Il letto di pietra. Dentro al racconto di Margaret Atwood

di Debora Lambruschini

I libri di Margaret Atwood sono scatole cinesi, contengono mondi e una profusione di spunti che abbracciano uno spettro molto ampio dell’immaginazione, della creatività, della scrittura, dell’ambiente in cui sono calati. Raccontano degli abissi del cuore umano in una tensione che spesso si traduce in distopia ma che in generale sfiora generi e forme diverse, in una polifonia intrinseca nel testo. Non fanno eccezione le storie de Il letto di pietra, la cui prima edizione inglese risale al 2014 e da poco arrivate in Italia per Racconti edizioni che da qualche anno si sta dedicando alla pubblicazione di tutta la narrativa breve di Atwood. Questa volta la traduzione è un lavoro a quattro mani: dopo le traduzioni di Gaja Cenciarelli (che si era occupata delle raccolte precedenti, Fantasie di stupro, L’uovo di Barbablù e Consigli per sopravvivere in natura), Racconti edizioni affida il lavoro a Federica Aceto e Chiara Manfrinato che pur suddividendosi le storie riescono magistralmente a mantenere un senso di unitarietà del tutto e un dialogo non interrotto con la voce italiana che le ha precedute.
Ho volutamente usato finora il termine generico “storie” perché prima di addentrarmi nell’analisi di una di queste è bene partire dall’identità che la stessa Atwood indica per i testi qui raccolti: se quelli di Consigli per sopravvivere in natura – cronologicamente l’ultima raccolta pubblicata in italiano, ma originariamente uscita nel 1991 – erano cautionary tales, racconti-fiaba con lo scopo di mettere in guardia il lettore, a partire dai pericoli della natura umana e dal patriarcato, quelle de Il letto di pietra sono tales, come da titolo originale Stone mattress: nine tales. Tales, che richiama l’antico legame del racconto con la forma orale, affonda le radici nella tradizione della narrazione popolare, nel folklore. E le nove storie qui contenute sono costruite in equilibrio tra realismo e folklore appunto, in una commistione di generi e spunti già nello spazio di un solo racconto. L’eterogeneità, dopotutto, è intrinseca delle narrazioni brevi di Atwood, è fondante del suo ricco e variegato immaginario, eppure ogni singolo pezzo della sua produzione si rifà a un discorso letterario più ampio, in un continuo rimando di spunti, indizi, che vanno dai romanzi, ai racconti, alle poesie. Un discorso che si può benissimo amplificare guardando all’esterno, espandendo i confini della bibliografia di Atwood, soprattutto con una raccolta di questo tipo che, appunto, richiama la tradizione orale, con echi di miti ancestrali e leggende che si intrecciano a una realtà solida, ben riconoscibile, capace poi nello spazio anche di poche righe di mutare, uscire da quei confini. E lanciare ami, verso altre immagini, verso altri racconti e autori.
L’amplificatore più forte, per me, è stato il racconto eponimo, “Il letto di pietra”, su cui ho deciso di concentrare lo sguardo, una selezione che non ha molto a che fare con la superiorità di quel testo rispetto ad altri, quanto piuttosto con quelle scatole cinesi di cui si diceva in apertura e con l’immediato richiamo ad altri testi letti negli anni ma ben radicati nel mio immaginario: ecco, quindi, che la storia di Verna, sessantenne «vedova seriale», e il suo istinto omicida si sono collegati a “Che pensiero” e “Mrs Anderson” di Shirley Jackson (entrambi dalla raccolta La luna di miele di Mrs Smith, Adelphi), “Quando a Mobile sbarcò la flotta” di Patricia Highsmith (da Donne, La nave di Teseo), perfino a “Cosciotto d’agnello” di Roald Dahl (Tutti i racconti, Longanesi). Perché a questi racconti e cosa c’è nella storia di Atwood di tanto intrigante, quali mondi spalanca?
Partiamo dalla prima domanda, la più immediata: il richiamo ad altri racconti scaturisce dal centro nevralgico della storia di Atwood, l’istinto omicida della protagonista, Verna; qualcosa di simile si ritrova nelle storie sopracitate, con le dovute distanze e differenze, ma è un tema che fa da fil rouge a queste narrazioni. In “Che pensiero” di Jackson, similmente a “Il letto di pietra”, l’atmosfera è delineata fin dalle prime battute o quasi:

 

All’inizio Verna non intendeva uccidere nessuno.

