breve ritratto dell’autore

Castillo ha pubblicato pièce teatrali che hanno avuto una discreta fortuna negli anni Sessanta e Settanta come El otro Judas (1961) e Israfel (1964), quest’ultima sulla vita di uno dei suoi numi tutelari, vale a dire Edgar Allan Poe; romanzi torrenziali che richiamano Lowry e Marechal come El que tiene sed (1985), Crónica de un iniciado (1991) – protagonista di entrambi è lo scrittore alcolizzato Esteban Espósito, considerato dagli studiosi un alter ego dell’autore – e il più misurato El Evangelio según Van Hutten (7); un’affascinante nouvelle gotica, La casa de ceniza (1967), in cui compare un pittore maledetto che fa pensare a Il tunnel di Sabato; e poi un libro di poesie, diversi saggi, due corposi diari e soprattutto delle raccolte di racconti poi confluite nel volume Cuentos completos (1997) che, accolto dal consenso unanime di critica e lettori, può essere ormai annoverato tra i classici della letteratura argentina. L’elenco testimonia la versatilità di Castillo, ma non dimentichiamo che secondo la sua poetica: «Ogni volta che immaginiamo una storia la sola cosa che possiamo fare è rispettarne la forma, accettarne le leggi e cercare di non sbagliare troppo» (8). Che cosa dà unità a testi tanto eterogenei pubblicati nell’arco di oltre cinquant’anni? Forse un appunto che troviamo nel primo volume dei Diarios può suggerirci una risposta a questa domanda: «Mettere la testa nelle cose: estrarre le idee, le immagini. Volontà. La letteratura è questo: un lavoro da palombaro» (9). Castillo ha vinto numerosi premi – tra i quali il Premio Casa de las Américas (1961), il Premio Internazionale Unesco (1964), il Premio Municipal de Novela (1985), il Premio Nacional Esteban Echeverría (1993), il Premio Konex de Platino (1994) – ed è stato un infaticabile promotore culturale: ha fondato e diretto importanti riviste come «El grillo de papel» (1959-1960) – periodico di sinistra chiuso dal governo dopo solo sei numeri –, con Arnoldo Liberman e Humberto Costantini, «El escarabajo de oro» (1961-1974), con Liliana Heker (straordinaria autrice di racconti, ingiustamente trascurata dalla nostra editoria), ed «El ornitorrinco» (1977-1986), con Liliana Heker e con la moglie Sylvia Iparraguirre, conosciuta anche in Italia da quando sono stati tradotti alcuni suoi romanzi. Infine ha tenuto per decenni un laboratorio di scrittura, un’esperienza nata, a quanto pare, per motivi extraletterari in seguito alla scomparsa delle riviste letterarie costrette dalla dittatura a chiudere i battenti (10).
Eppure, nonostante i premi ricevuti in patria e all’estero e le traduzioni in altre lingue, in Europa, e specialmente in Italia, Castillo non è conosciuto come meriterebbe. Difficile capirne il motivo. Viene in mente il sarcastico sfogo che apre Lascia fare a me di Mario Levrero: «so da qualche anno che i miei romanzi appartengono a questo genere: buoni, ma… I critici si arrovellano per classificare la mia letteratura in questa o in quell’altra categoria, ma gli editori sono più realisti, e unanimi; c’è una sola categoria possibile per la mia letteratura: buona, ma…» (11). In effetti, anche Castillo è stato a lungo relegato in questa categoria. Forse perché esponente di una generazione ancora poco nota fuori dai confini dell’Argentina, la generazione di mezzo tra i mostri sacri (Borges, Bioy Casares, Silvina Ocampo, Sabato, Cortázar) e gli esploratori di mondi nuovi come Manuel Puig, Héctor Libertella, Osvaldo Lamborghini e Luis Gusmán. Forse perché gli editori guardano spesso con sospetto alle raccolte di racconti («il racconto […] ha qualcosa di diabolico»…) (12), o per ché erano convinti che la quantità di riferimenti alla letteratura e alla storia argentina (sono emblematici I morti di Piedra Negra e Crocevia) potesse spaventare i non iniziati, o perché pensavano che Castillo riraccontasse storie già raccontate da altri (ironia della sorte: la stessa accusa venne mossa ad Arlt per I sette pazzi. I lanciafiamme, ispirato a I demoni di Dostoevskij, e a Borges per il suo esordio narrativo Storia universale dell’infamia). Quest’ultima ipotesi potrebbe essere plausibile, se pensiamo che nell’epigrafe di Il ritorno Castillo esibisce con nonchalance le sue fonti: «A Julio Cortázar e a lei, Borges, e scusate se vi ho coinvolto» (13). Ma non è forse vero che «La letteratura è un sistema di reincarnazioni o canti paralleli nel tempo»? (14)
A questo punto, è il caso di citare un aneddoto, tramandato da numerose fonti: pare che nel 1963 Gombrowicz, in partenza da Buenos Aires per l’Europa dopo un lungo autoesilio, dal ponte della nave abbia gridato ai suoi giovani amici intellettuali: «Uccidete Borges!». Vera o falsa, la frase è da intendersi come un invito al delitto “artistico”, vale a dire, come un’esortazione a smarcarsi da un modello letterario troppo ingombrante. Lungi dal seguire il consiglio dello scrittore polacco, Castillo lotta per tenere in vita i suoi maestri («Grazie a Dio abbiamo Borges» e avrebbe potuto aggiungere: “E abbiamo Arlt, Horacio Quiroga, Sabato, Marechal, Bioy Casares, Mujica Laínez…”). Ricordate l’elogio borgesiano a Macedonio Fernández?
«Io in quegli anni lo imitai, fino alla trascrizione, fino al devoto e appassionato plagio» (15). Castillo avrebbe potuto dire lo stesso a proposito di Borges (e di Arlt) e, chissà, forse avrebbe accolto con entusiasmo il «plagio come forza motrice» (16) prospettato da Alberto Laiseca in Per favore, plagiatemi!. Ma se Laiseca si allontana dalla tradizione argentina (una tradizione recente, non bisogna dimenticarlo), Castillo ne fa la sua rampa di lancio e riesce a essere originale grazie alle sue variazioni o alle sue sintesi, per tornare alla riflessione di Piglia. Nelle sue mani la tradizione diventa «un libro insigne» che fornisce un materiale «capace di quasi inesauribili ripetizioni, versioni, perversioni» (17). In fondo, come ricorda Piglia in un articolo su Leónidas Lamborghini, «tutte le rotture sono possibili, se uno conosce la tradizione» (18).
Alcuni esempi? In Requiem per Marcial Palma lo scontro al coltello tra gauchos di Uomo della casa rosa degenera in una goffa scazzottata al suono di una grottesca tarantella; la vendetta della giovane moglie in Patrón proviene da un altro racconto borgesiano, Emma Zunz; Also sprach il signor Núñez è una felice contaminazione degli arltiani Il gobbetto, L’isola deserta, I sette pazzi e Saverio, il Crudele, per non parlare degli adolescenti che compaiono in La madre di Ernesto, nello scandaloso (per i benpensanti dell’epoca) Frocio, in Hernán, tutti parenti prossimi di Silvio Astier, memorabile io narrante di Il giocattolo rabbioso; Noche para el Negro Griffiths e Storia per un certo Gaido sono beffarde rivisitazioni dei cortazariani Il persecutore e Continuità dei parchi; il patetico Una stufa per Matías Goldoni dialoga con Roberto Mariani e il gruppo di Boedo. Castillo si dimostra sempre estremamente abile nell’inserire «l’imprevisto dentro parametri pre-visti» (19), e, bisogna sottolinearlo, non è mai scontato o cerebrale nelle riscritture, non vuole essere studiato da un pubblico di specialisti e non è un gelido citazionista o un assemblatore di materiali. I suoi racconti «rimangono come cicatrici indelebili nel corpo di ogni lettore che li meriti: sono creature viventi, organismi completi, cicli chiusi, e respirano» (20). Tornando al prolungato disinteresse dell’editoria nostrana nei confronti di Castillo, si potrebbe concludere, alterando lievemente una frase di Onetti, che “non sappiamo, per questo congetturiamo”. Quel che conta è che I mondi reali (2015) e Racconti crudeli (2023) permettono finalmente al lettore italiano di conoscere uno dei maestri del racconto ispanoamericano.


III. Abelardo, il Crudele. «Forse le storie che ho narrato sono una sola storia» (21)

Seguaci di Faulkner, Onetti e Saer concepiscono tutti o quasi tutti i loro libri come un unico romanzo suddiviso in tanti capitoli. Ognuno di questi capitoli è un organismo autosufficiente che rimanda al precedente o che anticipa il successivo. Pur non arrivando agli eccessi di Onetti e Saer – in entrambi le storie circolano da un’opera all’altra, si riducono, si espandono oppure si frammentano –, anche Castillo considera i suoi racconti parti di un «unico libro incessante» (22), perché perennemente in costruzione, intitolato I mondi reali. Potremmo azzardare che anche le altre sue opere siano parte del progetto: un capitolo di El que tiene sed vede la luce come racconto, i testi saggistici spesso contengono riflessioni su racconti oppure abbozzi di racconti. Questo libro incessante, pur mantenendo una «rara unità poetica» (23), è un edificio capace di assumere forme di volta in volta diverse (un conventillo, una “casa di cenere”, una caserma, un bordello…) e dotato di un numero imprecisato di stanze.
I racconti (i capitoli, le stanze, le “altre porte”) del volume che avete tra le mani sono stati sottoposti, nel corso degli anni, a continue riscritture. Invertendo un titolo borgesiano, potremmo dire che un racconto per Castillo è “lo stesso, l’altro”. Più che un’affannosa ricerca della perfezione, c’è da parte sua la serena accettazione dell’idea che ciò che scriviamo non solo è prescindibile, ma anche «modificabile e transitorio» (24). L’edificio trova una prima forma definitiva nel 1997 con la pubblicazione di Cuentos completos, edizione di riferimento per la traduzione italiana. Uno dei primi piani dell’edificio è rappresentato da Racconti crudeli (Cuentos crueles), «l’unica raccolta totalmente realista di Castillo», osserva giustamente Elisa Montanelli, un’opera in cui «ogni racconto è un ritratto a tinte forti della società di quegli anni, dove i personaggi sono prototipi di un mondo che ha fatto dell’umiliazione, del disprezzo, dello sfruttamento e della solitudine le norme del vivere quotidiano» (25). Il titolo è accattivante. La crudeltà di Castillo non è quella innocente di Silvina Ocampo, né quella estrema, quasi fantastica, di Osvaldo Lamborghini e Marcelo Fox, o quella comica e delirante di Laiseca. Spesso è la crudeltà quotidiana (si pensi alle storie che hanno per protagonisti bambini o adolescenti), a volte è una crudeltà arltiana o artaudiana che serve a risvegliare le coscienze e a far cadere le maschere (Also sprach il signor Núñez), altre il disperato tentativo di proteggere «una zona personale inviolabile» oppure «uno strumento di trasgressione liberatrice» (26) (come nel notevole Il candelabro d’argento, in cui un povero diavolo commette un omicidio per restituire dignità alla propria vittima), altre ancora è la crudeltà del potere (Uomo forte), della storia (Maccabeo, tra Sartre e Cortázar, forse uno dei primi esempi di “Letteratura nazista in America”) o di un presente che non lascia presagire niente di buono. Per quanto densi di riferimenti letterari, i racconti di Castillo sono anche saldamente inseriti nel mondo reale. Se Las otras puertas (1961) era variegato, Cuentos crueles (1966) – lo dichiara Castillo in un prologo scritto nel 1981, ovvero in piena dittatura – vanta una maggiore unità tematica; da qui la preponderanza che in questo libro ha la violenza. «O forse» continua Castillo «c’è un’altra spiegazione. Cuentos crueles fu scritto fra il 1962 e il 1966, cioè, nei pieni anni Sessanta, anni che non furono il tempo dorato e irresponsabile che taluni immaginano, ma il preludio di altri anni atroci e violenti che seguirono e nei quali ancora viviamo. Io non so in che modo i miei racconti testimonino quei giorni, che sono anche questi: so che in qualche modo li testimoniano. So che si addicono non solo in alcuni casi per il loro argomento, ma anche per l’esasperazione del loro tono, a questo periodo turbolento in cui la violenza, il sesso, la politica, la crudeltà, la nascita e la quasi simultanea morte delle illusioni furono, per la nostra generazione, non meri temi letterari, ma l’ambito dove alcuni uomini, che eravamo noi, vissero, amarono, credettero, tradirono, furono traditi e scrissero» (27).
Prezioso per capire la genesi dei racconti, questo passo non deve indurci a enfatizzarne il carattere testimoniale, dal momento che «spesso, sempre,» ci ricorda Castillo «lo scrittore deve mentire per essere vero» (28). Il maggior pregio di Racconti crudeli è quello di ricordarci o di farci «scoprire una verità triviale: scrivere un racconto è l’arte di raccontare una storia nell’unico modo possibile» (29).

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1 M. Costa, Entrevista con Ricardo Piglia, in «Hispamérica», n. 44, Gaithesburg 1986, p. 42. Dove non diversamente indicato, la traduzione è mia.
2 J.L. Borges, Il Sud, in Finzioni, a cura di A. Melis, Adelphi, Milano 2022, p. 154.
3 A. Castillo, Diarios (1954-1991), Penguin Random House Grupo Editorial Argentina, Buenos Aires 2014, DOI: 2080/2081 [ePub], (ultima consultazione: 20 settembre 2023). Un breve accenno al rapporto burrascoso tra Castillo e Sabato: da ragazzo Castillo aveva ammirato El uno y el universo, Hombres y engranajes e Il tunnel e qualche anno più tardi aveva stretto amicizia con il loro autore. La brusca rottura si consuma negli anni Settanta e diventa insanabile dopo la pubblicazione di L’angelo dell’abisso (1974). Infatti, in un episodio di quel romanzo, Sabato ironizza su un collaboratore della rivista di Castillo «El escarabajo de oro».
4 Secondo Castillo: «Ogni scrittore deve crearsi una famiglia letteraria». Si veda L. Villanueva, Abelardo Castillo. La invención de los talleres literarios, in Maestros de la escritura, Ediciones Godot, Buenos Aires 2022, p. 20.
5 J.J. Saer, Tradición y cambio en el Río de la Plata, in La narración-objeto, Seix Barral, Buenos Aires 1999, p. 104.
6 La citazione è tratta da S. Friera, La poesía es una recreación del mundo, tiene ese poder in «Página 12» (25 agosto 2010). Si legge on line all’indirizzo https://www.pagina12.com.ar/diario/suplementos/espectaculos/17-19064- 2010-08-25.html, (ultima consultazione: 20 settembre 2023). El castillo de la mezcolanza, o perfino El Castillo de la mezcolanza, si potrebbe dire modificando il titolo di un classico della cinematografia messicana, El castillo de la pureza (1973) di Arturo Ripstein, un film intriso di umori bunueliani in cui un uomo tiene rinchiusi per anni in casa la moglie e i figli per evitare che si corrompano a contatto con il mondo.
7 A. Castillo, Il Vangelo secondo Van Hutten, a cura di A. Ciabatti, Crocetti, Milano 2002.
8 In A. Castillo, Prólogo, Cuentos completos, Alfaguara, Buenos Aires 1997, p. 191. Evidente la vicinanza con Borges: «[…] i generi letterari dipendono, forse, meno dai testi che dal modo in cui i testi vengono letti». In J.L. Borges, Il racconto poliziesco, in Oral, trad. di Angelo Morino, Editori riuniti, Roma 1981, p. 50.
9 A. Castillo, Diarios (1954-1991), cit., DOI: 1570
10 In L. Villanueva, Maestros de la escritura, cit., p. 23.
11 M. Levrero, Lascia fare a me, trad. di E, Tramontin, la nuova frontiera, Roma 2018, p. 17.
12 A. Castillo, Diarios (1954-1991), cit. Di recente l’editoria italiana si sta interessando maggiormente alle raccolte di racconti ispanoamericani, come testimoniano le pubblicazioni di autrici contemporanee quali Mariana Enríquez, Samanta Schweblin, Fernanda Ampuero, Giovanna Rivero o la scoperta di Alberto Laiseca, Francisco Tario, Amparo Dávila, Roberto Fontanarrosa, Angélica Gorodischer, Hebe Uhart, per esempio. Tuttavia resta ancora molto da fare (Palo y hueso di Saer, i Cuentos completos di Armonía Somers, di Ezequiel Martínez Estrada e di Levrero, per limitarci a pochi titoli).
13 A. Castillo, Il ritorno, in Racconti crudeli, trad. di E. Montanelli, Del Vecchio Editore, Bracciano 2023, p. 107.
14 L. Lamborghini, Un amor como pocos, Editores argentinos, Buenos Aires 2020, DOI: 784 [ePub], (ultima consultazione: 20 settembre 2023).
15 J.L. Borges, Notas. Macedonio Fernández (1874-1952), in En Sur 1931- 1980, a cura di S.L. del Carril e M.R. de Socchi, Emecé, Buenos Aires 1999, p. 306.
16 A. Laiseca, Per favore, plagiatemi!, trad. di L. Tassi, a cura di F. Arnoldi, L. Mignola e A. Zucchi, Wojtek Edizioni, Pomigliano d’Arco 2023, p. 14. Sul plagio e sullo scrittore come parassita, si veda A. Pauls, Seconda mano in Il fattore Borges, trad. di M. Nicola, Sur, Roma 2016. Sempre sul plagio, è il caso di riportare un passaggio di La Folie Baudelaire: «Tutta la storia della letteratura – quella storia segreta che nessuno sarà mai in grado di descrivere se non parzialmente, perché gli scrittori sono troppo abili nel celarsi – può essere vista come una sinuosa ghirlanda di plagi. Intendendo non quelli funzionali, dovuti a fretta e pigrizia, come quelli operati da Stendhal su Lanzi; ma gli altri, fondati sull’ammirazione e su un processo di assimilazione fisiologica che è uno dei misteri più protetti della letteratura». R. Calasso, L’oscurità naturale delle cose, in La Folie Baudelaire, Adelphi, Milano 2008, p. 20.
17 J.L. Borges, Biografia di Tadeo Isidoro Cruz, trad. di F. Tentori Montalto, in Tutte le opere. Volume primo, a cura di D. Porzio, Meridiani Mondadori, Milano 1985, p. 809.
18 È possibile leggere Leónidas Lamborghini di Ricardo Piglia nel blog Calibán a questo indirizzo: https://elcaliban.blogspot.com/2021/06/leonidas-lamborghini-por-ricardo-piglia.html. Data di ultima consultazione: 20/9/2023.
19 J. Cortázar, Del racconto breve e dintorni, in Ultimo round, trad. di E. Mogavero, Roma 2018, p. 52.
20 Ivi.
21 J.L. Borges, Storia del guerriero e della prigioniera, in L’Aleph, trad. di F. Tentori Montalto, a cura di T. Scarano, Adelphi, Milano 1998, p.46.
22 A. Castillo, I mondi reali, trad. di E. Montanelli, Del Vecchio Editore, Bracciano 2015, p. 8.
23 M. Morello-Frosch, Prólogo, in A. Castillo, Cuentos completos, cit., p. 6.
24 Lo afferma lo stesso Castillo nel libro di Villanueva. E poco dopo aggiunge: «Sto sempre riscrivendo. Non si finisce mai di correggere un testo». In L. Villanueva, Maestros de la escritura, cit, pp.
25 e ss. 25 Lo ricorda Montanelli nella sua bella postfazione ad A. Castillo, I mondi reali, cit.
26 M. Morello-Frosch, Prólogo, cit., p. 6. Morello-Frosch si sofferma anche sull’unione di tenerezza e crudeltà di alcuni racconti.
27 A. Castillo, Postfazione, in Racconti crudeli, cit., p. 261.
28 L. Villanueva, Maestros de la escritura, cit., pp. 25 e ss.
29 A. Castillo, Horacio Quiroga, in Ensayos reunidos, Seix Barral, Buenos Aires 2023, DOI: 3642. [ePub], (ultima consultazione: 20 settembre 2023).

Cronache dell'altrove, di Herbert George Wells

Mattioli 1885 porta in libreria Cronache dell’altrove, di H.G. Wells, tradotto da Francesca Cosi e Alessandra Repossi. Dieci racconti, in parte mai tradotti prima, pubblicati da H. G. Wells tra la fine del xix e gli inizi del xx secolo, che spaziano dall’horror al tono umoristico. Presentati in ordine di pubblicazione, questi testi forniscono ai lettori una panoramica sull’opera di Wells e sul suo percorso personale.

Cattedrale vi propone un estratto della postfazione al libro di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, per gentile concessione dell’editore.

