Tobias Wolff: l’invenzione, la memoria, il dubbio

di Debora Lambruschini

 

Si dice spesso che la scrittura si nutre di ossessioni. Per Tobias Wolff, scrittore classe 1945 originario di Birmingham, Alabama, l’ossessione sono le parole e la letteratura stessa: parole da limare con cura artigiana, una letteratura che si dispiega in tutte le sue molteplicità e che trova un equilibrio ideale nell’intreccio di finzione e memoria. «Se questa sembra vagamente la biografia di un autore, non è un caso», scrive in Old school (Quell’anno a scuola, Einaudi, 2005, novella) e il confine tra ciò che è invenzione e ciò che è memoria è sempre più sfumato, in una commistione riuscitissima tra personale e letteratura. È una delle declinazioni di quella che conosciamo come autofiction, ma che in certa misura è il fondamento della scrittura stessa, quell’io che si frantuma sulla pagina in milioni di pezzi e si fa altro dall’autore. In Woolf non c’è inganno e l’esperienza personale – soprattutto l’infanzia vagabonda al seguito della madre e gli anni da soldato in Vietnam – sa intrecciarsi all’invenzione quanto restare ancorata alla realtà nella forma del memoir, i due poli principali – non gli unici, è autore anche di romanzi – intorno a cui gravita la sua scrittura.
Come scrittore esordisce piuttosto tardi, alla soglia dei quarant’anni: la prima raccolta, In the garden of the North American Martyrs è del 1981 e si impone all’attenzione di pubblico e critica proprio per quell’intreccio di finzione e memoria che caratterizzerà tutta la sua produzione letteraria, per il rigore dato alle parole, per il racconto di uomini e donne di fronte ai dilemmi morali del quotidiano che diventano una sorta di soggetto tematico delle storie. Pochi anni dopo pubblica la novella The Barracks Thief (Il ladro in caserma,[RM1]  prima edizione italiana Einaudi 2002, poi nuova edizione Racconti del 2023) che gli vale il Pen Faulkner Award for fiction, primo di una serie di riconoscimenti importanti che culmina con la National Medal of Arts consegnatagli nel 2015 dall’allora Presidente Obama per come ha affrontato nella sua opera «i temi dell’identità americana e della morale individuale, riflettendo sulle verità dell’esistenza». Si alternano negli anni raccolte di racconti, romanzi, memoir, tra cui: Back in the World (Racconti, 1985), The boy’s life (Un vero bugiardo, Einaudi, 2003, memoir sulla sua infanzia vagabonda al seguito della madre), In Pharaoh’s army (Nell’esercito del faraone, Einaudi 1996, memoir sull’esperienza in Vietnam), The night in question (Proprio quella notte, ultima edizione Racconti, 2024), Old school (Quell’anno a scuola, Einaudi, 2005, novella), Our story begins (La nostra storia comincia, Einaudi, 2008, racconti scelti). In Italia la fortuna editoriale di Wolff è stata altalenante, alcune delle sue opere più importanti sono state pubblicate da Einaudi e non tutte ancora a catalogo, mentre dallo scorso anno Racconti edizioni ha avviato una riscoperta dell’autore riportando sugli scaffali la novella The Barracks Thief, Il colpevole, e, da pochi mesi, la splendida raccolta The night in question, Proprio quella notte, con una traduzione rivista di Laura Noulian e la prefazione di Paolo Cognetti.
E se, come dicevo all’inizio, la scrittura si nutre di ossessioni, anche la lettura lo fa e immergersi nel mondo di Tobias Wolff significa confrontarsi appunto con il materiale da cui nasce la scrittura, con i dilemmi morali dei protagonisti delle sue storie, con le conseguenze delle scelte, l’ambizione, la scrittura stessa, mentre i confini tra i racconti e noi si fanno labili. Ecco, la scrittura, fil rouge che attraversa in varie forme e intensità la produzione tutta di Wolff:

 

Non si può spiegare in modo veritiero come o perché si diventa scrittori, né esiste un qualche momento del quale si possa dire: è stato allora che sono diventato uno scrittore. Tutto viene rabberciato insieme più tardi, con maggiore o minore sincerità, e solo dopo che le storie sono state ripetute più e più volte ci si mette sopra il marchio della memoria, bloccando la strada all’esplorazione.
(Quell’anno a scuola, p. 123
)

