Una questione di occhi: il mondo di E.T.A. Hoffmann, di Antonella Lattanzi

In Racconti dal buio, Rizzoli raccoglie, nella collana Bur, i più importanti capolavori della produzione fantastica e demoniaca di E.T.A Hoffmann – dall’Uomo della sabbia al Consigliere Krespel, dalle Avventure della notte di San Silvestro a Vampirismo – e ci guida alla scoperta di protagonisti indimenticabili.

Cattedrale vi propone in lettura la prefazione al libro firmata da Antonella Lattanzi, per gentile concessione dell’editore.

Una questione di occhi: il mondo di E.T.A. Hoffmann
di Antonella Lattanzi


Ernst Theodor Wilhelm Hoffmann, che nel 1804. Cfr. più avanti nella cronologia (con questo nome firma nel 1804 la partitura di un Singspiel) cambierà il suo terzo nome in Amadeus, per Mozart, e che oggi conosciamo come E.T.A. Hoffmann, nasce nel gennaio 1776 a Königsberg, nella Prussia orientale. Muore nel 1822 a Berlino, per una malattia causata dall’abuso di alcolici. Continua a scrivere e pubblicare fino all’ultimo. In soli quarantasei anni di vita, quest’uomo dalla fantasia incandescente e vulcanica come gli intingoli di un alchimista rivoluziona la letteratura mondiale e influenza chi verrà dopo di lui. Baudelaire, Balzac, Gogol’, Puškin, Dostoevskij, e Freud – che nel suo saggio Il Perturbante, scritto agli albori del Novecento e incluso nel volume che avete tra le mani, definirà l’Unheimlich proprio a partire da Hoffmann – lo amarono, lo ammirarono, e ne rimasero come stregati. Stregare è la parola giusta per parlare di Hoffmann. Non riesco a trovarne una migliore. Per chi non lo conosce e lo incontra per la prima volta, ma anche per chi è un suo lettore da sempre, entrare nel libro che state per leggere è come fare un balzo nel calderone di un demone. Non è una questione di storie, di trama, di ciò che succede. La questione è come succede. Come appaiono e scompaiono i personaggi dal racconto, come si fanno cupe, pastose e nere anche le più ridenti atmosfere. Come mutano di colpo le certezze, poiché appena ci sembra di aver carpito l’essenza di qualcuno, questo qualcuno ci si rivela per il suo esatto contrario. Come, dunque, si combinano le parole sulla pagina. A un certo punto, mentre leggi e leggi e mastichi e ti immergi nei racconti di E.T.A. Hoffmann, nel suo mondo, è inevitabile che i caratteri si sfochino, si scambino di posto, comincino a turbinare e trasformarsi in creature spaventose che ti chiedono chi sei davvero, da dove vieni, chi ami davvero, cosa vuoi davvero, e cos’è la realtà, cos’è il sogno, cos’è l’incubo, cos’è la vita, cos’è la morte. È inevitabile che ogni maleficio che accade sulla pagina ti parli di te. Non a caso, i racconti di Hoffmann non sono soltanto gotici – anche se qui il gotico guadagna la sua intramontabile potenza – ma anche qualcosa travestito da qualcos’altro. Come scrivevo prima, non è un caso che Freud, padre della psicoanalisi, abbia scelto uno scrittore e i suoi racconti per studiare i rapporti con la figura paterna, l’invenzione dell’anima, il doppio, il sosia come risarcimento per chi non siamo stati, ciò che non abbiamo fatto, le occasioni che non abbiamo colto, ma anche come punizione per tutte le nostre colpe. E soprattutto l’Unheimlich, parola che in italiano si traduce appunto con perturbante, ma che in tedesco dà il suo meglio perché viene da un- (non), heimlich (confortevole, tranquillo), che a sua volta viene da heim: casa. E cioè il posto più tranquillo, più sicuro del mondo. Almeno in teoria. Il perturbante, scrive Freud, «è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare». Se ci pensiamo, questa sensazione è alla base degli horror più riusciti, più belli che conosciamo. Ma non solo. È l’esperienza più orribile che possa capitarci. Sentirci strani in un posto o con delle persone che ci sono sempre state familiari. A chi non è capitato? Non riconoscere più le persone o i luoghi che frequentiamo da sempre. Non perché siano cambiati davvero; ma perché in quel momento c’è qualcosa di strano, di rotto, di non confortevole, di perturbante, appunto, in noi. È qui che si gioca la partita di Hoffmann: a cavallo tra la letteratura e l’indagine sull’essere umano. Anche Calvino dirà, a proposito dell’Uomo della sabbia, tra i più potenti e famosi scritti di Hoffmann, che: «La scoperta dell’inconscio avviene qui, nella letteratura romantica fantastica, quasi cent’anni prima che ne venga data una definizione teorica». Perché studiando Hoffmann Freud arriva a parlare anche della rimozione, di ciò che ritorna: e così il perturbante è anche «qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che è invece affiorato». Come i traumi che abbiamo subito. Ma anche come qualcuno che torna dopo la morte. Qual è la differenza? Ciò che vogliamo dimenticare o che abbiamo dimenticato e torna ad assillarci non è esattamente uguale a un cadavere che si risvegli, scavi nella terra, e torni alla luce?

Torniamo all’Uomo della sabbia. Io, per parte mia, l’ho conosciuto nella mia adolescenza con una canzone dei Metallica: Enter Sandman (il tedesco e l’inglese sono molto simili, il titolo originale del racconto è infatti Der Sandmann). È notte. Qualcuno, nella canzone – un padre o una madre – esorta un bambino a dire le sue preghiere, stando ben attento a non dimenticare nessuno. Colui che parla gli rimbocca le coperte, in modo che il caldo del letto lo mantenga libero dal peccato. Fino a quando arriva l’Uomo della sabbia. E a quel punto esce la luce, entra la notte, «granello di sabbia». Ed è proprio così. Nell’Uomo della sabbia, il Sandmann è: «un uomo cattivo che viene dai bambini quando non vogliono andare a letto e getta loro manciate di sabbia negli occhi fino a che, sanguinanti, non schizzano via dalla testa: poi li prende, li mette in un sacco e li porta sulla luna per darli in pasto ai suoi figlioletti, che stanno lassù in un nido e hanno il becco curvo come le civette, con il quale beccano gli occhi dei bambini cattivi». Tutta una questione di padri e di figli. E di occhi. Tantissimi occhi in tutti i racconti di Hoffmann: che roteano, strabuzzano, vedono il vero, vedono il falso, prendono persone vive per automi o automi per bellissime fanciulle, si posano un’ultima volta sulla persona amata dichiarandole amore per sempre e un attimo dopo sono catturati da altri occhi di altre donne che gli rubano l’anima, la fedeltà, l’amore. Ma pure il ricordo. È tutta una questione di inganni ed errori, in Hoffmann. Fidarsi delle persone sbagliate. Condannare le persone oneste. Venire perseguitati per sempre dall’orribile immagine di tuo padre morto. E, dopo che l’hai visto morto, come puoi pensare che non arriverà qualcuno a strapparti gli occhi? Per dar vita a un automa, forse, per punirti di non essere stato un bravo figlio, forse, ma forse pure per farti dimenticare quello che hai visto. Per rimuovere la morte di tuo padre dalla tua memoria. Io, l’Uomo della sabbia, l’ho conosciuto prima coi Metallica e poi con Hoffmann. Però, la prima volta che l’ho letto mi è tornata questa canzone in mente e non sono più riuscita a togliermela dalla testa. Pure questa è una stregoneria. Che dai primi dell’Ottocento, un Uomo della sabbia strisci coi suoi passi mortiferi fino a noi: «Sempre più vicino... sempre più vicino suonavano quei passi... e di fuori un tossire, uno strisciar di piedi, uno strano borbottìo. Il cuore mi tremava nell’attesa angosciosa. Ed ecco proprio vicino alla porta sento un passo energico... un colpo violento sulla maniglia... la porta si spalanca! Raccogliendo tutto il mio coraggio sporgo la testa con cautela. L’uomo della sabbia è nel mezzo della stanza davanti a mio padre, la luce delle candele gli illumina la faccia. L’uomo della sabbia, il terribile uomo della sabbia è il vecchio avvocato Coppelius che qualche volta viene da noi a colazione!». Il vecchio avvocato Coppelius che qualche volta viene da noi a colazione. Un nostro vecchio amico d’infanzia. Nostra madre. Nostro fratello. Per ognuno di noi, l’Uomo della sabbia ha un volto diverso. Ma è qualcuno che è scivolato con l’inganno in un luogo a noi familiare per nutrirsi di noi.

La follia. La paura di diventare pazzi. Un demone di tutti e di Hoffmann in particolare, abbandonato dal padre da piccolissimo e cresciuto con una madre mentalmente instabile. Nel Consigliere Krespel, un altro bellissimo racconto, un uomo dice: «era come se volesse avvolgermi e trascinarmi nel nero abisso della follia». Salvo poi scoprire che, forse, quello che reputava il più folle e abietto degli uomini era in realtà tutto il contrario. Qualcuno che aveva, probabilmente, solo peccato di un amore purissimo. In un altro racconto, Vampirismo, quella che sembrava una sposa dolcissima era probabilmente l’opposto, una creatura malvagia degli inferi (si noti che, duecento anni fa, il vampiro qui è donna). Nelle Avventure della notte di San Silvestro, un’altra donna è sé stessa ma anche, forse, il suo doppio, e ci sono uomini senza ombra e uomini a cui è stata rubata l’immagine e non si riflettono più negli specchi. E il diavolo si chiama signor Dappertutto (che definizione meravigliosa). La signorina di Scudéry, invece, potrebbe essere una sorta di giallo. Ma è più un racconto sui veleni, su presenze a metà tra il reale e il sovrannaturale che appaiono e scompaiono nell’oscurità, sulla grettezza umana e su una domanda fondamentale: è possibile capire con certezza chi sono i buoni e chi i cattivi? Ma ancora di più: possiamo essere perdonati per le nostre colpe? Forse, probabilmente, potrebbe essere: continuo a usare queste parole. Ma è proprio questa la realtà, no? Un cumulo bellissimo e terribile di incertezze, di fuori e dentro, poiché l’essere umano, «evidentemente non separa granché la sua vita interiore da quella esterna, reale, rendendo così quasi impossibile intravedere una linea di demarcazione tra l’una e l’altra. Ma proprio perché tu non discerni chiaramente questo confine, colui che ha una fervida fantasia, il “visionario” [Geisterseher], forse non avrà difficoltà ad attrarti dalla sua parte. Per cui all’improvviso verrai a trovarti in un ignoto e magico regno, e gli strani personaggi che lo abitano entreranno nella tua vita reale per trattare a tu per tu con te, come vecchie conoscenze. Perciò ti prego con tutto il cuore, benevolo lettore, di accoglierli di buon animo e, abbandonandoti alle loro meravigliose avventure, di affrontare con coraggio qualche piccolo brivido febbrile che potrebbero procurarti nel trascinarti con più forza nella loro sfera d’azione. Che cosa potrei fare di più per il viaggiatore entusiasta, protagonista un po’ ovunque di tanti fatti bizzarri e incredibili, e adesso anche a Berlino nella notte di San Silvestro?».