I tanti mondi di H.G. Wells
di Francesca Cosi e Alessandra Repossi

Herbert George Wells nacque il 21 settembre 1866 a Bromley, nel Kent, da una famiglia né abbiente né colta: il padre era giardiniere e in seguito aprì, senza fortuna, un negozio di porcellane arrotondando le entrate con il gioco del cricket, mentre la madre lavorava come domestica a Uppark, nella residenza di campagna di una famiglia benestante. Nel pieno dell’età vittoriana, la società inglese era strutturata in modo rigido, quindi le prospettive per il giovane H.G. non erano particolarmente brillanti, meno che mai quando il padre si fratturò una gamba e non fu più in grado di giocare a cricket per mantenere la famiglia. A quel punto il futuro scrittore, all’epoca quattordicenne, dovette lasciare la scuola e iniziare a lavorare per contribuire alle spese di casa: venne perciò avviato al mestiere di venditore di stoffe, che la madre considerava molto meritevole, ma che a lui risultò via via sempre più insopportabile.
Nel frattempo, continuò a studiare da autodidatta sperando di migliorare la propria posizione e già nel 1881 aveva acquisito buone conoscenze della lingua latina che in seguito gli sarebbero risultate utili: nel 1883 giunse in fatti alla conclusione di non essere adatto a vendere tessuti, quindi pregò i genitori di lasciarlo tornare a scuola, grazie a un impiego di tutor che si era guadagnato presso la Grammar School di Midhurst per via della sua padronanza del latino. A Midhurst poté quindi proseguire la carriera scolastica mantenendosi al tempo stesso e con gli ottimi risultati scolastici conseguiti si guadagnò una borsa di studio per la Normal School of Science di South Kensington (Londra). Qui, dal 1884 al 1887, studiò biologia con Thomas Huxley, fisica e geologia, costruendosi una solida prepara zione scientifica. Fu in quel periodo che fondò lo Science Schools Journal, la rivista studentesca sulla quale iniziò a pubblicare i propri testi, tra cui il racconto Visioni del passato incluso nella presente raccolta.
In quel periodo decise che avrebbe consacrato la propria vita alla scrittura, ma all’inizio per farlo si sarebbe dovuto mantenere con l’insegnamento; perciò, nel 1888 accettò un incarico da docente alla Holt Academy di Wrexham, nel Galles, che però dovette lasciare quando subì un fallo violento durante una partita di calcio riportando una grave lesione a un rene.
Trascorse la lunga convalescenza leggendo moltissimo (in particolare Carlyle, Emerson, Hawthorne, Stevenson e Whitman) e scrivendo almeno cinque short stories e tre abbozzi di romanzi, tra cui Gli argonauti del tempo (la prima versione a puntate di quello che poi sarebbe diventato La macchina del tempo) e il racconto Walcote presente in questa raccolta, che videro entrambi la luce sullo Science Schools Journal.
Nel 1889, dopo aver recuperato le forze, tornò a Londra per insegnare alla Henley House School mentre completava il suo Bachelor of Science alla University of London, dove si sarebbe laureato in Zoologia l’anno seguente: gli studi scientifici avrebbero in seguito costituito la fonte di molti racconti e romanzi con i quali sarebbe diventato famoso gettando le basi di un genere che stava per sbocciare: la fantascienza contemporanea, che ancora non aveva un nome e che lui definiva ‘romanzo scientifico’ oppure ‘fantasticheria sul possibile’.
Il 1891 fu l’anno del suo matrimonio con la cugina Isabel Wells, unione infelice fin dagli inizi, visto che appena tre anni dopo H.G. fuggì con una sua studentessa, Amy Catherine Robbins. L’avrebbe sposata nel 1895 e sarebbe rimasto con lei fino al 1927, anno in cui la donna morì, pur coltivando nel frattempo rapporti con altre (tra cui la scrittrice Rebecca West, dalla quale ebbe un figlio nel 1914). Nell’arco di tempo fra i due matrimoni, Wells continuò con scarso successo a inviare i suoi testi a giornali e riviste mentre si manteneva con il lavoro di insegnante, ma nel 1893 la sua carriera di docente si interruppe a causa di un altro crollo fisico: aveva iniziato a tossire sangue.
Urgeva il riposo, e fu proprio durante la convalescenza a Eastbourne che Wells lesse When a Man’s Single di J.M. Barrie, un resoconto dei suoi esordi come giornalista. Nel testo lo scrittore incitava i giovani cronisti a evitare gli ar gomenti troppo seri che invece tendevano a voler affrontare, e a scrivere di soggetti e temi quotidiani. Fu così che Wells capì di aver mirato troppo in alto con i suoi articoli di taglio scientifico che venivano quasi sempre rifiutati dai giornali e si mise a scrivere un pezzo umoristico sulle persone che vedeva in spiaggia: l’articolo venne pubblicato dalla Pall Mall Gazette nel 1893 e la redazione lo pregò di scriverne altri simili. Fu così che divenne un collaboratore fisso e si ritrovò a guadagnare molto più di quando era insegnante: ormai poteva dedicarsi solo alla scrittura.
Nel 1894, un redattore del Pall Mall Budget (il settimanale della Gazette) ebbe un’intuizione geniale: grazie alle sue vaste conoscenze scientifiche, Wells avrebbe potuto scrivere racconti nei quali rielaborava queste ultime per costruire trame fantastiche. Fu subito un successo e quell’anno lo scrittore pubblicò ben diciannove short stories a tema per lo più fantascientifico che da allora sono state continuamente ristampate in tutto il mondo, seguite da una seconda raccolta di altri diciassette racconti uscita nel 1897. In parallelo giunse alla stesura definitiva di alcuni dei suoi romanzi più celebri in questo ambito: La macchina del tempo fu pubblicato nel 1895, L’isola del dottor Moreau nel 1896, L’uomo invisibile nel 1897 e La guerra dei mondi nel 1898. Via via che si concentrava sui romanzi, che considerava «il materiale consono al lavoro quotidiano, la distillazione metodica e attenta di pensieri, sentimenti, esperienze e impressioni», abbandonò i racconti: la produzione di questi ultimi andò infatti calando progressivamente dal 1894 al 1899 e passò dai diciannove citati sopra a due soltanto nell’ultimo anno. È però significativo che Wells non smise mai di dedicarvisi per tutta la vita, sebbene lo facesse sempre più raramente: l’ultimo, Risposta a una preghiera (inserito nel presente volume), fu scritto nel 1937.
Con l’inizio del nuovo secolo, Wells iniziò a farsi una reputazione non solo come scrittore di narrativa, ma anche come sociologo e visionario in grado di predire dove stesse andando il mondo, sia grazie alla scienza sia alla politica: tra le sue pubblicazioni presero infatti a comparire saggi di taglio analitico e utopico nei quali da un lato studiava i problemi sociali più urgenti elaborando soluzioni, dall’altro sosteneva il socialismo e, fra le varie idee innovative, la creazione di uno Stato mondiale che avrebbe garantito pace e giustizia a tutti i suoi abitanti (Stato che si intravede anche nelle pagine del racconto La strana storia del giornale di Brownlow qui riportato).
La sua produzione divenne così ancora più variegata, arrivando a comprendere alla sua morte, avvenuta nel 1946, più di novanta racconti (variamente combinati in una trentina di raccolte), oltre cinquanta romanzi e una sessantina di saggi a tema sociologico, storico, scientifico, politico, teologico, biografico e autobiografico. La parte più nota della sua produzione, ossia i romanzi e i racconti che lo imposero al mondo come grande autore di fantascienza, è quella pubblicata entro gli inizi del Novecento, prima di compiere i quarant’anni, mentre la vasta produzione saggistica, poco nota in Italia anche perché quasi per niente tradotta, è tutta concentrata nella seconda metà della sua vita.

I racconti inseriti in questa raccolta erano finora tutti inediti in italiano e la loro selezione è frutto di lunghe ricerche: furono infatti inizialmente pubblicati da Wells su varie riviste, come si usava all’epoca, e in seguito sono ‘sfuggiti’ alle diverse raccolte realizzate nel corso della sua vita. Si tratta quindi di testi poco noti anche al pubblico di lingua inglese, e il criterio con cui li abbiamo selezionati è stato l’appartenenza al genere fantastico in senso lato.
A questo proposito bisogna dire che, nel tempo, molti studiosi hanno cercato di categorizzare le short stories dell’autore suddividendole per temi e generi, ma come ha affermato Ursula K. Le Guin, che ne ha curato una raccolta, il compito è difficile perché «Wells è uno scrittore sfuggente». E, in effetti, leggendo questi racconti sembra proprio così: la varietà di argomenti e materie di cui si è occupato nel corso della vita, per di più con una varietà di stili e approcci, si riflette anche nei suoi testi brevi, complicando ogni tentativo di categorizzazione.
Quella che però si può notare leggendo in ordine cronologico i racconti di questa raccolta è una cesura fra le sette short stories pubblicate entro la fine dell’Ottocento e le altre tre, che risalgono rispettiva mente al 1915, 1932 e 1937.
Nelle prime, infatti, lo scrittore presenta un fatto misterioso e, dopo averlo affrontato in stile horror (Walcote, La cosa al numero 7, La presenza accanto al caminetto) o in altri casi in tono umoristico (Il doppelgänger di Mr Marshall), fornisce ai lettori una soluzione basata sulla logica: la persona trovata morta al numero 7 non è stata affatto uccisa dagli spettri in una notte particolarmente tempestosa, la voce che si ode nella stanza rischiarata a malapena dai candelabri e ornata da una statua demoniaca non è certo quella di un defunto. Tutto ha una spiegazione perfettamente sensata e Wells ce la rivela con maestria.
Non a caso questi racconti sono stati scritti proprio ne gli anni in cui l’autore svolgeva o aveva terminato da poco gli studi scientifici (conclusi nel 1889), anni in cui aveva assorbito la teoria dell’evoluzione (alla quale accenna nel racconto Visioni del passato, qui inserito) e lo spirito critico della ricerca scientifica. In quella fase pare che, da un lato, fosse fortemente attratto dal mistero, ma al tempo stesso, dall’altro, non volesse fermarsi alle spiegazioni soprannaturali: ognuno di questi racconti è sotteso dal tentativo di districare la concatenazione logica di cause ed effetti che hanno prodotto la situazione misteriosa fino a chiarirla riportandola su un piano razionale, come vedremo analizzandoli uno per uno.
Si parte da una delle primissime storie che Wells riuscì a pubblicare agli esordi, Visioni del passato, che vide la luce nel 1887 sotto lo pseudonimo di Sosthenes Smith: l’autore aveva allora ventun anni e forse non si sentiva ancora padrone della propria arte, tanto da scegliere di firmarsi con un nome fittizio. In questa short story dai toni leggeri attacca la nozione di antropocentrismo dimostrando come l’Homo Sapiens non sia affatto il punto di arrivo dell’evoluzione, ma un caso fortuito della storia naturale: al suo posto avrebbero benissimo potuto esserci i rozzi bestioni con tre occhi incontrati dal protagonista del racconto, convinti di essere «l’apice della vita, gli esseri più nobili che siano mai esistiti o che mai esisteranno» (p. 134), così come ne erano e ne sono convinti ancora oggi tanti esseri umani. Secondo Wells, invece, la terra non è affatto amorevole e accogliente per la nostra specie, ma nel peggiore dei casi ostile e nel migliore indifferente, cosa che avrebbe pensato fino alla fine: «non c’è alcuna ragione di credere che l’ordine della natura sia più favorevole all’uomo di quanto lo fosse all’ittiosauro o allo pterodattilo», scrisse nel 1939 in The Fate of Homo Sapiens.
Con Walcote, del 1888-89, e La cosa al numero 7, del 1894, lo scrittore cambia invece completamente registro: questi racconti richiamano infatti le atmosfere horror di Edgar Allan Poe, creando ambientazioni tenebrose, con tanto di statue di satana e satiri che paiono muoversi nell’ombra e case buie che nascondono scene orripilanti. Ma le similitudini con l’autore americano e con il genere horror sono soltanto esteriori: i misteri non hanno poi le spiegazioni soprannaturali che ci si potrebbero aspettare e Wells mostra di sapersi distaccare abilmente dal genere per prendere direzioni inattese, che prediligono la razionalità.

Il geranio e altre storie, di Flannery O'Connor

Minimum fax porta in libreria Il geranio e altre storie, tradotto da Gaja Cenciarelli. Il libro rappresenta la summa ideale dei suoi temi: l’irruzione del numinoso nella vita quotidiana, la povertà di spirito e quella materiale, il razzismo e l’intolleranza, la grandezza e la miseria di un Sud insieme nobile e senza riscatto.

Cattedrale vi propone la prefazione al libro a cura di Romana Petri, per gentile concessione dell’editore.


Romana Petri

Non mi stupirei se scoprissi che il Nobel portoghese, José Saramago, avesse letto «Il geranio» di Flannery O’Connor prima di scrivere La caverna. In fondo si tratta di due vecchi che avevano la loro vita lontano dalla città, e che le loro figlie hanno sradicato per portarli a vivere all’inferno. Nel primo caso, in uno di quegli appartamenti un po’ periferici fatti di tanti piani e tanti lunghissimi corridoi con una porta dietro l’altra, nel secondo, addirittura in una casa dentro un centro commerciale. Un vecchio, in questi casi, su qualcosa deve fissarsi, e quello di O’Connor sceglie un vaso di geranio che non è nemmeno suo. Sta sul davanzale di una finestra di fronte. Quella pianta racchiude il suo passato, diventa il suo passato. Dunque tutto. La vecchiaia può essere fragile come un vaso di coccio. E i figli che scelgono, di certo in buona fede, per i loro anziani genitori, possono commettere danni pericolosi. Non è normale guardare tutto il giorno un geranio. E non è normale sentirsi morire quando un colpo di vento lo fa cadere e laggiù, nel cortile, non ne restano che le radici a spuntare dalla terra. Ma non lo è per i figli; lo è invece per quei vecchi che sono stati trascinati via da una stabilità mentale. Si pensa sempre che per un anziano l’assistenza sia tutto.
O’Connor sa che gli occhi ci vedono male, e che l’entrata migliore, per vederci chiaro, è sempre quella del cuore. O’Connor diceva: «Chi non conosce tutte le cose non può essere ateo. Solo Dio è ateo. Il diavolo è il più grande credente e ha le sue ragioni». Come darle torto. In chi dovrebbe credere Dio, in se stesso? Il diavolo, invece (secondo John Milton un’invenzione di Dio), è talmente credente da essere diventato l’avversario del Bene. Ma tra i due può esserci collaborazione. Chi finisce nella famosa «terra del diavolo» ha spesso più possibilità di riconoscere la grazia rispetto a chi non si è mai perso. Dio, in genere, preferisce i reietti, i miscredenti, se non addirittura gli assassini (se pensiamo al Balordo del racconto «Un brav’uomo è difficile da trovare»). I più arditi del male si lasciano tentare, seguono l’aria peggiore usmando, e quando si trovano nel territorio del diavolo, all’inizio nemmeno se ne accorgono. Sarà quando cominceranno a vedere l’invisibile, quando avranno la sensazione di udire un richiamo repellente e attraente insieme. Lo sentono, ma lo rifiutano, come Haze, protagonista dello straordinario racconto «Il pelapatate» che poi, rivisto con la meticolosità tipica della scrittrice americana, diventerà il terzo capitolo del suo primo romanzo: La saggezza nel sangue. Nel racconto, intuita la possibilità della grazia (che non è mai un favore, semmai una necessaria dannazione), Haze si limita a camminare con dei sassi dentro le scarpe per punire la sua presunzione. Nel romanzo sceglierà ben altro. Perché la grazia, tutto sta nell’accettarla, e poi si entra nel dramma per sempre. I prescelti, si sa, sono tali per soffrire, per dare e darsi, per sacrificarsi. Insomma, per fare nel loro piccolo quello che il Figlio di Dio ha fatto per noi. La grazia è dunque un dono doloroso, difficile da accettare essendo uomini di questo mondo. Del resto, per avvicinarsi al Cristo che si è fatto uomo, e dunque essere meno Dio per comprenderci meglio, l’uomo dovrà fare lo sforzo di essere un po’ meno uomo per avvicinarsi al Signore ed esserne degno.
A Flannery O’Connor capita spesso di scrivere dei racconti che poi diventeranno capitoli di un romanzo. E non è nemmeno difficile accorgersene, perché finiscono lasciando al lettore molte possibilità per proseguire da solo, se davvero si è lasciato suggestionare dalla scrittura incendiaria dell’autrice, oppure con la certezza che sarà lei stessa prima o poi a rimetterci le mani. O’Connor diceva che scrivere romanzi era un impegno arduo e doloroso. Una vera sofferenza. In realtà era la sua malattia a renderle il percorso difficile, quel lupus eritematoso che scoperse di avere giovanissima e che aveva già ucciso suo padre Ed. L’unico della famiglia che aveva intuito il potenziale di quella ragazzina formidabile, diversa da tutte le altre. Il lupus era all’epoca una malattia molto debilitante e che portava alla morte. C’erano giorni in cui la scrittrice faceva fatica anche a battere a macchina, le sembrava che i tasti opponessero una forte resistenza. Era per questa ragione che considerava i romanzi una sfida, non certo per mancanza di fiato creativo.
Qualche volta, soprattutto quando era sotto l’effetto dopante del cortisone (e lo era purtroppo spesso), le idee non le davano pace nemmeno di notte. Davanti ai suoi occhi di un azzurro profondo, molto scuro, che puntava su un soffitto nero, devono esserle sfilate davanti storie meravigliose che poi, di giorno, non riusciva a rimettere insieme. La mente galoppava ben più veloce delle sue piccole mani. È per questo che per ben due volte ha riesumato qualche suo racconto nel quale sentiva che l’incompiuto prometteva moltissimo. E non sbagliandosi, dato che ne sono venuti fuori La saggezza nel sangue e Il cielo è dei violenti. Titoli biblici e apocalittici, che già racchiudono il suo cattolicesimo ortodosso nemico di ogni perbenismo e bigottismo Quando era già molto malata e sapeva che il tempo a lei concesso si stava accorciando, ha accarezzato l’idea di scrivere un romanzo (ci metteva sempre cinque anni) tratto dal racconto «Amore e rabbia». Non si fa fatica a crederle e a rimpiangere che questa immensa autrice non abbia avuto il tempo per farlo, perché c’erano tutti i temi a lei cari. Un padre un po’ despota che ha un colpo apoplettico, una madre generalessa che solo perché donna si rifiuta di prendere il comando della casa, e Walter, il figlio designato, che invece si crogiola in lunghe, teologiche e filosofiche letture che sua madre ritiene inutili. È nel finale che si sente la necessaria nascita del romanzo, quando andando a sfogliare a caso un libro di suo figlio, la madre legge di un re con una spada che gli spunta dalla bocca e che rade al suolo tutto quello che trova sulla sua strada. Allora, in un soprassalto, solo ripensando a quelle parole, si rende conto che quel re è Gesù, lo stesso che non è venuto a portarci la pace, bensì la spada, e che ci esorta a lasciare l’ombra in favore della luce. È sempre una questione di grazia che ci viene offerta quando ci smarriamo, e accettarla è una sfida travolgente. Il più delle volte, però, chi riceve la «chiamata» sa che non potrà tirarsi indietro. Nasce così quella lunga lotta che porterà alla dolorosa accettazione. Pensiamo a Haze che voleva predicare una religione senza Cristo, e ricordiamo la risposta di Flannery a una cena durante la quale è stata sempre muta; quando però ha sentito la padrona di casa dire che l’eucarestia era ormai solo un simbolo, rischiando di essere blasfema le ha risposto che personalmente di un simbolo non sapeva cosa farsene. Per lei la religione, la vera fede significava credere ciecamente nell’eucarestia, a quel miracolo che si riproduceva ogni volta durante la messa, e cioè che il figlio si era fatto uomo diventando per noi di carne, sangue e ossa.
Ma la O’Connor, proprio a dispetto di ogni retorica bigotta, era anche una cattolica ortodossa progressista, e lo esprime con chiarezza e dolore nel racconto «Il barbiere». Qui il tema sul quale dobbiamo ragionare è che i bifolchi hanno sempre la meglio su chi ha studiato. Se lo mangiano proprio in insalata, perché chi ha studiato conosce il dubbio. Il bifolco mai. E così, parlando di certe votazioni e del candidato da scegliere, il povero cliente uscirà sbeffeggiato. Le sue idee progressiste fanno ridere. Che farà allora il pover’uomo? Si scriverà una specie di relazione che farà leggere a una distratta e disinteressata moglie, per poi tornare trionfante dal barbiere e dai suoi bifolchi clienti, che della conversazione precedente si erano addirittura dimenticati. Sarà lui a ricordarla, e a leggere quelle parole in modo stentato, così trascinato dalla timidezza che tutti rideranno di lui.
Chi ha cervello sembra non avere molta fortuna nei racconti di O’Connor. Perché averne significa essere diversi dalla massa. E i numeri contano, i numeri possono far apparire un uomo di buon senso un perfetto idiota agli occhi degli altri. La vera difficoltà sarà dimostrare il contrario.
In «La Festa delle azalee», per esempio, la O’Connor me la immagino con arco e frecce per scrivere quell’impeccabile racconto sulla idiozia umana. E questa volta non salva nessuno. C’è un paese che ha il suo momento di gloria durante la Festa delle azalee, sembra non coltivino altro e pretendono che tutti comprino il distintivo. Be’, una sciocchezza. Che potrà mai succedere a chi si rifiuta? Dipende da chi è: se è uno che ha fama di mezzo matto può accadergli di tutto, anche che lo chiudano in una prigione improvvisata e sporca in compagnia di una capra. E che lì dentro lo tengano giorni e giorni, per tirarlo fuori a loro comodo. Non esiste il loro comodo senza rischi. Quell’uomo era già disturbato di suo, e cosa fa? Torna in tribunale con un fucile e ne fa secchi sei. Poi va in una prigione psichiatrica senza muovere un muscolo.
Nel paesotto, però, arriva il nipote di due anziane signore che lo vezzeggiano come fosse ancora un bimbetto. Ha le sue idee, è convinto che il mezzo matto abbia ragione e chi gli dà manforte è una vicina di casa, una ragazza bella e snob. Quell’uomo ha agito così perché è un santo. Forse è addirittura Cristo. Lo devono salvare. Ma non si tratta di farlo evadere. Lui è uno scrittore e lei una saggista, scriveranno qualcosa che lo riabiliterà. La gente del paese dovrà vergognarsi di quello che gli ha fatto. Non si tratta così un uomo. E poi si meravigliano pure che sia tornato a fare una strage? Era il minimo. Non hanno scelta, lo devono conoscere a tutti i costi. Ci andranno con la macchina di lei, si faranno passare per dei suoi parenti. Quell’uomo, quel Cristo d’uomo va salvato. Al lettore giudicare un finale davvero elettrizzante. Era un Cristo o un semplice pazzo? Ma i semplici pazzi non hanno molte possibilità di trovarsi lì, sul nostro cammino, proprio in nome di Cristo?