 

Non solo, ci dice Wolff per mezzo del protagonista della novella, è impossibile dire con esattezza quando si diventa scrittori, ma menzogneri sono anche il come e il perché. Di certo c’è, nella memoria del protagonista e dell’autore, la passione viscerale per la letteratura, l’ambizione, il rapporto con la scrittura e gli scrittori. Quell’anno a scuola è il testo in cui la componente autobiografica è particolarmente presente, ma è soprattutto una riflessione assai interessante appunto sulla scrittura, da angolazioni diverse. Ma partiamo dallo spunto personale: Wolff, dopo l’infanzia vagabonda si stabilisce con la madre e il nuovo compagno a Newhalem, una company town tra le montagne dell’estremo Nord-Ovest al confine con il Canada e da cui sogna di fuggire iscrivendosi in un college nei pressi di Philadelphia, sulla costa opposta; nella lettera di presentazione si finge figlio di un barone tedesco, viene ammesso – non per quella finta parentela ma grazie agli ottimi voti – e approda alla Hill School. L’inganno però viene scoperto da un docente che ne chiede e ottiene l’espulsione. Messo alla porta, appena diciottenne, Wolff è tra i primi a partire volontario per il Vietnam, inaugurando quella che sarà una fase molto importante per la sua vita, di uomo e di scrittore, ma questa è un’altra storia (e ce la racconterà lui stesso nel memoir Nell’esercito del faraone). La finzione, dicevamo: nella novella Quell’anno a scuola, il protagonista approda alla Hill School carico di desiderio di riscatto e ambizione letteraria, ma un inganno – diverso da quello dell’autore – gli costerà il posto nella scuola, forse precludendogli ogni possibilità di successo. O forse no.
La materia biografica viene rielaborata e sublimata in una storia – faccio fatica a chiamarla romanzo, forse l’etichetta più appropriata è proprio novella – che ha il suo centro nel ruolo della letteratura, nel mestiere di scrivere, nel rapporto tra scrittore e lettori, ma che riflette anche sull’insegnamento, sulle radici ebraiche, sulle differenze di classe. Una lettura che apre a numerosi spunti, su cui vale ancora la pena soffermarsi, a partire dal rapporto tra scrittore e opera:

 

Ci avevano insegnato a non confondere lo scrittore con l’opera, ma non riuscivo a separare l’immagine che avevo di Nick dall’immagine che avevo di Hemingway. E sentivo di non essere tenuto a farlo davvero, sentivo che una certa confusione fra autore e personaggio era intenzionale. Ma l’uomo che viveva in quei racconti non era il genio e il guerriero d’acciaio la cui immagine aveva tanto annebbiato le mie prime impressioni. Sotto moltissimi aspetti era un uomo insignificante, addirittura banale; non capiva le cose, soffriva di nervosismo e aveva paura, paura perfino del lavorio della propria mente,
e a volte non sapeva come comportarsi.
(Quell’anno a scuola, p. 79)

 

È un passaggio molto interessante e che riguarda non solo il protagonista della novella e il suo rapporto con Hemingway e la sua opera, ma più in generale l’artista con ciò che realizza, l’idea stessa che abbiamo dell’arte e di chi la produce, in una commistione spesso pericolosa. Il caso di Hemingway, poi, è del tutto peculiare per la leggenda che ne ha avvolto la figura, ma in questo passaggio Wolff attraverso la voce del suo giovane protagonista pare ricondurre lo scrittore amatissimo a una dimensione più umana, complessa, ben più reale di molte altre narrazioni su di lui. E se ci viene insegnato a non confondere lo scrittore, in generale, con l’opera, che cosa facciamo con Tobias Wolff e la commistione di finzione e memoria?
Se la scrittura è uno dei fil rouge che attraversano le pagine di Wolff, la vita di chi la produce «non può essere descritta», nonostante sia tra le domande più gettonate agli incontri con gli autori e forse proprio per il carico di egoismo che comporta, almeno per qualcuno:

 

È una vita che si svolge al di là della consapevolezza dello stesso scrittore, sotto il rumore e il lavorio della mente, in pozzi oscuri e profondi dove messaggeri fantasma avanzano verso di noi e si ammazzano lungo il percorso, uno dopo l’altro; e quando i pochi sopravvissuti si affacciano alla nostra attenzione, li accogliamo con cortesia, come camerieri che ci portano altro caffè.