Come raccontano i racconti di Margaret Atwood

di Debora Lambruschini

Qualche anno fa, in occasione dell’uscita della raccolta L’uovo di Barbablù per Racconti edizioni, ho scambiato alcune riflessioni con Gaja Lombardi Cenciarelli, traduttrice italiana di Margaret Atwood; dei numerosi spunti che sono emersi, uno mi è tornato in mente riflettendo oggi su questa nuova raccolta, edita sempre da Racconti, Consigli per sopravvivere in natura: in riferimento alla eterogeneità intrinseca dei testi di Atwood, al suo ricco e variegato immaginario, alla capacità/incapacità di comprendere e farsi comprendere dagli altri, Cenciarelli citava un passo dei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, che ben sintetizzava un nodo centrale della questione:

“Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!

Chi scrive, chi traduce - e, in generale, chi si occupa di cultura e di editoria a vario titolo - lavora sempre con questa consapevolezza”.

 

Mi torna in mente ora, mentre rifletto su quest’ultima raccolta tradotta in italiano – ma pubblicata per la prima volta in inglese nel 1991 – e in un certo senso mi pare di capire meglio che cosa intendessero Pirandello e Cenciarelli con lui, qualcosa con cui da lettrice mi trovo da sempre a fare i conti: è quello scarto inevitabile tra le intenzioni dell’autore e ciò che da questa parte riceviamo; è ciò che, per stare entro i confini del racconto, finisce sulla pagina e ciò che si insinua negli spazi vuoti, tra i non detti e quello che tentiamo di interpretare; è, ancora, ciò che dell’intreccio narrativo si lega alla nostra stessa sensibilità letteraria e personale, idee e spunti che risuonano dentro di noi.
Accettare quello scarto, sforzarsi di renderlo minimo, è la meccanica del lettore di racconti. Nel caso di una scrittrice come Atwood, dalla produzione letteraria variegata e ricchissima di rimandi, prendere anche un solo racconto e tentare di penetrarne il mistero della scrittura, la sua collocazione nella bibliografia dell’autore, significa riconoscere gli indizi disseminati nei romanzi, nei racconti, nelle poesie; nel caso di questa raccolta uscita in Italia trent’anni dopo la sua prima apparizione, significa anche rendersi conto di quanto la distanza temporale dalla scrittura si annulli entro certi limiti.

Ragionare sul mondo letterario di Atwood richiede un tempo e uno spazio di riflessione ben più ampio di questo, ma ciò che potrebbe essere interessante fare è allora concentrare l’attenzione su un solo racconto o, a essere sinceri, su due. E vedere dove ci porta, quali considerazioni, riflessioni e spunti possono nascere da una lettura approfondita del testo.
Inizialmente pensavo di trattare il racconto che dà il titolo alla raccolta, “Consigli per sopravvivere in natura”, assai interessante e denso di rimandi particolarmente attuali, come l’opera tutta di Atwood; arrivata alla fine del libro, però, mi è parso inevitabile soffermarmi invece su altre due storie, per il dialogo che intercorre fra loro e con noi lettori. In “Vera spazzatura” e “Morte per paesaggio”, come nel resto dei racconti qui contenuti, Atwood costruisce la storia su due piani temporali distinti: a un capo c’è il momento in cui il confine tra infanzia ed età adulta sembra farsi sempre labile e indistinto, lì dove si svolge la parte più consistente della narrazione e dove si formano le increspature sulla superficie dell’acqua; all’altro capo c’è il presente narrativo, il tempo che è intercorso tra gli avvenimenti come la chiave per interpretarli o osservarne le diverse implicazioni dalla dovuta distanza.
In entrambi i racconti, i confini entro cui si delineano le esperienze sono quelli di un campo estivo: Camp Adanqui per i ragazzi di “Vera spazzatura” e Camp Manitou per le ragazze di “Morte per paesaggio”, due luoghi distinti ma per certi versi molto simili; microcosmo di adulti e bambini, immerso nella natura, il cui equilibrio a un certo punto si spezza. A partire dal centro, con il suo effetto più evidente, ma anche in tanti infiniti pezzi più piccoli.
Ecco, la natura appunto, che pare essere il centro nevralgico della narrazione, lo sfondo privilegiato di questi racconti: una natura di cui Atwood evoca i contorni attraverso immagini a fuoco che coinvolgono tutti i sensi; gli alberi e i boschi, i laghi, la luce mutevole, l’aria. Ma non è una natura pacifica, anzi: porta già in sé i segni del cambiamento climatico, il pericolo dell’intervento umano, le sue alterazioni. E, soprattutto, non sembra essere questa la natura al cuore della riflessione di Atwood, non del tutto almeno: è, invece, la natura umana, i suoi angoli più bui, a catturare lo sguardo dell’autrice che si insinua in quelle pieghe, ne osserva le ombre, ci mette in guardia dai pericoli. Come escono da certi eventi i sopravvissuti? Quale verità scegliamo di raccontarci? Di quanta distanza abbiamo bisogno per proteggerci dal passato?

Quelle di Consigli per sopravvivere in natura sono cautionary tales, racconti-fiaba con lo scopo di metterci in guardia. Ma da cosa? Dal pericolo della nostra natura stessa, dalla distruzione che l’uomo porta con sé, dal patriarcato. Il femminile, esplorato da punti di vista diversi, una chiave di lettura imprescindibile per addentrarsi nei testi di Atwood.
«Darce sta parlando di lei come se fosse un pezzo di carne», è la mercificazione immediata del corpo femminile di “Vera spazzatura”: un corpo che cattura la curiosità dei ragazzini del campo che spiano da lontano le cameriere nei momenti di pausa dal lavoro, le loro confidenze, i corpi nudi mentre si tuffano velocemente nel lago; catturare anche solo di sfuggita un dettaglio, tra curiosità e imbarazzo. Ma l’incantesimo si spezza di fronte alla violenza delle parole, all’uso dei corpi. Il corpo femminile che diviene «un pezzo di carne», qualcosa di cui vantarsi con gli amici. Si è attraversato un confine, l’innocenza si trasforma in consapevolezza.

 

Ridicolo all’epoca, possibile adesso. Ora si può fare qualsiasi cosa senza suscitare scandalo. Una scrollatina di spalle e via. Tutto è fico. È stata tirata una riga e dall’altra parte c’è il passato, sia più cupo sia più brillante e intenso del presente.
Lei guarda dall’altra parte della riga e vede le nove cameriere in costume, sotto il sole chiaro e cocente, che ridono sul molo, lei tra loro; e poi tra i cespugli fruscianti e ombrosi della costa, il sesso pericolosamente in agguato. Era pericoloso, a quei tempi. Era peccato. Proibito, segreto, sporco.

 

Da questa parte della riga c’è il presente, l’età adulta, la distanza temporale necessaria per comprendere quello che è successo, mettere insieme i pezzi. Costruire la propria versione delle cose, forse quella reale, forse no.
Si muove su un più marcato confine del dubbio “Morte per paesaggio”, su un trauma mai superato: le estati al campo femminile Manitou scandite dall’amicizia fra Lois e Lucy, la scomparsa improvvisa e inspiegabile di Lucy che distrugge ogni cosa. È la perdita dell’innocenza, la fine del campo, l’insinuarsi di un sospetto che accompagna Lois per tutta la sua vita adulta. Prima l’amicizia, i segreti condivisi, la distanza che separa chi indugia nell’infanzia da chi inizia a muoversi nell’adolescenza, colmata dal legame che si rinnova ogni estate; poi il trauma e l’invenzione di una verità, di innumerevoli verità, per spiegarsi cosa sia successo, per giustificare la rottura dell’equilibrio. È stata Lois a fare qualcosa a Lucy?

 

Sentiva che le altre ragazze nel bungalow la osservavano chiedendosi Può averlo fatto? Deve essere stata lei. Per il resto della vita, ha colto gente osservarla in quel modo.

Forse non ci pensavano. Forse erano solo addolorate per lei. Ma lei sentiva di essere stata processata e condannata, e questa sensazione le è rimasta addosso: la consapevolezza di essere stata presa di mira, condannata per qualcosa di cui non aveva colpa.

 

Il punto di vista ci porta a credere a Lois, alla sua innocenza, ed è il più immediato esempio di quell’intreccio fondamentale tra storia e modo di raccontarla. Colpevole o innocente? Inseguiamo una verità che non troveremo, non dentro la storia scritta. Forse è racchiusa nei dipinti che Lois colleziona da anni, paesaggi che solo alla fine le si rivelano pienamente, similmente a quel titolo e le sue implicazioni. Come un racconto da osservare da vicino e scoprire la storia sommersa nelle ombre e in ciò che si nasconde sotto la superficie, negli spazi bianchi, in quello che resta fuori dalla pagina ma la nutre.

“Vera spazzatura” e “Morte per paesaggio” sono, infine, due storie che ruotano intorno alla costruzione della propria identità: ciò che scegliamo di essere e ciò che mostriamo agli altri, le maschere che indossiamo; la difficoltà del crescere, il cambiamento inevitabile e ciò che con questo perdiamo; i segni nell’infanzia di ciò che saremo da adulti. Sono, ancora, chi decidiamo di essere una volta usciti da certi eventi, da sopravvissuti.
Sono il mondo letterario di Atwood, i rimandi, gli indizi, la polifonia del testo.