Flannery O’Connor vive nel ranch di sua madre, Andalusia, quasi come una reclusa. Non mancano però le volte che parte da sola per qualche convegno con le sue stampelle metalliche e scintillanti, lasciando sua madre, Regina Cline, in apnea fino al suo ritorno. C’è un rapporto complesso tra quelle due donne costrette dalla malattia a vivere sotto lo stesso tetto. Si vogliono bene, la madre la cura con tutte le attenzioni, ma sono diverse. Basti pensare che quando Flannery le dà qualcosa di suo da leggere, il più delle volte la trova con i fogli in grembo: addormentata. Quando le viene chiesto cosa la fa addormentare, in genere risponde che fa fatica a seguire, non ci capisce molto. E poi non le piacciono tutti quei balordi che ci mette dentro. «In casa nostra di certo non ne hai mai visti».
Flannery si limita ad alzare gli occhi al cielo, non vista. Ha tanti amici che le scrivono, che vanno a trovarla per parlare della sua letteratura. Ma le manca il conforto di casa, quello che avrebbe avuto di certo se suo padre non fosse morto così presto. Si consola con i polli e i pavoni (ne avrà anche ottanta), e quando torna dai suoi viaggi le piace dire che non vede l’ora di chiudersi con loro nel pollaio per dare da mangiare a chi non sa che fa la scrittrice.
Spesso li dipinge, e sua madre li appende con gioia in casa. «Se smettessi di scrivere quelle strane cose e ti dedicassi solo alla pittura. Una pittura che da queste parti tutti capiscono. Chissà quanti quadri venderesti».
La O’Connor ci patisce, ma fino a un certo punto. È grata a quel donnone che la facilita in tutto: non importa che non capisca quel che scrive. L’importante è che faccia di tutto per lasciarglielo fare al meglio.
Quando la zia foraggerà il loro viaggio a Lourdes, a Flannery viene quasi l’orticaria. Lei a queste cose da pagani non crede affatto. Ma la povera zia ha pagato tutto. Ci deve proprio andare. Ma al momento di dover entrare in quelle acque che le fanno anche un po’ orrore perché secondo lei sporche e infette, si dimentica di chiedere a Dio di farla guarire. Gli chiede invece solo di farla essere una brava scrittrice. Di darle il tempo di finire il suo romanzo. In molti potrebbero stupirsi. Non di certo chi la conosce a fondo. Flannery considerava la malattia il più bel viaggio che si potesse fare prima di morire. L’unica forma di conoscenza che ci viene concessa in vita, insomma un privilegio.
Quando nelle prime ore del 3 agosto del 1964 è mancata in ospedale, il giorno prima era riuscita a mandare le bozze della sua ultima raccolta di racconti all’editore.
Il giorno dei suoi funerali non c’era molta gente. I suoi più cari amici vivevano lontani. Questa donna che non ha mai avuto un amore, che si è innamorata senza mai essere ricambiata e che alla fine si è rassegnata a una vita senza la tanto desiderata passione, non si è nemmeno mai vergognata di scriverlo nei suoi diari. Lo ha ammesso: aveva pensieri erotici. Spesso, in concomitanza a quegli eccessi, mangiava anche parecchi dolci. A questa straordinaria donna, a questa campionessa di un immenso atletismo letterario, non restò altro che la madre. Quella che si addormentava mentre leggeva le sue cose. Ma quel giorno, mentre Regina Cline riceveva le condoglianze, non faceva altro che ripetere che sua figlia Flannery O’Connor era stata una delle più grandi scrittrici d’America.
Si era ricreduta? Si sarebbe ricreduta in seguito? La realtà è che senza quel soldato accanto, Flannery sarebbe vissuta molto meno. Regina Cline aveva fatto il suo miracolo. Anche quello di accettare proprio quel giorno, e per la prima volta, il nome che Flannery aveva scelto per sé. Non quel Mary Flannery con il quale l’aveva chiamata tutta la vita. Ma quel Flannery che andava bene per un uomo come per una donna. Perché, amara realtà, fin dall’inizio era consapevole che se qualcuno doveva comprare un suo libro, avrebbe preferito farlo sapendo che a scriverlo era stato un uomo. Al dolore di essere malata e di essere donna, ha dovuto spesso aggiungere gli scherni dei giornalisti che la definivano una zitella storpia che viveva con la madre perché non indipendente. Amore e rabbia hanno dominato la sua vita. L’amore le ha fatto accettare la grazia, a qualunque prezzo. Ma la rabbia l’ha tenuta in piedi fino all’ultimo. E lei non aveva dubbi, per amare ci voleva anche tanta, tantissima rabbia.

Le storie nascoste nelle pietre di Rick Bass

di Debora Lambruschini

Operare una selezione e scegliere un solo racconto de La vita delle rocce, la nuova raccolta di Rick Bass pubblicata da Mattioli, addentrarvisi nel tentativo di sondarne i misteri della scrittura, le dinamiche interne, i rimandi, gli spunti, risulta particolarmente difficile di fronte a queste tredici storie. Sceglierne una pare un tradimento nei confronti delle altre: perché proprio Cavalli selvaggi e non Il suo primo alce, perché L’albero blu o Una guida alcolica al Perù e al Cile? Ognuna di queste storie, nella traduzione di Silvia Lumaca che prosegue l’eccellente lavoro su Bass iniziato con Cane da petrolio, è in qualche modo rappresentativa: non solo della raccolta in questione, ma dell’autore stesso, della sua sensibilità, del suo sguardo. Dunque faccio una scelta che non è una scelta e ve ne propongo due, diverse tra loro e scollegate, nonostante in questa raccolta non manchino invece le occorrenze interne. E compio una scelta emotiva, selezionando due racconti che pur diversi e con nessun personaggio in comune sono però anche strettamente legati, da una serie di spunti, da una simile postura autoriale; e che maggiormente mi risuonano dentro a lettura ultimata e mi accompagneranno a lungo come credo faranno anche con altri lettori. Storie la cui trama si sfilaccerà nel tempo ma non l’eco del mistero che hanno tentato di penetrare, i frammenti delle vite che trovano voce e corpo sulla pagina, la lingua intrisa di realtà e lirismo che ne caratterizza la narrazione tutta e che qui sembra tendersi al suo massimo. Il mondo di Bass e l’esplorazione del rapporto tra uomo e natura ma anche tra l’uomo e la frenesia della società contemporanea, le sue contraddizioni, l’infanzia e la vita adulta. Se Cane da petrolio ben riassumeva la vita peregrina dell’autore tra Texas, Mississippi, Montana, i frequenti spostamenti come geologo petrolifero e l’attivismo ambientale degli ultimi decenni, La vita delle rocce è più ancorata a un certo paesaggio ideale – pur non essendo le storie ambientate tutte in un solo luogo – una natura spesso incontaminata e sospesa nel tempo fatta eccezione per pochi fugaci dettagli e più in generale lo spazio della provincia. Bass dà voce e corpo a un mondo di uomini e donne alle prese con un quotidiano che mette alla prova, tra brutalità e smisurata bellezza, coniugando cruda realtà e lirismo in un connubio perfetto. E di cui i racconti Capre e La vita delle rocce mi sono apparsi come le porte d’accesso ideali e in un certo senso esemplari della sensibilità di Bass, di questa raccolta, i temi e gli spunti che emergono, lo sguardo sul dettaglio, la peculiare capacità di osservazione: dell’ambiente, certo, ma soprattutto del cuore umano, la sua mutevolezza, i sentimenti profondi. Perché se è vero che i luoghi entro cui i personaggi di Bass si muovono vanno oltre la semplice ambientazione, l’interesse dell’autore è tutto e sempre puntato sulle persone, sulle loro storie. E sulla loro fragile umanità, sui rapporti.

In Capre e La vita delle rocce ricorrono quindi diverse tematiche e spunti che attraversano tutta la raccolta: la memoria, il sogno, la malattia, la brutale bellezza del quotidiano e il rapporto con la natura, il contrasto mondo rurale e città, la solitudine, il momento di passaggio tra l’infanzia e l’età adulta.
In entrambe realtà e lirismo della narrazione si muovono in accordo perfetto, in un connubio ideale tra storia e modo di raccontarla, ognuna con le sue peculiarità. Il sogno, una materia tanto difficile da rendere in narrativa, si intreccia al ricordo, la realtà alla veglia, e apre squarci su ciò che effettivamente stiamo leggendo.
Il tema della memoria è il fil rouge che più strettamente lega questi due racconti: in Capre è tanto ricordo di eventi del passato rievocati dal protagonista narratore quanto memoria che si sfilaccia per il trauma e la malattia; ne La vita delle rocce è il ricordo di chi abbiamo perduto, un dolore mai sopito, memoria che scava indietro nel tempo e ne restituisce frammenti.

Capre è – almeno in apparenza – il racconto di due ragazzi che saltano spesso la scuola per tentare di diventare allevatori di tori e dei numerosi fallimenti derivanti dalla loro totale inesperienza. Questa è la storia principale, quella più in vista, l’avventura di due amici l’attimo prima di diventare adulti, ognuno la propria strada.

 

Sarebbe facile dire che mi aveva attirato nei prati della rovina, come Pan, chiamandomi con il suo flauto, perché mi unissi al segreto disordine del mondo; ma dentro di me, avevo già la mia personale rovina, le mie brame, perciò non avevo bisogno del richiamo di un flauto, non avevo bisogno di essere spronato.
 (incipit, p. 51)

 

Con l’incoscienza di quando si è ragazzi, i due si buttano in un’avventura, probabilmente più per il piacere di questa che per il reale desiderio di farla diventare qualcosa di serio e concreto; entrambi sanno già che di lì a poco andranno all’università, che la vita adulta prenderà una forma diversa, ma in quel momento tutto ciò che conta è diventare allevatori, mettere insieme i pochi risparmi e comprare i capi di bestiame più economici e malandati alle fiere di settore. Animali che dopo aver portato a fatica nella fattoria di Moxley perdono irrimediabilmente dopo un attimo, fuggiti chissà dove. È durante una delle loro peregrinazioni alla periferia della città vicina che incontrano l’Uomo-Capra e iniziano ad acquistare da lui un capo dopo l’altro, tutti malconci e neanche tanto economici.
Ma sono le trame più sotterranee, secondarie o meno immediatamente evidenti il cuore reale di questa storia, che Bass intreccia dosando svelamento e sottrazione. Ecco che Capre diventa quindi racconto sulla perdita: dell’infanzia, della figura paterna, della memoria. Il vecchio Ben, il nonno di Moxley, che lentamente ma in modo inesorabile viene risucchiato dal buio dei fantasmi della guerra che ancora lo tormentano e della malattia che ne intacca le facoltà mentali. È l’unica famiglia che Moxley abbia conosciuto e la cui lenta scomparsa è vissuta con la distanza dell’adolescenza. L’impatto della sua mancanza, lo smarrimento di fronte al vuoto che lascerà, è camuffato dalle scorribande dei ragazzi, dal progetto scellerato che portano avanti e dai modi a dir poco rustici con cui tentano di arginare le fughe del nonno nei momenti di perdita della lucidità; ed emerge, in tutta la sua devastante tristezza, in quei fugaci attimi di lucidità e presenza durante i quali per un momento il passato sembra essere di nuovo presente e ogni cosa tornare al proprio posto:

 

C’erano però dei giorni in cui il vecchio Ben stava bene, tirato come un violino; giorni in cui il tessuto disintegrato del suo vecchio cervello lacerato dalla guerra, logorato dall’iprite e dal distillato d’orrore di quel conflitto passato, si riassettava, grazie a una sorta di piccoli movimenti tellurici, ricomponendo la grazia dell’equilibrio che la sua mente aveva posseduto in passato – il nonno che Moxley aveva conosciuto e amato, che lo amava a sua volta, e che lo aveva cresciuto. (p. 58)

 

E, ancora, è in quegli istanti che la scrittura di Bass tende al lirismo e lo sguardo si concentra sul dettaglio, a mostrarci quanto fondamentale sia per la scrittura l’atto di osservare con attenzione, la consapevolezza del mondo, e nei quali la narrazione si fa materica:

 

Nelle notti in cui il passato si ricomponeva dentro il vecchio Ben e lui era di nuovo in salute, anche se solo per un po’, noi tre cenavamo insieme. Sedevamo nella veranda sul retro godendoci le brezze del Golfo, che arrivavano da più di centossessanta chilometri a sud-est, e guardavamo l’erba incolta, alta davanti a noi, piegarsi in onde oceaniche, con le piccole raffiche e le accelerazioni che la rimescolavano in sequenze consecutive, creando quelli che, per un istante, sembravano i cavalloni di un fiume impetuoso; o come se un animale nascosto stesse correndo invisibile proprio sotto la superficie. (p. 58)

 

Anche il racconto La vita delle rocce è attraversato dal dolore della perdita, ma a differenza di Capre qui è qualcosa avvenuta in un passato lontano, eppure ugualmente dolorosa. Jyl – che incontriamo anche in un altro, bellissimo racconto, Il suo primo alce – è una donna adulta ma la perdita dell’amato padre avvenuta vent’anni prima è ancora una ferita aperta; ora che si trova a fare i conti con la malattia, gli effetti devastanti della chemioterapia e la solitudine, la mente torna più spesso all’infanzia, alla mancanza del padre, alle domande che non trovano risposta e di cui la narrazione e la raccolta tutta è disseminata.

 

Suo padre era morto da vent’anni ormai. Suo padre non l’aveva mai vista assottigliarsi. Si chiedeva se loro fossero come due montagne diverse, composte da tipologie di roccia leggermente differenti, attraverso le quali scorreva lo stesso fiume; o erano forse come due fiumi intrecciati, due biforcazioni che si separavano, correndo attraverso e tagliando in due la stessa montagna, la stessa faccia e lo stesso corpo di pietra?
(p. 144)

È un’immagine bellissima, espressione di sentimenti complessi che riguardano il lutto, la malleabilità del tempo che ci allontana dalle persone che abbiamo perduto e la caducità dell’uomo che allo stesso modo ci riavvicina ogni giorno un po’ di più a loro; un’immagine potente, intrisa di quel misticismo che attraversa i racconti di Bass e sembra pervaderne il mondo. E su cui ci si sofferma, incuranti del tempo della narrazione, per domandarsi quale delle due cose sia per noi, due montagne o due fiumi intrecciati, per interrogarsi su che cosa resta delle persone che abbiamo perduto, dei nostri padri. 
Delle vite di questi personaggi Bass ci regala dei frammenti e quando anche alcuni personaggi ricompaiono in altri racconti e in momenti differenti delle loro vite, restano tali, alcuni più grandi altri meno, e ciò che scorre sotto la superficie è per questo ancora più potente. Che cosa è stato delle madri di Jyl e di Moxley? Che cosa è accaduto effettivamente al padre di Jyl, una qualche sorta di incidente di lavoro mentre sorvolava le montagne? I due ragazzi abbandoneranno l’allevamento dei tori per andare all’università e costruirsi una vita adulta diversa, forse lontano da dove sono cresciuti? E quella relazione che nasce tra Moxley e la figlia dell’Uomo-Capra a che cosa porterà? Interrogativi senza risposta, non sulla pagina almeno, ma che contribuiscono a rendere queste short story una costruzione perfetta, l’equilibrio tra ciò che vediamo e ciò che resta fuori eppure altrettanto importante, fatto di dettagli, accenni, parole sospese. Sui finali, poi, questa tensione arriva al suo culmine, nel rifiuto di tracciare conclusioni troppo definite ma lasciando uno spiraglio, uno spunto.
In modo simile, anche la solitudine è un sentimento che attraversa entrambe queste storie, seppur a capi opposti. In Capre è il sentimento nuovo che si accende nel narratore di fronte alla rottura dell’equilibrio fino a quel momento conosciuto, la fine dell’adolescenza e di tutto ciò che comporta per fare posto alla vita adulta, ad altri sentimenti e legami. A quel momento, a quell’ultimo istante prima che tutto cambi, si aggrappa con forza disperata a un’idea del tempo che è propria dell’adolescenza:

  

Non mi andava di sentirmi solo o tormentato. Avevamo ancora tutto il tempo che volevamo, il mondo era ancora nostro, non c’era del marcio da nessuna parte, e il giorno era ancora fresco e nuovo, non potevamo sbagliarci. Saremmo cresciuti, ma non era ancora il momento. (finale, p. 83)

 

Quel momento resta per sempre fissato, almeno nella finzione della storia. Ci sarà spazio a sufficienza poi per essere adulti, per rendersi conto del marcio che effettivamente c’è. Eppure, nonostante questo, Bass in questi racconti sembra voler accogliere la lezione di un altro gigante mai abbastanza citato della short story statunitense, Andre Dubus: come i personaggi di Dubus anche quelli di Bass sembrano attenti, nonostante tutto, a riconoscere la bellezza che pervade il mondo; uomini e donne con il proprio carico di dolore e fallimento, di cui non sappiamo se usciranno più o meno incolumi dalla tempesta, ma che entrambi gli autori guardano con benevolenza, specie alle loro umane debolezze. E se Dubus è stato devoto alla forma breve e l’ha plasmata nel modo a lui più congeniale, Bass quando sceglie il racconto ne reinterpreta i caratteri fondanti e in questa raccolta compone tredici ideali frammenti di molteplici vite come ce ne sono tante altre e allo stesso tempo nessuna. E in cui il desiderio di connessione umana, è qualcosa di fortissimo, che arriva anche ai margini del mondo, nel più profondo isolamento. Perfino lassù, nella casa tra i boschi di Jyl, lacerata da una solitudine nuova e profonda dopo che ha conosciuto inattesi legami che potrebbero essere già perduti. È una solitudine scelta molto tempo prima, appagante e in sinergia con l’ambiente in cui vive, ma che all’improvviso sente il bisogno di spezzare, entrando in connessione con altre vite, mescolandovi un po’ la sua. Per farlo, sceglie di affidarsi al fiume che corre fino alla vallata, accanto alla fattoria della famiglia di predicatori.

 

Era abbastanza per lei, per parlare con il resto del mondo così vasto; abbastanza per cercare di ottenere un nuovo contatto, di raggiungere qualcuno dall’interno l’oscurità che minacciava di inghiottirla, per lasciare una testimonianza – anche per un futuro che non avrebbe mai visto, anche nella sua paura – delle bellezze che poteva ancora ammirare. (p. 125)

 

C’è in così poche righe così tanta vita, così tanto desiderio: di non svanire, di lasciare una traccia di sé, piccola ma indelebile, di non farsi catturare dall’oscurità; la paura dell’ignoto, della morte, ma anche il legame con il proprio passato, la memoria, il bisogno dell’altro.
È un racconto struggente e intriso di mistica bellezza, di vita nonostante la morte che lo attraversa. Una storia che ne contiene molte altre al suo interno e che Bass tratteggia ora mediante il ricordo, ora col sogno, ora con il racconto di Jyl ai bambini. Denso di simboli e piccole fondamentali epifanie, La vita delle rocce efficacemente è anche il racconto che dà il titolo alla raccolta tutta, il più lungo e stratificato. E ciò che di questo racconto ho selezionato, le chiavi di lettura con cui vi sono entrate, sono solo alcune delle aperture possibili, come per ogni storia sapientemente narrata. E nell’ostinato desiderio di Jyl, nel testardo rifiuto del protagonista di Capre di cedere il posto alla vita adulta, Bass mi ha ricordato qualcosa di semplice eppure fondamentale: la bellezza, la potenza delle connessioni umane, la grazia intrinseca nella caducità delle cose. 

