I Sette piani e I sette messaggeri di Dino Buzzati

Viaggi orizzontali e viaggi verticali. Analisi dinamica di Sette piani e I sette messaggeri di Dino Buzzati

di Marco Marrucci

Il testo qui presentato è un accomodamento e una riduzione in forma scritta dello workshop Viaggi orizzontali e viaggi verticali che la Scuola Carver di Livorno mi ha gentilmente invitato a condurre il 28 maggio 2022 in chiusura dell’anno didattico. Ringrazio quindi gli studenti intervenuti, Francesco Mencacci (direttore della Scuola Carver nonché moderatore dello workshop) e Francesco Parasole (docente della Scuola Carver nonché fine dicitore di belle lettere)

Saluti. Convenevoli. Presentazioni. Agile smaltimento dell’imperativo di festeggiare il cinquantenario della morte di Buzzati: stiamo facendo analisi teorica e laboratorio di scrittura, mica un veglione lacrimoso.

Ora che abbiamo strappato dall’uscio i festoni di benvenuto si possono buttare giù le carte a faccia scoperta. Ecco Sette piani e I sette messaggeri. Questi due racconti fungeranno da pietre angolari per il nostro workshop, ma prima di lanciarsi a corpo morto sui testi m’incorre l’obbligo di avanzare una proposta di metodo. In alternativa ai rodati dualismi forma/contenuto e linguaggio/struttura (entrambe le coppie inquadrano dei parametri statici, o comunque fallacemente mobili) oggi tenteremo un’analisi dinamica. O cinetica. O addirittura gravitazionale. Insomma, un esame dei movimenti effettuati da ciascuno dei due racconti. Non a caso lo workshop è intitolato Viaggi orizzontali e viaggi verticali. C’è il rischio che così impostata la faccenda odori di bizzarria o stravaganza, ma vi siete accorti – ci avete mai pensato – che la narrativa ingenera un suo proprio archetipo di movimento che coinvolge il processo di lettura? È possibilissimo che la risposta sia “no”, e il motivo risiede nel fatto che la letteratura, sotto questo profilo, si comporta come un sistema chiuso d’ispirazione galileiana. Tento di spiegarmi meglio. Proprio adesso, mentre io parlo e voi ascoltate, la Terra sta compiendo una moltitudine di movimenti nello spazio, eppure noi non ci troviamo in condizione di avvertirli perché siamo interni alla meccanica del sistema, perfettamente armonizzati con il vorticoso pacchetto di rotazioni e rivoluzioni e precessioni e nutazioni. L’attrazione gravitazionale ci costringe a un viaggio in parallelo, a una congruenza matematica. Alla stessa maniera la letteratura (quando è un sistema che funziona) incorpora il lettore dentro il suo campo di forze dinamico e lo trascina nel proprio moto senza che questi possa averne contezza. Ovviamente sto accusando di cecità il giudizio consapevole e categorizzante, perché in fondo parrebbe esistere un misterioso livello di conoscenza – sensibilità, intuizione, empatia – che ci consente di partecipare e soprattutto di godere degli andirivieni e delle capriole della scrittura. La nostra indagine, quindi, sarà volta a esplicitare le invisibili proprietà dinamiche di due racconti di Buzzati e, per converso, la coppia di invisibili proprietà dinamiche che la lettura acquisisce quando penetra la sfera d’influenza dei racconti. Al di là dei casi di specie i movimenti in questione possono venire aggettivati in decine di modi (lineari, circolari, regressivi, evolutivi, pacifici, travagliati, multidirezionali, unilaterali, lenti, fulminei), ma anche qui l’intestazione dello workshop rivela subito le direttrici massime che ci troveremo a percorrere: i nostri viaggi saranno all’insegna della verticalità e dell’orizzontalità. Sul piano teorico ci insegneranno a rintracciare un’opposizione e una sorta di funzionalità incrociata negli orientamenti spaziali di due racconti che per altri versi non sembrerebbero offrire plateali linee di confronto. Sul piano laboratoriale ci insegneranno un paio di trucchi per dinamicizzare la nostra scrittura: non basta imporre un qualsivoglia ordinamento spaziale ai racconti, è necessario sapere come allineare ed elettrizzare e guidare gli elementi della narrazione in modo che possano muoversi efficacemente al suo interno.