Lo Amador: il quartiere del dolore senza rimedio, di Martha L. Canfield

Le Commari Edizioni porta in libreria la raccolta Lo Amador, di Roberto Burgos Cantor, con la traduzione curata da L’officina Los Amadores: Leonardo Archila, Jineth Ardila Ariza, Alejandro Burgos Bernal, Simona Donato, Marino Galdiero, Paolo Patti, Maria Corona Squitier.
Lo Amador è un quartiere popolare di Cartagena de Indias (Colombia).
Roberto Burgos Cantor ci regala una raccolta di racconti, piccole storie che fanno una grande storia, ricreando, attraverso un linguaggio suggestivo, il ritmo del parlare popolare. L’autore, tra poesia e narrazione ci porterà a conoscere tutti i personaggi che popolano il quartiere Lo Amador dell’inizio degli anni ‘60: il meccanico, la prostituta, la reginetta e l’operaio leader sindacale; il pugile, il giornalista, i cantanti, e le cartomanti. Un intreccio di storie suggestive, uniche. Il racconto di un barrio emarginato, di gente emarginata, dove la nascita di un cinema, il Laurina, accende la speranza, i desideri e i sogni degli abitanti de Lo Amador.

Cattedrale vi propone la prefazione al libro di Martha L. Canfield, per gentile concessione dell’editore.

Lo Amador: il quartiere del dolore senza rimedio

di Martha L. Canfield


Con Roberto Burgos Cantor ci siamo conosciuti in Colombia negli anni ’70, ai nostri primi passi come scrittori. Poi io mi sono trasferita in Italia nel ’77 e ci siamo rivisti molto più tardi, a Vienna, nel 1996, essendo lui console onorario della Colombia. Mi aveva invitato per uno dei molti incontri culturali e artistici che era solito organizzare. Sempre in quella sede aveva coinvolto, per le stesse ragioni, Álvaro Mutis, con cui ero molto legata, avendo tradotto diverse sue opere. Burgos Cantor era inoltre molto amico di Gabriel García Márquez, chiamato affettuosamente Gabo. Questo giro di conoscenze sarebbe riduttivo considerarlo aneddotico, perché rivela un tratto importante della personalità di Burgos Cantor (nato a Cartagena de Indias, in Colombia, il 4 maggio del 1948 e morto il 16 ottobre del 2018), figura fondamentale della generazione del post-boom e ancora ingiustamente sconosciuto in Italia.
Il rapporto fraterno che aveva con gli amici e con i colleghi scrittori era senz’altro autentico; ma era al tempo stesso un sentimento rintracciabile nei suoi racconti e romanzi. Era sua consuetudine organizzare a casa sua delle tertulias: incontri dove gli scrittori si scambiavano delle idee e si leggevano reciprocamente quanto stavano creando. Lui, accompagnato dalla moglie Dorita, era uno straordinario anfitrione. Ovviamente a quel tavolo non mancava Gabo, solo per dire il più noto dei commensali. Ma Roberto aveva un’attenzione particolare anche per i giovani scrittori, che cercava di stimolare e di promuovere. Ha lanciato, per esempio, Santiago Gamboa e Mario Mendoza, entrambi nati a metà degli anni Sessanta. Come se in qualche modo ci tenesse a trasmettere un sapere e a moltiplicare le voci. Del resto è stato lui ad aver portato, in maniera del tutto originale, i corsi di scrittura creativa in Colombia, oltre ad averla insegnata all’Università Central di Bogotá. Lo Amador (1981), il suo primo libro, mi ha colpito subito, sin dalla prima volta che l’ho letto. Si presenta come un insieme di racconti, però in realtà sono tutti collegati, sette storie diverse, con voci narranti che cambiano, voci intradiegetiche, che si esprimono in prima persona. L’altro aspetto che mi è rimasto impresso, e non è comune, è che spesso queste voci sono femminili. L’autore riesce molto bene a mimetizzarsi nel modo di raccontare di una donna, nella psicologia femminile. Con disinvoltura la storia passa da un narratore all’altro, poi le storie si intrecciano, e diversi personaggi ritornano in più racconti. Tutto questo ha un chiaro significato: il vero protagonista dell’intero libro è il quartiere, che si chiama appunto Lo Amador. Si tratta di una zona storica di Cartagena, seppure sia stata molto trascurata dalle autorità locali, lasciandola quasi in uno stato di abbandono. In tutto il libro si percepisce questa condizione di degrado e di violenza, una visione drammatica della vita, che spesso sembra annunciare la distruzione. Un esempio di questo lo troviamo nel finale del secondo racconto, intitolato L’Altro, dove si dichiara: “Giuro su mia madre, da quando hanno ammazzato Atenor Jugada, in questo quartiere i bambini muoiono per via di vermi, le donne di tristezza e gli uomini di paura. Io non so se questo succedeva prima, però è solo ora, da quando Atenor non è più tornato al cinema Laurina che ce ne rendiamo conto”.
Si tratta di un quartiere caratterizzato, da un punto di vista sociale, da una popolazione soprattutto proletaria. Burgos Cantor è riuscito, in effetti, a dare voce letteraria a quelle persone che non hanno voce perché emarginate e silenziate dai ricchi. Il linguaggio utilizzato testimonia il profilo sociale dei personaggi, non solo per i numerosi colombianismi, ma anche per la predominanza della lingua familiare, in particolare della costa atlantica. Resta tuttavia presente questo orizzonte di distruzione e di violenza che incombe su Lo Amador. Lo scrittore di Cartagena vuole denunciare le ingiustizie sociali che colpiscono gli abitanti di questo quartiere, ma il suo discorso – con quella militanza tra le righe a favore dei lavoratori malpagati e di coloro che sono sfruttati – evidenzia anche una situazione politica e sociale che riguarda tutta la Colombia.
Sicuramente Burgos Cantor ha ereditato molto da García Márquez, non tanto il realismo magico, verso cui tutta la sua generazione ha posto una distanza perché hanno preferito privilegiare una narrativa di denuncia. L’eredità la si può trovare in primo luogo nel fatto di concentrarsi in un piccolo luogo (Macondo, Lo Amador) emblematico però di tutta una regione; in secondo luogo, nel non poter congedare certi suoi personaggi una volta finita la storia e quindi farli tornare ripetutamente; in terzo luogo, nel modo di impostare il linguaggio narrativo, cioè nella costruzione sperimentale e antiaccademica delle frasi. Il lettore può notare subito, in effetti, che Burgos Cantor elimina in buona misura la punteggiatura e collega proposizioni che non si sa bene se siano coordinate o subordinate, allungando notevolmente i paragrafi, come già aveva fatto García Márquez, soprattutto ne L’autunno del patriarca.
Un altro tratto stilistico comune sono le ripetizioni, qualcosa che mentre in Italia è visto negativamente, qui si carica di significato e di piacere ritmico, più vicino ai ritornelli poetici. Per l’autore la ripetizione dà ritmo alla frase, le dona musicalità, e serve anche a fissare nel lettore l’elemento significativo centrale del racconto. Così, per esempio, nel quarto racconto, Queste frasi d’amore che si ripetono tanto, ci sono due storie che si alternano: una del narratore intradiegetico con la sua ragazza che viene da fuori ma ha deciso di vivere nel quartiere con lui; e l’altra quella di José Raquel, “nero, fronte spaziosa e mani corte”. Il tutto è diviso in tredici brevissime parti, di cui quelle dispari riguardano la storia amorosa del narratore e quelle pari la storia di José Raquel, un lavoratore del porto, appassionato musicista che suona il sassofono. Le sei parti dedicate a questo personaggio (2-4-6-8-10-12) iniziano invariabilmente con “José Raquel es negro”, dopo di che segue la sua descrizione fisica, con i tratti caratteristici degli afrocolombiani, le labbra grosse, gli zigomi sporgenti, i capelli ricci… Quando il racconto si conclude drammaticamente con il destino ingiusto e fatale di José Raquel, il lettore ha già capito – anche se il narratore non lo dice mai – che questa fine era inevitabile in un ambiente razzista.
Un altro tratto stilistico comune con García Márquez e con altri narratori della costa atlantica è l’abbondanza di riferimenti alla musica caraibica, con citazioni di canzoni, talvolta nascoste all’interno del discorso. Per esempio nel primo racconto, Storie di cantanti, viene citato Lucho Bermúdez (1912-1994), famoso musicista colombiano che adattò ritmi tradizionali caraibici, come la cumbia e il porro in ritmi moderni che sono diventati simboli dell’identità nazionale, già a partire dagli anni ’30. E nello stesso racconto si cita il famoso bolero del cubano Frank Domínguez, Tú me acostumbraste. Burgos Cantor non si limita però alla musica caraibica, ma cita e introduce senza spiegazioni parole di canzoni di altre zone latinoamericane, dal Messico all’Argentina. Nel quarto racconto, per esempio, il narratore a un certo punto dice “E so che scriverò, vincendo il timore che la letteratura sia una sostituzione, scriverò su questo quartiere argentato di luna”. L’immagine finale (este barrio plateado de luna) fa parte del tango Melodía de arrabal, reso famoso da Carlos Gardel, molto popolare anche in Colombia, dove morì in un incidente aereo nell’aeroporto di Medellín nel 1935.
Infine, per situare storicamente lo scrittore Burgos Cantor, è importante tenere presente che appartiene agli scrittori venuti dopo il cosiddetto boom della letteratura ispano-americana, di cui fanno parte, oltre che García Márquez, l’argentino Julio Cortázar, il peruviano Mario Vargas Llosa, il messicano Carlos Fuentes, il cileno José Donoso, il cubano Lezama Lima e altri. La generazione successiva li ha considerati i propri maestri, che hanno insegnato come staccarsi dal classicismo precedente e come rinnovare le impostazioni narrative. I nuovi scrittori però non si limitano a seguire i modelli del boom, ma introducono anche diverse novità, come si è visto che fa Roberto Burgos Cantor.
La traduzione de Lo Amador è benvenuta in Italia dove finora non era stato pubblicato nulla dell’autore. Il lettore italiano inoltre troverà in quest’opera, composta da sette racconti, qualcosa dell’Italia in via di sviluppo, quando il senso di comunità dei piccoli o grandi paesi si affacciava verso un mondo in profondo cambiamento. In questo senso non è casuale il riferimento al film di Luchino Visconti Rocco e i suoi fratelli. Ci sono poi altri due film italiani citati, entrambi di Gillo Pontecorvo: Queimada, le cui riprese avvengono a Cartagena durante la narrazione, dato che il regista si era avvalso di molti nativi locali come attori; e La battaglia di Algeri. Entrambi hanno come tema il colonialismo, questione che non poteva mancare nella penna di Roberto Burgos Cantor.

