Pidgin Edizioni porta in libreria L’ora senza ombre, la prima antologia a cura di In allarmata radura. Realizzata in collaborazione con Pidgin Edizioni, mette insieme sedici scrittori e sedici fotografi attorno a un unico tema, quello della narrazione del sé, nella convinzione che questo tipo di scritture, apparentemente funzionali ad alimentare ego ipertrofici, possano invece funzionare come coltelli aprendo ferite dentro il corpo del testo.
I saggi narrativi sono a opera di: Veronica Galletta, Ester Armanino, Francesca Mattei, Simone Sauza, Francesco Spiedo, Alessandro Busi, Fabiana Castellino, Deborah D’Addetta, Livia Del Gaudio, Aurora Dell’Oro, Leonardo Ducros, Antonio Esposito, Gabriele Esposito, Mario Emanuele Fevola, Maria Teresa Rovitto, Alexandrina Scoferta.
La curatela fotografica è di Tito Ghiglione.
Per presentarvi il volume Cattedrale vi propone la prefazione di Livia Del Gaudio e Fabiana Castellino, per gentile concessione dell’editore.
IL BIANCO E IL NERO LE NARRAZIONI DEL SÉ ATTRAVERSO IL CONFLITTO
di Livia Del Gaudio e Fabiana Castellino
“Così noi continuiamo a opporre alle abbaglianti vociferazioni del sole la certezza immemorabile che su ogni cosa trionfa il niente. E che nei nostri occhi, finché non li chiudiamo, sono destinati a combattersi e ad amarsi per sempre la luce e il lutto.”
Gesualdo Bufalino
Dare inizio alle danze. Il bianco e il nero da Voltaire alla Bestia di Gévaudan
Nel 1764, quando Voltaire dà alle stampe Il bianco e il nero, un’ambigua novella morale ambientata in un Oriente fantastico, la Francia combatte contro un mostro. È scaltro, affamato, apparentemente immune alla morte. Si ciba di donne e di bambini i cui corpi giacciono dilaniati al limitare dei boschi dell’Occitania. In una lettera ai sacerdoti della sua diocesi, il vescovo di Mende, Gabriel-Florent de Choiseul-Beaupré, conte del Gévaudan, scrive, citando la Bibbia: “Il dente delle belve manderò contro di loro”, e ordina quaranta ore di preghiere da recitare per tre domeniche consecutive. In quegli stessi giorni, il capitano Duhamel e il suo reggimento lasciano Langogne e si stabiliscono nel sud del Paese. Per tre anni, dall’autunno del 1764 alla primavera del 1767, gli uomini del capitano setacciano la regione raccogliendo le testimonianze dei pochi sopravvissuti, senza arrivare a una descrizione certa della Bestia. C’è chi dice che sia un ibrido tra un orso e un leone; chi un feroce assassino nascosto sotto le spoglie di un enorme lupo. L’unica cosa su cui tutti sono concordi è nel descriverne il manto: nero come la notte sul dorso, bianco come la neve sulla pancia.
Come la Bestia di Gévaudan, anche il racconto di Voltaire sfugge ai cacciatori. Il motivo è anticipato dal titolo, quel doppio che si sviluppa lungo l’arco dell’intera narrazione a partire da un dettaglio: due servitori che accompagnano il protagonista, Rustano, nella ricerca della sua principessa. Topazio, bianco e saggio consigliere al servizio della luce; ed Ebano, scaltro cortigiano dalla pelle nera come il legno a cui allude il nome.
A muovere le vicende è un oracolo (“Se vai a oriente, sarai a occidente. Se possiedi, non possiederai, se sei vincitore, non vincerai, se sei Rustano, non lo sarai”) di cui Topazio ed Ebano forniscono a seconda dei momenti una doppia lettura, spingendo o allontanando il loro padrone dall’azione. Lo sciogliersi del vaticinio nel finale coincide con la morte del protagonista ma anche, stranamente, con la sua liberazione. Ormai affrancato dal proprio destino, impossibilitato dalla morte dal compiere una scelta bianca o nera, Rustano comprende che la natura degli opposti non è né buona né cattiva ma semplicemente necessaria, e in questo modo arriva a comprendere se stesso. Nel momento in cui il suo corpo è sanguinante, aperto da una ferita infertagli per errore da colei che era venuto ad amare, e che ricorda lo smembramento delle vittime attuato della Bestia di Gévaudan, l’eroe rinuncia a restare intero e cede la parola al filosofo.