Sette piani sarà il nostro campione di studio per il binomio alto/basso. Si tratta di un racconto abbastanza semplice dal punto di vista dello schema cinetico. Nelle pagine introduttive Buzzati apparecchia la finzione di un ospedale regolato secondo un criterio gerarchico di severità discendenti: in cima le quisquilie sanitarie, al centro un purgatorio con varie modulazioni drammatiche, dabbasso le patologie terminali. La partenza è stabilita in vetta, nella camera del settimo e ultimo piano in cui il signor Corte viene ricoverato per un malanno che si prospetta banale e di lestissima cura. Da qui (e transitando per tutti i livelli intermedi dell’ospedale) si origina una discesa verso il piano terra che esibisce una manciata di caratteri immediatamente comprensibili.

Linearità. Tolta un’innocua passeggiata tra le camere del sesto piano il viaggio del signor Corte non prevede oscillazioni sull’asse orizzontale – che in un discorso più avvertito significa: non esiste più alcun mondo al di fuori del torrione ospedaliero, cominciata la terapia si è inchiodati a una rotta verticale – né tantomeno risalite. Una volta che lo sprofondamento verso il basso si è consumato diventa irrevocabile. Lampante come Buzzati abbia deciso di investire sulla più ampia intelligibilità del percorso riadattando gli stilemi di un classico one way journey.

Scomodità. Il viaggio del signor Corte si configura come il lento precipitare da uno stato di vago malessere (un disturbo da niente, una patologia liquidabile in pochi giorni) a una preoccupazione divorante per il proprio stato di salute e le prospettive di guarigione. È un movimento che guadagna in angoscia e disagio per il protagonista, ma anche per il lettore che inevitabilmente viene intrappolato nella scia gravitazionale del racconto. Ogni livello dell’ospedale sembra poi contrassegnato da un indice di mortalità tanto esibito da riuscire sfacciato: più il numero del piano è piccolo, più l’indice di mortalità è grande. Ubicazione del protagonista e ubicazione della minaccia (con tanto di punteggio di letalità ben evidenziato fuori dalla porta) coincidono senza residui. Un artificio basico con cui Buzzati permette al lettore di indovinare sempre in quale frazione della propria rovina è bloccato il signor Corte.

Passività. La caduta del signor Corte è un accidente esterno imputabile alla bizzarria delle procedure, alla volontà dei medici, al congedo degli infermieri e a documentazioni malfirmate. Si tratta di una dinamica subìta, di una maledizione inferta. Colui che regge il peso della narrazione non è una macchina motrice, bensì un ingranaggio che riceve spinte e direzionalità da un propulsore altro.

Discontinuità. O per dirla altrimenti: caduta a camere stagne. Il viaggio non è graduale né fluido, ma procede attraverso balzi feroci incorniciati dalle sette camere di degenza. Più che a un rovinare nel vuoto somiglia al trasferirsi di casella in casella all’interno di un ambiente verticale. Ciascuna casella ha poi un diaframma, una barriera che deve essere sfondata per scendere. Da una prospettiva materica la barriera altro non è che la muratura in calcestruzzo che divide i piani dell’ospedale, ma narrativamente adombra la resistenza psicologica ed emotiva che il signor Corte inalbera di fronte alle pressioni che lo schiacciano verso il basso.