I racconti di Giovanni Papini letti da Vanni Santoni

Clichy porta in libreria I racconti di Giovanni Papini, uno dei «cattivi maestri» della letteratura e della cultura italiane. Considerato da Borges e Calvino, come pure da Caillois, un maestro del fantastico, Papini si impose all’attenzione del pubblico come narratore fin dalla gioventù, con l’uscita delle raccolte Il tragico quotidiano (1906) e Il pilota cieco (1907). Da allora continuò a coltivare l’arte del racconto fino agli anni Cinquanta, proponendo uno stile limpido e allucinato al tempo stesso, che insinua l’ombra del mistero tra le pieghe della cronaca quotidiana. Dopo oltre sessant’anni di assenza dalle librerie, il lettore ritrova finalmente in un unico volume tutte le raccolte narrative di Papini e i suoi racconti dispersi.

Cattedrale vi propone la prefazione al libro firmata da Vanni Santoni, per gentile concessione dell’editore.

di Vanni Santoni

Papini e io (Papini e me?). Si capisce perché, con un cognome così... come dire... ordinario, locale - «Papini, t’immagini…», anzi, i’ Papini: si chiamavano allo stesso modo il pizzicagnolo da cui andava mia nonna e uno che avevo in classe alle elementari e frignava sempre... - si capisce, dicevo, perché il me stesso primo lettore, l’adolescente e poi il ventenne che macinava un libro estremo, viscerale, sconvolgente, dietro l’altro, non lo avesse mai preso lontanamente in considerazione.
Il brivido, per chi è agli inizi, è quasi sempre esotico. Non c’era, nel mio caso, quel pregiudizio ideologico che magari aveva, decenni prima, privato altri della lettura del Papini, come non ci sarebbe stato mai in futuro: avrei del resto amato Malaparte e Campo senza che il mio socialismo libertario (leggi: anarcoinsurrezionalismo) ne venisse minimamente intaccato; mi sarebbe venuto facile perdonare i pamphlet a Céline e la divisa a Jünger; e pure quel razzistone di Lovecraft avrebbe sempre avuto (e anzi al liceo aveva già) un posto speciale nel mio cuore. Ma con Papini il discorso era diverso: è che uno con un nome così, con una faccia e dei capelli così, con una giaccuccia così - lo incontrai in effetti, in effigie, sulle pagine di un libro opzionale di Italiano al liceo - insomma, uno con un nome e un aspetto che gridavano «Toscana, primo Novecento», il nome e l’aspetto di uno che poteva essere facilmente stato un amico, o più probabilmente un nemico, di mio nonno... Difficilmente si poteva credere che uno così potesse essere interessante per un giovane lettore che cominciava a farsi aprire le porte della percezione da gente come Artaud, Blake, Borges, Cortázar, Huxley e Rimbaud.
Ci sarebbe voluto proprio Borges per aprirmi gli occhi. Nella biblioteca comunale della natìa Montevarchi, dove durante i primi anni di università andavo a non studiare, ovvero a fumare, ridere, baccagliar ragazzotte e soprattutto leggere, leggere tutti i romanzi che trovavo nei suoi scaffali, proprio come faceva il giovane Giovanni Papini alla più fornita Biblioteca Nazionale di Firenze, scovai, un giorno, un piccolo e ragguardevole tesoro: la collana «La Biblioteca di Babele» curata da Jorge Luis Borges per Franco Maria Ricci Editore. E lì, tra Jack London e Franz Kafka, tra Hermann Melville e Edgar Allan Poe, tra Lord Dunsany e Pu Songling, non mi spunta fuori pure Giovanni Papini? Non solo: la raccolta di racconti Lo specchio che fugge (112 pagine, senza illustrazioni, cm 22,5 x 12, tiratura 3000 esemplari numerati, carta velina di Fabriano, legatura in brossura fresata, volume impresso a Milano dallo stampatore Franco Levi) era il volume numero due dei trentatré in cui si articolava la collana. Una scelta evidentemente deliberata, onde dar preminenza a un autore che Borges reputava «ingiustamente dimenticato». Non solo: Lo specchio che fugge, a cui diedi una chance immediata in virtù di sittanta compagnia era… strabiliante. Ebbene sì. Non men che strabiliante.
E chi adesso sta leggendo queste parole, e ha quindi in mano questo volume, sappia che l’esperienza che sta per attraversarlo, non appena comincerà la lettura, va ben oltre quella che feci io un quarto di secolo fa: qua i racconti di Papini ci sono tutti, e ancor più chiara di quella che ebbi io sarà la percezione della sua vasta ed elettrica poetica, e di quanto fraintendente fu la vulgata che, financo tra i suoi sostenitori, lo qualificò nel secondo Novecento come prima di tutto critico, saggista, scrittore di filosofia, e non tanto narratore. Giovanni Papini è invece, e prima di tutto, un grande narratore e, nello specifico, un grande, grandissimo raccontista fantastico - anzi, il supremo raccontista fantastico italiano, e come tale va valutato e storicizzato.
Ciò reca automatico il sorgere di un dubbio ulteriore: ma non sarà, forse, che tutto questo stigma anti-Papini derivi più dalla sua ostinazione a scrivere fantastico - e in racconti, per di più! - che dalla sua postura ideologica, peraltro quanto mai ondivaga? Il vieto pregiudizio crociano contro il fantasy è vivo e lotta contro di noi, e se a esso si aggiunge il fatto che il Papini narratore al romanzo, genere (o forma) oggi ancor più di allora egemone, preferì il racconto, genere (o forma) oltremodo invisa, oggi più di allora, all’italica editoria, si capisce che, forse, la sua scomodità aveva radici che andavano oltre le semplici questioni ideologiche.
Ma c’è di più. Papini, scoprii, rappresentava, e rappresenta, anzi incarna, un certo spirito del «nuovo contro il vecchio» che è connaturato a ogni giovane letterato (e ogni letterato è stato giovane, anche se alcuni hanno buon gioco a dimenticarlo): questo non solo per la sua indomita postura rispetto alle manichee distinzioni tra «generi», ma anche, e prima ancora, per il motivo che lo portava a fondare riviste su riviste: «Ogni articolo ha il tono e il suono di un proclama» scriveva il nostro, «ogni botta e battuta di polemica è scritta con lo stile dei bollettini vittoriosi; ogni titolo è un programma; ogni critica è una presa della Bastiglia; ogni libro è un vangelo; ogni conversazione prende l’aria d’un conciliabolo di catilinari o di un club di sanculotti; e perfino le lettere hanno l’ansito e il galoppo di moniti apostolici. Per l’uomo di vent’anni ogni anziano è il nemico; ogni idea è sospetta; ogni grand’uomo è da rimettere sotto processo e la storia passata sembra una lunga notte rotta da lampi, un’attesa grigia e impaziente, un eterno crepuscolo di quel mattino che sorge ora finalmente con noi». Non è forse questo lo spirito che anima qualunque giovane scrittore, e lettore, al momento di fondare la sua rivista o il suo cenacolo? Un tale spirito ci accompagna oggi, nella lettura dei Racconti di Papini, ma allo stesso tempo ci sconvolge. Perché i racconti di Papini operano un collegamento tra i suoi tempi e i nostri che in qualche modo salta tutto ciò che compone il nostro armamentario di giudizio rispetto alla narrativa: diverso da ogni altro ai suoi tempi, e ancor più diverso da ogni altro oggi che ci riappare pristino e spoglio d’ogni valutazione e rielaborazione critica o metaletteraria (giacché ignorato, frainteso o boicottato), Giovanni Papini viene, anche attraverso questo libro che avete tra le mani, a imprimere una direzione differente al canone letterario italiano. Quel canone che, ricordò Borges in un’immortale intervista a un Arbasino che ne uscì scosso se non massacrato, è sempre stato anche e soprattutto canone fantastico: chiedere a Dante Alighieri, Ludovico Ariosto, Torquato Tasso, Tommaso Landolfi, Dino Buzzati e Italo Calvino, se si hanno dubbi in merito. Ecco, quindi, che la pietra tombale (o l’ashlar, o il pyramidion, alla maniera di Souther sopra Shew - ma a parti morali invertite) su un discorso che era futile all’origine e ha avuto fin troppo ossigeno, la viene a mettere, oggi, questo libro.
E c’è di più: se oggi, guardando a quello che accade nell’Europa orientale, con autori come il bulgaro Georgi Gospodinov, la polacca Olga Tokarczuk, l’ungherese László Krasznahorkai o il romeno Mircea Cărtărescu venuti a impossessarsi del «fronte d’onda del romanzo» a suon di ibridazioni tra generi, suggestioni fantastiche e tanta metafisica - un impulso che ormai si sente anche più a Occidente, come dimostrano le avventure nel bardo di Saunders e Énard o i frattali multidimensionali di Tom McCarthy e David Mitchell - allora Giovanni Papini, che rispetto al suo lavoro parlò di «novelle metafisiche», si configura, oggi, alla luce della sua opera narrativa qui presentata, come il vero precursore delle avanguardie… del secolo successivo.

Come in una metempsicosi. I piaceri di Jane Bowles

Racconti edizioni porta in libreria Piaceri semplici, di Jane Bowles, per la traduzione di Paola Moretti. Una raccolta di racconti in cui vengono raccontati i labirinti ellittici del carattere umano – le fobie, le ossessioni, le paure, le idiosincrasie, i vizi - attraverso lo sguardo di una scrittrice particolarmente competente in faccende relazionali, poco conosciuta ma assolutamente da riscoprire. Forse questi Piaceri semplici – come la scrittura? – alludono in realtà a quel vuoto vorticoso che è in fondo l’altra faccia metafisica della «stanza tutta per sé».

Cattedrale vi propone l’illuminante postfazione di Paola Moretti, per gentile concessione dell’editore.