Il libro che avete tra le mani parla di questo: parla di bianco, e parla di nero, e lo fa nell’unico modo che ci sembrava possibile: attraversando nel mezzo tutte le sfumature crepuscolari del grigio a sottolineare il carattere ingannevole e sfuggente di ogni immagine unitaria dell’io.
In allarmata radura e la scrittura del sé
L’ora senza ombre è la prima antologia a cura di In allarmata radura. Realizzata in collaborazione con Pidgin Edizioni mette insieme sedici scrittori e sedici fotografi attorno a un unico tema, quello della narrazione del sé. Non è la prima volta che In allarmata radura si cimenta con questo tipo di scritture. Nata nell’aprile del 2021 in forma digitale, la rivista ha spesso trattato l’argomento proponendo ai lettori ibridi tra saggistica, autofinzione, memoir, autobiografia e autobiofiction, e lo ha fatto nella convinzione che questo tipo di scritture, apparentemente funzionali ad alimentare ego ipertrofici, potessero invece funzionare come coltelli aprendo ferite dentro il corpo del testo. Narrazioni in grado di trasformarsi in vortici che, a partire dall’ombelico dell’io, esplodessero poi verso l’esterno. Il problema, quando ci siamo trovati davanti all’occasione di concretizzare in volume la nostra ricerca, era quello di trovare l’immagine adatta a rappresentare il conflitto: è stato in quel momento che è venuto in soccorso il colore. L’opposizione tra il bianco e il nero non è un’esperienza nuova. Attraversa la storia dell’arte come quella della letteratura, è alla base di ogni religione come di ogni filosofia; è la traccia lasciata dal primo segno impresso sulla pagina bianca. Polarizzare l’io tra due estremi poteva, però, rischiare di ridurlo a un’eccessiva semplificazione, per questo siamo andati alle origini del nome1 della rivista, concentrando l’attenzione sul rapporto tra radura e luce nel gioco chiaro/scuro dell’ombra:
“L’aggettivo licht (rado) è lo stesso che leicht (lieve, leggero). Etwas lichten (diradare qualcosa) significa: rendere qualcosa rado, libero e aperto, per esempio liberare in un posto il bosco dagli alberi. Lo spazio libero e aperto che ne risulta è la Lichtung, la radura. Il rado nel senso di ciò che è libero e aperto non ha nulla in comune, né linguisticamente né quanto alla cosa in questione, con l’aggettivo licht nel significato di “chiaro”. Ciò va tenuto presente per la diversità tra Lichtung (radura) e Licht (luce). Nondimeno sussiste la possibilità di una connessione oggettiva tra i due termini. La luce può cadere infatti nella radura, nel suo spazio aperto, e farvi avvenire il gioco di chiaro e scuro. Ma non è mai la luce a creare per prima la radura, bensì quella, la luce, presuppone questa, la radura.
Tuttavia, la radura, l’aperto, è libera non solo per il chiaro e lo scuro, per l’eco e il suo perdersi, per il risonare e il suo smorzarsi. La radura è l’aperto per tutto ciò che viene alla presenza e che ne esce”2 . Il risultato è un’antologia che si propone come un viaggio, una catabasi che dal bianco avanza verso il nero per poi risalire ancora verso il bianco.