(incipit “Il letto di pietra”, Margaret Atwood, p. 249)

 

Un pensiero bizzarro le attraversò la mente: avrebbe preso il pesante portacenere di vetro e gli avrebbe spaccato la testa.

(“Che pensiero”, Shirley Jackson, p. 250)

 

L’istinto omicida delle protagoniste di entrambe le storie non è celato: l’incipit di Atwood è incisivo, mordente, come da lezione di Cortázar, un’apertura nervosa che cattura immediatamente il lettore, contemporaneamente insinuando il dubbio che la questione sia tutt’altro che semplice e lineare, con quel «all’inizio»; che cos’è cambiato rispetto alle intenzioni originali di Verna? E avrà davvero ucciso qualcuno? Quarantasette caratteri e siamo già avvinti dalla storia.
Jackson ci arriva un attimo dopo, inizialmente si sofferma a delineare il contesto domestico e assolutamente ordinario della scena, affettuosa perfino, prima di capovolgere la situazione e dare una più oscura e ben precisa direzione alla storia, le fantasie omicide della moglie che si rincorrono pagina dopo pagina.
In “Mrs Anderson” Jackson fa qualcosa di ancora diverso, la violenza non si rivela immediata ma si accumula, una tensione che deflagra poi nel finale. La ripetitività della vita coniugale, l’insofferenza, viene stravolta da un dettaglio – un sogno, per la precisione – che rompe l’equilibrio ed esplode in violenza e follia.
Similmente a quanto fa Dahl, che sembra preparare la scena prima della furia omicida: è, anche in questo caso, una scena domestica, ordinaria, e che va avanti per un po’ nel suo delinearsi di oggetti, scambi di battute tra coniugi, descrizioni, prima della rottura dell’equilibrio, quella stessa che porta al gesto violento della donna – sì, usando come arma il cosciotto d’agnello del titolo.
Highsmith nel racconto selezionato sceglie una via intermedia: 

 

Con la bottiglia di cloroformio in mano, Geraldine guardò l’uomo addormentato nel portico sul retro. (“Quando a Mobile sbarcò la flotta”, Patricia Highsmith, p. 75)

 