Come in una metempsicosi

di Paola Moretti

 

Se la scrittura è un’attività che notoriamente implica molta solitudine, la traduzione no. Chi traduce è sempre – a prescindere da che sia vivo o meno – in compagnia di chi ha scritto l’opera originale. Ci si conosce con una prima lettura, poi si entra più in confidenza e si cominciano a capire le preferenze, certi vezzi peculiari, le idiosincrasie e le ossessioni dell’altro. Fino a che non si finisce ad abitare lo stesso corpo. Io, traduttrice, nella mente di chi scrive, seguo i percorsi già tracciati. Lei, scrittrice, nel corpo di chi la traduce, indirizza ogni mio movimento. È in questa modalità che alcuni mesi li ho passati nella testa di Jane Bowles, un luogo certamente bizzarro e dominato dall’ambivalenza. Mi sono trovata ad avere a che fare con un pensiero che è allo stesso tempo brillante e caotico, originale e tortuoso, impulsivo e arguto.
Dell’immaginario di questa scrittrice, ciò che subito cattura il lettore è la voce. Chiara, energica, insolita. Ci si sintonizza sul tono, e in un attimo si viene colpiti dalla forma, che con la sua sintassi scombinata risulta, di primo acchito, piuttosto astrusa. Poi si viene distratti dal contenuto: assurdo. Ma poco a poco tutto torna, ogni elemento riflette la personalità delle protagoniste dei racconti, che sono esseri eccentrici e stralunati, con scarsissima presa sulla realtà. Jane Bowles riproduce un mondo popolato da un’umanità stramba, tragica e dolorosamente divertente, composta in prevalenza di donne che fanno fatica a conformarsi, a adeguarsi a quello che gli altri o la società vorrebbe per loro. Zitelle, lesbiche, madri oppressive, figlie insicure, sorelle asfissianti, bambine tiranniche, donne passionali, meschine, egoiste. Ubriacone. Donne che nonostante la loro grettezza e le loro brutture morali non risultano mai davvero odiose, solo umane e fallibili.
Tanto quanto i personaggi, anche la struttura dei racconti è poco convenzionale: l’evento con la maggior possibilità di generare conflitto viene spesso liquidato in poche righe così che la narrazione possa seguire una tangente inaspettata e dal potenziale comico. Maga dell’ellissi, virtuosa del salto logico e dei monologhi vaneggianti. Umorista impassibile, paladina degli indecisi e della stravaganza, Bowles è una disorientatrice che nei suoi scritti non palesa mai la tragedia, il dramma infatti rimane sempre sulla soglia, senza calcare la scena, i non detti e le allusioni rendono la prosa di questa autrice preziosa, ammaliante e una continua sorpresa.
Per la sua natura così peculiare, specificamente «bowlesiana» della scrittura il mio compito non è stato facile: ero divisa tra la volontà di rispettare il genio linguistico dell’autrice e la necessità di rendere i suoi racconti comprensibili a fruitori di un’altra lingua. È il dilemma davanti a cui si trovano tutti coloro che ricoprono questo ruolo, che consiste nel farsi tramite, strumento, medium attraverso cui lo spirito di un’autrice si esprime in un idioma diverso dall’originale. La traduttrice è un trasformatore di energia creativa. Io spero che quella di Jane Bowles vi irradi e vi risucchi e vi trascini nel suo universo sghembo di ferocia e tenerezza.

Cosa resta del West, su Annie Proulx. Di Assunta Martinese

Minimum fax porta in libreria Cattive strade, il secondo volume di Storie del Wyoming di Annie Proulx, che segue ‘Distanza ravvicinata’ la prima raccolta della trilogia.
Fra tassi parlanti e gare a chi ha la barba più lunga, dolorose riunioni familiari e jacuzzi ricavate da rottami, in un'alternanza di realismo magico e cruda quotidianità strappata con i denti a un ambiente ostile, Annie Proulx ci regala undici racconti spietati e al contempo irresistibilmente spassosi.

Cattedrale vi propone la prefazione al testo di Assunta Martinese, anche traduttrice, per gentile concessione dell’editore.

Cosa resta del West
di Assunta Martinese

Uno degli aspetti che la critica ha elogiato più spesso riguardo alla scrittura di Annie Proulx è la sua capacità di riconoscere una «aderenza fisica» tra la lingua e i luoghi1 e replicarla nelle sue pagine: una varietà linguistica che emerge perfino nelle traduzioni, che purtroppo non possono rendere appieno la vastità degli studi necessari a restituire i dialetti, le espressioni, addirittura la cadenza delle persone. L’osannata «compressione poetica» di Avviso ai naviganti, che evoca la lingua seducente degli spiriti marini o forse delle onde stesse («Era funzionale a questo libro», dichiara l’autrice. «Cercavo di rendere la sensazione dei vecchi quotidiani, con quei sottotitoletti, pensieri condensati come minuscole prefazioni agli eventi racchiuse in poche righe. Ed è anche il modo in cui la gente parla a Terranova») lascia qui il posto alla parlata lenta e concisa della gente del Wyoming, quella noncuranza ritrosa in cui le omissioni più che poesia sembrano una forma di reticenza2 («I vicini dicevano che era autosufficiente, ma lo dicevano in un modo che significava qualcos’altro»), e la sintesi non è più quella degli incantesimi o della cronaca, ma sembra al contrario nascondere una qualche forma di insicurezza, o una resa, di fronte a ciò che non si sa dire.
In un’intervista del 1995 Annie Proulx dichiarava di aver ambientato i suoi libri in luoghi diversi nello «sforzo deliberato di non essere considerata una “scrittrice regionale”». Quattro anni dopo usciva il primo volume delle sue Storie del Wyoming, e leggendo questi racconti – pubblicati in tre raccolte uscite nell’arco di dieci anni – siamo noi a dover fare uno sforzo deliberato per ricordarci che l’autrice non è nata nel Wyoming. Ma come fa Annie Proulx a dare l’idea di conoscere quei luoghi così a fondo, così intimamente? Certo, questo si può in larga misura ascrivere a un innegabile talento di scrittrice – d’altra parte dare l’impressione di verità è uno dei principali requisiti del mestiere – ma il realismo delle sue storie è anche e soprattutto frutto di un lavoro lungo, accurato e meticoloso. Per scrivere Avviso ai naviganti, il romanzo che le è valso il Premio Pulitzer nel 1994, Proulx si è recata otto volte a Terranova, fermandosi per lunghi periodi a fare ricerche, parlare con le persone del posto, ascoltare storie;3 mentre quando è stato pubblicato Distanza ravvicinata abitava vicino Saratoga ormai da cinque anni («anni di osservazione e assorbimento subliminale», dichiara). E naturalmente osservare non basta, c’è anche un’imponente, rigorosa opera di documentazione su ogni singolo aspetto dei luoghi in cui ambienta le sue storie: il paesaggio, la lingua, la storia, le ricette, la mitologia, le superstizioni, i vestiti. «Prima di sedermi e scrivere la prima parola di Avviso ai naviganti devo aver letto cinquanta o sessanta testi di storia e sociologia su Terranova», ha dichiarato l’autrice al New York Times. «Chiaramente è un retaggio dei miei studi di storia. La cosa bella della narrativa è che poi non devi precisare ogni singola cosa nelle note a piè di pagina. Puoi farti delle solide basi di conoscenza e poi, be’, a quel punto limitarti a volare. Puoi inventare tutto». E infatti ancora più impressionante rispetto alla mole di conoscenze che traspare dai libri di Annie Proulx è quello che resta non detto, quelle solide basi che vengono date semplicemente per scontate, dato che la sua generosità estrema in fase di ricerca non si traduce mai in condiscendenza in fase di scrittura, e Proulx non cede mai alla tentazione di istruire il lettore. Siamo davanti a una scrittrice che padroneggia l’arte di tralasciare tutto ciò che si sa (che si è appreso) a parte l’essenziale – dal punto di vista del personaggio, non del lettore, men che meno dell’autore – e risulta difficile concepire la portata di questa rinuncia e la dedizione necessaria a metterla in pratica con una simile, disciplinata costanza, ma forse la chiave per comprenderla è tutta racchiusa in due dichiarazioni della scrittrice: «Essendo cresciuta in campagna, penso che il lavoro sia gratificante in sé. Non lo vedo come un onere, né come un destino ingrato» e «Mi sono formata come storica, fare ricerca è quello che amo». O, più sinteticamente: «Il lavoro funziona così: o lo fai bene, oppure non lo fai».

«Proulx fa rima con true»

In questo mondo demitizzato, demistificato, deromanticizzato, non c’è sgomento al cospetto della crudeltà, né meraviglia di fronte alla magia. Se in Distanza ravvicinata il soprannaturale si dava come follia o allucinazione – il mostruoso bue scuoiato a metà che torna a perseguitare un uomo perso in una bufera di neve, o il trattore che di colpo prende vita per rivelare a Ottaline degli oscuri segreti della vita del padre – colmando i protagonisti di orrore o facendoli dubitare della propria sanità mentale, in Cattive strade il realismo magico sembra aver perso del tutto la forza del portento, il potere di sbalordire: l’assoluta verità, concretezza, di ciò che accade non viene messa in discussione nemmeno per un secondo, né dai testimoni oculari, né – ancora più sorprendente – da chi ne ascolta i racconti: se nella terra si apre una voragine rovente che ingoia i peccatori macchiatisi di crimini crudeli contro la natura, vuol dire che si è aperta una voragine rovente, tutto qui; lo stesso vale se si scopre che un oggetto casalingo possiede la capacità di esaudire all’istante qualsiasi desiderio. Di nuovo: le cose sono quello che sono, punto e basta. Si tratta di un mondo dominato da qualcosa che non è né determinismo, né caso, né ordine divino. Un mondo dove non vi è giustizia ma solo necessità, e le cose sono perché devono essere, proprio come il vento, o la pioggia o la siccità. I protagonisti non sono fatalisti né religiosi, semplicemente accettano la completa amoralità degli eventi, dove la cattiva sorte colpisce in modo equanime i colpevoli e gli innocenti, e quando una rancher che ha investito gli ultimi risparmi nel disperato tentativo di tenere vivo l’allevamento paterno perde tutto in un incendio causato da un ubriacone, il quale a sua volta perde l’unica occasione di tirare su qualche soldo, il commento della barista non può che essere: «Immagino che così stanno pari». Stanno pari, non fa differenza, così vanno le cose nel Wyoming, dove perfino la magia «non fa favoritismi». La solennità e il grande respiro storico di Distanza ravvicinata – i racconti corali e le saghe familiari, le avventure lunghe una vita e le tragedie struggenti – lasciano qui il posto a storie più piccole, quasi aneddoti, racconti da bar. Ma, sembra volerci dire Proulx, una cosa non è più vera dell’altra. Le grandi storie sono fatte anche di piccole storie. E nell’alternarsi regolare di storie e storielle la sensazione è quella di essere seduti insieme ad Annie in un diner di provincia dall’altro capo del paese, avventori invisibili che origliano la conversazione tra due sconosciuti al bancone. Non è detto che si comprenda tutto, ma il piacere dell’ascolto è tale da far passare in secondo piano il desiderio di chiedere delucidazioni. Storie in cui non tutto finisce in tragedia (men che meno in gloria); storie spesso irresistibilmente divertenti in cui, se un insegnamento c’è, assomiglia più alla rassegnata morale con cui si chiude il più buffo di questi undici racconti, una stramba favola esopiana in versione Wyoming: le cose sembrano imminenti e poi in un modo o nell’altro alla fine non succedono mai. E al di là di qualsiasi analisi e speculazione, in Proulx anche le storie sono prima di tutto quello che sono, «una di quelle cose che senti raccontare al Pee Wee in un pomeriggio fiacco» senza porti troppe domande, assaporando il privilegio di poterle ascoltare. E, forse, un’immensa testimonianza d’amore: per la terra, per la sua lingua e per i suoi abitanti, e soprattutto per la ricerca, per la scrittura, per le storie e per l’arte di raccontarle, un lavoro che, come ogni altro, va fatto bene oppure non va fatto. Annie Proulx per me lo fa meglio di tutti.

