Elettra: la collana breve Effequ dedicata al paterno

Effequ ha dato vita a Elettra, una collana di narrativa breve che viene presentata dalla casa editrice così: una collana in cui le figlie raccontano i padri.

Per dare rilievo a questa operazione attenta alla forma breve ma anche al tipo di contenuto così importante di questi tempi, abbiamo deciso di presentarvi i titoli della collana proponendo i commenti delle autrici stesse con un piccolo estratto dei loro testi.
Prima, però, concediamo la parola alle curatrici e alle ideatrici di questo progetto.

Di seguito la prima puntata con le autrici Marta Zura-Puntaroni e Francesca Manfredi.
Troverete la seconda puntata venerdì 24 Gennaio, sempre in questa sezione, con le autrici Alessandra Sarchi, Francesca Scotti e Giusi Marchetta.


Olga Campofreda, Eloisa Morra
Curatrici della serie Elettra

Perché Elettra? L’idea di una serie diffusa è nata da un nostro dialogo iniziato a distanza tre anni fa e risponde a una serie di letture, spunti e riflessioni comuni.

La necessità di riportare l’attenzione sul rapporto col paterno — in senso ampio, non a caso la radice linguistica è plurale: padre, padrone, padrino, santo padre, padre spirituale…— è nato sia riflettendo sugli effetti del #metoo, in cui le ragazze sembravano aver acquisito una nuova consapevolezza del loro ruolo di genere, sia dai tanti testi in cui da lettrici ci era capitato di imbatterci. Tra il 2017 e il 2021 sono stati parecchi i romanzi in cui autrici più o meno della nostra generazione iniziavano un’indagine sulla figura paterna, di solito misteriosa e imprendibile, o costruivano narrazioni in cui i padri apparivano solo in quanto portatori di potenzialità narrative inespresse. Un testo importante a livello teorico è stato Bella di papà di Katherine Angel (uscito in italiano per Blackie), che analizzava il mito di Elettra rovesciandone il punto di vista: non erano tanto le figlie a essere innamorate dei padri, quanto i padri contemporanei a sentirsi messi da parte, ‘innamorati delusi’ intimoriti dalla rinnovata indipendenza delle figlie.

Quale che sia il rapporto specifico, lo spieghiamo nella prefazione, “scrivere del proprio genitore è un’operazione ambigua: significa da un lato ritrovarlo, dall’altro individuare un nodo che spesso viene sciolto con dolore e consapevolezza”. Una doppia valenza che è ben riflessa nell’immagine di copertina ideata dall’illustratrice Carla Indipendente, un’Elettra che scioglie la treccia liberandosi e al contempo liberando i padri stessi dalle armature imposte dal patriarcato (immagine identica in tutti i racconti, declinata in sfumature diverse). I cinque racconti che compongono la serie di Elettra attraversano il mito, e finiscono per metterlo in discussione. Leggerli uno dopo l’altro spinge a confrontarsi con una costellazione di padri molto diversi tra loro (padri distanti e silenziosi, dominanti o timidi), e anche ad affrontare diversi modi attraverso cui i figli cercano di affrancarsi dal loro giudizio.

La nostra scelta per le voci che avrebbero dato forma a questo progetto è stata guidata prima di tutto dal desiderio di investigare non uno, ma una molteplicità di punti di vista sull’argomento. Abbiamo scelto scrittrici che appartenessero alla generazione successiva a quella delle lotte femministe degli anni Settanta, ma all’interno di questo gruppo ciascuna ha affrontato il tema centrale secondo la propria sensibilità, influenzata da esperienze di vita diverse e da diverse influenze culturali. Lavorare con loro a stretto contatto nella fase di editing e di ideazione dei racconti, ci ha anche rivelato quanto doloroso e complesso sia portare avanti un ragionamento sul patriarcato associando ad esso dei volti, che fossero questi di impronta autobiografica o meno. Con il primo volumetto firmato da Marta Zura-Puntaroni, L’olivastro, la riflessione sul padre rompe il primo sigillo sfociando nei toni della letteratura weird e uscendo dallo stereotipo che associa le donne/madri alla natura e gli uomini/padri alla razionalità. Ci è parsa questa una dichiarazione importante con cui cominciare: volevamo fosse chiaro che le nostre Elettre, più che combattere i padri, avrebbero continuato ad amarli liberandoli dagli stereotipi di genere. Con Bestiario parentale di Francesca Manfredi siamo entrate nel territorio del personal essay, con l’autrice che riflette sul ruolo del padre-amico e della sua posizione in una famiglia di stampo fortemente matriarcale; con Scintille di Francesca Scotti, un esempio di realismo magico, la presenza dei padri si fa quasi fantasmatica, ma torna come un’ombra attraverso e gesti e le parole dei ragazzini; il quarto episodio, Quella è la porta di Giusi Marchetta, offre l’affresco realistico di una famiglia con tre sorelle, tutte legate al padre da un rapporto diverso, mentre questo vede evolvere la propria identità attraverso grandi eventi della vita, come la malattia della moglie e l’esperienza di essere nonno. Il racconto conclusivo, Ragazza senza nome di Alessandra Sarchi, con i toni della parabola filosofica ci porta addirittura riflettere su come un paterno ‘sufficientemente buono’ debba non per forza essere cercato in un padre biologico, aprendo a nuove forme di possibilità. Visti i diversi punti di vista espressi dai racconti, volti a comporre un ritratto multiforme del volto del paterno, non ci ha sorpreso vedere i librini passare di mano in mano, amati da lettori di età e gusti molto diversi tra loro.