L’attributo della discontinuità merita un’investigazione più rigorosa. Perché se ogni piano d’ospedale rappresenta una barriera, allora il signor Corte deve affrontare il trauma dello scavallamento per ben sette volte. Un’opportunità per illuminare i dispositivi cinetici del racconto ed espandere il corredo tecnico della nostra scrittura è insabbiata nella reiterazione di questa pantomima. Il canovaccio può essere schematizzato come segue:

Al settimo piano viene arieggiata l’ipotesi di una discesa al livello inferiore; si scatena il conflitto tra necessità terapeutiche o errori di protocollo o riassetti organizzativi (pressione verso il basso) e la brama conservatrice di rimanere al piano corrente o addirittura di esigere una risalita; al paziente viene garantito che il trasferimento è solo un eccesso di scrupolo e in ogni caso una sistemazione temporanea; il signor Corte si dichiara indispettito, ma un intreccio di giustificazioni autoinflitte e considerazioni mediche lo spingono ad accettare il trasloco; al sesto piano viene arieggiata l’ipotesi di un’ulteriore discesa al livello inferiore e via così a rotta di collo fino al mortale comando che abbassa le persiane scorrevoli e chiude il passo alla luce.

Buzzati si costringe a inverdire e aggiornare continuamente questo modello: la forma generale del conflitto deve essere riconoscibile, ma la rosa di pretesti e motivazioni e arrendevolezze deve riuscire fresca ogni volta. E sorprendente. E plausibile. Dico “deve” perché l’immediata riconoscibilità del modello funziona da galvanizzante per il lettore, che già tra il sesto e il quinto piano comincia a domandarsi: «Intuisco che il giochino si riproporrà ancora cinque volte, ma come farà Buzzati a renderlo fresco e sorprendente e plausibile a ogni replica?» La risposta è una magnifica prova di composizione globale e immaginazione particolare. All’espediente della cortesia nei confronti di una madre che non vuole separarsi dai bimbi e avrebbe necessità di traslocare nella camera del signor Corte al settimo piano fa seguito una ricalibrazione dei parametri di gravità fra gli ammalati del sesto piano; al sopraggiungere di un eczema trattabile esclusivamente con i portentosi raggi digamma del quarto piano succedono le elucubrazioni e i rimuginamenti di un dottore che persuadono il signor Corte a chiedere di venire retrocesso di un piano per godere della vicinanza benefica del professor Dati; l’accorpamento di terzo e secondo piano reso ineludibile dai quindici giorni di vacanza delle infermiere viene infine aggravato (convertendosi in proclama di morte) da una circolare di trasferimento al primo piano autenticata per errore dall’introvabile professor Dati. Le schermaglie tra la pressione affondatrice e la brama di risalire o quantomeno difendere la posizione rappresentano formidabili nuclei di tensione che esplodendo in sequenza come bombe a orologeria scaraventano innanzi non solo il protagonista, ma anche la lettura – e dunque noi che leggiamo e partecipiamo e godiamo – fino all’ordigno successivo. Per garantire la propulsione dinamica del racconto è vitale che Buzzati riesca a giocare sette volte la medesima partita senza che il lettore si annoi, ma piuttosto gioisca per le variazioni e le infiocchettature sopra un tema conosciuto. Eterogeneità nell’uguaglianza. Il prevedibile inatteso. Si tratta di una perizia che se ben compresa e metabolizzata può entrare felicemente nel nostro armamentario di tecniche di scrittura. Come già anticipato, è inutile progettare il circuito se non si trova la maniera di farlo percorrere a quelli che dovrebbero essere gli elementi attivi della narrazione.