La moderna inquietudine del giovane Pavese, di Giusi Baldissone

Diana edizioni porta in libreria La trilogia delle macchine, una delle prime prove narrative di un giovanissimo Cesare Pavese. Novelle brevi, prose rapide e veloci; talvolta dei soffi sussurrati all’orecchio del lettore; altrove grida di protesta e di lotta, spasimi narrativi sull’inatteso sfondo della realtà urbana e industriale degli inizi del XX secolo. Le storie tratteggiate dal grande scrittore, appena ventenne, hanno in comune il senso di sospensione e inconcludenza. I personaggi lasciano attoniti, in bilico tra l’esaltazione, il titanismo e la costante, catartica idea del suicidio.

Cattedrale vi propone il saggio introduttivo di Giusi Baldissone, per gentile cocnessione dell’editore.

La moderna inquietudine del giovane Pavese
di Giusi Baldissone


Nei medesimi anni giovanili di più profonda e sentita attività poetica, Cesare Pavese si cimenta parallelamente nella stesura di una serie di novelle rimaste per anni allo stato larvale di semplici bozzetti, di puri “sfoghi” giovanili, racconti «densi di echi e rimandi al clima culturale contemporaneo e alle personali letture», testi spesso anepigrafi, incompiuti e per troppo tempo (ovviamente) inediti. Racconti scritti tutti tra il 1925 – quando Pavese ha solo diciassette anni, ancora studente presso il Liceo Classico “D’Azeglio” di Torino – e il 1930, anno in cui darà l’abbrivio (con le poesie de I mari del Sud ) alla fase “matura” della sua attività letteraria: una maturità assai precoce, visto che al momento di questo suo esordio è solo un ventiduenne. «Erotismo e autodistruzione, romanticismo e ironia, linguaggio dannunziano e dialetto, Piemonte e America, Gozzano e Whitman» convivono e mirabilmente si fondono in queste prove d’esordio narrativo, la cui natura così giovanilisticamente ondivaga e ancora incerta rispecchia una dialettica profonda che carsicamente serpeggia in Pavese e ne lacera l’animo: quella tipica dicotomia giovanile tra speranze e sogni di gloria dell’intellettuale poco più che adolescente che si apre alla Vita e all’Arte, ed il terrore, quasi l’ossessione di restare un nulla in ogni cosa, un inetto condannato a recitare una insopportabile parte secondaria nella vita.
Combattuto tra queste due contrastanti polarità – la solita, giovanile alternanza di ansie e certezze, paure ed entusiasmi, quella strana altalena emotiva che sempre culla l’animo umano (come dirà lo stesso Autore nell’explicit di Spasimi d’ali) trascinandolo dagli entusiasmi della rivoluzione allo splene della decadenza – il giovane Pavese aduna ed esterna nei suoi primi racconti la sua intima lacerazione tra titanismo e inettitudine, abbandonandosi allo “sfogo” di una prosa fortemente autobiografica che di certo rappresentò il progetto più ambizioso di questi suoi primi anni di apprendista letterato: testi ambiziosi e di ribellistico impatto giovanile che egli stesso definì (nella sua corrispondenza con l’amico di una vita Mario Sturani) il mio romanzo, «lo sfogo di tutta la mia giovinezza […] il fondo intimo della mia anima» .
Un progetto che Pavese pare avesse ben chiaro, almeno a livello teorico e ben fissato nella sua mente, sin dalla prima stesura di queste sue prose. Così infatti si confidava in una lettera, datata 12 ottobre 1926, all’amico Tullio Pinelli:

un disegno di un gruppo di novelle, o bozzetti che dir si voglia sotto il titolo di Lotte di Giovani. Non debbono essere altro che semplici riproduzioni di vite e di stati d’animo di persone che sentono stimolo a compiere qualcosa di grande e non ci riescono. Io, io, io, io, sempre io, non si scappa […]. Le novelle, o meglio, gli elementi delle novelle, un caos di sentimenti, li ho nell’anima.

Abbandonato il progetto unitario, Lotte di giovani restò il titolo del suo primissimo “bozzetto”, scritto quando aveva diciassette anni. Sopravvissero così novelle brevi, prose rapide e veloci, da leggersi tutte di un fiato; talvolta dei respiri leggeri, quasi dei soffi sussurrati all’orecchio del lettore, talvolta invece grida di protesta e di lotta, spasimi narrativi che nel loro febbrile trepidare lasciano attoniti coloro che li leggono (ancor più se giovani come l’Autore), avvincendoli nel condividere un comune senso di sospensione e inconcludenza.
Del vasto materiale manoscritto che ci svela le prime prove narrative di Pavese, la Trilogia delle macchine (1928) rappresenta quanto di più strutturato e organizzato in una propria architettura interna, ovvero tre racconti completi di titoli che hanno un comune denominatore formale, stilistico e contenutistico. Le storie sono infatti inscritte in una ambientazione urbana (e di periferia) che predilige lo sfondo di una realtà industriale, operaia, immersa in una “modernità” occhieggiante (ma solo di sbieco e con toni squisitamente avvilenti) i recenti miti della macchina e della vita cittadina. I protagonisti e i titoli stessi dei racconti portano con sé definizioni che sminuiscono la scelta “modernista” ed esprimono scoramento e rassegnazione: L’avventuriero fallito, Il cattivo meccanico, Il pilota malato inducono il lettore a cercare soprattutto le motivazioni psicologiche sottese a tali preannunciati fallimenti.

Il ritorno in città dell’avventuriero, col conseguente riadattarsi ai luoghi della sua giovinezza, dopo una infruttuosa esperienza di vita oltreoceano, gli crea nell’anima una grande rovina. L’America sognata e vissuta con ambizioni cinematografiche si è rivelata un fallimento, continente spietato. Lo sforzo enorme profuso in quegli anni per vivere lo ha segnato per sempre: si sente distrutto e ributtato lontano come un rifiuto inutile nel battito formidabile della sua vita. La fiamma di immaginazioni che lo aveva animato si spegne inesorabilmente; nella sua città si sente un estraneo, sconfitto dai suoi stessi sogni. Monotonia e avvilimento lo pongono davanti all’eterno rimpianto e all’estraneità verso un’umanità che gli brulica intorno, tra i fischi disumani e gli acutissimi frastuoni della città. Trova lavoro, in un teatro del centro, come aiuto-macchinista e da lì non si muove più. L’immagine di una ballerina piena di vita lo tiene desto per qualche tempo, ma poi l’avventuriero si ritrova faccia a faccia con il proprio fallimento: non comprendeva più neanche la sua vita, tormentato dall’assillo atroce della sua bassezza, eppure non riusciva ad uccidersi. Finché, assorto su se stesso, indifferente alla vita e al mondo, solo e abbandonato in una città anch’essa spietata, viene travolto da un’automobile arrangolata che lo spezza al suolo.

Il cattivo meccanico è il racconto della Trilogia in cui si palesa ancor più la disperazione per l’inabilità a conquistare la gloria: nelle vie della grande città, vertiginose, andava avanti lento, chino sulla sua anima, soffocato da un ribrezzo pauroso di sé, che si placava soltanto nella solitudine e nell’ombra della sera. Poeta fallito, egli vive colla lusinga del suicidio nel cuore, aspettando un coraggio, necessario a commetterlo, che non arriverà mai. Diventa un operaio incapace di imparare e di adeguarsi ad una specifica mansione. Alla fine, di trasferimento in trasferimento nella sua fabbrica, trova la sua dimensione come collaudatore di automobili, operaio addetto alla prova delle macchine. Lontano dalla fabbrica e dalla città, tutto intento a sfrecciare tra le colline della sua infanzia, ubriaco di vento e di velocità, gli pare finalmente di trovare una effimera elevazione. La sua identificazione con la macchina, con cui faceva un corpo solo, diventa quasi totale, e la esaltazione della velocità sembra per lui divenuta una nuova, parafuturista scuola di libertà e di forza:

Quando, piantato sul sedile greggio, sotto l’antenna del volante, si faceva portare da una di esse, gli pareva di sentir fluire la benzina nelle sue vene e gli scoppî del motore erano quasi i battiti del suo polso. Sotto gli occhi, il breve quadrato dei comandi ancor restii, e la lancetta delle velocità, oscillante sempre, nervosissima, erano come il suo cuore e il suo orecchio vivi, tesi alla minima mutazione.

Tuttavia un giorno, dopo aver investito e ucciso un passante, e senza neppure il bisogno di scolparsi, s’accorge di non sentire alcun rimorso: si rende conto così di essere simile a tutti i suoi colleghi, i quali, una volta informati del fatto, gli raccontano i loro investimenti con grande indifferenza.

La lusinga del suicidio, da troppo tempo cullata, diventa allora una necessità indifferibile per sovvertire il suo inarrestabile processo di disumanizzazione. Corre con un’auto fin presso la casa dove era nato e si era sognato poeta, poi dà forza al motore e si scaraventa giù per un balzo sulle pietre nude. La ruota del volante gli sfonda il petto, con l’antenna infitta come una lancia.

Il pilota malato, terzo ed ultimo episodio della Trilogia, è forse il racconto più formalmente “futurista”, richiamando quel culto della velocità che assimila “eroicamente” l’uomo alla macchina, tra giochi vertiginosi e temerari che portano il pilota Rafter a sfidare la morte con il suo apparecchio, come un vecchio falco del cielo.

Il motore gli era necessario come a un fumatore la sigaretta. Si sentiva a suo agio soltanto quando, mezzo sepolto nel suo scomparto, traeva in alto, con un polso forte quanto una leva, tutto il fragile scheletro di lino e d’acciaio. […] Era come fanatico del suo mestiere.
Ma di un fanatismo calmo e insieme irresistibile, meccanico.

