I racconti di Elizabeth McCracken: un'analisi

di Debora Lambruschini

 

In un periodo e un mercato editoriale nei quali il novanta per cento delle raccolte di racconti deve essere celato dietro l’etichetta di “romanzo per racconti” e simili, la pubblicazione di un testo che è esattamente quello, una raccolta di racconti pura, ha qualcosa di miracoloso. Ed è quindi un gran peccato che questa stessa raccolta sia uscita un po’ in sordina, fagocitata dal peso di altre pubblicazioni e ritorni attesi dello stesso periodo, perché Cose dell’altro mondo di Elizabeth McCracken – appena arrivato in libreria per Bompiani nella traduzione di Giovanna Granato e Alessandro Mari – è una raccolta davvero notevole. La prima pubblicazione negli Stati Uniti risale al 2014, ma i nove racconti che la compongono non risentono affatto del tempo intercorso tra la prima uscita e la sua traduzione attuale, complice una sostanziale sospensione del tempo delle storie, per lo più fissate in un passato prossimo dai contorni sfumati. Premiata autrice di romanzi, racconti e un drammatico memoir, Elizabeth McCracken qualche anno fa era stata inclusa da Granta nella lista dei venti maggiori scrittori under quaranta e il suo romanzo d’esordio, The Giant’s House, del 1996   – l’unico altro testo a essere stato tradotto in italiano anche se a oggi di difficile reperibilità – era arrivato tra i finalisti del National Book Awards.

Cose dell’altro mondo è una raccolta di racconti pura, in cui ogni storia è autonoma e saldamente ancorata alla tradizione della short story moderna nordamericana, che fortunatamente l’editore italiano ha scelto di rispettare senza appiccicargli addosso etichette fuorvianti. Forse, se proprio vogliamo essere puntigliosi, la traccia della quarta di copertina non riesce a restituire davvero il peso letterario di questa raccolta, ma ai lettori basta fare una piccola ricerca online per meglio contestualizzare l’opera e l’autrice. Ogni racconto è autoconclusivo, non ci sono personaggi od occorrenze specifiche da un testo all’altro, una sovrastruttura a cornice che leghi le nove short story selezionate. Ci sono casomai temi e spunti che attraversano le narrazioni, ma è un appiglio cercato da noi lettori più che un’intenzione. Sono storie di vite ordinarie messe di fronte alla tragedia: McCracken osserva e racconta le reazioni al dolore, alla perdita, alla scomparsa, investigando le zone grigie del dolore, osservando quello che resta e lo spazio tra amore e solitudine. E una parte di mistero che non potrà essere svelata del tutto. La genitorialità, la scomparsa nelle sue diverse accezioni, il confronto generazionale, sono alcuni dei perni intorno a cui ruotano questi racconti, disseminati da piccole epifanie, echi letterari, increspature sulla superficie dell’acqua. Come da tradizione, è uno dei racconti a dare il titolo alla raccolta tutta: nella versione originale è Thunderstruck, Folgorazioni nella traduzione italiana; nell’edizione Bompiani è invece preso da quello che apre la raccolta, Cose dell’altro mondo (Something Amazing), l’unico dai toni gotici ma che ben inquadra molte delle tematiche e degli spunti della raccolta.
Ho pensato a lungo a quale racconto selezionare per tentare qui un’analisi formale e contenutistica che potesse in qualche modo anche illuminare la raccolta nella sua interezza.