L’ora senza ombre. L’antologia e i suoi temi Per i greci, l’ora più temibile era il mezzogiorno: l’ora del sole allo zenit che spacca in due il tempo e libera i demoni dalla loro prigione d’ombra. A riprendere l’antica credenza, e a contrapporla al mito della mezzanotte di origine cristiana, è Roger Caillois che scrive, ne I demoni meridiani: “La presenza del sole allo zenit, che divide il giorno in parti uguali sulle quali regnano i segni contrapposti della crescita e del declino, le conferisce un significato di passaggio assai spiccato. Per di più, essendo l’ora della massima diminuzione dell’ombra, rappresenta il momento più pericoloso per l’anima, che è esposta a rischi di ogni sorta”3 . L’esperienza che si ha della luce in un assolato pomeriggio di agosto può fornire da sostegno alla tesi. Il passaggio dall’abbagliamento al buio è immediato. Delle forme resta solo il contrasto; il controluce, la sagoma: quel bianco e quel nero da cui siamo partiti. Per questo il titolo dell’antologia allude al paradosso del mezzogiorno, nell’idea che nel bianco accecante si annidi il suo opposto, e che solo restando nella contraddizione, sostenendo la frustrazione che comporta, sia possibile una qualche forma di consapevolezza, anche se precaria e in continuo movimento. In questo senso, L’ora senza ombre è da leggersi come unità; un flusso continuo che attraversa un gradiente di grigi, dal più chiaro al più scuro e viceversa, nel rispetto della differenza di sguardo di fotografi e scrittori.
L’ora senza ombre, il mezzogiorno che divide la luce più intensa dall’oscurità più profonda, non racchiude soltanto i testi nel suo insieme, ma trova riscontro nelle scelte grafiche dell’antologia. Ogni testo, infatti, lascia fra un paragrafo e l’altro uno spazio bianco, contraddistinto da nessun segno. Questo spazio bianco è senza ombre, rompe il testo nelle sue fasi, permette il cambio di argomentazione o registro, consente un passaggio. La presenza dello spazio bianco esalta la moltitudine di immagini e di io all’interno dell’antologia in generale e nei singoli testi in particolare; come il mezzogiorno è l’ora del riposo, così lo spazio bianco è una sospensione che prepara al salto: un nuovo messaggio, un nuovo io. Nella diversità di sguardi, ecco che i testi possono essere riconosciuti come unità. È infatti in seno a quest’ultima che possono essere letti e intesi i sedici brani dell’antologia. Connessi fra loro secondo fili più o meno visibili, più o meno impliciti, fino a costruire un’unica inestricabile trama. I fili che connettono le diverse scritture non si possono dire linee rette, bensì richiamano quel movimento di discesa e risalita che consente l’esplorazione del sé. Ogni connessione, ogni richiamo segue lo stesso movimento, da un inizio segnato dalla luce – una prima chiarezza – si scende nelle profondità, stanziando nell’oscurità, finché non si è pronti a risalire mostrando una nuova consapevolezza o prospettiva.
In questo senso va inteso l’ordine in cui sono stati disposti i sedici testi, laddove sono state riconosciute scritture bianche e scritture nere. Le scritture bianche hanno permesso il movimento di discesa prima, e di risalita poi; le scritture nere, invece, posizionate esattamente al centro consentono di soffermarsi, addentrarsi, per esplorare e guardare dentro l’io.
Vi sono alcuni legami, che possono considerarsi maggiori per la frequenza con cui compaiono all’interno dell’antologia. Essi, in primis, riguardano la scrittura e l’arte, come se, nel momento in cui l’io si rivolge a se stesso per capire se stesso, non possa fare a meno di soffermarsi sul mezzo di espressione scelto. E dunque si riscontra principalmente una riflessione sulla scrittura in quanto tale, come forma d’arte più intima e immediata. Così la scrittura è prima limpida, con il testo di Ester Armanino, in cui l’autrice riflette, nel suo essere disordinata o fluida, il rapporto di perdita o riappropriazione con la propria essenza; poetica nel testo di Alexandrina Scoferta, laddove nella forma forse più sottile e difficile della scrittura – la poesia – la lingua diviene senso di appartenenza. Ed è a partire da qui che inizia la discesa, in una gradazione di grigi: dal testo di Veronica Galletta, in cui la scrittura recupera il suo senso originario, cioè tracciare dei segni che divengono strumento di ordine nel caos; da Francesca Mattei, in cui il linguaggio assume importanza grafica, cioè la distinzione del segno, di parole piccole per esprimere il piccolo, e maiuscole per esprimere gravità, diviene mezzo per trascendere se stessi e raggiungere quante più persone possibili. Si sprofonda nel nero con il testo di Gabriele Esposito, in cui la parola scritta non è più mezzo, ma fine in se stessa, bramosia per un inedito in cui si racconta una storia di desiderio. Con il testo di Antonio Esposito, invece, il desiderio diviene amore, laddove i libri, ma anche i libri narrati nei libri, sono luoghi di scoperta, accompagnati da una scrittura sperimentale, a sottolinearne le infinite possibilità. Infine, il movimento di risalita si ha con il testo di Leonardo Ducros, in cui la scrittura si fa sincero strumento, linguaggio che determina e che nella sua immediatezza svela la propria natura.