Il pilota, inizialmente invincibile, sarà invece sopraffatto dalla malattia dei poeti: la tisi, per la quale i medici gli consigliano spiagge calde vivificanti. Ma il suo indomito atteggiamento di sfida lo induce a vivere nel vizio della vita notturna alla ricerca di una impossibile convalescenza, e ciò lo condurrà ad un peggioramento di salute irreversibile e ferale. Tornato in città per incontrare in ospedale una donna nota, morirà in preda alle convulsioni della tosse, sputando sangue, sul selciato della gran piazza.

Come sarebbe oltremodo facile intuire, la “modernità” così intimamente tratteggiata da Pavese ne La trilogia delle macchine sembra repellere, se non ribaltare, lo slancio ottimistico e l’esaltazione frenetica tipici dei più genuini stilemi avanguardisti, propalati in particolare dal Futurismo. Antieroi per “definizione” (si pensi ai titoli), i protagonisti dei tre racconti paiono piuttosto subire il mondo cittadino coi suoi corollari di progresso, novità ed esuberanza estetica. Per Pavese, e per i suoi falliti, non vi è un luminoso spiraglio salvifico da surrogare tra il macchinale respiro delle città, nel loro immaginario futuristico di bellezza e vigore. Ciò che anima e che contraddistingue la inquieta interiorità dei protagonisti de La trilogia delle macchine è (e sarà sempre, come nella successiva produzione letteraria dell’Autore) una tensione e una indefessa appartenenza a una “natura” che non trova rifugio né sfogo nel “nuovo” mondo moderno.

E intorno a tutti questi giovani che s’affannano d’entrare nella vita, intorno ai loro sentimenti, ai loro pensieri, alle loro azioni, sta questa natura immensa, titanica, da rendersi con pochi tratti. | Essa si presta a tutte le loro interpretazioni ed a nessuna. | E così a seconda del personaggio essa è malinconica, gioiosa, mistica o insignificante e così via. | Sempre però deve conservare quella sua faccia da sfinge colossale, sotto cui s’agitano gli uomini piccolini. Ricordati poi, fuori dal romanzo, che essa è eterna e che nessun futurista la plasmerà a suo capriccio.

Gli elefanti di Ferruccio Parazzoli, di Helena Janeczek

Il Saggiatore porta in libreria Elefanti bianchi di Ferruccio Parazzoli. Uno sbalorditivo zibaldone di narrazioni inedite. Un inno alle possibilità della letteratura di raccontare organicamente il mondo attraverso la sua frammentazione: un eterogeneo mosaico di racconti, romanzi, saggi narrativi, prose di viaggio, sceneggiature teatrali e frammenti di varia natura. Un insieme di testi inediti all’interno dei quali si alterna una sinfonia di personaggi memorabili e luoghi letterari che attraversa l’intero spettro dell’immaginario di Parazzoli.

Cattedrale vi propone un estratto della prefazione al libro a cura di Helena Janeczek, per gentile concessione dell’editore.


Elefanti e balene
di Helena Janeczek


Leggendo Elefanti bianchi mi ronzava in testa un pensiero insistente. Non potevo fare a meno di confrontare Ferruccio Parazzoli – l’uomo e lo scrittore, come si diceva una volta – con le figure di scrittori presenti in questo volume. «Da quando ti conosco» mi rivolgevo mentalmente a lui, «non hai avuto un dubbio su cosa scrivere dopo aver finito un libro. Il “blocco creativo” e altre crisi del mestiere non sai dove stiano di casa…» Capisco che è irrituale aprire in questo modo una prefazione, ma siamo adulti e vaccinati contro l’ingenuità di confondere l’autore e i suoi personaggi. Mi viene anche da dire che Parazzoli è andato un po’ a cercarsela non affidando il compito a uno studioso, ma a una collega del mestiere di chi saccheggia la propria «vita vissuta» per farne letteratura. Siete dunque avvertiti che lo scrittore di cui vi ho appena offerto una prima immagine non è esattamente il «vero Parazzoli». Potete, volendo, fare una tara sia sulle fonti parazzoliane che sull’elaborazione della sottoscritta: due scrittori che si passano la palla. Volendo. Potete anche lasciarvi andare alla «sospensione dell’incredulità», quest’arte da illusionisti senza cilindro e conigli di cui l’autore di Elefanti bianchi ha avuto tanto da insegnare ai più giovani colleghi. Fine dell’excusatio non petita, veniamo al libro. Elefanti bianchi unisce degli inediti di Ferruccio Parazzoli nati in tempi piuttosto recenti: racconti, romanzi brevi o stralci di romanzo, un testo teatrale, un racconto che somiglia a un dramma (o a uno script sgangherato), micronarrazioni, prose composte a partire da note di viaggio che sperimentano le potenzialità del frammento. Ma oltre a raccogliere quasi ogni tipo di testo in prosa, il volume ci pone davanti a una strabiliante varietà di stili e registri, presenti non solo tra i diversi generi letterari, ma anche di racconto in racconto, di romanzo in romanzo.
Parazzoli è dunque uno scrittore poliedrico? Voleva forse mostrare – signore e signori! – che sa estrarre dal cilindro fazzoletti, conigli e colombe, e persino qualche apparizione più inquietante? Giudicherete voi se non ne è capace… Intanto c’è da menzionare un’altra arte da baraccone da cui ha tratto insegnamento. L’arte del ventriloquo, dell’imitatore di voci, per dirla con Thomas Bernhard, che invece ha sempre scritto con una sola voce, al punto da generare uno stuolo di imitatori di voci soggiogati dal suo stile, ritmo e sound incantatorio.
Stiamo toccando il tema della mimesi letteraria e dei suoi rapporti complessi con ciò che viene chiamato «realismo». Parazzoli è mimetico sia quando tesse dei racconti «realistici», dove l’incanto della sospensione dell’incredulità non dev’essere infranto, sia quando ricorre a mezzi espressivi deformanti, attingendoli allo scaffale degli stereotipi e persino del trash, come per metterci in guardia che non può essere preso per vero ciò che narra.
No, non possiamo «prendere per vero» quel che racconta Parazzoli. Ma sul serio sì, e sempre. Per questo Elefanti bianchi offre alla fine il ritratto – cubista o, meglio, baconiano – di uno scrittore poliedrico in superficie, ma ossessivo nella sostanza: vale a dire fedele ai propri temi e tarli quanto lo furono i colleghi con una sola voce, Bernhard e Beckett, per nominarne due molto apprezzati da Parazzoli.
In Elefanti bianchi il suono di insieme – a volte discreto sottofondo, a volte bordone insistente – si impone sulla disparità di strumenti e stili con cui la musica viene eseguita. C’è un riecheggiarsi a distanza di atmosfere e registri, ma non è questo il principio che guida la composizione di un libro stravagante ma, in fondo, meno «centone» o Zibaldone di quanto appaia a prima vista. Benché ricco di sorprese, Elefanti bianchi scorre via lungo il filo delle assonanze tematiche, con topoi e motivi che si ritrovano di testo in testo.
Un topos ricorrente è lo scrittore che non riesce a scrivere; personaggio che, come ho anticipato, sotto questo aspetto non somiglia per niente all’autore.
Quando lo conobbi, Ferruccio Parazzoli era ancora un funzionario a tempo pieno del palazzone di Segrate. Arrivava tutte le mattine, armato di concentrazione e pazienza per affrontare il traffico allucinante sulla Paullese. A fine giornata rifaceva la stessa strada, dopo aver attraversato la passerella sullo stagno artificiale con le carpe per raggiungere il parcheggio. Nella pausa pranzo scendeva in mensa scegliendo sempre le stesse cose, le meno cucinate: riso in bianco, pasta al pomodoro, verdure, un pezzo di formaggio, un frutto. Non era una scelta dettata solo da una ragionevole attenzione alla salute né da una frugalità francescana o ispirata ad altri monaci e asceti. Frequentandolo si capiva che per lui nutrirsi era uno degli obblighi della vita, come lavarsi i denti o mettersi gli occhiali, ma forse ancora più seccante. La Mondadori degli anni novanta era un posto strano. In mezzo agli uomini in giacca e cravatta e alle donne che declinavano in diversi stili l’essere alla moda, si formavano delle tavolate con giacche e cravatte dall’aspetto meno convinto, tailleurini rari, parecchi jeans, maglioni e giubbotti. Che fossimo gente di libri ci rimaneva stampato addosso anche vestendo i panni del funzionario. Parazzoli, che era arrivato prima della cattedrale nel deserto industriale di Niemeyer, che ricordava quando nel 1966 si era spupazzato un Kerouac ubriaco fradicio, che quando si parlava di letteratura alzava dal vassoio gli occhi all’improvviso non più di un grigio opaco liquido, non poteva che essere un punto di riferimento per chi era venuto dopo. L’altra stranezza era infatti che in quegli anni di aziendalismo trionfante proprio alla Mondadori confluisse un gruppo di persone* che i libri li scriveva pure: non più con la fierezza del doppio ruolo di Pavese, Vittorini, Natalia Ginzburg all’Einaudi (o di Sereni sotto la cui direzione il nostro aveva cominciato la sua carriera editoriale), ma anzi coltivando la scrittura come un’attività privata, quasi un vizio da assecondare nei ritagli. Come faceva Ferruccio Parazzoli, come aveva sempre fatto. Raccontava che quando i suoi bambini erano piccoli, troppo piccoli per lasciarlo un po’ tranquillo almeno nei fine settimana liberi da impegni, si metteva a scrivere tutte le mattine all’alba, prima che la casa si svegliasse e gli toccasse andare in ufficio. Da quando i figli erano grandi si era solo concesso degli orari più rilassati.
A sostegno di quei racconti per noi pazzeschi perché lui li offriva quasi consigliasse di bere un bicchiere d’acqua tiepida al risveglio, c’è l’elenco dei libri pubblicati a suo nome. Sono a oggi cinquantotto titoli! Pubblicati con cadenza al massimo biennale, a volte più di uno nello stesso anno. Ma rappresentano giusto la parte emersa di quel che Parazzoli ha scritto, come dimostrano proprio i testi qui raccolti che, a loro volta, forniscono un mero florilegio di ciò che rimane ancora nei cassetti. Confesso che mi dispiace non arrivare alla cifra tonda di sessanta – una soglia numerica che, come vedremo, corrisponde pressappoco all’età di molti personaggi, non importa se exscrittori o «ex» di altri mestieri che popolano Elefanti bianchi. Prima, però, vorrei condurre il mio divagare allo specifico della scrittura di Ferruccio Parazzoli, convinta che questo libro sia quanto mai prezioso per far emergere ciò che tende a essere coperto dalla pila di quei cinquantotto titoli. Non ho idea di quanti siano fuori catalogo, temo parecchi. Ma sotto l’aspetto già discusso basta quel nudo elenco a fungere da prova: esordiente tardivo a quarantun anni, premiato di tanto in tanto e sempre recensito, Parazzoli non ha mai smesso di scrivere e lo ha fatto senza rincorrere la fame o la fama. […]
L’essere stato definito «scrittore cattolico» ha creato un danno incalcolabile alla curiosità di leggere i libri di Parazzoli. Qui di cattolico – ma anche di convenzionalmente «cristiano» – si trova poco, se non nel rovesciamento, nella pochade quasi blasfema, nella storpiatura dissacrante dei testi sacri fatta in un’epoca dove di sacro non è rimasto nulla. Eppure sarebbe troppo semplice concludere che queste narrazioni restituiscano la visione di un autore che ha perso la fede: un nichilista, come lo sono I demoni dostoevskiani. Non è così perché «naufragio» e «fallimento» non sono equivalenti. La metafora preferita dall’autore mantiene implicito un orizzonte metafisico che oltrepassa di gran lunga la domanda se si possa raggiungere una meta attraverso la scrittura. Lo scrittore non è altro che un povero imitatore di un demiurgo pasticcione. Ciò che non riuscirà mai a risolvere con le sue pagine, ciò che lo condanna a un duplice naufragio, appartiene al corpo umano in cui è venuto al mondo ed è costretto a vivere. Esaltata o, più sovente, semplicemente messa a nudo, la vecchiaia è la stagione dove il naufragio entra nelle ossa.


