Le storie nascoste nelle pietre di Rick Bass

di Debora Lambruschini

Operare una selezione e scegliere un solo racconto de La vita delle rocce, la nuova raccolta di Rick Bass pubblicata da Mattioli, addentrarvisi nel tentativo di sondarne i misteri della scrittura, le dinamiche interne, i rimandi, gli spunti, risulta particolarmente difficile di fronte a queste tredici storie. Sceglierne una pare un tradimento nei confronti delle altre: perché proprio Cavalli selvaggi e non Il suo primo alce, perché L’albero blu o Una guida alcolica al Perù e al Cile? Ognuna di queste storie, nella traduzione di Silvia Lumaca che prosegue l’eccellente lavoro su Bass iniziato con Cane da petrolio, è in qualche modo rappresentativa: non solo della raccolta in questione, ma dell’autore stesso, della sua sensibilità, del suo sguardo. Dunque faccio una scelta che non è una scelta e ve ne propongo due, diverse tra loro e scollegate, nonostante in questa raccolta non manchino invece le occorrenze interne. E compio una scelta emotiva, selezionando due racconti che pur diversi e con nessun personaggio in comune sono però anche strettamente legati, da una serie di spunti, da una simile postura autoriale; e che maggiormente mi risuonano dentro a lettura ultimata e mi accompagneranno a lungo come credo faranno anche con altri lettori. Storie la cui trama si sfilaccerà nel tempo ma non l’eco del mistero che hanno tentato di penetrare, i frammenti delle vite che trovano voce e corpo sulla pagina, la lingua intrisa di realtà e lirismo che ne caratterizza la narrazione tutta e che qui sembra tendersi al suo massimo. Il mondo di Bass e l’esplorazione del rapporto tra uomo e natura ma anche tra l’uomo e la frenesia della società contemporanea, le sue contraddizioni, l’infanzia e la vita adulta. Se Cane da petrolio ben riassumeva la vita peregrina dell’autore tra Texas, Mississippi, Montana, i frequenti spostamenti come geologo petrolifero e l’attivismo ambientale degli ultimi decenni, La vita delle rocce è più ancorata a un certo paesaggio ideale – pur non essendo le storie ambientate tutte in un solo luogo – una natura spesso incontaminata e sospesa nel tempo fatta eccezione per pochi fugaci dettagli e più in generale lo spazio della provincia. Bass dà voce e corpo a un mondo di uomini e donne alle prese con un quotidiano che mette alla prova, tra brutalità e smisurata bellezza, coniugando cruda realtà e lirismo in un connubio perfetto. E di cui i racconti Capre e La vita delle rocce mi sono apparsi come le porte d’accesso ideali e in un certo senso esemplari della sensibilità di Bass, di questa raccolta, i temi e gli spunti che emergono, lo sguardo sul dettaglio, la peculiare capacità di osservazione: dell’ambiente, certo, ma soprattutto del cuore umano, la sua mutevolezza, i sentimenti profondi. Perché se è vero che i luoghi entro cui i personaggi di Bass si muovono vanno oltre la semplice ambientazione, l’interesse dell’autore è tutto e sempre puntato sulle persone, sulle loro storie. E sulla loro fragile umanità, sui rapporti.

In Capre e La vita delle rocce ricorrono quindi diverse tematiche e spunti che attraversano tutta la raccolta: la memoria, il sogno, la malattia, la brutale bellezza del quotidiano e il rapporto con la natura, il contrasto mondo rurale e città, la solitudine, il momento di passaggio tra l’infanzia e l’età adulta.
In entrambe realtà e lirismo della narrazione si muovono in accordo perfetto, in un connubio ideale tra storia e modo di raccontarla, ognuna con le sue peculiarità. Il sogno, una materia tanto difficile da rendere in narrativa, si intreccia al ricordo, la realtà alla veglia, e apre squarci su ciò che effettivamente stiamo leggendo.
Il tema della memoria è il fil rouge che più strettamente lega questi due racconti: in Capre è tanto ricordo di eventi del passato rievocati dal protagonista narratore quanto memoria che si sfilaccia per il trauma e la malattia; ne La vita delle rocce è il ricordo di chi abbiamo perduto, un dolore mai sopito, memoria che scava indietro nel tempo e ne restituisce frammenti.