Il letto di pietra. Dentro al racconto di Margaret Atwood

di Debora Lambruschini

I libri di Margaret Atwood sono scatole cinesi, contengono mondi e una profusione di spunti che abbracciano uno spettro molto ampio dell’immaginazione, della creatività, della scrittura, dell’ambiente in cui sono calati. Raccontano degli abissi del cuore umano in una tensione che spesso si traduce in distopia ma che in generale sfiora generi e forme diverse, in una polifonia intrinseca nel testo. Non fanno eccezione le storie de Il letto di pietra, la cui prima edizione inglese risale al 2014 e da poco arrivate in Italia per Racconti edizioni che da qualche anno si sta dedicando alla pubblicazione di tutta la narrativa breve di Atwood. Questa volta la traduzione è un lavoro a quattro mani: dopo le traduzioni di Gaja Cenciarelli (che si era occupata delle raccolte precedenti, Fantasie di stupro, L’uovo di Barbablù e Consigli per sopravvivere in natura), Racconti edizioni affida il lavoro a Federica Aceto e Chiara Manfrinato che pur suddividendosi le storie riescono magistralmente a mantenere un senso di unitarietà del tutto e un dialogo non interrotto con la voce italiana che le ha precedute.
Ho volutamente usato finora il termine generico “storie” perché prima di addentrarmi nell’analisi di una di queste è bene partire dall’identità che la stessa Atwood indica per i testi qui raccolti: se quelli di Consigli per sopravvivere in natura – cronologicamente l’ultima raccolta pubblicata in italiano, ma originariamente uscita nel 1991 – erano cautionary tales, racconti-fiaba con lo scopo di mettere in guardia il lettore, a partire dai pericoli della natura umana e dal patriarcato, quelle de Il letto di pietra sono tales, come da titolo originale Stone mattress: nine tales. Tales, che richiama l’antico legame del racconto con la forma orale, affonda le radici nella tradizione della narrazione popolare, nel folklore. E le nove storie qui contenute sono costruite in equilibrio tra realismo e folklore appunto, in una commistione di generi e spunti già nello spazio di un solo racconto. L’eterogeneità, dopotutto, è intrinseca delle narrazioni brevi di Atwood, è fondante del suo ricco e variegato immaginario, eppure ogni singolo pezzo della sua produzione si rifà a un discorso letterario più ampio, in un continuo rimando di spunti, indizi, che vanno dai romanzi, ai racconti, alle poesie. Un discorso che si può benissimo amplificare guardando all’esterno, espandendo i confini della bibliografia di Atwood, soprattutto con una raccolta di questo tipo che, appunto, richiama la tradizione orale, con echi di miti ancestrali e leggende che si intrecciano a una realtà solida, ben riconoscibile, capace poi nello spazio anche di poche righe di mutare, uscire da quei confini. E lanciare ami, verso altre immagini, verso altri racconti e autori.
L’amplificatore più forte, per me, è stato il racconto eponimo, “Il letto di pietra”, su cui ho deciso di concentrare lo sguardo, una selezione che non ha molto a che fare con la superiorità di quel testo rispetto ad altri, quanto piuttosto con quelle scatole cinesi di cui si diceva in apertura e con l’immediato richiamo ad altri testi letti negli anni ma ben radicati nel mio immaginario: ecco, quindi, che la storia di Verna, sessantenne «vedova seriale», e il suo istinto omicida si sono collegati a “Che pensiero” e “Mrs Anderson” di Shirley Jackson (entrambi dalla raccolta La luna di miele di Mrs Smith, Adelphi), “Quando a Mobile sbarcò la flotta” di Patricia Highsmith (da Donne, La nave di Teseo), perfino a “Cosciotto d’agnello” di Roald Dahl (Tutti i racconti, Longanesi). Perché a questi racconti e cosa c’è nella storia di Atwood di tanto intrigante, quali mondi spalanca?
Partiamo dalla prima domanda, la più immediata: il richiamo ad altri racconti scaturisce dal centro nevralgico della storia di Atwood, l’istinto omicida della protagonista, Verna; qualcosa di simile si ritrova nelle storie sopracitate, con le dovute distanze e differenze, ma è un tema che fa da fil rouge a queste narrazioni. In “Che pensiero” di Jackson, similmente a “Il letto di pietra”, l’atmosfera è delineata fin dalle prime battute o quasi:

 

All’inizio Verna non intendeva uccidere nessuno.

(incipit “Il letto di pietra”, Margaret Atwood, p. 249)

 

Un pensiero bizzarro le attraversò la mente: avrebbe preso il pesante portacenere di vetro e gli avrebbe spaccato la testa.

(“Che pensiero”, Shirley Jackson, p. 250)

 

L’istinto omicida delle protagoniste di entrambe le storie non è celato: l’incipit di Atwood è incisivo, mordente, come da lezione di Cortázar, un’apertura nervosa che cattura immediatamente il lettore, contemporaneamente insinuando il dubbio che la questione sia tutt’altro che semplice e lineare, con quel «all’inizio»; che cos’è cambiato rispetto alle intenzioni originali di Verna? E avrà davvero ucciso qualcuno? Quarantasette caratteri e siamo già avvinti dalla storia.
Jackson ci arriva un attimo dopo, inizialmente si sofferma a delineare il contesto domestico e assolutamente ordinario della scena, affettuosa perfino, prima di capovolgere la situazione e dare una più oscura e ben precisa direzione alla storia, le fantasie omicide della moglie che si rincorrono pagina dopo pagina.
In “Mrs Anderson” Jackson fa qualcosa di ancora diverso, la violenza non si rivela immediata ma si accumula, una tensione che deflagra poi nel finale. La ripetitività della vita coniugale, l’insofferenza, viene stravolta da un dettaglio – un sogno, per la precisione – che rompe l’equilibrio ed esplode in violenza e follia.
Similmente a quanto fa Dahl, che sembra preparare la scena prima della furia omicida: è, anche in questo caso, una scena domestica, ordinaria, e che va avanti per un po’ nel suo delinearsi di oggetti, scambi di battute tra coniugi, descrizioni, prima della rottura dell’equilibrio, quella stessa che porta al gesto violento della donna – sì, usando come arma il cosciotto d’agnello del titolo.
Highsmith nel racconto selezionato sceglie una via intermedia: 

 

Con la bottiglia di cloroformio in mano, Geraldine guardò l’uomo addormentato nel portico sul retro. (“Quando a Mobile sbarcò la flotta”, Patricia Highsmith, p. 75)

 

Qualcosa è già accaduto, non possiamo ancora dire chiaramente cosa ma la sensazione è che la scena sia inconsueta, ne avvertiamo già la tensione: una donna, Geraldine, ha in mano una bottiglia di un composto dalle note proprietà narcotiche e anestetiche che con buone probabilità si appresta a usare di lì a poco proprio su quell’uomo addormentato – altrimenti perché darci queste informazioni, in un buon racconto nulla deve essere casuale o superfluo. Già in queste prime battute, la familiare sensazione di inquietudine, il dubbio, l’ambiguità, il senso di pericolo, di cui i racconti di Highsmith sono intrisi.
Si diceva prima del perché questo specifico racconto di Atwood, cosa contiene di particolarmente intrigante: in primo luogo sono anche questi rimandi – e gli ulteriori possibili – che ne fanno a mio avviso un racconto notevole, per la capacità di inserirsi nel discorso letterario, nel maneggiare una materia comune e rinnovarla, mostrandoci le molteplici facce di un prisma abbagliante. Una donna, gli abissi, il desiderio di vendetta, le colpe del patriarcato: sono la materia che nelle mani di Atwood si fa incendiaria, si inserisce su una stratificazione di storie – sue, prima di tutto – e sguardi, rinnovandosi di volta in volta negli esiti narrativi ma tenendo ben salda a mente l’origine di ogni cosa.
L’origine, ecco: che simbolo potente è quello dell’arma scelta da Verna per compiere la sua vendetta. Una stomatolite, un fossile di quasi due miliardi di anni, «la prima forma di vita preservata che abbia fatto la sua comparsa sul pianeta»; “stomatolite”, un termine che contiene le parole “letto” e “pietra”. Il letto di pietra, appunto, «un cuscino fossile, formato da strati di alghe verde-azzurro accumulatesi a formare una montagnetta o una cupola». Qualcosa di antico, strumento di morte che ha dentro di sé la vita, ma che richiama anche il primo omicidio del mondo cristiano, avvenuto per mezzo di una pietra appunto. Verna non è preda di un raptus violento, studia meticolosamente come compiere la sua vendetta contro l’uomo – Bob, un nome tanto banale come forse a voler richiamare l’ordinarietà stessa del male insita negli uomini – che decenni prima l’ha ferita irrimediabilmente; non è un’arma che coglie casuale, ma un oggetto scelto con cura e logica nell’ottica di coprire l’omicidio.
Ma come aveva sottolineato in principio, non era nelle intenzioni di Verna uccidere, non in questo caso almeno, durante una crociera tra i ghiacci artici. Era lì, casomai, per trovare un nuovo marito – se poi il suo destino sarebbe stato di fare nuovamente di lei una vedova, è un’altra storia. Il punto di rottura è l’incontro con Bob, il fantasma del suo passato, che apre a una narrazione su due piani temporali che Atwood maneggia abilmente senza diventare didascalica, facendo penetrare il lettore nella mente, nei ricordi, della donna, che attraverso questi si rivela altro dall’idea che di lei avevamo.
Insieme a Verna torniamo a ritroso nel tempo:

 

All’epoca erano rimasti tutti basiti – e non solo a scuola, perché in quel buco di città tutti sapevano perfettamente chi beveva e chi era astemio e chi era dissoluto e quanti spicci avevi in tasca – , erano rimasti tutti basiti che Bob, il ragazzo d’oro, avesse scelto di portare al ballo d’inverno allo Snow Queen’s Palace proprio l’insipida Verna.

 

Poche frasi che delineano perfettamente un contesto, le sue implicazioni – la piccola città, le chiacchiere, i pericoli che nasconde – e l’anomalia su cui in un certo senso si innesta il racconto. Verna è una ragazza timida, studiosa, con una madre molto rigida; lontana anni luce dal mondo di Bob, dai ragazzi popolari che frequenta, ma anche dalla scaltrezza e, scopriremo di lì a poco, dalla profonda cattiveria che li distingue. Accade qualcosa, la serata non va come Verna sognava – e qui, un’altra porta letteraria si apre, immediato il rimando a Una famiglia americana, romanzo fiume di Joyce Carol Oates che della violenza racconta le sue conseguenze – ma che cosa esattamente è accaduto Atwood ce lo svelerà dopo: prima è il tempo della vergogna, dell’insicurezza, tanto nel ricordo quanto nel presente, nonostante oggi Verna sia una donna matura, di quella sicurezza e bell’aspetto che le hanno fornito una vita di agi e ricchezze.

 

All’epoca non aveva avuto scelta. Dopo nemmeno una settimana, quella storia era di dominio pubblico. Era stato Bob a diffonderla, in una versione farsesca molto diversa da come la ricordava Verna. Verna la puttanella, ubriaca e vogliosa, che ridere.

 

Un filo sottile di tensione attraversa tutto il racconto, che Atwood tende nell’alternarsi dei piani temporali, mentre il personaggio di Verna assume sempre più tridimensionalità, ombre, sfaccettature, mentre cambia verso di lei anche la nostra posizione di lettori, ancora più ambigua a partire dal momento in cui ci è chiaro cosa sia effettivamente accaduto quella notte di tanti anni prima:

 

Una ragazza di oggi chiamerebbe la polizia. Oggi Bob finirebbe in galera anche mentendo, perché Verna era minorenne. Ma all’epoca non esistevano parole per quel reato: era stupro se un maniaco appostato dietro un cespuglio ti saltava addosso, non se il cavaliere con cui eri andata al ballo ti portava in auto in una stradina secondaria all’interno del boschetto spelacchiato e mal tenuto che circondava la micragnosa cittadina mineraria e ti diceva di bere, da brava, e poi cominciava a strapparti i vestiti di dosso. Come se non bastasse, il miglior amico di Bob, Ken, era arrivato con la sua auto per dargli manforte. Avevano riso entrambi e tenuto la sua guaina come souvenir.

 

È il centro nevralgico della storia, il punto di rottura che cambia ogni cosa, a cui Atwood ci prepara una pagina dopo l’altra, osservando Verna da angolazioni diverse, giocando su anticipazioni, indizi. Ed è anche il centro nevralgico di un discorso letterario più ampio che lega questa storia a buona parte della produzione dell’autrice canadese: gli abusi, il patriarcato, le conseguenze dell’oppressione, sono un fil rouge che attraversa racconti, tales, romanzi, poesie, saggi, e che si declina in forme e sfumature diverse. Tante infatti sono le forme della violenza, dell’abuso e molteplici le narrazioni possibili. In questo brano c’è insito un discorso di riconoscimento, la necessità di usare parole per definire un trauma e, attraverso esse, dare voce e dignità a chi l’ha subito; ma è anche riflessione attualissima sulla cultura dell’abuso, su ciò che in tempi diversi riconosciamo come tale e sul patriarcato in genere. Chiamare le cose con il proprio nome, definire stupro/abuso ogni azione o parola che implica violenza, tanto fisica quanto psicologica è un tassello fondamentale per cambiare una cultura ancora tanto patriarcale, pare ricordarci Atwood. Le parole sono lo strumento dello scrittore e questo brano ne sottolinea la valenza, che è prima di tutto politica.
Quel momento, nell’adolescenza di Verna, segna uno spartiacque e ne definisce il futuro, la sua stessa identità:

 

Era stato Bob a trasformarla in – perché non chiamare le cose con il loro nome? – un’assassina.

 

Ecco, le parole, ancora, il loro carico: Verna, che rivendicava il diritto di chiamare stupro quanto subito anni prima, non si tira indietro dall’usare su sé stessa una parola altrettanto forte ma la più esatta a definirne l’identità. Prima di farlo, però, prima di diventare ciò che la parola definisce, silenziosamente offre a Bob due occasioni di salvezza, due prove che fallirà; troppo grave la colpa per potersi salvare, troppo radicato il male in certi uomini per immaginare un pentimento.
Scivolando da una narrazione all’altra, il libro porta a un gioco di rimandi, punti di osservazione differenti, vicinanza o straniamento del lettore, ambiguità, toni e atmosfere diverse. Di moventi, perfino, qualcuno che siamo portati a condannare ma in un certo qual modo anche a comprendere – Geraldine tenta di uccidere e scappare dal marito violento – altri che sconcertano per la loro banalità di fondo – la monotonia famigliare cui la signora Anderson e la Margaret di Jackson si ribellano con un gesto violento, o lo sconcerto di Mary Maloney di fronte all’imminente abbandono del marito.
Storie che si intrecciano, tematiche e allusioni che si rincorrono tra le opere della stessa autrice o si immettono in un discorso più ampio. A riprova, ancora una volta, che la stessa materia plasmata dalle abili mani di una cantastorie d’eccezione come Atwood getta di volta in volta punti di osservazione sempre nuovi e che le increspature sulla superficie dell’acqua celano abissi.

I racconti di Elizabeth McCracken: un'analisi

di Debora Lambruschini

 

In un periodo e un mercato editoriale nei quali il novanta per cento delle raccolte di racconti deve essere celato dietro l’etichetta di “romanzo per racconti” e simili, la pubblicazione di un testo che è esattamente quello, una raccolta di racconti pura, ha qualcosa di miracoloso. Ed è quindi un gran peccato che questa stessa raccolta sia uscita un po’ in sordina, fagocitata dal peso di altre pubblicazioni e ritorni attesi dello stesso periodo, perché Cose dell’altro mondo di Elizabeth McCracken – appena arrivato in libreria per Bompiani nella traduzione di Giovanna Granato e Alessandro Mari – è una raccolta davvero notevole. La prima pubblicazione negli Stati Uniti risale al 2014, ma i nove racconti che la compongono non risentono affatto del tempo intercorso tra la prima uscita e la sua traduzione attuale, complice una sostanziale sospensione del tempo delle storie, per lo più fissate in un passato prossimo dai contorni sfumati. Premiata autrice di romanzi, racconti e un drammatico memoir, Elizabeth McCracken qualche anno fa era stata inclusa da Granta nella lista dei venti maggiori scrittori under quaranta e il suo romanzo d’esordio, The Giant’s House, del 1996   – l’unico altro testo a essere stato tradotto in italiano anche se a oggi di difficile reperibilità – era arrivato tra i finalisti del National Book Awards.

Cose dell’altro mondo è una raccolta di racconti pura, in cui ogni storia è autonoma e saldamente ancorata alla tradizione della short story moderna nordamericana, che fortunatamente l’editore italiano ha scelto di rispettare senza appiccicargli addosso etichette fuorvianti. Forse, se proprio vogliamo essere puntigliosi, la traccia della quarta di copertina non riesce a restituire davvero il peso letterario di questa raccolta, ma ai lettori basta fare una piccola ricerca online per meglio contestualizzare l’opera e l’autrice. Ogni racconto è autoconclusivo, non ci sono personaggi od occorrenze specifiche da un testo all’altro, una sovrastruttura a cornice che leghi le nove short story selezionate. Ci sono casomai temi e spunti che attraversano le narrazioni, ma è un appiglio cercato da noi lettori più che un’intenzione. Sono storie di vite ordinarie messe di fronte alla tragedia: McCracken osserva e racconta le reazioni al dolore, alla perdita, alla scomparsa, investigando le zone grigie del dolore, osservando quello che resta e lo spazio tra amore e solitudine. E una parte di mistero che non potrà essere svelata del tutto. La genitorialità, la scomparsa nelle sue diverse accezioni, il confronto generazionale, sono alcuni dei perni intorno a cui ruotano questi racconti, disseminati da piccole epifanie, echi letterari, increspature sulla superficie dell’acqua. Come da tradizione, è uno dei racconti a dare il titolo alla raccolta tutta: nella versione originale è Thunderstruck, Folgorazioni nella traduzione italiana; nell’edizione Bompiani è invece preso da quello che apre la raccolta, Cose dell’altro mondo (Something Amazing), l’unico dai toni gotici ma che ben inquadra molte delle tematiche e degli spunti della raccolta.
Ho pensato a lungo a quale racconto selezionare per tentare qui un’analisi formale e contenutistica che potesse in qualche modo anche illuminare la raccolta nella sua interezza.

Giulietta, è la storia che continuava a ronzarmi in testa, per la coerenza della struttura, per la capacità di McCracken di maneggiare la forma, per gli echi, le occorrenze, la storia sommersa. E allora Giulietta sia, ma con i dovuti disclaimer: leggetela tutta questa raccolta portentosa, lasciatevi ammaliare dal racconto e dalle sue possibilità.
Per l’ambientazione principale di questa storia McCracken attinge alla sua esperienza professionale come bibliotecaria: il setting sono infatti le sale della biblioteca di una cittadina ai confini con la grande città, ma ancora abbastanza provincia da avere l’idea di conoscere tutti quelli che fanno parte della comunità, i pettegolezzi, lo scandalo e la tragedia che di lì a poco li coinvolgerà. È tra le sale della biblioteca, quindi, che la storia prende corpo, nell’ordinaria quotidianità; e sarà sempre lì che, nell’epilogo, il racconto raggiungerà il suo climax. La sala per l’infanzia, gli animali in gabbia – coniglietti, fringuelli – che ben più dei libri attirano l’attenzione dei piccoli utenti; la cassetta dei libri, il banco della consultazione, le chiacchiere tra colleghi, i diversi settori e responsabilità, gli utenti abituali.

 

E questo è quanto per gli animali selvatici, a meno di non voler considerare anche i bambini, spesso selvatici: non quelli piccoli, che non sopportavano di allontanarsi dal coniglio, ma quelli di dieci o undici anni, che tiravano i libri dalla balconata, incrociavano le gambette ossute sui tavoli o infilavano nella cassetta dei libri quello che gli pareva, barzellette sporche incluse.

(p. 64)

 

Un microcosmo ordinato, descritto con cura minuziosa, l’orecchio ai dialoghi e alle situazioni che qualsiasi frequentatore di biblioteche riconoscerà. È un narratore in prima persona plurale che assume l’identità dei dipendenti della biblioteca, creando così una particolare relazione tra storia e lettore: siamo spinti a fidarci, nonostante fin da principio si dimostri tutt’altro che affidabile; come lui abbiamo una visione parziale e soggettiva sulle cose, su ciò che pagina dopo pagina si svela; e, allo stesso tempo, siamo sempre più coinvolti, dalle dinamiche della biblioteca, dalle relazioni personali che si intrecciano e dal mistero che ogni persona in fondo rappresenta. Ancora, è attraverso questo “noi” interno che interpretiamo gli eventi. La narrazione è tesa tra ironia e un senso di tragicità imminente, una tensione che via via assume contorni sempre più concreti. E Giulietta fa la sua comparsa portando già insita nel nome – che in realtà non le appartiene nemmeno – la tragicità del personaggio:

 

Fu quel giorno, un lunedì, che vedemmo Giulietta per la prima volta.

Era giovane, secondo noi poco meno che trentenne, i capelli lunghi, scuri, sciolti. Era vestita di bianco e lì per lì pensammo che portasse una divisa, magari da infermiera: l’aria da infermiera ce l’aveva, dolce, decisa, e fresca di divorzio. […] Forse non era vestita di bianco, forse ci ricordavamo così perché nella foto che in seguito avremmo visto e rivisto era vestita di bianco.

 

È il primo segnale che cattura l’attenzione del lettore su questo particolare personaggio, l’aura di mistero che porta in scena, qualcosa che di lì a poco dovrà accadere.
È Giulietta, perché nelle menti letterarie dei dipendenti della biblioteca richiama perfettamente l’eroina shakespeariana:

 

Lei stringeva tra le mani un quaderno come fosse un coltello che era pronta a usare contro se stessa, perciò finimmo col chiamarla Giulietta. Per questo e per l’abitudine di affacciarsi alla balaustra della balconata che correva lungo la sala lettura guardando in alto anziché in basso, al verde nuvoloso del lucernario.

(p. 65)

 

Giulietta entra in scena con il suo carico di mistero e per molti versi tale resterà fino all’ultimo.
Ecco, mistero: ho consapevolmente usato più volte questo termine, è la parola chiave con cui entrare in questa storia, in questa raccolta tutta. Dobbiamo accettarne una certa dose, consapevoli che McCracken ci mostrerà “solo” le increspature sulla superficie dell’acqua ma gli abissi oscuri che si intravedono resteranno tali. È un racconto, è una fotografia, è un istante, è un frammento: non tutto può essere spiegato o risolto, ci sono – ci devono essere – parti sommerse, le più consistenti. Ma – e qui ancora una volta sta la differenza tra uno scrittore di racconti capace e uno inesperto – di quella storia sommersa l’autore deve avere piena consapevolezza e disseminare la pagina di indizi. A noi poi il compito di colmare gli spazi vuoti e lasciare che la nostra attenzione sia catturata da un certo dettaglio, da un certo spunto. Giulietta resta sulla pagina per una manciata di pagine, prima che scompaia, eppure attraversa tutto il racconto:

 

Apprendemmo la grande notizia poco alla volta. C’era stato un omicidio. Una donna. Una donna della nostra città, uccisa in casa. Una donna pugnalata dieci volte, venti, sessantatré. Sembrava che la polizia impiegasse un’eternità a esaminare il corpo e si affidasse ai pettegolezzi locali per stilare il rapporto.