(Quell’anno a scuola, p. 79)

 

Quella del protagonista è senza dubbio una visione estrema, ma è innegabile che l’arte richieda una certa dose di egoismo e di sottrarsi alle ingerenze della quotidianità.

La scrittura, ancora, da un’altra angolazione, questa volta esterna: la raccolta Our story begins (La nostra storia comincia, Einaudi 2014), copre un arco temporale di trent’anni, con racconti che vanno dagli esordi negli anni Ottanta alle storie più recenti, del 2007 (la raccolta è stata infatti pubblicata originariamente nel 2008); un arco temporale di per sé molto lungo quindi, che nella scrittura significa una voce e una prospettiva che forse non sono più le stesse, mutate nel tempo dalla vita, dall’esperienza, dal mestiere. È lo stesso Wolff nella nota introduttiva a interrogarsi su questo:

 

Nel preparare l’attuale selezione mi sono dovuto porre una domanda: è meglio che presenti i miei racconti, a qualunque anno risalgano, nella loro forma originale?

 O posso prendermi la libertà di rimaneggiarli in qualche punto?

 (La nostra storia comincia, Una nota dell’autore, p. 5)

 

L’autore in questo caso sceglie di rimaneggiarli, intervenendo laddove lo ritiene opportuno: i racconti, per Wolff, non sono sacri e intoccabili, ma materia viva che desidera esprimere al meglio. Una scelta su cui è interessante come lettori soffermarsi, che dà la misura di quanto la scrittura sia malleabile, viva, soprattutto forse nel campo del racconto e della necessità intrinseca di selezionare con attenzione ogni parola. Una malleabilità di forma che è specchio per certi versi invece dell’incertezza dei personaggi, ognuno di loro a più livelli preda del dubbio: preoccupazioni quotidiane che sono il «soggetto tematico» delle storie tutte di Wolff di cui questa raccolta rappresenta una selezione importante, operata dallo stesso autore, da cui l’edizione Einaudi sceglieva di escludere i testi che già erano apparsi nell’altra raccolta pubblicata dall’editore, Proprio quella notte. Una soluzione editoriale che non condivido – tanto più che l’altra raccolta era finita a lungo fuori catalogo e solo quest’anno nuovamente disponibile grazie al recupero di Racconti edizioni – come del resto non condivido mai la scelta di presentare un autore e una raccolta privi di opportuni riferimenti critici-bibliografici, in questo caso tralasciando anche la data di pubblicazione originale delle singole storie, di quale raccolta fanno parte, su quali riviste sono apparse. Peccato avere così poca attenzione verso un autore che delle parole, al contrario, si è sempre preso profondamente cura, e che la maggior parte del pubblico italiano non conosce così bene. Si può ovviare al problema, certo, le informazioni in rete tra approfondimenti e note biografiche non mancano, ma resta lo stesso un’occasione sprecata e indice di scarsa attenzione.
I racconti, comunque, sono uno squarcio: gli uomini e le donne di Wolff sono esseri umani fatti di carne e sangue, fallibili, preda di dubbi morali di cui quasi mai l’autore ci darà soluzione, perché in fondo non è la cosa che più conta. È il dubbio stesso e ciò che li ha condotti a quel punto il perno intorno cui tutto ruota, è la distanza sempre più ravvicinata tra i personaggi e noi lettori. L’ex soldato che si è allontanato dalla moglie incinta e dal figlio rimasti in panne a una stazione di servizio nel deserto tornerà a riprenderli o proseguirà da solo verso Los Angeles e la promessa del successo? E loro saranno ancora lì ad aspettarlo o una nuova consapevolezza si è ormai fatta strada? Il “fratello ricco” del racconto omonimo continuerà ad accorrere per salvare il più piccolo o sono arrivati a un punto di non ritorno?