Qualcosa è già accaduto, non possiamo ancora dire chiaramente cosa ma la sensazione è che la scena sia inconsueta, ne avvertiamo già la tensione: una donna, Geraldine, ha in mano una bottiglia di un composto dalle note proprietà narcotiche e anestetiche che con buone probabilità si appresta a usare di lì a poco proprio su quell’uomo addormentato – altrimenti perché darci queste informazioni, in un buon racconto nulla deve essere casuale o superfluo. Già in queste prime battute, la familiare sensazione di inquietudine, il dubbio, l’ambiguità, il senso di pericolo, di cui i racconti di Highsmith sono intrisi.
Si diceva prima del perché questo specifico racconto di Atwood, cosa contiene di particolarmente intrigante: in primo luogo sono anche questi rimandi – e gli ulteriori possibili – che ne fanno a mio avviso un racconto notevole, per la capacità di inserirsi nel discorso letterario, nel maneggiare una materia comune e rinnovarla, mostrandoci le molteplici facce di un prisma abbagliante. Una donna, gli abissi, il desiderio di vendetta, le colpe del patriarcato: sono la materia che nelle mani di Atwood si fa incendiaria, si inserisce su una stratificazione di storie – sue, prima di tutto – e sguardi, rinnovandosi di volta in volta negli esiti narrativi ma tenendo ben salda a mente l’origine di ogni cosa.
L’origine, ecco: che simbolo potente è quello dell’arma scelta da Verna per compiere la sua vendetta. Una stomatolite, un fossile di quasi due miliardi di anni, «la prima forma di vita preservata che abbia fatto la sua comparsa sul pianeta»; “stomatolite”, un termine che contiene le parole “letto” e “pietra”. Il letto di pietra, appunto, «un cuscino fossile, formato da strati di alghe verde-azzurro accumulatesi a formare una montagnetta o una cupola». Qualcosa di antico, strumento di morte che ha dentro di sé la vita, ma che richiama anche il primo omicidio del mondo cristiano, avvenuto per mezzo di una pietra appunto. Verna non è preda di un raptus violento, studia meticolosamente come compiere la sua vendetta contro l’uomo – Bob, un nome tanto banale come forse a voler richiamare l’ordinarietà stessa del male insita negli uomini – che decenni prima l’ha ferita irrimediabilmente; non è un’arma che coglie casuale, ma un oggetto scelto con cura e logica nell’ottica di coprire l’omicidio.
Ma come aveva sottolineato in principio, non era nelle intenzioni di Verna uccidere, non in questo caso almeno, durante una crociera tra i ghiacci artici. Era lì, casomai, per trovare un nuovo marito – se poi il suo destino sarebbe stato di fare nuovamente di lei una vedova, è un’altra storia. Il punto di rottura è l’incontro con Bob, il fantasma del suo passato, che apre a una narrazione su due piani temporali che Atwood maneggia abilmente senza diventare didascalica, facendo penetrare il lettore nella mente, nei ricordi, della donna, che attraverso questi si rivela altro dall’idea che di lei avevamo.
Insieme a Verna torniamo a ritroso nel tempo:

 

All’epoca erano rimasti tutti basiti – e non solo a scuola, perché in quel buco di città tutti sapevano perfettamente chi beveva e chi era astemio e chi era dissoluto e quanti spicci avevi in tasca – , erano rimasti tutti basiti che Bob, il ragazzo d’oro, avesse scelto di portare al ballo d’inverno allo Snow Queen’s Palace proprio l’insipida Verna.

 

Poche frasi che delineano perfettamente un contesto, le sue implicazioni – la piccola città, le chiacchiere, i pericoli che nasconde – e l’anomalia su cui in un certo senso si innesta il racconto. Verna è una ragazza timida, studiosa, con una madre molto rigida; lontana anni luce dal mondo di Bob, dai ragazzi popolari che frequenta, ma anche dalla scaltrezza e, scopriremo di lì a poco, dalla profonda cattiveria che li distingue. Accade qualcosa, la serata non va come Verna sognava – e qui, un’altra porta letteraria si apre, immediato il rimando a Una famiglia americana, romanzo fiume di Joyce Carol Oates che della violenza racconta le sue conseguenze – ma che cosa esattamente è accaduto Atwood ce lo svelerà dopo: prima è il tempo della vergogna, dell’insicurezza, tanto nel ricordo quanto nel presente, nonostante oggi Verna sia una donna matura, di quella sicurezza e bell’aspetto che le hanno fornito una vita di agi e ricchezze.

 

All’epoca non aveva avuto scelta. Dopo nemmeno una settimana, quella storia era di dominio pubblico. Era stato Bob a diffonderla, in una versione farsesca molto diversa da come la ricordava Verna. Verna la puttanella, ubriaca e vogliosa, che ridere.