(p. 69)

 

I fatti sfumano sempre più per lasciare il posto alle chiacchiere, alle ipotesi, alla conoscenza parziale delle persone e delle cose accadute. È lei, Giulietta, o meglio Suzanne Cunningham, la vittima:

 

E poi, al notiziario della sera, la sua foto: Giulietta.

Non era la solita istantanea sfocata della vittima, di quelle che danno l’idea che l’ultimo gesto compiuto dalla persona in questione, prima di prendere il largo e farsi ammazzare, sia stato accontentare un vecchio zio con la macchina fotografica. La foto di Giulietta – quella apparsa in tutti i notiziari, sulla prima pagina di tutti i giornali – era nitida, definita e carina. I capelli acconciati. Un lungo abito bianco senza spalline.

(p. 69)

 

L’immagine di Giulietta è la sola cosa nitida, tutto il resto di lei era già mistero prima dell’omicidio e tale resta. La storia segue i vuoti di quel narratore parziale, i pettegolezzi, le congetture, le digressioni. Anche quando un colpevole viene indicato, i contorni restano sfocati, le parole si inseguono come corressero dall’una all’altra delle persone del luogo.
Dei molteplici richiami che tale storia poteva accendere, uno più di altri mi è tornato alla mente ed è con un testo che a differenza di questo ha invece qualcosa di ibrido nella struttura, nella postura autoriale: Solo un ragazzo, di Elena Varvello. Un romanzo, sì, ma se osservato in un certo modo ha la posa dei racconti, già di per sé tutta nello sguardo dell’autrice. Anche lì c’è un mistero, anche lì c’è la violenza che entra nel quotidiano ordinario e lo sconvolge; anche lì ci sono moltissime cose che non troveranno spiegazione. E, ancora, anche lì ci sono confini tra buoni e cattivi che non è così facile tracciare, colpe e accuse nel tentativo di trovare un senso, ristabilire un ordine.    
Nella storia di McCracken ci sono almeno due punti opposti di osservazione: da una parte c’è lei, ovviamente, Giulietta, la sua presenza effimera, il mistero che l’accompagna, la fine tragica; dal lato opposto l’apparire fugace di un’altra ragazza che con l’omicidio potrebbe avere un legame, suo malgrado, che come la vittima rappresenta un mistero irrisolvibile e come lei alla fine scomparirà, ma non prima di essersi fatta presenza tangibile nella stanza, sulla pagina. Di entrambe sappiamo poco, pochissimo, molte invece sono le congetture, le storie che si rincorrono, le voci, le supposizioni sempre più concitate. Le parole che pesano e mutano il corso delle cose. Ma è troppo tardi, le cose sono state dette, la rabbia ha trovato il suo capro espiatorio e non resta spazio nemmeno per il senso di colpa. Ma «quel che è fatto è fatto» e non si torna indietro, le parole, la rabbia, non possono essere cancellate. Restano le conseguenze. Resta un’altra mancanza. Restano i fringuelli nelle gabbie, le porticine ben chiuse.

I Sette piani e I sette messaggeri di Dino Buzzati

Viaggi orizzontali e viaggi verticali. Analisi dinamica di Sette piani e I sette messaggeri di Dino Buzzati

di Marco Marrucci

Il testo qui presentato è un accomodamento e una riduzione in forma scritta dello workshop Viaggi orizzontali e viaggi verticali che la Scuola Carver di Livorno mi ha gentilmente invitato a condurre il 28 maggio 2022 in chiusura dell’anno didattico. Ringrazio quindi gli studenti intervenuti, Francesco Mencacci (direttore della Scuola Carver nonché moderatore dello workshop) e Francesco Parasole (docente della Scuola Carver nonché fine dicitore di belle lettere)

Saluti. Convenevoli. Presentazioni. Agile smaltimento dell’imperativo di festeggiare il cinquantenario della morte di Buzzati: stiamo facendo analisi teorica e laboratorio di scrittura, mica un veglione lacrimoso.

Ora che abbiamo strappato dall’uscio i festoni di benvenuto si possono buttare giù le carte a faccia scoperta. Ecco Sette piani e I sette messaggeri. Questi due racconti fungeranno da pietre angolari per il nostro workshop, ma prima di lanciarsi a corpo morto sui testi m’incorre l’obbligo di avanzare una proposta di metodo. In alternativa ai rodati dualismi forma/contenuto e linguaggio/struttura (entrambe le coppie inquadrano dei parametri statici, o comunque fallacemente mobili) oggi tenteremo un’analisi dinamica. O cinetica. O addirittura gravitazionale. Insomma, un esame dei movimenti effettuati da ciascuno dei due racconti. Non a caso lo workshop è intitolato Viaggi orizzontali e viaggi verticali. C’è il rischio che così impostata la faccenda odori di bizzarria o stravaganza, ma vi siete accorti – ci avete mai pensato – che la narrativa ingenera un suo proprio archetipo di movimento che coinvolge il processo di lettura? È possibilissimo che la risposta sia “no”, e il motivo risiede nel fatto che la letteratura, sotto questo profilo, si comporta come un sistema chiuso d’ispirazione galileiana. Tento di spiegarmi meglio. Proprio adesso, mentre io parlo e voi ascoltate, la Terra sta compiendo una moltitudine di movimenti nello spazio, eppure noi non ci troviamo in condizione di avvertirli perché siamo interni alla meccanica del sistema, perfettamente armonizzati con il vorticoso pacchetto di rotazioni e rivoluzioni e precessioni e nutazioni. L’attrazione gravitazionale ci costringe a un viaggio in parallelo, a una congruenza matematica. Alla stessa maniera la letteratura (quando è un sistema che funziona) incorpora il lettore dentro il suo campo di forze dinamico e lo trascina nel proprio moto senza che questi possa averne contezza. Ovviamente sto accusando di cecità il giudizio consapevole e categorizzante, perché in fondo parrebbe esistere un misterioso livello di conoscenza – sensibilità, intuizione, empatia – che ci consente di partecipare e soprattutto di godere degli andirivieni e delle capriole della scrittura. La nostra indagine, quindi, sarà volta a esplicitare le invisibili proprietà dinamiche di due racconti di Buzzati e, per converso, la coppia di invisibili proprietà dinamiche che la lettura acquisisce quando penetra la sfera d’influenza dei racconti. Al di là dei casi di specie i movimenti in questione possono venire aggettivati in decine di modi (lineari, circolari, regressivi, evolutivi, pacifici, travagliati, multidirezionali, unilaterali, lenti, fulminei), ma anche qui l’intestazione dello workshop rivela subito le direttrici massime che ci troveremo a percorrere: i nostri viaggi saranno all’insegna della verticalità e dell’orizzontalità. Sul piano teorico ci insegneranno a rintracciare un’opposizione e una sorta di funzionalità incrociata negli orientamenti spaziali di due racconti che per altri versi non sembrerebbero offrire plateali linee di confronto. Sul piano laboratoriale ci insegneranno un paio di trucchi per dinamicizzare la nostra scrittura: non basta imporre un qualsivoglia ordinamento spaziale ai racconti, è necessario sapere come allineare ed elettrizzare e guidare gli elementi della narrazione in modo che possano muoversi efficacemente al suo interno.

Sette piani sarà il nostro campione di studio per il binomio alto/basso. Si tratta di un racconto abbastanza semplice dal punto di vista dello schema cinetico. Nelle pagine introduttive Buzzati apparecchia la finzione di un ospedale regolato secondo un criterio gerarchico di severità discendenti: in cima le quisquilie sanitarie, al centro un purgatorio con varie modulazioni drammatiche, dabbasso le patologie terminali. La partenza è stabilita in vetta, nella camera del settimo e ultimo piano in cui il signor Corte viene ricoverato per un malanno che si prospetta banale e di lestissima cura. Da qui (e transitando per tutti i livelli intermedi dell’ospedale) si origina una discesa verso il piano terra che esibisce una manciata di caratteri immediatamente comprensibili.

Linearità. Tolta un’innocua passeggiata tra le camere del sesto piano il viaggio del signor Corte non prevede oscillazioni sull’asse orizzontale – che in un discorso più avvertito significa: non esiste più alcun mondo al di fuori del torrione ospedaliero, cominciata la terapia si è inchiodati a una rotta verticale – né tantomeno risalite. Una volta che lo sprofondamento verso il basso si è consumato diventa irrevocabile. Lampante come Buzzati abbia deciso di investire sulla più ampia intelligibilità del percorso riadattando gli stilemi di un classico one way journey.

Scomodità. Il viaggio del signor Corte si configura come il lento precipitare da uno stato di vago malessere (un disturbo da niente, una patologia liquidabile in pochi giorni) a una preoccupazione divorante per il proprio stato di salute e le prospettive di guarigione. È un movimento che guadagna in angoscia e disagio per il protagonista, ma anche per il lettore che inevitabilmente viene intrappolato nella scia gravitazionale del racconto. Ogni livello dell’ospedale sembra poi contrassegnato da un indice di mortalità tanto esibito da riuscire sfacciato: più il numero del piano è piccolo, più l’indice di mortalità è grande. Ubicazione del protagonista e ubicazione della minaccia (con tanto di punteggio di letalità ben evidenziato fuori dalla porta) coincidono senza residui. Un artificio basico con cui Buzzati permette al lettore di indovinare sempre in quale frazione della propria rovina è bloccato il signor Corte.

Passività. La caduta del signor Corte è un accidente esterno imputabile alla bizzarria delle procedure, alla volontà dei medici, al congedo degli infermieri e a documentazioni malfirmate. Si tratta di una dinamica subìta, di una maledizione inferta. Colui che regge il peso della narrazione non è una macchina motrice, bensì un ingranaggio che riceve spinte e direzionalità da un propulsore altro.

Discontinuità. O per dirla altrimenti: caduta a camere stagne. Il viaggio non è graduale né fluido, ma procede attraverso balzi feroci incorniciati dalle sette camere di degenza. Più che a un rovinare nel vuoto somiglia al trasferirsi di casella in casella all’interno di un ambiente verticale. Ciascuna casella ha poi un diaframma, una barriera che deve essere sfondata per scendere. Da una prospettiva materica la barriera altro non è che la muratura in calcestruzzo che divide i piani dell’ospedale, ma narrativamente adombra la resistenza psicologica ed emotiva che il signor Corte inalbera di fronte alle pressioni che lo schiacciano verso il basso.

L’attributo della discontinuità merita un’investigazione più rigorosa. Perché se ogni piano d’ospedale rappresenta una barriera, allora il signor Corte deve affrontare il trauma dello scavallamento per ben sette volte. Un’opportunità per illuminare i dispositivi cinetici del racconto ed espandere il corredo tecnico della nostra scrittura è insabbiata nella reiterazione di questa pantomima. Il canovaccio può essere schematizzato come segue:

Al settimo piano viene arieggiata l’ipotesi di una discesa al livello inferiore; si scatena il conflitto tra necessità terapeutiche o errori di protocollo o riassetti organizzativi (pressione verso il basso) e la brama conservatrice di rimanere al piano corrente o addirittura di esigere una risalita; al paziente viene garantito che il trasferimento è solo un eccesso di scrupolo e in ogni caso una sistemazione temporanea; il signor Corte si dichiara indispettito, ma un intreccio di giustificazioni autoinflitte e considerazioni mediche lo spingono ad accettare il trasloco; al sesto piano viene arieggiata l’ipotesi di un’ulteriore discesa al livello inferiore e via così a rotta di collo fino al mortale comando che abbassa le persiane scorrevoli e chiude il passo alla luce.

Buzzati si costringe a inverdire e aggiornare continuamente questo modello: la forma generale del conflitto deve essere riconoscibile, ma la rosa di pretesti e motivazioni e arrendevolezze deve riuscire fresca ogni volta. E sorprendente. E plausibile. Dico “deve” perché l’immediata riconoscibilità del modello funziona da galvanizzante per il lettore, che già tra il sesto e il quinto piano comincia a domandarsi: «Intuisco che il giochino si riproporrà ancora cinque volte, ma come farà Buzzati a renderlo fresco e sorprendente e plausibile a ogni replica?» La risposta è una magnifica prova di composizione globale e immaginazione particolare. All’espediente della cortesia nei confronti di una madre che non vuole separarsi dai bimbi e avrebbe necessità di traslocare nella camera del signor Corte al settimo piano fa seguito una ricalibrazione dei parametri di gravità fra gli ammalati del sesto piano; al sopraggiungere di un eczema trattabile esclusivamente con i portentosi raggi digamma del quarto piano succedono le elucubrazioni e i rimuginamenti di un dottore che persuadono il signor Corte a chiedere di venire retrocesso di un piano per godere della vicinanza benefica del professor Dati; l’accorpamento di terzo e secondo piano reso ineludibile dai quindici giorni di vacanza delle infermiere viene infine aggravato (convertendosi in proclama di morte) da una circolare di trasferimento al primo piano autenticata per errore dall’introvabile professor Dati. Le schermaglie tra la pressione affondatrice e la brama di risalire o quantomeno difendere la posizione rappresentano formidabili nuclei di tensione che esplodendo in sequenza come bombe a orologeria scaraventano innanzi non solo il protagonista, ma anche la lettura – e dunque noi che leggiamo e partecipiamo e godiamo – fino all’ordigno successivo. Per garantire la propulsione dinamica del racconto è vitale che Buzzati riesca a giocare sette volte la medesima partita senza che il lettore si annoi, ma piuttosto gioisca per le variazioni e le infiocchettature sopra un tema conosciuto. Eterogeneità nell’uguaglianza. Il prevedibile inatteso. Si tratta di una perizia che se ben compresa e metabolizzata può entrare felicemente nel nostro armamentario di tecniche di scrittura. Come già anticipato, è inutile progettare il circuito se non si trova la maniera di farlo percorrere a quelli che dovrebbero essere gli elementi attivi della narrazione.

Incliniamo adesso le ottiche di novanta gradi. I sette messaggeri, come sarà ormai chiaro, rappresenta la coordinata orizzontale della nostra analisi. Insieme al fidato manipolo di messaggeri il giovane principe muove dalla capitale del regno per conoscere e superare le frontiere dei propri domini, frontiere che a rigor di logica dovrebbero esistere ma che nessuno – neppure suo padre il re – ha mai visto né tracciato su mappa. A ogni sosta uno dei sette cavalieri ha l’incarico di tornare indietro, ricevere e consegnare informazioni in città e (sveltito dalla mancanza di carabattole a traino) raggiungere il principe, che nel frattempo avrà macinato una quantità variabile di giorni e leghe. Nell’arco di qualche settimana distanze e tempi di percorrenza si dilatano oltremisura: agli attendamenti sempre più remoti giungono lettere antichissime, le pendolerie dei corrieri durano mesi e poi anni, il principe invia l’ultimo dei nunzi sapendo che la morte per vecchiaia lo coglierà prima del suo rientro. La mera fisicità delle spedizioni è poi elevata a un rango di nobile spiritualità dagli assilli malinconici, affettuosi e recriminatori che il principe affida nell’immaginazione ai cavalieri mentre proietta fantasie di gloria e conquista all’indirizzo della frontiera.

Un incessante travaso dalla carne al pensiero, dall’astratto al materiale. La qualità dei movimenti generata da un siffatto turbinio è enormemente più complicata di quella che anima Sette piani.

Le figure di linearità e discontinuità – e quindi la progressione a tappe consecutive del signor Corte – vengono sganasciate da una dinamica che in un primo momento avevo battezzato “sviluppo a fisarmonica” per via del costante andirivieni della nostalgia e dei messi da una parte (i quali procedono a ritroso, dai bivacchi alla città) e del principe e della sua aspettativa dall’altra (i quali procedono innanzi, dai bivacchi alla frontiera irraggiungibile). Cionondimeno la dicitura “a fisarmonica” si scopre subito fuorviante perché implica che la proiezione in avanti e il rinculo all’indietro si alternino e si escludano a vicenda: prima l’avanguardia marcia, poi le retrovie indietreggiano. Questa modalità di copertura a blocchi è sicuramente praticata dalla lingua, che in virtù delle proprie costrizioni fisiche saltabecca tra messaggeri e principe avvicendandoli nel discorso. (E d’altronde come potrebbe una stringa di parole da rincorrere lungo un asse temporale restituire la simultaneità degli eventi?) Tuttavia dentro la cronologia della narrazione i due attori e le due spinte contrarie sono compresenti: il principe avanza mentre i messaggeri staffettano, anche se la prosa è obbligata a inquadrare prima l’uno e dopo gli altri. La sostituzione del “prima” e del “poi” con il “mentre” non è uno sterile mercanteggio d’avverbi, ma l’armatura spaziotemporale che ingriglia tutta la vicenda. Di conseguenza è più corretto abbozzare un sistema orizzontale a doppio flusso entro cui il principe circola irremovibilmente in un senso e, nello stesso momento (avvertite la grandiosa responsabilità di cui è investito questo “e nello stesso momento”?), la spicciolata dei messaggeri fa navetta tra due poli sempre più distanti. Ed ecco che la confortante dirittura di Sette piani non esiste più.

In relazione a Sette piani ho mobilitato un ulteriore concetto, ovvero quello di scomodità. Anche qui l’affanno crescente e il mortale peggioramento della situazione ritornano, ma in una chiave diversa che elimina la figura del progresso a camere stagne. L’inabissarsi da una vetta di minimo pericolo a una profondità di massimo pericolo, così come la sfacciata attribuzione di un punteggio di letalità a ciascun piano d’ospedale, vengono rimpiazzati dall’allargamento di un vuoto mediano che separa gli approdi del ritorno e della conquista. Senza grancassa né fanfare Buzzati opera una saggia dislocazione della minaccia: il signor Corte ci abitava dentro come una prigione o un’atmosfera, principe e messaggeri la reinventano e la espandono ininterrottamente con un reciproco allontanarsi. La scomodità non viaggia loro accanto, bensì ingrana e prospera nei luoghi che di minuto in minuto sono costretti ad abbandonare. È precisamente con questa farraginosa o mancata congruenza tra ubicazione dei protagonisti e ubicazione del disagio che I sette messaggeri rinuncia alla facile planimetria di Sette piani.

Agli antipodi rispetto alla caduta del signor Corte, la deriva infinita del principe risponde a una volontà. A un desiderio. A una missione autoimposta. Colui che regge il peso della narrazione è finalmente generatore primo degli eventi. (E in ogni caso anche in questo racconto sopravvive l’ombra di chi subisce un contraccolpo forzato: i messaggeri – sui quali insiste la metà restante del peso, non dimentichiamolo – altro non fanno che cedere al destino che il principe ha scelto per loro.)

Sette piani è servito da laboratorio di alta specializzazione nel quale intrufolarci per taccheggiare un attrezzo di lavoro e migliorare il nostro equipaggiamento. Verifichiamo se anche I sette messaggeri presenta brecce o fratture per sgraffignare qualcosa. L’accesso più promettente sembra scavato al centro di quella “simultaneità nell’opposizione” analizzata poco sopra. Il dualismo tra ripiegamento e avanzata (ormai lo abbiamo certificato con mille timbri) costituisce l’architettura fondamentale dell’intero racconto. La disillusione per una linea di frontiera che magari non esiste e gli arrabattamenti per salvaguardare le comunicazioni con la città, prese come istanze separate, quasi sicuramente non avrebbero la fibra per movimentare e sostenere e amplificare la tensione necessaria a energizzare la scrittura e ammaliare il lettore. Senza il principe i messaggeri farebbero tranquillamente ritorno a casa dopo un’esplorazione di ordinanza. Senza i messaggeri il principe zoccolerebbe verso la frontiera libero di non guardarsi mai indietro. Ne I sette messaggeri è il fatto di doversi occupare di entrambi gli uffici in contemporanea a incendiare il propellente della narrazione, perché tutto ciò che viene guadagnato dal principe in termini di distanza e tempo viene rubato ai messaggeri, i quali a loro volta potrebbero avvantaggiarsi nel loro compito solo sottraendo giorni e leghe alla traversata del principe. S’innesca così il paradosso per cui conseguire uno dei risultati (mantenere i contatti con la capitale o valicare i confini) rende automaticamente impossibile aggiudicarsi l’altro. Paradosso – badate bene – di cui il principe sembra cosciente fin dall’inizio del viaggio; e tuttavia questa cognizione non gli impedisce di sacrificare uomini, nobiltà e ragionevolezza in una duplice galoppata senza sbocchi. Buzzati ha quindi bisogno di martellare con foga sui principi della contrapposizione e della divergenza all’interno della stessa unità di tempo: il ciclico ritornello «mentre il principe fa così i messaggeri fanno cosà» gli assicura la più efficace drammatizzazione del conflitto tra malinconia e brama di conquista, tra rimpianto e ambizione, tra calcolo d’intelligenza e avventura scellerata. Si costringe a rammentarci continuamente che il passo che avvicina l’orizzonte del principe è il medesimo passo che allontana quello dei messaggeri. Dovendo gestire due fronti separati e due traiettorie con interazioni macchinose (altro che l’ordinatissima catabasi del signor Corte), Buzzati mette a regime un pirotecnico cerchiobottismo letterario per cui gli uni tengono in movimento gli altri trasferendo loro una contropartita oscura e lunare della propria energia cinetica. Messaggeri e principe combattono una battaglia da antagonisti, eppure – anzi, esattamente per questo; ammirate il capolavoro – restano fratelli nella medesima guerra. Ecco il trucco del mestiere da distillare con l’analisi de I sette messaggeri: la fiamma della letteratura spesso brucia negli interstizi fra elementi dall’incastro problematico, dentro la faglia che separa due incompatibilità. Scrittore sarà colui che azzarderà comunque l’incastro impossibile, che tenterà ad ogni occasione di ripianare la faglia incolmabile.