La scrittura non è intesa soltanto in se stessa, ma anche in relazione ad altre forme d’arte, rivelando ancora un movimento di discesa e risalita. Con il testo di Deborah D’Addetta l’esplorazione dell’io passa attraverso la fotografia, accompagnata da riflessioni letterarie; sprofonda nel testo di Livia Del Gaudio, in cui la pittura diviene criterio per tracciare i contorni della luce e dell’ombra, e la scrittura è feroce nel ricomporre immagini e ricordi ritrovati. Si riemerge con la dedica al cinema di Maria Teresa Rovitto, in cui la storia della propria famiglia è narrata come fiaba e ripresa; e infine il proprio passato trova collocazione tramite la visione di una statua che rappresenta la metamorfosi per eccellenza con il testo di Aurora Dell’Oro.
Se volessimo riconoscere un ultimo legame che intercorre fra gli autori e le autrici, non si può non nominare l’argomento che più di tutti è avvolto dal silenzio: la morte. La morte trova in questa antologia spazio di riflessione come espediente per trascenderla. La morte si sperimenta così nel sonno e nel sogno, come suggerisce Mario Emanuele Fevola; diviene concreta nell’immagine dell’autopsia, nel testo di Fabiana Castellino, come varco fra il non più e il non ancora. Nel testo di Simone Sauza la morte si fa spazio inquieto, città tetra e nervosa, finché non si ricomincia a risalire. Per Alessandro Busi la morte diviene processo, non solo di scrittura, ma di elaborazione del sé. La risalita si conclude con Francesco Spiedo, in cui la morte della salamandra diviene simbolo non solo del collasso della natura, ma anche ironia, motivo di derisione.
La scrittura, l’arte e la morte sono così i fili principali della trama di questa antologia; sono, in altre parole, i temi più urgenti, quelli che le autrici e gli autori hanno sentito l’esigenza di esprimere. Fili connessi fra loro da percorsi minori, più sottili, che compongono la complessità della trama.
Ricorrono espedienti e immagini come quella del sogno, dello specchio, o ancora del delicato rapporto con i padri, le madri, i fratelli. Si riscontrano ossa e vertebre nelle scritture più nere, luoghi precisi e delimitati nelle scritture bianche. In alcuni testi, il nero e il bianco ritornano esplicitamente in una scacchiera, nella lucentezza della natura, o nel manto scuro degli animali, nello sfondo dei dipinti.
Perché il bianco e il nero non sono mai privi di profondità, ma si alternano con tutte le loro possibili sfumature. Lo stesso movimento di discesa e risalita non è unico, bensì composto da un numero indefinito di discese e risalite, a ricordare le maree, i movimenti tellurici e il magma sotto la crosta. Questa è, dopo tutto, l’esplorazione dell’io: movimenti invisibili sotto la pelle.
Da questa trama complessa fin qui descritta, emerge un paradosso: per esplorare e comunicare se stessi si ha bisogno di uscire da sé. Per questo tutti i racconti si rivolgono a un tu, che sia un fratello, un amico scomparso; che sia uno sdoppiamento che consenta di guardarsi dall’alto. L’altro non è solo fuori da sé, ma si cerca dentro di sé, per spiegarsi e vedersi. Nello sfondo nero che è la propria interiorità si cerca quell’unico punto bianco che può illuminare tutto.