Giulietta, è la storia che continuava a ronzarmi in testa, per la coerenza della struttura, per la capacità di McCracken di maneggiare la forma, per gli echi, le occorrenze, la storia sommersa. E allora Giulietta sia, ma con i dovuti disclaimer: leggetela tutta questa raccolta portentosa, lasciatevi ammaliare dal racconto e dalle sue possibilità.
Per l’ambientazione principale di questa storia McCracken attinge alla sua esperienza professionale come bibliotecaria: il setting sono infatti le sale della biblioteca di una cittadina ai confini con la grande città, ma ancora abbastanza provincia da avere l’idea di conoscere tutti quelli che fanno parte della comunità, i pettegolezzi, lo scandalo e la tragedia che di lì a poco li coinvolgerà. È tra le sale della biblioteca, quindi, che la storia prende corpo, nell’ordinaria quotidianità; e sarà sempre lì che, nell’epilogo, il racconto raggiungerà il suo climax. La sala per l’infanzia, gli animali in gabbia – coniglietti, fringuelli – che ben più dei libri attirano l’attenzione dei piccoli utenti; la cassetta dei libri, il banco della consultazione, le chiacchiere tra colleghi, i diversi settori e responsabilità, gli utenti abituali.

 

E questo è quanto per gli animali selvatici, a meno di non voler considerare anche i bambini, spesso selvatici: non quelli piccoli, che non sopportavano di allontanarsi dal coniglio, ma quelli di dieci o undici anni, che tiravano i libri dalla balconata, incrociavano le gambette ossute sui tavoli o infilavano nella cassetta dei libri quello che gli pareva, barzellette sporche incluse.

(p. 64)

 

Un microcosmo ordinato, descritto con cura minuziosa, l’orecchio ai dialoghi e alle situazioni che qualsiasi frequentatore di biblioteche riconoscerà. È un narratore in prima persona plurale che assume l’identità dei dipendenti della biblioteca, creando così una particolare relazione tra storia e lettore: siamo spinti a fidarci, nonostante fin da principio si dimostri tutt’altro che affidabile; come lui abbiamo una visione parziale e soggettiva sulle cose, su ciò che pagina dopo pagina si svela; e, allo stesso tempo, siamo sempre più coinvolti, dalle dinamiche della biblioteca, dalle relazioni personali che si intrecciano e dal mistero che ogni persona in fondo rappresenta. Ancora, è attraverso questo “noi” interno che interpretiamo gli eventi. La narrazione è tesa tra ironia e un senso di tragicità imminente, una tensione che via via assume contorni sempre più concreti. E Giulietta fa la sua comparsa portando già insita nel nome – che in realtà non le appartiene nemmeno – la tragicità del personaggio:

 

Fu quel giorno, un lunedì, che vedemmo Giulietta per la prima volta.

Era giovane, secondo noi poco meno che trentenne, i capelli lunghi, scuri, sciolti. Era vestita di bianco e lì per lì pensammo che portasse una divisa, magari da infermiera: l’aria da infermiera ce l’aveva, dolce, decisa, e fresca di divorzio. […] Forse non era vestita di bianco, forse ci ricordavamo così perché nella foto che in seguito avremmo visto e rivisto era vestita di bianco.

 

È il primo segnale che cattura l’attenzione del lettore su questo particolare personaggio, l’aura di mistero che porta in scena, qualcosa che di lì a poco dovrà accadere.
È Giulietta, perché nelle menti letterarie dei dipendenti della biblioteca richiama perfettamente l’eroina shakespeariana:

 

Lei stringeva tra le mani un quaderno come fosse un coltello che era pronta a usare contro se stessa, perciò finimmo col chiamarla Giulietta. Per questo e per l’abitudine di affacciarsi alla balaustra della balconata che correva lungo la sala lettura guardando in alto anziché in basso, al verde nuvoloso del lucernario.