Capre è – almeno in apparenza – il racconto di due ragazzi che saltano spesso la scuola per tentare di diventare allevatori di tori e dei numerosi fallimenti derivanti dalla loro totale inesperienza. Questa è la storia principale, quella più in vista, l’avventura di due amici l’attimo prima di diventare adulti, ognuno la propria strada.

 

Sarebbe facile dire che mi aveva attirato nei prati della rovina, come Pan, chiamandomi con il suo flauto, perché mi unissi al segreto disordine del mondo; ma dentro di me, avevo già la mia personale rovina, le mie brame, perciò non avevo bisogno del richiamo di un flauto, non avevo bisogno di essere spronato.
 (incipit, p. 51)

 

Con l’incoscienza di quando si è ragazzi, i due si buttano in un’avventura, probabilmente più per il piacere di questa che per il reale desiderio di farla diventare qualcosa di serio e concreto; entrambi sanno già che di lì a poco andranno all’università, che la vita adulta prenderà una forma diversa, ma in quel momento tutto ciò che conta è diventare allevatori, mettere insieme i pochi risparmi e comprare i capi di bestiame più economici e malandati alle fiere di settore. Animali che dopo aver portato a fatica nella fattoria di Moxley perdono irrimediabilmente dopo un attimo, fuggiti chissà dove. È durante una delle loro peregrinazioni alla periferia della città vicina che incontrano l’Uomo-Capra e iniziano ad acquistare da lui un capo dopo l’altro, tutti malconci e neanche tanto economici.
Ma sono le trame più sotterranee, secondarie o meno immediatamente evidenti il cuore reale di questa storia, che Bass intreccia dosando svelamento e sottrazione. Ecco che Capre diventa quindi racconto sulla perdita: dell’infanzia, della figura paterna, della memoria. Il vecchio Ben, il nonno di Moxley, che lentamente ma in modo inesorabile viene risucchiato dal buio dei fantasmi della guerra che ancora lo tormentano e della malattia che ne intacca le facoltà mentali. È l’unica famiglia che Moxley abbia conosciuto e la cui lenta scomparsa è vissuta con la distanza dell’adolescenza. L’impatto della sua mancanza, lo smarrimento di fronte al vuoto che lascerà, è camuffato dalle scorribande dei ragazzi, dal progetto scellerato che portano avanti e dai modi a dir poco rustici con cui tentano di arginare le fughe del nonno nei momenti di perdita della lucidità; ed emerge, in tutta la sua devastante tristezza, in quei fugaci attimi di lucidità e presenza durante i quali per un momento il passato sembra essere di nuovo presente e ogni cosa tornare al proprio posto:

 

C’erano però dei giorni in cui il vecchio Ben stava bene, tirato come un violino; giorni in cui il tessuto disintegrato del suo vecchio cervello lacerato dalla guerra, logorato dall’iprite e dal distillato d’orrore di quel conflitto passato, si riassettava, grazie a una sorta di piccoli movimenti tellurici, ricomponendo la grazia dell’equilibrio che la sua mente aveva posseduto in passato – il nonno che Moxley aveva conosciuto e amato, che lo amava a sua volta, e che lo aveva cresciuto. (p. 58)

 

E, ancora, è in quegli istanti che la scrittura di Bass tende al lirismo e lo sguardo si concentra sul dettaglio, a mostrarci quanto fondamentale sia per la scrittura l’atto di osservare con attenzione, la consapevolezza del mondo, e nei quali la narrazione si fa materica:

 

Nelle notti in cui il passato si ricomponeva dentro il vecchio Ben e lui era di nuovo in salute, anche se solo per un po’, noi tre cenavamo insieme. Sedevamo nella veranda sul retro godendoci le brezze del Golfo, che arrivavano da più di centossessanta chilometri a sud-est, e guardavamo l’erba incolta, alta davanti a noi, piegarsi in onde oceaniche, con le piccole raffiche e le accelerazioni che la rimescolavano in sequenze consecutive, creando quelli che, per un istante, sembravano i cavalloni di un fiume impetuoso; o come se un animale nascosto stesse correndo invisibile proprio sotto la superficie. (p. 58)

 

Anche il racconto La vita delle rocce è attraversato dal dolore della perdita, ma a differenza di Capre qui è qualcosa avvenuta in un passato lontano, eppure ugualmente dolorosa. Jyl – che incontriamo anche in un altro, bellissimo racconto, Il suo primo alce – è una donna adulta ma la perdita dell’amato padre avvenuta vent’anni prima è ancora una ferita aperta; ora che si trova a fare i conti con la malattia, gli effetti devastanti della chemioterapia e la solitudine, la mente torna più spesso all’infanzia, alla mancanza del padre, alle domande che non trovano risposta e di cui la narrazione e la raccolta tutta è disseminata.

 

Suo padre era morto da vent’anni ormai. Suo padre non l’aveva mai vista assottigliarsi. Si chiedeva se loro fossero come due montagne diverse, composte da tipologie di roccia leggermente differenti, attraverso le quali scorreva lo stesso fiume; o erano forse come due fiumi intrecciati, due biforcazioni che si separavano, correndo attraverso e tagliando in due la stessa montagna, la stessa faccia e lo stesso corpo di pietra?
(p. 144)

È un’immagine bellissima, espressione di sentimenti complessi che riguardano il lutto, la malleabilità del tempo che ci allontana dalle persone che abbiamo perduto e la caducità dell’uomo che allo stesso modo ci riavvicina ogni giorno un po’ di più a loro; un’immagine potente, intrisa di quel misticismo che attraversa i racconti di Bass e sembra pervaderne il mondo. E su cui ci si sofferma, incuranti del tempo della narrazione, per domandarsi quale delle due cose sia per noi, due montagne o due fiumi intrecciati, per interrogarsi su che cosa resta delle persone che abbiamo perduto, dei nostri padri. 
Delle vite di questi personaggi Bass ci regala dei frammenti e quando anche alcuni personaggi ricompaiono in altri racconti e in momenti differenti delle loro vite, restano tali, alcuni più grandi altri meno, e ciò che scorre sotto la superficie è per questo ancora più potente. Che cosa è stato delle madri di Jyl e di Moxley? Che cosa è accaduto effettivamente al padre di Jyl, una qualche sorta di incidente di lavoro mentre sorvolava le montagne? I due ragazzi abbandoneranno l’allevamento dei tori per andare all’università e costruirsi una vita adulta diversa, forse lontano da dove sono cresciuti? E quella relazione che nasce tra Moxley e la figlia dell’Uomo-Capra a che cosa porterà? Interrogativi senza risposta, non sulla pagina almeno, ma che contribuiscono a rendere queste short story una costruzione perfetta, l’equilibrio tra ciò che vediamo e ciò che resta fuori eppure altrettanto importante, fatto di dettagli, accenni, parole sospese. Sui finali, poi, questa tensione arriva al suo culmine, nel rifiuto di tracciare conclusioni troppo definite ma lasciando uno spiraglio, uno spunto.
In modo simile, anche la solitudine è un sentimento che attraversa entrambe queste storie, seppur a capi opposti. In Capre è il sentimento nuovo che si accende nel narratore di fronte alla rottura dell’equilibrio fino a quel momento conosciuto, la fine dell’adolescenza e di tutto ciò che comporta per fare posto alla vita adulta, ad altri sentimenti e legami. A quel momento, a quell’ultimo istante prima che tutto cambi, si aggrappa con forza disperata a un’idea del tempo che è propria dell’adolescenza:

  

Non mi andava di sentirmi solo o tormentato. Avevamo ancora tutto il tempo che volevamo, il mondo era ancora nostro, non c’era del marcio da nessuna parte, e il giorno era ancora fresco e nuovo, non potevamo sbagliarci. Saremmo cresciuti, ma non era ancora il momento. (finale, p. 83)

 

Quel momento resta per sempre fissato, almeno nella finzione della storia. Ci sarà spazio a sufficienza poi per essere adulti, per rendersi conto del marcio che effettivamente c’è. Eppure, nonostante questo, Bass in questi racconti sembra voler accogliere la lezione di un altro gigante mai abbastanza citato della short story statunitense, Andre Dubus: come i personaggi di Dubus anche quelli di Bass sembrano attenti, nonostante tutto, a riconoscere la bellezza che pervade il mondo; uomini e donne con il proprio carico di dolore e fallimento, di cui non sappiamo se usciranno più o meno incolumi dalla tempesta, ma che entrambi gli autori guardano con benevolenza, specie alle loro umane debolezze. E se Dubus è stato devoto alla forma breve e l’ha plasmata nel modo a lui più congeniale, Bass quando sceglie il racconto ne reinterpreta i caratteri fondanti e in questa raccolta compone tredici ideali frammenti di molteplici vite come ce ne sono tante altre e allo stesso tempo nessuna. E in cui il desiderio di connessione umana, è qualcosa di fortissimo, che arriva anche ai margini del mondo, nel più profondo isolamento. Perfino lassù, nella casa tra i boschi di Jyl, lacerata da una solitudine nuova e profonda dopo che ha conosciuto inattesi legami che potrebbero essere già perduti. È una solitudine scelta molto tempo prima, appagante e in sinergia con l’ambiente in cui vive, ma che all’improvviso sente il bisogno di spezzare, entrando in connessione con altre vite, mescolandovi un po’ la sua. Per farlo, sceglie di affidarsi al fiume che corre fino alla vallata, accanto alla fattoria della famiglia di predicatori.

 

Era abbastanza per lei, per parlare con il resto del mondo così vasto; abbastanza per cercare di ottenere un nuovo contatto, di raggiungere qualcuno dall’interno l’oscurità che minacciava di inghiottirla, per lasciare una testimonianza – anche per un futuro che non avrebbe mai visto, anche nella sua paura – delle bellezze che poteva ancora ammirare. (p. 125)

 

C’è in così poche righe così tanta vita, così tanto desiderio: di non svanire, di lasciare una traccia di sé, piccola ma indelebile, di non farsi catturare dall’oscurità; la paura dell’ignoto, della morte, ma anche il legame con il proprio passato, la memoria, il bisogno dell’altro.
È un racconto struggente e intriso di mistica bellezza, di vita nonostante la morte che lo attraversa. Una storia che ne contiene molte altre al suo interno e che Bass tratteggia ora mediante il ricordo, ora col sogno, ora con il racconto di Jyl ai bambini. Denso di simboli e piccole fondamentali epifanie, La vita delle rocce efficacemente è anche il racconto che dà il titolo alla raccolta tutta, il più lungo e stratificato. E ciò che di questo racconto ho selezionato, le chiavi di lettura con cui vi sono entrate, sono solo alcune delle aperture possibili, come per ogni storia sapientemente narrata. E nell’ostinato desiderio di Jyl, nel testardo rifiuto del protagonista di Capre di cedere il posto alla vita adulta, Bass mi ha ricordato qualcosa di semplice eppure fondamentale: la bellezza, la potenza delle connessioni umane, la grazia intrinseca nella caducità delle cose.