Una fine del mondo - Dipinto di Dino Buzzati, 1967

Un giorno come un altro, di Shirley Jackson

di Debora Lambruschini

 

È sempre un giorno come un altro nei racconti di Shirley Jackson, ma è un quotidiano in cui un elemento disturbante affiora lentamente a perturbare l’ordine razionale, la falsa armonia della scena, lo scorrere regolare delle cose. Non sempre e non necessariamente Jackson sceglie la chiave del soprannaturale per scardinare le nostre certezze, anche se il suo successo è legato soprattutto ai racconti e romanzi che virano all’horror, da L’incubo di Hill House ad Abbiamo sempre vissuto nel castello, Paranoia, Lizzie. Il mondo letterario di Jackson si compone di registri e generi diversi, legati dal fil rouge dell’ironia pungente che la caratterizza; una varietà che ben si coglie nelle raccolte di racconti negli ultimi anni pubblicate da Adelphi, La luna di miele di Mrs Smith cui da poco ha fatto seguito Un giorno come un altro – entrambi tradotto magistralmente da Simona Vinci – e che comprendono racconti apparsi su rivista e altri testi inediti, a comporre un mosaico ricchissimo e un tassello fondamentale nella bibliografia della scrittrice statunitense. L’inquietante, il soprannaturale, si mescolano al racconto della quotidianità, all’analisi sociale; gli sketch e l’ironia di una donna alle prese con le responsabilità famigliari e il bisogno di conciliare la vita domestica con l’urgenza della scrittura, strappando due ore al giorno in cui essere Shirley Jackson la scrittrice. E solo lì diventare davvero se stessa. Solo lì, davanti alla macchina da scrivere respirare e tenere a bada i propri demoni, crearne di carta e parole, infrangere stereotipi e rendere letterario ciò che da sempre è bistrattato. Storie e testi contenuti in un baule, ritrovato in un fienile del Vermont e recapitati alla famiglia anni dopo la scomparsa dell’autrice, rivelano un corpus letterario molto più variegato e nutrito di quanto ci si sarebbe aspettati. Adelphi completa la pubblicazione di questi testi con il secondo volume, Un giorno come un altro, in cui compaiono anche un paio di racconti noti e già pubblicati, tra cui La ragazza scomparsa, forse una delle short story più interessanti di Jackson.

Ed è su questo racconto che mi soffermo, sul mistero che racchiude e il senso che mi pare di cogliervi nella produzione letteraria di Jackson; nel farlo lo accosto al racconto di un’altra autrice che con lei condivide l’interesse per la natura umana, le pieghe più oscure del quotidiano, seppur con modi ed esiti differenti. Rileggendo adesso La ragazza scomparsa ho immediatamente pensato a un altro racconto ambientato in un campo estivo femminile, Morte per paesaggio di Margaret Atwood, contenuto nella raccolta Come sopravvivere in natura che Racconti ha pubblicato la scorsa estate nella traduzione di Gaja Cenciarelli. Due storie differenti ma per molti aspetti affini, a partire dall’ambientazione, ma più sottilmente per l’inquietudine generata, per il mistero che le avvolge, per la feroce critica sociale che si cela appena sotto la superficie.

Martha Alexander è la ragazza scomparsa di Shirley Jackson: è una giovane studentessa del campus estivo femminile Phillips, ai margini di una cittadina amena in cui poco o nulla accade, e di lei inspiegabilmente si perdono le tracce. Ma è una strana scomparsa che sa di dissolvenza: nessuno quando interrogato pare ricordarsi davvero nel dettaglio di lei, il suo aspetto è descritto in modo ordinario e generico, la sua presenza alle lezioni e attività del campus mai del tutto certa. Svanita, più che scomparsa.

 

Un’attenta verifica degli elenchi delle attività ricreative dimostrò che, se da un lato la ragazza risultava iscritta a recitazione, scienze e nuoto, la sua effettiva partecipazione a quelle attività era incerta; la maggior parte delle istruttrici compilava il registro in modo approssimativo, e nessuna di loro fu in grado di ricordare se una ragazza con quelle caratteristiche fosse stata presente un determinato giorno.

(La ragazza scomparsa, p. 166)

 

È una dissolvenza che sembra preannunciare quella di tante donne adulte costrette ad annullare loro stesse per indossare la maschera di volta in volta imposta, farsi invisibili, fino a scomparire; essere poco, quasi nulla, una figura sfocata sullo sfondo. Ma quando i contorni si fanno più definiti, quando improvvisamente esce dall’ombra – con la sua scomparsa, certo, ma così di colpo Martha diviene reale – l’equilibrio si infrange, il quotidiano turbato dall’inaspettato che confonde ogni cosa fino a quel punto creduta reale. Crollano certezze, le crepe sulla facciata si fanno sempre più profonde, l’irrazionale si fa spazio nel concreto. È sempre una deflagrazione quando una donna esce dall’ombra.

La scomparsa di Lucy, di Morte per paesaggio di Atwood, è, invece, un vuoto dai contorni ben più delineati: la sua presenza al campo estivo è testimoniata da amicizie solide, confidenze, dalla partecipazione alle varie attività. Di lei l’autrice ci lascia scoprire molto di più di quanto faccia Jackson con la sua Martha, perché altrettanto diverso è il significato che si vuole attribuire alla scomparsa delle due ragazze. E qui, di nuovo, sarebbe opportuno distinguere tra scomparire – Lucy – e svanire – Martha – anche se entrambe lasciano dietro di loro numerosi interrogativi cui non verrà data risposta certa. Se di Martha non sappiamo praticamente nulla, qualche accenno generico al suo aspetto ordinario e sporadici dettagli sulla sua famiglia che si rivelano dopo la scomparsa, Lucy è invece una presenza molto più concreta. Lucy è «bionda, con la pelle trasparente e grandi occhi azzurri come quelli di una bambola», si muove a suo agio per il campo estivo e si diverte a infrangere qualche regola. La sua presenza in apparenza è solida, stringe legami con chi le sta accanto. Martha è sfocata, pare più una presenza eterea che una persona reale; la sua compagna di stanza la nota a malapena e, il giorno che scompare, non si volta quando Martha esce dalla stanza; «io esco, devo fare una cosa», sono le ultime parole che dice, poi più nulla di lei. Ma passano dei giorni prima che effettivamente la sua scomparsa desti allarme. Chi è questa ragazza? Ma soprattutto: esiste davvero?
È questo l’interrogativo più profondo e intrigante della storia di Jackson, che assume contorni oscuri e disturbanti. Quasi non esistono tracce di lei, del suo effettivo passaggio al campo, e, lentamente, scopriamo, nella vita stessa: resta sullo sfondo come figlia, come allieva, come amica, confusa ad altre come lei, intangibile, irreale. E così doveva essere per lo svolgersi ordinario delle cose, la sua comparsa in primo piano è l’elemento esplosivo che irrompe sulla scena.
Tutt’altro che intangibile Lucy: lei esiste, è fatta di carne e ossa, è mutevole e scostante nei suoi sentimenti e cambia da un’estate all’altra, nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Lei non svanisce, non fuoriscena almeno, Lucy lancia un ultimo grido, che non assomiglia a terrore ma «più a un grido di sorpresa», poi di lei più nulla, nessuna traccia. La sua scomparsa è sconvolgente e a questa si lega l’accusa, la colpa, che investe Lois, la sua amica, e la perseguita negli anni.

 

Forse non ci pensavano. Forse erano solo addolorate per lei. Ma lei sentiva di essere stata processata e condannata, e questa sensazione le è rimasta addosso: la consapevolezza di essere stata presa di mira, condannata per qualcosa di cui non aveva colpa.

(Morte per paesaggio, p. 139)

 

L’eco di Lucy, la sua presenza, rimane nel tempo, non scompare mai del tutto. Atwood dà corpo a un’inquietudine sottile, che pervade tutto il racconto.
Il perturbante di Jackson ha una consistenza differente, si lega ad altri elementi e spunti, fa leva su paure e fantasmi che paiono adattarsi via via a tempi e contesti sociali diversi, fino al nostro, epoca in cui essere invisibili è lo spauracchio da scacciare con la nostra sempre più invasiva presenza ovunque, da dimostrare continuamente.
Più della scomparsa di Martha, è il mistero della sua esistenza ad ammaliare il lettore. Chi sei Martha? Esisti davvero? Che cosa ti è successo?

 

Un corpo, che poteva essere quello di Martha Alexander, venne trovato, naturalmente, poco più di un anno dopo, nell’autunno inoltrato, mentre scendeva la prima neve leggera.

(La ragazza scomparsa, p. 173)

 

L’esistenza effettiva di Martha è uno di quegli enigmi tipici di Jackson che resterà senza risposta certa: è la consapevolezza o meno di Mrs Smith sull’oscuro passato del neo marito (La luna di miele di Mrs Smith), è la colpa di una bambina che forse ha avvelenato la propria famiglia (Abbiamo sempre vissuto nel castello), è la matriarca che detiene ricchezze e potere e pare disposta a tutto per conservarlo, perfino a uccidere il suo erede (La meridiana), è la fantasia violenta di una moglie che potrebbe tramutarsi in azione (Che pensiero).
Di questi misteri, di queste divergenze, è disseminata l’opera tutta di Shirley Jackson. E la sua scrittura, che non smette di affascinarci per la straordinaria capacità di inchiodare alla pagina e interrogarsi su quanto abbiamo appena letto, sulla percezione di aver a malapena sfiorato il mistero che cela.

Le acrobazie e le feroci divertimenti del raccontare di Witold Gombrowicz

Il Saggiatore porta in libreria Tutti i racconti di Witold Gombrowicz, raccolti integralmente per la prima volta in Italia. Una sintesi perfetta della sua satira conturbante, della sua visione grottesca del mondo, delle sue narrazioni paradossali e stridenti, della sua capacità di dare vita a figure irregolari e assurde, in grado di frantumare in pochi istanti le regole su cui poggia la società.

Cattedrale vi propone una parte della postfazione di Francesco M. Cataluccio per gentile concessione dell’editore.

Acrobazie e feroci divertimenti del raccontare
di Francesco M. Cataluccio

Sin da molto giovane Witold Gombrowicz – che era nato cittadino polacco dell’Impero russo nel 1904 –, traumatizzato dalla Prima guerra mondiale, fu disgustato dalla falsità delle forme che dilagava attorno a lui. A Varsavia si sentiva un escluso, un diverso, e si contrapponeva ostentatamente alla Famiglia, ai suoi Valori, alla Patria: «Odiavo i salotti, adoravo di nascosto le dispense, le cucine, le stalle, i braccianti e le serve – allora ero una specie di marxista – e il mio erotismo precoce, saziato dalla guerra, dalla violenza, e dai canti dei soldati, in seguito mi spinse verso quei corpi segnati dai lavori pesanti e sporchi. La bassezza divenne per sempre il mio ideale. Se adoravo qualcuno, quello era lo schiavo. Ma non sapevo che adorando lo schiavo diventavo un aristocratico. […] Il culto dell’assurdo, realtà/irrealtà, bassezza/superiorità, signoria/servitù, già allora si impadronirono di me. Già allora avevo una doppia vita. […] Ero completamente inadatto all’amore. L’amore mi fu tolto per sempre e sin dalle origini, ma non so se ciò sia avvenuto perché non sono stato capace di trovare una forma adatta a esso, un’espressione appropriata, o se invece non lo avevo in me. Non ce lo avevo dentro, o l’ho soffocato in me? O forse mia madre me l’ha ucciso?».
In apparente contraddizione con la sua attrazione verso le persone delle “fasce basse della società”, a Gombrowicz piaceva sentirsi un “nobile” (appartenente a una Forma “alta”) e amava i titoli e le etichette. La sua famiglia era una tipica “famiglia per bene” della piccola nobiltà terriera polacca (szlachta): il padre, un ex proprietario terriero trasferitosi a Varsavia per fare l’industriale; la madre, di ottima famiglia aristocratica (almeno secondo le ricerche genealogiche del giovane Witold), «delicata, sensibile e molto malata di nervi»; tre figli maschi e una figlia, Irena, attivista cattolica. Nelle foto della giovinezza, Gombrowicz appare sempre elegantissimo, con la bella faccia da furetto e gli occhietti malinconici, in un angolo del gruppo di famiglia. Appartato e triste, dà l’impressione di essere fortemente a disagio tra quei «nobilotti imborghesiti». Non si sentiva capito da loro, era un “anormale”, indeciso se diventare o no un adulto, né carne né pesce. Lo consideravano un eccentrico pieno di complessi con l’inquietante ambizione di diventare un artista; lo trattavano come un immaturo e un «signorino».
Era già allora terribilmente solo. Come molti anni dopo, a Berlino ovest, scoprì Ingeborg Bachmann: «Penso che fosse uno degli uomini più soli che abbia mai conosciuto, completamente abbandonato da tutto, dalla Polonia, dall’Argentina, da Berlino…».
Incapace di stare bene con gli altri, metteva in scena se stesso ai tavolini dei caffè Zodiak e Zemiańska, circondandosi di giovani adoratori estasiati dai suoi “atteggiamenti”. Come ha scritto, con un pizzico di astio, uno dei suoi migliori amici di allora, Tadeusz Kępiński, «Witold fu un campione dell’atteggiarsi sociale e intellettuale. Al suo tavolo, al caffè Zemiańska, sedevano bellissime ragazze, soprattutto di origine ebraica, tanto che lo chiamavano “il re delle ebree”». Oppure “il re ebreo”, perché tra i suoi migliori amici c’erano gli scrittori Bruno Schulz e Adolf Rudnicki. Anche in questo Gombrowicz era un anticonformista in un’epoca nella quale già dilagava l’antisemitismo: «Soprattutto gli ebrei erano miei amici intellettuali e costituivano la maggioranza del mio pubblico. […] Devo molto agli ebrei».
Ma finita la recita, quando tutti scemavano allegri per le vie di Varsavia, Gombrowicz rimaneva solo con se stesso, oppresso da un deserto di incomunicabilità e infelicità.
Fu già allora la noia a spingere Gombrowicz a scrivere. Per far piacere al padre aveva studiato Legge all’Università di Varsavia (lavorando, tra l’altro, a una tesina, rimasta tra le carte del fratello Janusz, dal “profetico” titolo: Solidarność i polityka, Solidarietà e politica). Non essendo affatto interessato agli studi, e cominciando a essere malato ai polmoni, trascorreva lunghi periodi presso il fratello a Zakopane, sui monti Tatra. Nella solitudine totale delle foreste cominciò a scrivere. Riempiva le sue giornate con “strane” fantasie, le stesse che daranno esca ai suoi racconti, ai romanzi Gli indemoniati, Pornografia e Cosmo: «La noia, caro mio, fa novanta, peggio della paura. Quando ci si annoia si immagina Dio sa che cosa!».
Dopo due anni passati in Francia, preso l’Institut des Hautes Etudes Internationales di Parigi, dove tutto fece fuorché studiare, e dopo alcuni tentativi falliti di darsi alla pratica di avvocato a Radom (anche per l’ostilità di molti avvocati del luogo che, a causa delle sue frequentazioni letterarie, lo consideravano di sinistra!), secondo la testimonianza del fratello maggiore, Jerzy Szymkowicz Gombrowicz, Witold cominciò a scrivere in tutta segretezza i suoi racconti rinchiuso nella residenza di Wsola, a novanta chilometri a sud di Varsavia. Scriveva e giocava a tennis (come molti suoi personaggi, a partire dal protagonista degli Indemoniati, faranno). La nobiltà campagnola del luogo gli fornì materiale in abbondanza per le sue storie. Basti pensare al racconto «Il banchetto dalla contessa Frumiga» (Biesada u hrabiny Kotłubaj), che, come narra lo stesso Gombrowicz in Testamento, provocò accese reazioni da parte degli aristocratici. Addirittura i Kotłubaj, una famiglia aristocratica della Lituania, minacciarono di trascinarlo in tribunale per calunnia. In realtà, la protagonista era ispirata alla figura della latifondista-filantropa Marta Krasińska (nel racconto infatti c’è un accenno a un imparentamento di sangue dei Kotłubaj con i Krasiński). Altri spunti gli vennero dalle frequentazioni dei vari caffè della capitale.

Il suo debutto letterario avvenne, nel 1933, con un libro di racconti, non casualmente intitolato Ricordi del periodo della maturazione (Pamiętnik z okresu dojrzewania), che comprendeva sette storie: «Il ballerino dell’avvocato Kraykowski»; «Il breve diario di Jakub Czarniecki»; «Un delitto premeditato»; «Il banchetto dalla contessa Frumiga»; «Verginità»; «5 minuti prima di addormentarsi»; «Eventi accaduti sul brigantino Banbury o dell’aura dell’intelletto di F. Zantman». Gombrowicz scrisse un’introduzione al libro: «Breve chiarimento» (Krótkie objasnienie), che fu tolta quando il volume era già in stampa e si è conservata soltanto in alcuni esemplari. Nella parte finale lo scrittore faceva un’annotazione sorprendente per l’epoca, il 1933 appunto: «Per quel che riguarda in particolare il fattore sessuale, il suo predominio risulta dallo spirito del tempo, che, purtroppo, accentua sempre più fortemente il legame della sfera sessuale con la sfera spirituale; la sopraffazione, la crudeltà in particolare e la ripugnanza risultano dal fatto che, a mio parere, il loro ruolo nella vita supera le più audaci fantasie. Mi riferisco, a questo proposito, a Hitler». Da ciò si comprende come, a ventinove anni, Gombrowicz avesse già raggiunto non soltanto una maturità artistica sorprendente, ma anche una capacità di leggere la sua epoca che ha pochi uguali negli scrittori europei del periodo tra le due guerre. Gombrowicz comunque, molti anni dopo, volle commentare: «A quel tempo non conoscevo né Joyce né Kafka, non avevo mai sentito parlare del surrealismo e di Freud sapevo poco o niente. Se qua o là ho capito qualcosa di queste ispirazioni è solo perché erano già nell’aria, nei discorsi e nelle barzellette».
Il ricco padre di Gombrowicz pagò la metà del costo della pubblicazione dei racconti, come richiesto dalla casa editrice Rój di Varsavia, assecondando a malincuore le inclinazioni del figlio.

Il modo migliore per accostarsi all’opera di Witold Gombrowicz è quello di partire proprio dai suoi racconti: vicende atrocemente ironiche, dove l’assurdità e il paradosso trionfano, e si delinea già nettamente la filosofia visionaria del maggiore scrittore polacco del Novecento. Accingendosi a leggere queste bizzarre storie occorre lasciarsi dietro le spalle il comune senso del reale, le norme che reggono la nostra vita. Gombrowicz e i suoi protagonisti ne fanno polpette, beffandosi di qualsiasi convenzione logica e sociale. C’è un vento di anarchia corrosiva che attraversa questi racconti, una caratteristica che rimarrà anche in tutte le altre opere di Gombrowicz, ma che qui si accompagna con la furia iconoclasta e irrispettosa di un giovane che si sente soffocato dalle forme tradizionali del vivere e dello scrivere, e allo stesso tempo le ama profondamente. Al di là della loro bellezza formale, i racconti sono una schioppettante presa in giro del mondo aristocratico e borghese del periodo tra le due guerre; del moralismo vuoto; della sessualità repressa; del culto dell’apparenza; del rispetto di un’etichetta che appare sempre più ridicola; della famiglia che ha perso ormai il suo ruolo e la sua dignità tradizionali. Questo, però, non pregiudica affatto la grande attualità di molte di queste storie: poche beffe della corruzione dei governanti possono reggere il confronto con il tragicomico banchetto di nozze dell’avido re Gnulo. Ma Gombrowicz ha anche il merito di averci fornito un’interpretazione delle vicende a lui contemporanee estremamente anticonformista e assai vicina al modo che abbiamo oggi di guardare alla crisi del periodo tra le due guerre e all’affermazione dei regimi totalitari. Il successivo romanzo Ferdydurke (1938) racchiude in sé l’essenza di tutti questi racconti e la chiave per capire la natura del successo dei totalitarismi. Scritto alla vigilia della Seconda guerra mondiale, era la satira dell’infantilismo moderno, mostrando gli uomini ridotti a stupidi, fanatici bambini pronti ad azzuffarsi a ogni occasione. La convinzione di Gombrowicz era che più gli uomini si sentono maturi, più sono bambocci. La nostra cultura – avvisava lo scrittore polacco – «non è né completa né intera, non essendo che una fragile costruzione sopra la ribollente anarchia che a poco a poco fa crollare tutto il sistema culturale delle nostre convenzioni».

Scrivere racconti è un lavoraccio. George Saunders su Donald Barthelme

Minimum fax porta in libreria il cofanetto Racconti che raccoglie la narrativa breve di Donald Barthelme. Tra i grandi autori del postmoderno americano, Donald Barthelme è sempre stato considerato il maestro assoluto della forma breve. Le sue raccolte di racconti attraversano tre decenni (dagli anni Sessanta agli anni Ottanta), combinando con originalità e scintillante intelligenza la critica all’emergente società dei consumi, la rilettura dell’America in chiave ironica e surreale, l’eredità dei maestri dell’assurdo, da Kafka a Beckett. Un cofanetto con le sue quattro raccolte più celebri, a partire dal fulminante esordio Ritorna, dottor Caligari, passando per quello che molti critici considerano il suo capolavoro, Atti innaturali, pratiche innominabili, per approdare alla piena maturità di La vita in città e Dilettanti.