 

Un filo sottile di tensione attraversa tutto il racconto, che Atwood tende nell’alternarsi dei piani temporali, mentre il personaggio di Verna assume sempre più tridimensionalità, ombre, sfaccettature, mentre cambia verso di lei anche la nostra posizione di lettori, ancora più ambigua a partire dal momento in cui ci è chiaro cosa sia effettivamente accaduto quella notte di tanti anni prima:

 

Una ragazza di oggi chiamerebbe la polizia. Oggi Bob finirebbe in galera anche mentendo, perché Verna era minorenne. Ma all’epoca non esistevano parole per quel reato: era stupro se un maniaco appostato dietro un cespuglio ti saltava addosso, non se il cavaliere con cui eri andata al ballo ti portava in auto in una stradina secondaria all’interno del boschetto spelacchiato e mal tenuto che circondava la micragnosa cittadina mineraria e ti diceva di bere, da brava, e poi cominciava a strapparti i vestiti di dosso. Come se non bastasse, il miglior amico di Bob, Ken, era arrivato con la sua auto per dargli manforte. Avevano riso entrambi e tenuto la sua guaina come souvenir.

 

È il centro nevralgico della storia, il punto di rottura che cambia ogni cosa, a cui Atwood ci prepara una pagina dopo l’altra, osservando Verna da angolazioni diverse, giocando su anticipazioni, indizi. Ed è anche il centro nevralgico di un discorso letterario più ampio che lega questa storia a buona parte della produzione dell’autrice canadese: gli abusi, il patriarcato, le conseguenze dell’oppressione, sono un fil rouge che attraversa racconti, tales, romanzi, poesie, saggi, e che si declina in forme e sfumature diverse. Tante infatti sono le forme della violenza, dell’abuso e molteplici le narrazioni possibili. In questo brano c’è insito un discorso di riconoscimento, la necessità di usare parole per definire un trauma e, attraverso esse, dare voce e dignità a chi l’ha subito; ma è anche riflessione attualissima sulla cultura dell’abuso, su ciò che in tempi diversi riconosciamo come tale e sul patriarcato in genere. Chiamare le cose con il proprio nome, definire stupro/abuso ogni azione o parola che implica violenza, tanto fisica quanto psicologica è un tassello fondamentale per cambiare una cultura ancora tanto patriarcale, pare ricordarci Atwood. Le parole sono lo strumento dello scrittore e questo brano ne sottolinea la valenza, che è prima di tutto politica.
Quel momento, nell’adolescenza di Verna, segna uno spartiacque e ne definisce il futuro, la sua stessa identità:

 

Era stato Bob a trasformarla in – perché non chiamare le cose con il loro nome? – un’assassina.

 

Ecco, le parole, ancora, il loro carico: Verna, che rivendicava il diritto di chiamare stupro quanto subito anni prima, non si tira indietro dall’usare su sé stessa una parola altrettanto forte ma la più esatta a definirne l’identità. Prima di farlo, però, prima di diventare ciò che la parola definisce, silenziosamente offre a Bob due occasioni di salvezza, due prove che fallirà; troppo grave la colpa per potersi salvare, troppo radicato il male in certi uomini per immaginare un pentimento.
Scivolando da una narrazione all’altra, il libro porta a un gioco di rimandi, punti di osservazione differenti, vicinanza o straniamento del lettore, ambiguità, toni e atmosfere diverse. Di moventi, perfino, qualcuno che siamo portati a condannare ma in un certo qual modo anche a comprendere – Geraldine tenta di uccidere e scappare dal marito violento – altri che sconcertano per la loro banalità di fondo – la monotonia famigliare cui la signora Anderson e la Margaret di Jackson si ribellano con un gesto violento, o lo sconcerto di Mary Maloney di fronte all’imminente abbandono del marito.
Storie che si intrecciano, tematiche e allusioni che si rincorrono tra le opere della stessa autrice o si immettono in un discorso più ampio. A riprova, ancora una volta, che la stessa materia plasmata dalle abili mani di una cantastorie d’eccezione come Atwood getta di volta in volta punti di osservazione sempre nuovi e che le increspature sulla superficie dell’acqua celano abissi.