La sconfitta del nero da parte del nero. La lotta tra immagini e parole nella narrazione del sé
Una delle ultime pubblicazioni in vita di Eugène Ionesco è uno strano libretto, Le blanc et le noir. Finito di stampare a Ginevra nel 1981, non è né un testo teatrale né un racconto ma un ibrido di parole e immagini che contiene quindici litografie, incise su pietra per mano del drammaturgo, accompagnate dai suoi commenti e da un lungo testo introduttivo. L’intento dell’opera, apparentemente misterioso, è in realtà quello di scandagliare il processo creativo, di ridurlo ai suoi elementi essenziali – il movimento della mano, la traccia sul foglio, il delicato equilibrio tra peso e struttura. Gli elementi utilizzati sono due, ridotti al limite: il bianco e il nero, la linea e l’assenza di linea: le componenti fondamentali di disegno e scrittura.
In poco più di settanta pagine l’autore, ormai anziano, mette in scena tutti i suoi mostri e lo fa trasformando quella parola, che fino a questo momento è stata la sua unica fonte di espressione, in segno.
“Possiamo dire tanto, se non meglio di quello che ho detto per più di un quarto di secolo con le mie opere teatrali, con i miei racconti, con il mio romanzo, con i miei saggi”4 , scrive. E ancora: “Non è mai la stessa cosa. Questa volta ho un nero che, paradossalmente, sembra esitare. Sembra voglia rivoltarsi contro se stesso, quando potrebbe conquistare l’intero posto. Chi lo ferma? Può fare quello che vuole. Non gli oppongo nulla. Sì, una sconfitta del nero da parte del nero”5 . La lotta che Ionesco ingaggia nel campo del foglio è una lotta dell’anima, una battaglia contro l’angelo. Il paradosso è che nello scontro tra forma e parola non è possibile alcuna vittoria: l’unico esito è la sparizione di entrambe, il superamento della dicotomia.
È questo il motivo per cui L’ora senza ombre non è un’antologia illustrata ma un dialogo aperto tra parola e immagine. La scelta operata per accostare fotografie e testi è cromatica: lo stesso gradiente di grigi accompagna racconti e fotografie, che sono stati selezionati in totale autonomia. Se esistono nessi tra immagini e parole è del tutto casuale, e ha stupito noi per primi nel trovarvi assonanze.
Dentro questo volume, come nello spazio virtuale del sito, continua la ricerca di In allarmata radura diretta verso l’autonomia dei linguaggi: l’arte visuale non è al servizio delle parole e le parole non sono al servizio dell’arte visuale. Queste si compenetrano, si supportano a vicenda; ciò che rimane silenzioso viene mostrato dall’immagine, e ciò che è astratto è raggiungibile tramite le parole: L’ora senza ombre è il luogo in cui avvengono queste commistioni e nuovi passaggi vengono costruiti. Per lo stesso motivo, l’antologia è da intendersi come un sentiero, non una strada battuta; una pista nel bosco in cui perdersi, arretrare, scegliere alternative. L’unico limite imposto, agli autori come ai lettori, è questo: “racconta semplicemente senza cercare di mostrare dello spirito a ogni proposito, e senza fronzoli. – Tanto meglio, disse Rustano, così mi piacciono i racconti”6 .
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1 Giorgio Caproni, Radura in Il franco cacciatore, Garzanti editori, Milano, 1982.
2 Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi editore, Milano, 1971.
3 Roger Caillois, I demoni meridiani, trad. Alberto Pelissero, Bollati Boringhieri editore, Torino, 1988.
4 Eugène Ionesco, Le blanc et le noir, Editions Gallimard, Paris, 1985, trad. a cura di L. Del Gaudio.
5 Ivi.
6 Voltaire, Il bianco e il nero in Tutti i romanzi e i racconti e Dizionario Filosofico, trad. Paola Angioletti e Maurizio Grasso, Newton Compton editori, Roma, 1995.