Incliniamo adesso le ottiche di novanta gradi. I sette messaggeri, come sarà ormai chiaro, rappresenta la coordinata orizzontale della nostra analisi. Insieme al fidato manipolo di messaggeri il giovane principe muove dalla capitale del regno per conoscere e superare le frontiere dei propri domini, frontiere che a rigor di logica dovrebbero esistere ma che nessuno – neppure suo padre il re – ha mai visto né tracciato su mappa. A ogni sosta uno dei sette cavalieri ha l’incarico di tornare indietro, ricevere e consegnare informazioni in città e (sveltito dalla mancanza di carabattole a traino) raggiungere il principe, che nel frattempo avrà macinato una quantità variabile di giorni e leghe. Nell’arco di qualche settimana distanze e tempi di percorrenza si dilatano oltremisura: agli attendamenti sempre più remoti giungono lettere antichissime, le pendolerie dei corrieri durano mesi e poi anni, il principe invia l’ultimo dei nunzi sapendo che la morte per vecchiaia lo coglierà prima del suo rientro. La mera fisicità delle spedizioni è poi elevata a un rango di nobile spiritualità dagli assilli malinconici, affettuosi e recriminatori che il principe affida nell’immaginazione ai cavalieri mentre proietta fantasie di gloria e conquista all’indirizzo della frontiera.

Un incessante travaso dalla carne al pensiero, dall’astratto al materiale. La qualità dei movimenti generata da un siffatto turbinio è enormemente più complicata di quella che anima Sette piani.

Le figure di linearità e discontinuità – e quindi la progressione a tappe consecutive del signor Corte – vengono sganasciate da una dinamica che in un primo momento avevo battezzato “sviluppo a fisarmonica” per via del costante andirivieni della nostalgia e dei messi da una parte (i quali procedono a ritroso, dai bivacchi alla città) e del principe e della sua aspettativa dall’altra (i quali procedono innanzi, dai bivacchi alla frontiera irraggiungibile). Cionondimeno la dicitura “a fisarmonica” si scopre subito fuorviante perché implica che la proiezione in avanti e il rinculo all’indietro si alternino e si escludano a vicenda: prima l’avanguardia marcia, poi le retrovie indietreggiano. Questa modalità di copertura a blocchi è sicuramente praticata dalla lingua, che in virtù delle proprie costrizioni fisiche saltabecca tra messaggeri e principe avvicendandoli nel discorso. (E d’altronde come potrebbe una stringa di parole da rincorrere lungo un asse temporale restituire la simultaneità degli eventi?) Tuttavia dentro la cronologia della narrazione i due attori e le due spinte contrarie sono compresenti: il principe avanza mentre i messaggeri staffettano, anche se la prosa è obbligata a inquadrare prima l’uno e dopo gli altri. La sostituzione del “prima” e del “poi” con il “mentre” non è uno sterile mercanteggio d’avverbi, ma l’armatura spaziotemporale che ingriglia tutta la vicenda. Di conseguenza è più corretto abbozzare un sistema orizzontale a doppio flusso entro cui il principe circola irremovibilmente in un senso e, nello stesso momento (avvertite la grandiosa responsabilità di cui è investito questo “e nello stesso momento”?), la spicciolata dei messaggeri fa navetta tra due poli sempre più distanti. Ed ecco che la confortante dirittura di Sette piani non esiste più.

In relazione a Sette piani ho mobilitato un ulteriore concetto, ovvero quello di scomodità. Anche qui l’affanno crescente e il mortale peggioramento della situazione ritornano, ma in una chiave diversa che elimina la figura del progresso a camere stagne. L’inabissarsi da una vetta di minimo pericolo a una profondità di massimo pericolo, così come la sfacciata attribuzione di un punteggio di letalità a ciascun piano d’ospedale, vengono rimpiazzati dall’allargamento di un vuoto mediano che separa gli approdi del ritorno e della conquista. Senza grancassa né fanfare Buzzati opera una saggia dislocazione della minaccia: il signor Corte ci abitava dentro come una prigione o un’atmosfera, principe e messaggeri la reinventano e la espandono ininterrottamente con un reciproco allontanarsi. La scomodità non viaggia loro accanto, bensì ingrana e prospera nei luoghi che di minuto in minuto sono costretti ad abbandonare. È precisamente con questa farraginosa o mancata congruenza tra ubicazione dei protagonisti e ubicazione del disagio che I sette messaggeri rinuncia alla facile planimetria di Sette piani.