Cattedrale vi propone il saggio introduttivo che arricchisce il volume di George Saunders, tradotto da Cristiana Mennella, per gentile concessione dell’editore.

Il criceto perfetto.
Lettura di «The School» di Donald Barthelme

di George Saunders

O-issa!

A volte, nei momenti di disperazione al corso di scrittura creativa, trovo utile ricorrere alla Piramide di Freitag:

È utile soprattutto perché posso indicare la parte definita «Azione ascendente» e spiegare che il difficile è questo – e solo questo: fare in modo che si alzi.
A volte, a questo punto, in classe si sentono delle risatine.

Ma vabbè.

Se voleste un esempio perfetto, platonico, di Azione (ascendente), fatichereste a trovarne uno migliore di «The School», il racconto di Donald Barthelme. Che in sostanza è proprio questo: azione in spericolata ascesa. L’autore imposta uno schema (tutto ciò che viene a contatto con la nostra scuola muore) e lo applica in crescendo. Muoiono degli alberi d’arancio, dei serpenti ci lasciano la pelle, un orto ci resta secco, criceti, topi e salamandre, appena la scuola li prende a carico, cessano di vivere.
E siamo solo al terzo paragrafo.

«The School» rientra più o meno nel filone della «narrazione a schema», che comprende per esempio «Dúsecka» di Čechov (una donna senza personalità assume le personalità di una serie di uomini con cui ha una relazione), Le anime morte di Gogol’ (un uomo va a trovare una serie di persone, cercando di convincerle a vendergli gli atti di proprietà dei loro servi della gleba morti), Canto di Natale (un tirchio riceve la visita di una serie di fantasmi che cercano di convertirlo) e la scena del transatlantico in Una notte all’opera (una stanza minuscola che si riempie di un’infinità di persone). In ognuna di queste storie capiamo, già dalle prime battute, cosa aspettarci: ne intuiamo lo schema.
Quindi: la godibilità di «The School» risiederà anche nel progressivo disvelamento di una serie di Cose Che Muoiono.
Senonché Barthelme si trova subito nei guai (scrivere racconti è un lavoraccio). All’inizio del quarto paragrafo, il lettore è già quasi sul punto di annoiarsi. Ha capito lo Schema e a un tratto gli sorge il dubbio che oltre lo Schema non ci sia niente.
Se dico: «Ho mangiato una caramella piccola, poi una caramella più grande, poi una caramella grande come una stanza, poi una caramella grande come il Montana...» rendo l’idea. Sapete dove sto andando a parare. Lo sfizio c’è, in effetti: state ascoltando una barzelletta, la vostra mente nel complesso sa già che tipo di divertimento bisogna aspettarsi. Ma se io seguito imperterrito («Ho mangiato una caramella grande come gli Stati Uniti! Grande come il Nord America! Grande come...» mi stufo addirittura a scriverlo, anche se mi sarebbe piaciuto arrivare almeno fino a: «Ho mangiato una caramella grande come Urano!»), comincerò a starvi antipatico. Come mai? Perché pecco di presunzione, perché do per scontato che uno schema così semplice e lineare basti a interessarvi. Vi sto trattando da bestie, imbambolate dal pendolo che vi dondola davanti agli occhi.

Una storia è fatta di cose che proiettano in avanti
la nostra automobilina

Quando ero piccolo avevo uno di quei modellini Hot Wheels che riproducevano una stazione di servizio. Dentro la stazione di servizio c’erano due ruote di gomma girevoli. L’automobilina arrancava verso la stazione di servizio e le ruote girevoli la spedivano a fare un altro giro di pista o, il più delle volte, la facevano schizzare fuori pista colpendo in faccia tua sorella.
Un racconto può essere inteso come una serie di piccole stazioni di servizio. L’obiettivo principale è far compiere al lettore un giro di pista; cioè farlo arrivare alla fine della storia. Qualsiasi altro piacere che una storia può offrire (tema, personaggi, morale edificante) dipende da questo.
Nel suo caso, appena avremo intuito lo schema, Barthelme ci proietterà in avanti con una serie di sorprese; ogni nuovo elemento dello schema verrà introdotto a bruciapelo, o con un abbellimento che ci diverte. Per esempio: quando è ora di mandare in scena, cioè di far morire, i pesci tropicali, Barthelme approfitta di una nostra conoscenza (maturata grazie ai tanti pesciolini vinti alle fiere): appena diventano di tua proprietà, i pesci tropicali hanno le ore contate («Quei cosi, basta che li guardi storto e te li ritrovi che galleggiano pancia all’aria»). Ecco qui dunque una stazione di servizio: mentre seguiva lo schema, Barthelme ci ha dato qualcosina in più: una risata, certo, ma soprattutto la prova che l’autore è proprio lì con noi: sa dove siamo e chi siamo, e conduce con noi un gioco rispettoso e intimo. Questo per me rappresenta il «modello sidecar» della lettura: scrittore e lettore fianco a fianco, che piegano insieme in curva, e il piacere deriva dalla reciprocità e dalla simultaneità dell’esperienza.
Allo stesso modo, c’è una piccola stazione di servizio all’inizio del settimo paragrafo, quando a un tratto saltiamo dal Cagnolino Morto all’Orfano Coreano Morto. Questa stazione di servizio rappresenta un crescendo spericolato: Barthelme rifiuta di sottrarsi alla logica del suo schema. L’arte per un verso, quella di Barthelme in primis, consiste nel semplice piacere di osservare qualcuno che osa. Un’altra piccola stazione di servizio basata sulla spericolatezza – anzi, una serie di stazioni di servizio, disseminate lungo la storia – è il piacere che ci procura la sintassi balbettante e frammentaria del narratore, un piacere generato in parte dalla consapevolezza che quella sintassi non è proprio necessaria; certo, serve a connotare il personaggio, ma è soprattutto divertente, nonché formidabile: ci dona piacere, talmente è ben fatta. Un altro piacere nascosto di questo racconto deriva dal fatto che lo schema non è – se posso metterla così – gravato da un peso. Uno scrittore meno in gamba, convinto che la scrittura sia conoscenza, controllo e padronanza, davanti al compito di creare uno schema nel quale le cose muoiono, potrebbe (fra)intendere la propria missione in questo modo: ritenersi in dovere di concepire e attuare uno schema particolarmente carico di senso. Passerebbe un sacco di tempo a scervellarsi, in anticipo, sulle risposte a domande del tipo: «In quale ordine dovrebbero morire le cose?» e «Chi dovrebbe causarne la morte?» e «In che modo il protagonista sarà coinvolto e cambiato da queste vicende?»
In altre parole, il signor Scrittore Meno In Gamba, accortosi con gioia di aver trovato uno schema su cui lavorare, prende e comincia a Meditare. Barthelme procede in maniera più spontanea e vaudevillesca. Lui sa che lo schema è solo un pretesto per il vero obiettivo della storia, che è quello di generare nel lettore una serie di esplosioni di piacere. La storia, dunque, può essere vista come una serie di ripetizioni di un solo avvenimento: il lettore parte dalla piccola stazione di servizio a tutto gas, ansioso di raggiungere quella dopo.



 Concludere è stopparsi senza toppare

 Dunque: lo scrittore che riesce a mettere insieme un congruo numero di stazioni di servizio, capaci di generare accelerazione, distribuite lungo i punti nevralgici della pista, trionfa: il lettore percorre tutto lo schema ed è pronto a ricevere il finale della storia.
Perché per tutto il tempo non ha fatto che domandarsi: Va bene, qui mi sono divertito, lì mi sono appassionato, ma come e quando comincerà a essere letteratura? Quand’è che l’autore prenderà questa cavalcata in stile fratelli Marx e la trasformerà all’ultimo minuto in un Capolavoro Postmoderno?
In altre parole, in che modo questa storia avrà un senso?
Il mondo delle short stories è brutale, e molto simile, nel suo rigore, a quello delle barzellette. Quando racconto una barzelletta, chi ascolta sa che questa culminerà in una battuta finale, e scopo della battuta finale è suscitare la risata. Se nessuno ride, la barzelletta è scema e io sono un coglione. Allo stesso modo, quando una persona presume di scrivere un racconto, ogni lettore sa che questo culminerà in un finale, e che lo scopo del finale è di...
Be’, ma... alt un attimo... qual è lo scopo del finale?
Oppure – domanda da un milione di dollari per chiunque di noi abbia mai provato a finire un racconto – quand’è che possiamo considerarlo riuscito? In altre parole, cosa deve inventarsi Barthelme, a partire dalla fine del nono paragrafo (che per me segna la fine dell’Azione ascendente), per continuare a piacerci un sacco?
Il suo primo compito è di non farci cadere le braccia. Cosa potrebbe farci cadere le braccia? Qualcosa che «risponda» in maniera scontata al suo Schema.

Mettiamo che finisca così:

Poi un giorno entrai e trovai tutti i bambini morti.
E a un tratto non mi sentivo bene neanche io!
Che brutto semestre!
fine!


Questo non è il finale di un racconto, ma il finale di un pessimo discorso dopo cena; lo schema è risaputo e viene applicato meccanicamente, a oltranza. È solo un compitino diligente, ma noi vogliamo di più dal nostro finale.
Einstein una volta ha detto più o meno: «Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato». Sempre a questo proposito, un famoso poeta ha detto: «Se parti con l’idea di scrivere una poesia su due cani che scopano, e scrivi una poesia su due cani che scopano, allora hai scritto una poesia su due cani che scopano».
Noi invece vogliamo che il nostro finale vada al di là dei nostri sogni più sfrenati.
Azz!
Grazie che poi ti viene il blocco dello scrittore.
Ma Barthelme capisce che in quest’ultima pagina deve continuare a fare quello che finora ha funzionato nel suo racconto: deve seguire un crescendo. Finora la storia ci ha tenuto avvinti procedendo fiera e imperterrita lungo l’asse denominato: Morti, Sempre Di Più. Al nono paragrafo (sono morti i genitori, sono morti i compagni di scuola), Barthelme ha percorso tutto l’asse disponibile e si rende conto che, per continuare in crescendo, deve saltare su un altro asse. Sembra intuire che il passaggio successivo sarà il crescendo del crescendo.
«Un giorno», ci racconta, «c’è stato un dibattito in classe. Mi hanno chiesto: Dove sono andati? Gli alberi, la salamandra, il pesce tropicale, Edgar, i papà e le mamme, Matthew e Tony, dove sono andati? E io: Mah, non lo so. E loro: Allora chi lo sa? E io: Nessuno».
Quindi c’è un possibile finale, giusto? L’autore è tornato a riflettere sul suo schema, lo ha affrontato – lo ha commentato con ironia ma anche con serietà, dicendo una cosa vera: nessuno sa perché esiste la morte. Non è un male. Ma nemmeno il massimo. Ci sembra quasi di sentire Barthelme fremere di disagio di fronte a questa constatazione e poi rimettersi in marcia scontento, tastando il terreno con il suo strumento più valido: la travolgente abilità linguistica. Il narratore continua: «E loro: Sarebbe la morte che dà senso alla vita?» (Notiamo questo strano e illogico innalzamento di registro: tre righe sopra i bambini dicevano ancora «i papà e le mamme».) «E io: No, è la vita che dà senso alla vita». (Ci piace il fatto che il narratore non resti spiazzato dall’improvvisa capacità di eloquio dei suoi alunni. Non ci fa proprio caso. Non è che forse, ci viene il dubbio, si esprimono sempre così?) «Poi dissero: Ma la morte, considerata come dato fondamentale, non è lo strumento grazie al quale la prosaicità del quotidiano...»
Cavolo, pensiamo, frena un attimo, adesso si esprimono in tono ancora più elevato...
«...che noi diamo per scontata può essere trascesa in direzione del...»
Secondo me a questo punto è successo che Barthelme si è stufato di fare il bravo. Senza stare troppo a chiedersi se è permesso o verrà capito (o se gli allievi di un laboratorio di scrittura lo tollereranno), si lancia nella direzione in cui lo sta portando la sua logica – al diavolo il registro appropriato – cercando di fare in modo che la storia risponda alle domande che sono sorte fin dall’inizio: Come ci regoliamo con la morte? Come si vive in un mondo dove regna la morte?
E noi gli andiamo dietro perché il suo coraggio ci entusiasma.
Dunque sfrutterà questa concessione che gli abbiamo fatto – il registro più ampio – per concludere la storia su una verbosa base filosofica? («Allora la piccola Sally Adams postulò che ciò che si manifestava a loro come prosaico poteva essere interpretato altrettanto semplicemente come un esempio di Enigma Prospettico di Brugenheiser, e in quel momento la campanella suonò, e i bambini balzarono fuori dai banchi, soddisfatti dalla spiegazione di Sally, e la giornata finì, come tutte le nostre giornate, alla fine, finiranno, per tutti noi, per sempre».)
Grazie a Dio no. Ce lo risparmia.
Riparte col crescendo. Gli alunni (sempre in tono professorale) gli chiedono di fare l’amore con Helen. Come sarebbe a dire? Fino a un secondo fa non c’era nessuna Helen. Scusate, Donald va di fretta, e non può/non vuole spiegarcelo, se non dicendo, tra parentesi, che Helen è l’«insegnante di sostegno». «E dài, abbiate pazienza!», sembra dire. «Anch’io ci sono rimasto di sasso! Statemi dietro e basta!»
Allora? Il narratore ed Helen faranno l’amore? Il lettore non ne ha la minima idea, però gli interessa. Il narratore prende tempo: «Ho detto che mi avrebbero licenziato e che non si faceva mai, o quasi mai, a mo’ di dimostrazione». (Quel «quasi mai» è una bella stazioncina di servizio.)
E alla riga: «Helen guardò fuori dalla finestra», il lettore (o comunque il sottoscritto) s’innamora, una volta per tutte, di questo racconto. Perché? Be’, tanto per cominciare, Helen vuole farlo, e lo farebbe volentieri, di fronte a tutta la classe, se solo il Narratore glielo chiedesse. Lo ha sempre amato. Poche righe fa non sapevamo nemmeno che Helen esistesse, ma adesso sì, e lo sa anche il Narratore, e la vocina nella nostra testa che fin dall’inizio ci diceva che il Narratore non ha una vita privata in questa storia, che non ci sono vere emozioni umane nella storia, che questa presunta storia è solo uno schema, viene messa a tacere: adesso questa è, in piccolo, una storia d’amore. Una storia d’amore! Vediamo Helen chiaramente: le sue scarpe comode, le macchie d’inchiostro rosso sulle giovani mani, che lei si torce ogni sera nel suo spoglio appartamentino di insegnante di sostegno, sognando una vita insieme al Narratore. Ma Helen è timida! Non vuole chiedere niente! Non è una sfacciata, la nostra Helen...
Però... non c’è nessuna Helen. O non c’è quasi nessuna Helen. Helen esiste solo da quattro paragrafetti e rappresenta già l’amore silenzioso, devoto e non corrisposto. Il piacere che ci dà Helen è in parte anche il piacere che troviamo nell’incredibile economia stilistica di Barthelme.
La Helen dei quattro paragrafetti siede tamburellando le dita macchiate d’inchiostro, guardando fuori dalla finestra, e aspetta, spera...
Gli alunni tornano alla carica, e noi capiamo che fare l’amore con Helen sarebbe un vero terno al lotto. Non solo piacerebbe a Helen, ma il Narratore sembra un po’ solo, e sarebbe un bene, in fondo, anche per i ragazzi («Abbiamo bisogno di un’affermazione di principio», supplicano, «abbiamo paura»).
Stranamente siamo molto curiosi, o almeno io lo sono sempre, di vedere se ci sarà uno scambio di effusioni su questa cattedra di uno sperduto angolo del Midwest assediato dalla morte.
Manca ancora un lungo paragrafo.
E guardate cosa è successo: improvvisamente Barthelme può finire il racconto come gli pare e piace. Ormai il più è fatto. Se il narratore comincia a fare l’amore con Helen va bene. Se rifiuta, idem. L’aria è carica di significato. Ovunque guardiamo. Sembra che il Narratore stia per rinunciarci – bacia Helen in fronte – ma sentiamo che lui ed Helen potrebbero fare l’amore di lì a poco, magari solo in separata sede, magari nell’appartamentino di lei. Tutto è cambiato tra loro. A un tratto in quell’aula non c’è solo la morte, ma anche la vita, e l’amore.
Il lettore è soddisfatto: sono successe un sacco di cose, in così breve tempo e in maniera così inaspettata. Potrebbe finire con una semplice frase: «Guardai Helen e anche lei mi guardò».
Ma Barthelme, che è un grande, si dilunga abbastanza per prodursi in un ultimo crescendo che, essendo Barthelme un grande, si incarna nella persona (?) di un criceto.
Da dove sbuca il criceto? Come ha fatto a trovare la classe? E perché un criceto e non (se cerchiamo la circolarità) un albero di arance, o almeno un serpente? Come ha fatto a bussare alla porta? Non sa che questa è proprio la classe sbagliata, che presto morirà? Oppure – chi può dirlo? – forse l’amore appena svelato di Helen per il Narratore ha cambiato tutto, e il criceto vivrà e prospererà e diventerà così grasso da straripare dalla gabbia!
È un finale ambiguo, e spiritoso, e in qualche modo perfetto: questo piccolo trepidante roditore, che aspetta educatamente che gli aprano la porta, pronto a morire, o a vivere.
E i lettori, insieme agli alunni, «applaudono come matti».

© George Saunders, 2007 © minimum fax, 2022 Tutti i diritti riservati

 

 