(p. 65)

 

Giulietta entra in scena con il suo carico di mistero e per molti versi tale resterà fino all’ultimo.
Ecco, mistero: ho consapevolmente usato più volte questo termine, è la parola chiave con cui entrare in questa storia, in questa raccolta tutta. Dobbiamo accettarne una certa dose, consapevoli che McCracken ci mostrerà “solo” le increspature sulla superficie dell’acqua ma gli abissi oscuri che si intravedono resteranno tali. È un racconto, è una fotografia, è un istante, è un frammento: non tutto può essere spiegato o risolto, ci sono – ci devono essere – parti sommerse, le più consistenti. Ma – e qui ancora una volta sta la differenza tra uno scrittore di racconti capace e uno inesperto – di quella storia sommersa l’autore deve avere piena consapevolezza e disseminare la pagina di indizi. A noi poi il compito di colmare gli spazi vuoti e lasciare che la nostra attenzione sia catturata da un certo dettaglio, da un certo spunto. Giulietta resta sulla pagina per una manciata di pagine, prima che scompaia, eppure attraversa tutto il racconto:

 

Apprendemmo la grande notizia poco alla volta. C’era stato un omicidio. Una donna. Una donna della nostra città, uccisa in casa. Una donna pugnalata dieci volte, venti, sessantatré. Sembrava che la polizia impiegasse un’eternità a esaminare il corpo e si affidasse ai pettegolezzi locali per stilare il rapporto.

(p. 69)

 

I fatti sfumano sempre più per lasciare il posto alle chiacchiere, alle ipotesi, alla conoscenza parziale delle persone e delle cose accadute. È lei, Giulietta, o meglio Suzanne Cunningham, la vittima:

 

E poi, al notiziario della sera, la sua foto: Giulietta.

Non era la solita istantanea sfocata della vittima, di quelle che danno l’idea che l’ultimo gesto compiuto dalla persona in questione, prima di prendere il largo e farsi ammazzare, sia stato accontentare un vecchio zio con la macchina fotografica. La foto di Giulietta – quella apparsa in tutti i notiziari, sulla prima pagina di tutti i giornali – era nitida, definita e carina. I capelli acconciati. Un lungo abito bianco senza spalline.

(p. 69)

 

L’immagine di Giulietta è la sola cosa nitida, tutto il resto di lei era già mistero prima dell’omicidio e tale resta. La storia segue i vuoti di quel narratore parziale, i pettegolezzi, le congetture, le digressioni. Anche quando un colpevole viene indicato, i contorni restano sfocati, le parole si inseguono come corressero dall’una all’altra delle persone del luogo.
Dei molteplici richiami che tale storia poteva accendere, uno più di altri mi è tornato alla mente ed è con un testo che a differenza di questo ha invece qualcosa di ibrido nella struttura, nella postura autoriale: Solo un ragazzo, di Elena Varvello. Un romanzo, sì, ma se osservato in un certo modo ha la posa dei racconti, già di per sé tutta nello sguardo dell’autrice. Anche lì c’è un mistero, anche lì c’è la violenza che entra nel quotidiano ordinario e lo sconvolge; anche lì ci sono moltissime cose che non troveranno spiegazione. E, ancora, anche lì ci sono confini tra buoni e cattivi che non è così facile tracciare, colpe e accuse nel tentativo di trovare un senso, ristabilire un ordine.    
Nella storia di McCracken ci sono almeno due punti opposti di osservazione: da una parte c’è lei, ovviamente, Giulietta, la sua presenza effimera, il mistero che l’accompagna, la fine tragica; dal lato opposto l’apparire fugace di un’altra ragazza che con l’omicidio potrebbe avere un legame, suo malgrado, che come la vittima rappresenta un mistero irrisolvibile e come lei alla fine scomparirà, ma non prima di essersi fatta presenza tangibile nella stanza, sulla pagina. Di entrambe sappiamo poco, pochissimo, molte invece sono le congetture, le storie che si rincorrono, le voci, le supposizioni sempre più concitate. Le parole che pesano e mutano il corso delle cose. Ma è troppo tardi, le cose sono state dette, la rabbia ha trovato il suo capro espiatorio e non resta spazio nemmeno per il senso di colpa. Ma «quel che è fatto è fatto» e non si torna indietro, le parole, la rabbia, non possono essere cancellate. Restano le conseguenze. Resta un’altra mancanza. Restano i fringuelli nelle gabbie, le porticine ben chiuse.