C’è un’indefinitezza nelle storie – nei finali – di Wolff che è l’essenza stessa della forma breve, e il carico di domande che scatena nel lettore culmina nelle ultime battute ma è già intriso in ogni pagina, come evidente anche e soprattutto nei racconti di Proprio quella notte. Quindici storie di dilemmi, scelte morali che determinano ogni cosa ed epifanie, scevri di giudizi dell’autore. Scelte che possono portare anche a fatali conseguenze, come nei racconti “La vita del corpo”, “Neve fresca”, “La catena”, tra famiglie sfaldate, lutti, decisioni con cui fare i conti. La quotidianità è scossa dall’imprevisto, dalla direzione che decidiamo di prendere, da una scelta dalla quale non si torna indietro.
Con quello stile minimalista e accuratissimo che lo contraddistingue, i racconti di Wolff si concedono anche corpose digressioni che forse proprio tali non sono: è esattamente lì, talvolta, che risiede la storia, come in “L’altro Miller”, “Proprio quella notte”, “Il bugiardo”.
Dirty realism, è il termine coniato dalla rivista Granta nel 1984 in riferimento al modo di scrivere, tra gli altri, di Dubus, Wolff, Carver e Ford: uno stile asciutto, privo di orpelli, l’interesse tutto puntato sul quotidiano osservato con «un distacco inquietante, che a volte sconfina nella commedia», in storie «sobrie, ironiche, a volte selvagge, ma insistentemente compassionevoli». Titolava proprio Dirty realism il numero dell’84 in cui appariva anche un racconto di Wolff, “Il colpevole” (Racconti, 2023), splendido esempio di quel fantasma letterario che accompagna buona parte delle storie dell’autore: il padre, Arthur Samuels Wolff innanzitutto, uomo complicato, verso il quale per tutta la vita nutrirà sentimenti ambivalenti e ispirazione per tutti i padri letterari di cui disseminerà le sue opere. «Lui mi spaventava, mi terrorizzava, perché riconoscevo in me le stesse tendenze che lo avevano portato alla rovina», dirà Tobias Wolff nel memoir Nell’esercito del faraone, un sentimento che trova una sorta di eco, per esempio, nel bellissimo racconto “Neve fresca”, dalla raccolta Proprio quel giorno. La tensione tra quel figlio che ha imparato a essere l’adulto e il padre scapestrato, si traduce in un’avventura la sera della vigilia di Natale, che rimarrà per sempre impressa nella mente del ragazzo.
«Il nostro compito non è vivere grandi vite, il nostro compito è capire e portare avanti le vite che abbiamo» faceva dire a un personaggio di un suo racconto lo scrittore Andre Dubus, un altro che disseminava le sue storie di corrispondenze con la propria vita, in un’aderenza che a volte era quasi totale e che, come Wolff ancora, aveva lo sguardo tutto puntato sul quotidiano, scosso dal turbamento. Per Wolff il punto di osservazione è un altro rispetto a Dubus che sceglieva di raccontare il momento dopo la deflagrazione, ma sempre nel quotidiano affonda le radici. 

 E la realtà su cui si innesca il racconto è, si è detto, quella dell’esperienza personale, dai vagabondaggi dell’infanzia al periodo in Vietnam, dall’esperienza al college all’insegnamento e dove la realtà si fonde all’invenzione, tra padri assenti, desiderio di rivalsa sociale, ambizione, sessualità, relazioni, scrittura. Se è vero che l’etichetta di Granta stava un po’ stretta a Wolff – ma in effetti quali autori si riconoscono appieno e per tutta la loro carriera in un’etichetta imposta dalla critica? – è vero anche che la compagnia con la quale la condivide è la più ideale per inquadrare il contesto della sua scrittura e gli autori con cui ha percorso almeno un pezzo di strada, tanto dal punto di vista umano che letterario, seppur con le dovute differenze.  
Penso ancora a Dubus scrivendo di Wolff, perché entrambi in qualche modo sembrano essere scrittori per scrittori, amatissimi e ben noti da chi pratica il mestiere di scrivere, forse meno dai lettori italiani; un filo rosso lega Wolff a Dubus, a Carver, a Ford. Che l’uno possa richiamare l’altro, che la scrittura e la lettura dei loro racconti si possa espandere ancora.