«La dannata penitenza che contiene»: tradurre Gordon Lish, di Roberto Serrai

di Roberto Serrai

In un’intervista citata (senza fonte, ahimé) dal Guardian lo scorso 7 ottobre, Annie Ernaux ci ricorda che «siamo fatti di parole» e che queste «ci attraversano». Tra le righe dell’articolo (di Rhiannon Cosslett) spunta un’altra riflessione: per il tramite delle parole le cose diventano vere, o più vere, proprio quando si dicono. Come uno scrittore, un traduttore non è solo fatto di parole: vive in loro compagnia, al loro servizio, e non ultimo grazie a loro. Sono così importanti da renderlo un accumulatore seriale: non le butta mai (anche quando vanno a male), le raccoglie ovunque ne trovi per custodirle, e quando occorre le ruba. Proprio come un attore (e torna il noto paragone di Umberto Eco tra il tradurre e l’interpretare un ruolo: recitare, insomma, diventare qualcun altro restando se stessi), obbligato ad avere una visibilità, può – deve? – rubare gesti, camminate, posture.
Quando mi venne proposto questo progetto presi tempo; dettagli da chiarire, ma la realtà è elementare: avevo paura. In trent’anni ho lavorato a quasi cento libri, ma l’inquietudine non se ne va. È anche una cautela: non tutte queste traduzioni sono andate come speravo; a posteriori, e non senza peccato, so che è successo le poche volte che ho creduto di saper fare. Ho preso coraggio, perché non si può fare questo mestiere e dire di no a un progetto così, ma ho intravisto sul serio l’eventualità che la mia carriera finisse. Una telefonata di Lish, furente. Penali superiori ai miei scarni depositi. Unirmi, dopo sei lustri, alla schiera di quelli che Mattia Carratello, editor presso Sellerio, una volta chiamò «traduttori-sòla». Oppure no: ogni atto creativo, del resto – e almeno questo della traduzione lo si può dire: è un atto creativo – scaturisce da un’inquietudine, alla quale (dovrebbe) risponde(re), no?
La mia riserva di parole stavolta mi è servita tutta. È cospicua, ma non se ne conoscono mai abbastanza: questo è un assioma cartesiano. Tengo inoltre, qui, a sfatare uno strano mito che sembra accompagnare la figura del traduttore: che sia una sorta di sciamano (a volte un negromante, ma io non chiedo mai niente nemmeno agli autori vivi: è ammettere di non aver capito, e insinuare che non si sono spiegati), infuso dal tocco di qualche dio di una scienza e di una verità ignote ai più, che gli permettono di rendere un testo come altri mai. Il traduttore in realtà è un operaio, e il suo un lavoro manuale. Fa quello che il suo padrone (l’autore di turno) gli dice. Specializzato, ma operaio. Ho dovuto ricorrere a certi modi di dire di mio nonno, per esempio. Ho dato al padre di Salinger (in «A Jeromè: con amore e baci») la voce – e, nella mia mente, la densa gestualità – del padre di un mio caro amico, un po’ perché era perfetto per quel ruolo, un po’ in omaggio alla comune passione rivoluzionaria per Thomas Hardy. Ho tenuto conto delle altre opere di Lish (soprattutto il secondo romanzo, Peru, del 1986, per tutto un discorso sul colore verde, e per certe atmosfere d’infanzia, diciamo). Ho ricordato tutti i miei amici ebrei americani, il loro argomentare, le loro idiosincrasie. Il rabbino capo di Huntington Woods, Michigan. Ho attinto, come prescrive Stanislavskij, alla mia «memoria emotiva» (quando ero più giovane sceglievo sempre un personaggio da ogni libro a cui lavoravo, non necessariamente il protagonista, e lo diventavo, nel quotidiano: Proprio come gli attori del «metodo» – cercavo di convincermi).
Non è magia: è il pane quotidiano, e comunque non basta. La scrittura di Lish, anche quando mette da parte la metanarrativa, è molto complessa: somiglia davvero alla «stanza piena di specchi» della quale parla (a p. XIII) Francesco Guglieri nell’introduzione al nostro volume, dove non si fa in tempo a cogliere una immagine / verità stabile che questa si scioglie subito, per contraddirsi, nella immagine / verità successiva. È un flusso, a volte, che non si può che assecondare, al quale non rimane che abbandonarsi. Resistere è pericoloso: è forte come una corrente di risacca. In The Big Chill (1983) di Lawrence Kasdan, Nick (il personaggio di William Hurt) rimprovera Sam (Tom Berenger) di essere sempre «…così analitico! A volte devi lasciare che l’arte… fluisca dentro di te». Questo non significa certo che si traduca limitandosi a seguire il flusso; il gioco di specchi, questo seguire / inseguire le immagini / verità, è l’effetto che alcuni di questi testi devono avere sul lettore – la sensazione di avere tra le mani (non vale per tutti i racconti del libro, è ovvio, ma per molti sì), ed ecco di nuovo l’articolo su Ernaux, «una raccolta di momenti e frammenti che formano un tutto»: parole che «ci attraversano» e, alla fine, ci lasciano qualcosa, e dunque tradurre questi racconti significa riprodurre questo effetto, e insieme la sua conseguenza, questo qualcosa.
Senza essere troppo «analitici»: senza dubbio, alcuni di questi testi un po’ autoreferenziali lo sono. Refrattari, forse o, più correttamente al di là delle nostre comunque limitate possibilità ermeneutiche. È qui che entrano in gioco l’esperienza, la sensibilità linguistica (nemmeno questa è infusa: la si apprende, e dopo va allenata, quotidianamente), e l’intuito (l’unica mia vera dote, secondo la mia insegnante di inglese al liceo). E una revisione puntuale, e in questo caso c’è stata, ma non è sempre così. A volte – non spesso, certo, ma perché negarlo? – si traduce ricorrendo a uno strumento che si colloca a metà tra il rasoio di Occam e la spada di Alessandro Magno davanti al nodo di Gordio (ma senza tagliare niente; sarebbe un residuo, e il residuo è il male, posto che non si riesca a compensarlo): esaurite tutte le opzioni a disposizione, che devono essere plurime, esplorato ogni plausibile doppio senso, individuato e gestito ogni eventuale rinvio intertestuale (palese oppure – quelli più divertenti – occulto) e/o elemento culturo-specifico, in buona coscienza quel che resta dev’essere giusto. Come nella stessa scena di prima, in The Big Chill. Sam interroga Nick sul film che sta guardando: «Cos’è?» «Non lo so». «Di cosa parla?» «Non lo so». Però, concludiamo noi, è così che lo dice. Non è un’ammissione di superficialità. Tutt’altro. Saper adoperare questo strumento (un’altra cosa che si impara, e non scende dal cielo come la manna) vuol dire garantire, per quanto possa farlo un essere umano, o forse proprio perché si tratta di un essere umano e non di Google Translate, una traduzione forse non troppo glamour, magari non esteticamente «bella» ma senz’altro corretta. Perché la bellezza è un altro paio di maniche: di solito viene da sé, e quando vuole lei. O meglio, sei sempre tu che l’hai convinta, ma te ne rendi conto dopo. Al momento, ringrazi e basta.
Avevo paura, inoltre, perché in passato mi ero fatto un’idea, di Lish, quanto meno incompiuta. E nulla fa cambiare parere come la lotta corpo a corpo con un testo che implica il tradurlo. Lo immaginavo, Lish, consapevole delle proprie capacità fino alla presunzione (di qui la difficoltà nel rendere uno dei titoli, [entitled], che dizionario alla mano suggerisce proprio questo: una persona convinta che tutto le sia dovuto). Lish però, leggendo come legge solo chi traduce, non mi è sembrato questo. A volte molto pronto a dare giudizi, certo, come nel caso della poeta in «Come scrivere una poesia» (sul quale torneremo a breve). Lish, o la combinazione dei molti narratori in prima persona di queste storie, è veramente (tornando a citare Guglieri, o meglio Perec attraverso Guglieri) un luogo impossibile da «esaurire», ma (secondo me) judgmental senza esserne entitled no. L’ho capito in un attimo, una riga, uno di quei momenti che in Joyce chiameremmo epifanie: in «A cena con Ozick e Lentricchia» il lettore, per apprezzare il racconto, non ha realmente bisogno di sapere chi siano, Ozick e Lentricchia. E Lish potrebbe avere la presunzione di tacerlo, dando per scontato che il «suo» lettore lo sappia. Ho frequentato abbastanza gli ambienti accademici (e l’editoria) per aspettarmelo, ma lui invece no, lui al lettore lo dice: una romanziera e un critico letterario. A tanti potrà sembrare poca cosa, e chissà se davvero non lo sia, ma per me è un segno di rispetto, se non un atto dovuto, e dunque mai scontato, e quando bisogna restituire la voce di un testo in un altro sistema significante sono dettagli importanti; il lavoro su un testo non è mai finito (per questo in tanti non rileggiamo le nostre traduzioni quando vengono pubblicate), ma fino alla consegna c’è sempre tempo per un ripensamento, per tornare indietro. Piuttosto che a un presuntuoso, ho preferito dunque pensare al negozio che, nello stesso racconto, Lish narratore incontra mentre va al ristorante, che si chiama (il negozio) «GORDON» e che tratta «Giochi di Prestigio, Curiosità, Travestimenti» (p. 253).
La poeta, dicevamo. Una scrittrice mediocre, contro la quale il narratore un po’ se la prende ma in fondo, ammettiamolo, come dargli torto? Era doveroso, qui, resistere alla tentazione di calcare la mano (il testo lo fa già di suo) – ma quell’articolo femminile premesso a un sostantivo che almeno per il mio caro Devoto-Oli (2015) è ancora solo maschile, e che indica pur sempre e comunque la si pensi una forzatura linguistica, proprio per questo si poteva scegliere, e l’ho fatto. Francesco Guccini «non dic[e] più d’esser poeta» dal 1974 («Canzone delle Osterie di Fuori Porta»); due anni dopo gli farà eco l’amico Roberto Vecchioni, lamentandosi che «adesso è giorno di mercato, spuntano a grappoli i poeti / tutte le isole han trovato» («Canzone per Francesco»). Lish non è da meno: «[Il marito della poeta] era un poeta anche lui? Molto probabile. Oggi ci sono tantissimi poeti» (p. 30) [L’inglese ha un verbo bellissimo per questi giudizi così tranchant, espressi però con molto aplomb, e l’aria impassibile: to deadpan]. Se l’atto di definirsi poeta può essere un segno di arroganza (e dev’essere così: il sostantivo ricorre trentuno volte in meno di sette pagine), farlo con una forzatura grammaticale non lo è, in fondo, di più, però magari contribuisce a smascherare questa donna, e con una bizzarra eleganza. Sono sfumature, tuttavia: non è nemmeno questa la sua vera debolezza (e quindi conviene non insistere): essa, la debolezza, è piuttosto non aver voluto, o saputo, scrivendo (ricordate l’atto creativo e l’inquietudine?), guardare negli occhi ciò che le ha messo paura, e farlo proprio (riassumendo le pp. 27-8). La poeta ha preferito darsela a gambe, e il risultato è la banalità.
Proprio quello che non accade, appunto, a Lish narratore nei due racconti che hanno come pre-testo la lunga malattia della moglie Barbara, spentasi nel 1994 per una sclerosi laterale amiotrofica, quella che il testo sceglie di chiamare piuttosto – quante cose edulcora il baseball: Schulz, per tacere di altri, ce lo ha insegnato – «malattia di Lou Gehrig»: il già citato «A cena con Ozick e Lentricchia» e «Buon divertimento, Anna!». Saranno stati, immagino, racconti difficili da scrivere. Dolorosi? Forse sì. Consolatori, magari catartici? Me lo auguro. Doloroso e difficile certo è stato tradurli. Uno dei loro temi è, infatti, il senso di colpa di chi sopravvive alla malattia di una persona cara: quello che accompagna inoltre, nella migliore delle ipotesi, l’umano desiderio di «staccare», prendersi ogni tanto una pausa dal dolore, e nella peggiore, la sensazione di non esserci «stati», per quella persona, come avremmo potuto, voluto e soprattutto dovuto. Lish narratore, qui, trasferisce tutto questo su due oggetti: i pince-nez di Barbara (quelli che, per coerenza con l’assunto, a un certo punto rischiano di ucciderlo) nel primo racconto, la moquette nuova – la parola moquette ricorre diciotto volte in quattro pagine e mezzo – nel secondo. Con ancora maggiore umiltà di Ernaux (e, naturalmente, cadendo in una sorta di contraddizione), Lish narratore riflette su come «quando diciamo certe cose a qualcuno gliele diciamo sempre tutte sbagliate», ma non rinuncia alla scrittura, a guardare negli occhi (a differenza della poeta) ciò che ha messo e mette paura. E se la vecchia moquette assorbiva e nascondeva tutti i segni della malattia di Barbara, sopra quella nuova si vede ogni cosa: «tutto il cascame, tutti i detriti, le scorie incessanti del semplice esistere che ti guardano in faccia e ti accusano». Io qua ho voluto vedere un riferimento alla «oscurità del mero essere» di Jung; anche la versione inglese di Erinnerungen, Träume, Gedanken (1961) usa «mere being», come Lish, e tuttavia il «mero essere» dell’edizione italiana mi sembrava francamente debole, e allora gli ho preferito «semplice esistere», che mette anche – o dovrebbe – più paura. Luciano Bianciardi una volta (non ricordo dove o quando, e forse dovrei ometterlo, ma anche se non l’avesse mai detto avrebbe potuto, perché lo sapeva) disse che tradurre significa bere l’amaro calice fino in fondo, alludendo al fatto che se un lettore può scansare un brano che lo addolora, il traduttore no. Questa è una delle cose più importanti che ho imparato, in trent’anni.
Nel primo di questi due racconti, inoltre, Lish narratore piange. «Lacrime» compare cinque volte in tutta la raccolta (all’università ci davano da mangiare pane e strutturalismo, si sente?), e di queste cinque tre sono qui. Nella raccolta, il primo racconto che ho tradotto è stato «How To Write A Poem», e avrei voluto intitolarlo «Istruzioni per scrivere una poesia», in omaggio a Cortázar. Poi abbiamo optato, coerentemente, per un titolo diverso; pazienza, sarà per un’altra volta. Ma con quelle lacrime sono tornato comunque a una delle pagine per me più belle dello scrittore argentino, le «Istruzioni per piangere» (in Historias de cronopios y de famas, 1962). Per Cortázar (nella traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini), «lasciando da parte le motivazioni», per piangere (laddove per cantare bisogna dimenticarsi di sé) «occorre fissare l’immaginazione su se stessi» e, come bambini, farlo «con la manica della giacchetta sulla faccia, e preferibilmente in un angolo della stanza».
Per tradurre questi due racconti come meritavano ho dunque fatto ricorso alla memoria emotiva di Stanislavskij, e alle lunghe malattie di persone care che hanno segnato oltre quindici anni della mia vita. Io dico sempre e ci credo davvero che il traduttore, traducendo, debba sparire. Egli, parafrasando Dickens, non ha i dubbi di David Copperfield; già sa di non essere l’eroe di nessuna storia: quel posto è «tenuto da qualcun altro». Quando attinge alla sua memoria emotiva, però, diventa difficile. È per questo che, dopo trent’anni, mi rendo conto di aver cosparso i libri ai quali ho lavorato – sempre senza danneggiare i testi, anzi con l’obiettivo opposto – di una serie di messaggi in codice, che alcuni potrebbero (e chissà se qualcuno di loro mai vorrà) decifrare. C’è un motivo, per esempio, perché lo sfortunato ragazzo egiziano in The Winter Vault di Anne Michaels si chiama Bertuccia, o perché in Parisians di Graham Robb (peraltro mai pubblicato, ma lì sta) la madre di Proust è indicata come «la Maman». Uno di questi messaggi lo svelo qui: le lacrime di Lish narratore (ma «un pianto che non sconfini nelle urla», come prescrive Cortázar) sono anche le mie, il suo senso di colpa è anche il mio, per non avere accudito mio padre come a suo tempo lui aveva accudito me; e anche io, potendo, avrei scelto la moquette nuova proprio per il motivo di cui il personaggio di Anna Kraczyna (che, per dire, nella realtà ha appena firmato per Penguin, con John Hooper, una nuova traduzione delle Avventure di Pinocchio di Collodi) subito si accorge: «per la dannata penitenza che contiene», e per continuare a non perdonarmi.

Seduzione e ritorno. Un saggio sui racconti di Leonhard Frank

Del Vecchio Editore porta in libreria Seduzione e ritorno, di Leonhard Frank, in cui si raccolgono le novelle Karl e Anna, Novella tedesca e II ritorno di Michael, scritte in tre periodi diversi e accomunate dalla tessitura sapiente del tema amoroso coniugato alla necessità di una critica sociale che affronti il senso dell’umano. Leonhard Frank si rende portavoce di speranze, visioni e afflizioni diverse, e guarda, proprio in questi tre testi, oltre la pacificazione sociale come garanzia di felicità collettiva.

Cattedrale vi propone una parte del saggio di approfondimento in appendice al libro, firmato da Paola Del Zoppo, per gentile concessione dell’editore.


Seduzione e ritorno
di Paola Del Zoppo


Autore engagiert, figlio della classe operaia, cresciuto nelle bande di strada e tra le botteghe artigiane, e ostile a ogni idilliaca rappresentazione della borghesia, Leonhard Frank è stato uno dei maggiori, più premiati, più letti, più discussi scrittori del Novecento tedesco. La sua ricezione sporadica e altalenante, sia in Germania che all’estero, resta un enigma che incuriosisce critici e lettori. Figura di spicco sin dagli albori della carriera, sarà due volte in esilio: in Svizzera perché pacifista irriducibile durante la prima Guerra mondiale e in Francia e poi per molti anni in America durante la seconda. Nel periodo tra le due guerre è l’autore più rappresentativo della scena tedesca e berlinese in particolare. Else Lasker Schüler lo definisce “il dio Frank” , Glauser lo accosta già negli anni Venti alla grandezza di Kafka, dai suoi testi vengono tratti film di successo anche oltreoceano, eppure le tracce dello scrittore e della sua scrittura narrativa e drammaturgica si perdono per molti decenni della seconda metà del Novecento. Una delle questioni più controverse sarebbe, secondo molti, l’abbandono della verve politica dimostrata a cavallo dei due secoli a favore di una “sentimentalizzazione”. In questo, la scelta di antologizzazione in questo volume si pone come risposta e spunto. Le tre novelle qui presentate, che sembrano incentrarsi sulla tematica erotica, rappresentano una sorta di “trilogia” compatta. La loro lettura in questa veste illumina il pensiero di Frank e la sua unitaria intenzionalità per un arco di tempo che va dagli anni Venti alla fine degli anni Cinquanta, ma anche le connessioni con le opere antecedenti.

Frank e la Repubblica di Weimar

La fama di rivoluzionario pacifista acquisita da Frank tra l’inizio del Novecento e il periodo della Grande Guerra, e testimoniata soprattutto dal ciclo L’uomo è buono, deve declinarsi in un diverso atteggiamento politico nel periodo weimariano, momento del suo maggior successo letterario anche di pubblico. Tornato dal primo esilio in Svizzera, Frank scrive quattro romanzi lunghi e importanti: Von drei Millionen Drei (Tre di tre milioni: sulla condizione drammatica della classe operaia nella crisi post-bellica); Das Ochsenfürter Männerquartett (Il quartetto maschile di Ochsenfürt, continuazione del suo testo di esordio Die Räuberbände (I masnadieri/ Banda di briganti) che ebbe un enorme successo di critica e pubblico negli anni antecedenti la Grande Guerra. Die Räuberbände trattava con un complesso e corale sguardo intergenerazionale il vissuto dalla gioventù povera della provincia tedesca. Das Ochsenfürter Männerquartett prosegue raffigurando gli stessi protagonisti, oramai adulti, che compiono scelte disperate anche per il venir meno della solidità psicologica data da un ordine sociale che non riesce a rinnovarsi veramente. Il potere vuole mantenersi stabile e di certo non vogliono gli uomini malvagi che Frank rappresenta sempre come antagonisti passivi o attivi del cambiamento sociale. Degli stessi anni è l’intruso romanzo Der Bürger (Il borghese), meraviglioso e impietoso affresco dell’adattamento sociale, dello svuotamento morale e dell’inganno borghese della società di Weimar. Davvero di grande spessore, e rivoluzionario, il complesso testo Bruder und Schwester (Fratello e sorella) in cui Frank riprende con altezza tragica il tema dell’incesto, incastonato in una società di fatto irreale, proprio per dimostrare la vacuità dei moralismi che non possono prescindere dal contesto politico-sociale in cui si rivelano o si vivono: un fratello e una sorella si innamorano ignari della loro parentela e finiscono per vie non semplici per coronare il loro sogno di unione. Bruder und Schwester fu un libro che turbò molto i lettori e i critici dell’epoca, ma che esercita appunto una sottile e capillare critica alla società anche nella sua struttura basilare di kinship basata sul sangue. Del periodo weimariano sono anche molte rielaborazioni e riscritture o adattamenti per il teatro o il cinema. Der Mensch ist gut/L’uomo è buono, viene più volte rielaborato e la versione che ne leggiamo oggi (e su cui, con i giusti confronti è basata la traduzione italiana) è una delle più recenti. Lo stesso vale per Die Ursache (L’origine del male) , la famosa novella apprezzata anche da Gramsci, che narra il processo e la condanna a morte di un giovane poeta: viene rielaborata nel 1927 e poi per il teatro nel 1929. E soprattutto, è negli anni di Weimar che vedono la luce la maggior parte dei suoi racconti brevi più noti, pungenti e amari ritratti di una società inceppata .

Eros, società e politica

Leonhard Frank si è infatti sempre considerato uno scrittore politico. La resistenza a riconoscere la valenza politica delle novelle e dei romanzi in cui la tematica amorosa e/o erotica è in primo piano va considerata l’effetto di una miopia categorizzante e opportunistica. La critica è verso le convenzioni sociali, le costrizioni, ma soprattutto verso la menzogna della libertà solo apparente. In verità l’appiattimento dell’erotismo sulla sessualità in funzione socialmente manipolativa, anche e soprattutto quando l’approccio psicanalitico – che invocava la cosiddetta emancipazione – non faceva altro che rigettare uomini e donne in balia di altri strumentari del controllo. Frank, fin da L’origine del Male, evidenzia come la sessualità sia sempre utilizzata, nei discorsi come nella società, come controllo più o meno subdolo delle esistenze femminili e degli esponenti meno “inseriti”. In L’origine del male, ad esempio, resta impressa la terribile scena in cui la prostituta amica del poeta Seiler si lascia prendere da un cliente morboso per poter prestare dei soldi al poeta in difficoltà, e la cui testimonianza al processo per omicidio di cui Seiler è oggetto, viene poi screditata perché appunto è una prostituta. D’altro canto, tra le cause della rabbia del poeta per il maestro Mager, Frank elenca la morte suicida della giovane sorella, messa in imbarazzo a scuola perché costretta ad alzare la sottana.
Il numero dei romanzi e delle novelle pubblicati, e quella che veniva considerata “varietà” dei generi affrontati ha, per molto tempo, fatto pesare su Frank il giudizio di una certa disunità di stile e tematiche e fatto discutere i critici. Ma come in questo volume si evidenzia, proprio l’intenzionalità politica di critica anche alla Repubblica e poi alla società del dopoguerra, e di svelamento della falsificazione “liberale”, rappresenta invece una forte unità della visione autoriale che non può disgiungersi dalle rappresentazioni letterarie. Il realismo visionario di Frank fa sue le figure della metafora e dell’allegoria, più esplicitamente nel primo periodo, come in Die Ursache, in modo sottile nei testi del periodo più maturo. Frank punto sullo “svelamento” che si ottiene tramite rappresentazione delle miserie umane amplificate e rese sopportabili dalla mitologia weimariana prima e dalle mitologie della ricostruzione poi. Secondo l’autore il disagio emotivo e psicologico che innerva la sociabilità e filtra le visioni del mondo – e di cui Frank acquisisce anche per motivi biografici una competenza particolare proprio negli anni di Weimar – rischia di essere celato dall’anticonformismo imborghesito, che inghiotte e riformula una serie di violenze endemiche – prima fra tutte la non-libertà delle donne e il controllo esercitato sulle donne – per asservirsene e mantenere lo status quo di carattere maschile. Nelle tre novelle qui raccolte, Frank esplicita questo nucleo tematico intensissimo, riportando la lente del controllo sociale e della manipolazione fin nelle minime pieghe dei racconti. In Karl e Anna, l’amore “non” lecito si rende lecito nella sua autenticità, e il richiamo alla letteratura contemporanea e alla tragedia classica creano un gioco di specchi che allontana dal giudizio e rende chiaro come la vita tragica non permetta nessun tipo di conservatorismo né di felicità assoluta nella fedeltà a se stessi. Anche l’utopia pacifista di L’uomo è buono – in cui le donne erano protagoniste assolute e motori del cambiamento – deve ripassare per la tragedia della violenza prima (Novella tedesca) per poi rifarsi utopia possibile di un amore che può allontanare dall’individualismo come valore e rendere a uomini e donne la loro dimensione di esseri politici (Il ritorno di Michael).
La scelta della specifica forma narrativa della novella, che nel modernismo – anche a seguito dell’acceso dibattito estetico che si strutturò alla fine dell’Ottocento – riacquisisce il carattere di exemplum (Lehrstück) affiancandogli una sperimentazione metanarrativa tipica del teatro d’impegno, vede in Frank, il “novelliere esemplare” una specifica congiunzione tra la concezione goethiana della «sichereignete unerhörte Begebenheit» e la tensione alla “messa in scena del pubblico” del teatro ibseniano prima e brechtiano poi, congiunzione che si sviluppa in maniera più distesa nei romanzi.