L’esperienza Elettra è stata per noi gioiosa e dolorosa insieme. Gioiosa perché ci ha permesso di lavorare con storie e voci straordinarie, dolorosa perché questo lavoro ha fatto vibrare corde molto profonde del vissuto di ciascuna. Liberare i padri ha significato anche liberare noi stesse da demoni personali e politici. Allo stesso modo, leggere le cinque Elettre, una dopo l’altra, è un percorso che non lascerà inalterati gli animi e le coscienze di coloro che decideranno di addentrarsi in queste storie.


Marta Zura-Puntaroni
L’Olivastro

Quando Eloisa e Olga mi hanno chiesto un contributo per Elettra ero inizialmente scettica: pensavo di aver scritto tutto quello che volevo – o ancor meglio, tutto quello di cui ero capace – sulla figura del padre – un padre che assomigliava molto al mio, e che rientrava nei canoni dei padri della mia generazione di scrittrice: padri assenti, anaffettivi, terreno fertile per daddy issues e successive relazioni sentimentali problematiche – e non credevo di avere altro di interessante da dire. Ho passato diverse settimane senza trovare nulla da scrivere, a dirmi vabbè: ora mi invento una maniera per sfilarmi da questo progetto.
Poi mi è arrivata in testa, non so esattamente da dove, la scena finale dell’Olivastro, i suoi due protagonisti: da quel momento conoscere Caterina e Pacifico è diventato necessario, scrivere il racconto l’unica maniera per capire cosa era successo, come erano arrivati a questo punto.
Con Pacifico ho trovato un padre diverso da quello che avevo già narrato e diverso da quello che conoscevo: un padre che non era l’essere assente e emotivamente incapace dei miei altri libri ma che non era neanche “decostruito” in maniera classica: una persona che comunque appartiene alla provincia, che fa un lavoro non intellettuale, che appartiene a una certa generazione però a suo modo capace di dolcezza, di dialogo, di comprensione.

Alla fine per la foto del giornale scelsero Simonetta Calamante.
«È più materna» disse Filippo.
«Rassicurante» aggiunse, dopo una pausa.
Caterina finse di non prendersela e annuì.
Con Simonetta Calamante aveva passato buona parte dell’infanzia e delle scuole elementari, come è normale che accada in un paese piccolo, dove ogni anno il numero di nuovi nati difficilmente supera il centinaio. Simonetta Calamante da bambina era una bulla con le braccia grosse che riusciva a dare manate dolorosissime su tutti i punti del corpo che più difficilmente potevano venire notati dalle maestre – già a pochi anni era falsa e manipolatrice, ladra di giocattoli, distruttrice di disegni e costruzioni, leccaculo coi potenti e prepotente coi deboli.


Francesca Manfredi
Bestiario Parentale

Quando Eloisa e Olga mi hanno contattato per partecipare a Elettra, nella mail di invito scrivevano: “Ci sei venuta in mente tu, per il carattere volitivo di molti tuoi personaggi femminili.” Mi sono messa a riflettere su un tratto effettivamente ricorrente delle mie storie, ma sul quale non mi ero mai soffermata troppo. Istintivamente, le famiglie che scrivo presentano un modello tradizionale ma non del tutto aderente alla consuetudine del patriarcato. Vengo da una famiglia che potrebbe essere definita matriarcale, e non solo per una questione di superiorità numerica: eppure, in questa etichetta ci ho sempre trovato un’imprecisione, se non addirittura una bugia. Le donne della mia famiglia si potrebbero descrivere con due aggettivi: indipendenti, se la si vede dal lato positivo; sole, se la si guarda con più attenzione.
Avevo molto materiale, quindi, e ho deciso di allontanarmi dalla forma racconto per avventurarmi nel territorio (per me) inesplorato del personal essay. Mio padre è una figura complessa, quello che comunemente si definirebbe bigger than life: non basterebbe un romanzo per inquadrarlo. Ho deciso così di osservarlo a partire da una crepa, una debolezza, che mi è stata riferita da lui stesso, in uno dei suoi (piuttosto frequenti, a dire il vero) momenti di onestà, e che per me parlava anche di altro. Parlava di un doppio standard, al quale siamo tuttora piuttosto abituati, di una condizione femminile ancora subalterna ma anche di una sconfitta maschile, che forse comincia (finalmente) a farsi più bruciante.

Leoni

Ogni volta che inizio a scrivere qualcosa di nuovo, e ho quell’orrendo e insensato timore che mi capita sempre davanti a una pagina bianca, mi viene da pensare a mio padre. Avevo quattordici o quindici anni, frequentavo i primi anni delle superiori e dovevo scrivere un tema, non ricordo su quale argomento. Me la cavavo bene in italiano, scrivere temi mi piaceva. “Il problema”, dissi a mio padre, “è che non so mai come cominciare. All’inizio mi blocco sempre, perdo almeno una mezz’ora a fissare il foglio. Le prime righe sono le più difficili, non sembra anche a te?”. Anni più tardi avrei saputo che una poetessa di nome Wislawa Szymborska, in occasione del ricevimento del premio Nobel, aveva formulato quel pensiero alla maniera in cui avrei voluto farlo io.