Agli antipodi rispetto alla caduta del signor Corte, la deriva infinita del principe risponde a una volontà. A un desiderio. A una missione autoimposta. Colui che regge il peso della narrazione è finalmente generatore primo degli eventi. (E in ogni caso anche in questo racconto sopravvive l’ombra di chi subisce un contraccolpo forzato: i messaggeri – sui quali insiste la metà restante del peso, non dimentichiamolo – altro non fanno che cedere al destino che il principe ha scelto per loro.)

Sette piani è servito da laboratorio di alta specializzazione nel quale intrufolarci per taccheggiare un attrezzo di lavoro e migliorare il nostro equipaggiamento. Verifichiamo se anche I sette messaggeri presenta brecce o fratture per sgraffignare qualcosa. L’accesso più promettente sembra scavato al centro di quella “simultaneità nell’opposizione” analizzata poco sopra. Il dualismo tra ripiegamento e avanzata (ormai lo abbiamo certificato con mille timbri) costituisce l’architettura fondamentale dell’intero racconto. La disillusione per una linea di frontiera che magari non esiste e gli arrabattamenti per salvaguardare le comunicazioni con la città, prese come istanze separate, quasi sicuramente non avrebbero la fibra per movimentare e sostenere e amplificare la tensione necessaria a energizzare la scrittura e ammaliare il lettore. Senza il principe i messaggeri farebbero tranquillamente ritorno a casa dopo un’esplorazione di ordinanza. Senza i messaggeri il principe zoccolerebbe verso la frontiera libero di non guardarsi mai indietro. Ne I sette messaggeri è il fatto di doversi occupare di entrambi gli uffici in contemporanea a incendiare il propellente della narrazione, perché tutto ciò che viene guadagnato dal principe in termini di distanza e tempo viene rubato ai messaggeri, i quali a loro volta potrebbero avvantaggiarsi nel loro compito solo sottraendo giorni e leghe alla traversata del principe. S’innesca così il paradosso per cui conseguire uno dei risultati (mantenere i contatti con la capitale o valicare i confini) rende automaticamente impossibile aggiudicarsi l’altro. Paradosso – badate bene – di cui il principe sembra cosciente fin dall’inizio del viaggio; e tuttavia questa cognizione non gli impedisce di sacrificare uomini, nobiltà e ragionevolezza in una duplice galoppata senza sbocchi. Buzzati ha quindi bisogno di martellare con foga sui principi della contrapposizione e della divergenza all’interno della stessa unità di tempo: il ciclico ritornello «mentre il principe fa così i messaggeri fanno cosà» gli assicura la più efficace drammatizzazione del conflitto tra malinconia e brama di conquista, tra rimpianto e ambizione, tra calcolo d’intelligenza e avventura scellerata. Si costringe a rammentarci continuamente che il passo che avvicina l’orizzonte del principe è il medesimo passo che allontana quello dei messaggeri. Dovendo gestire due fronti separati e due traiettorie con interazioni macchinose (altro che l’ordinatissima catabasi del signor Corte), Buzzati mette a regime un pirotecnico cerchiobottismo letterario per cui gli uni tengono in movimento gli altri trasferendo loro una contropartita oscura e lunare della propria energia cinetica. Messaggeri e principe combattono una battaglia da antagonisti, eppure – anzi, esattamente per questo; ammirate il capolavoro – restano fratelli nella medesima guerra. Ecco il trucco del mestiere da distillare con l’analisi de I sette messaggeri: la fiamma della letteratura spesso brucia negli interstizi fra elementi dall’incastro problematico, dentro la faglia che separa due incompatibilità. Scrittore sarà colui che azzarderà comunque l’incastro impossibile, che tenterà ad ogni occasione di ripianare la faglia incolmabile.

Una fine del mondo - Dipinto di Dino Buzzati, 1967