* I primi da nominare sono senz’altro Antonio Franchini e Antonio Riccardi, approdati agli «Oscar» quando Parazzoli li dirigeva o continuava a svolgervi un ruolo importante. E poi, sempre pensando a un «nucleo mondadoriano», Giuseppe Genna e Sergio (Alan D.) Altieri. Ma in realtà Ferruccio Parazzoli ha avuto un’influenza molto più ampia su generazioni di scrittori.

Fantasmi e guerrieri. Giustizia e vendetta nell'immaginario giapponese

Edizioni Le Lucerne, ha portato in libreria Fantasmi e guerrieri. Giustizia e vendetta nell'immaginario giapponese, a cura di Giorgio Fabio Colombo che si mette sulle tracce di antiche leggende e racconti popolari, capaci di fare luce sul complesso sistema della giustizia (e dell’ingiustizia) giapponese. Scorci di un immaginario fantastico che ci dispiega l’eterno scontro tra diritto e giustizia, tra forte e debole, facendoci scoprire quanto sia ancora vivo nel Giappone di oggi.

Cattedrale vi propone l’introduzione a questo affascinante testo, per gentile concessione dell’editore.

di Giorgio Fabio Colombo

Giappone, X secolo. Ci troviamo all’interno di uno spazio indefinito, forse una stanza, forse una casa: lo sfondo è buio, nero e minaccioso. L’ambiente è ingombro di ragnatele, segno evidente di abbandono. Dall’oscurità emerge un enorme scheletro. Le mani spolpate lacerano le pareti, il candore della sua gabbia toracica incombe e il teschio dalle orbite vuote e denti mancanti si protende verso due uomini vestiti con eleganti kimono che rivelano il loro rango di nobili guerrieri. Dovrebbero essere terrorizzati, ma i loro volti non tradiscono un’ombra di paura, anzi: lo sguardo è risoluto. Le loro mani corrono ai katana, pronti a fronteggiare la creatura delle tenebre. Intanto, in un’altra stanza, vediamo una donna avvolta in un ricco kimono. È in piedi, intenta a leggere una pergamena: è proprio lei che ha evocato il feroce spettro grazie a un antico incantesimo, e lo ha fatto per vendicarsi dei guerrieri, servitori della casata che ha provocato la morte di suo padre.
Giappone, XVII secolo. Un’altra stanza, un’altra notte buia. Dallo sfondo appare una figura bianca, sembra un essere umano con braccia aperte e gambe divaricate. I suoi lineamenti sono indefiniti, così come i contorni. Accanto a essa, macchie chiare e scure formano dei teschi. Sopra la scena si apre una sorta di varco temporale, una vignetta raffigurante un paesaggio: si riferisce a qualcosa che è accaduto prima, altrove, ma di cui lo spettatore deve essere messo a conoscenza. In primo piano, un guerriero con un ampio kimono azzurro e viola sta sguainando la spada, ma i lembi della sua veste sono già sollevati da sottili arti spettrali. Davanti a lui siede la silhouette di un uomo, un essere trasparente; forse gli sta parlando, forse sta solo osservando la lotta del samurai. La sensazione che ci raggiunge è però inequivocabile: il katana potrà ben poco contro l’inesorabile attacco dei fantasmi.
Queste due famosissime opere – “La strega Takiyasha e lo scheletro-spettro” e “Horikoshi Dairyō”, entrambe dell’artista Utagawa Kuniyoshi (1798-1861) – rappresentano in modo immaginifico e vigoroso la fascinazione giapponese per due categorie di figure: i guerrieri e i fantasmi.
Ovviamente queste figure sono protagoniste di storie e rappresentazioni in quasi ogni tradizione e cultura del mondo, con peculiarità e caratteristiche diverse a seconda del contesto, ma in Giappone sono particolarmente ricche. E in questo volume desidero osservare la tensione, e talvolta la contraddizione, tra diritto e giustizia nell’immaginario popolare giapponese proprio attraverso storie riguardanti guerrieri (o, per dirla con un termine più familiare al lettore italiano, samurai) e fantasmi.
La storia culturale del Giappone è ricchissima di esempi in tal senso: leggende popolari, teatro delle marionette (bunraku), teatro kabuki e nō, fino ad arrivare ai più recenti film, anime, dorama (serie tv) e videogiochi hanno attinto a piene mani dall’immaginario legato al sovrannaturale da un lato, e alla lunghissima tradizione di aristocrazia militare dall’altro – e spesso a entrambi.
Il motivo per cui ho deciso di unire in un unico volume storie appartenenti a due mondi a prima vista in parziale antitesi (quello storico dei samurai e quello immaginario – speriamo! – dei fantasmi) è la comunanza di molti dei temi in esse affrontati: vendetta, onore, rancori mai sopiti che reclamano soddisfazione. Ai fini di questa mia analisi non è tanto importante se il protagonista del racconto sia un guerriero vittima di un’onta o una giovane serva oppressa dal proprio malvagio signore: è l’ingiustizia che richiede una riparazione a essere interessante.
Ciò spiega anche la collocazione di questo libro in una collana “giuridica”: nelle pagine che seguiranno intendo mostrare la presenza di un motivo ricorrente legato alla incapacità del sstema legale di offrire una soluzione che venga percepita come equa e corretta dallo spettatore.
Questo contrasto tra diritto da un lato e giustizia dall’altro è colto con attenzione dai vari autori, narratori, cantastorie, drammaturghi che hanno deciso di dare a esso rappresentazione nelle varie forme d’arte e intrattenimento che analizzerò.
Prima di iniziare le narrazioni, però, mi sia consentita una breve spiegazione delle ragioni che mi hanno portato a scrivere questo libro. La prima attiene ai rapporti tra diritto e letteratura in senso ampio.
Già da molti anni, soprattutto negli Stati Uniti ma anche altrove, il filone noto come Law and Literature ha riscosso grande successo. Non è questa la sede per descrivere il dibattito scientifico retrostante, ciò che mi preme sottolineare è come da tempo sia pienamente accettato il fatto che l’analisi del diritto possa essere svolta con profitto anche attraverso fonti letterarie: romanzi, opere, e persino canzoni e film possono dire sul sistema giuridico di un paese molto, talvolta più di quanto non dicano leggi e sentenze. Certo, nella maggior parte dei casi gli autori delle storie che racconterò non sono giuristi, e talvolta commettono imprecisioni, se non addirittura errori nella raffigurazione del sistema legale e delle sue complessità. Questo però non rappresenta un problema, anzi: è un valore aggiunto. I destinatari del diritto non sono infatti, nella stragrande maggioranza, coloro che con le leggi lavorano (giudici, avvocati, ecc.), ma si tratta della popolazione, della gente comune. È per certi versi molto più interessante capire come costoro percepiscono e vivono il diritto che non studiare la visione di chi, per mestiere, è in grado di comprendere le finezze del legislatore e i dettagli delle sentenze, perché questo ci dà un’idea molto più realistica dell’immagine della legge (e dei suoi eventuali limiti) nella società.
Inoltre, spesso gli studiosi si sono auto-limitati alla sfera della cultura “alta” (per usare una semplificazione) come romanzi, poesie, pièce teatrali, ecc. e hanno trascurato la cultura popolare costituita da fiabe, leggende, ballate fino ad arrivare a fumetti e canzoni. Personalmente reputo questa distinzione poco utile: non è in discussione il valore artistico di un’opera culturale, quanto la capacità di fornire una chiave di lettura interessante per l’analisi giuridica. Da questo punto di vista, il testo di una leggenda popolare può essere valido quanto il libretto di un’opera.
La seconda ragione attiene invece alla percezione del Giappone in Italia. La cultura giapponese è spesso vittima di una rappresentazione stereotipata, orientalistica, dovuta prevalentemente a due fattori. Da un lato, l’assenza – ovvia– di una preparazione specifica nella maggior parte degli osservatori. Dall’altro la – meno ovvia – suggestione che il Giappone suscita, soprattutto sulle nuove generazioni: il Paese ha perso da tempo la posizione di leader economico e politico nell’Asia orientale, e tuttavia ha acquisito con gli anni il ruolo di “superpotenza culturale”. A partire dalla mia generazione, ossia dal finire degli anni ’70, i ragazzi italiani si sono nutriti avidamente di film d’animazione (anime), fumetti (manga) e videogiochi, e il territorio che in origine era presidiato da pochi appassionati è diventato una sorta di comune background culturale. L’enorme successo che il Giappone riscuote nel pubblico italiano è testimoniato dalle decine di libri che vengono pubblicati ogni anno sui vari aspetti del Paese e della sua cultura: dalla cucina all’arte, dagli itinerari di viaggio al cinema.
La grande influenza che il Giappone ha sull’immaginario collettivo occidentale passa attraverso una serie di icone chiaramente riconoscibili: contemporanee (come i grattacieli di Tokyo o il treno ad alta velocità shinkansen) ma anche, o soprattutto, legate all’epoca feudale. Il Giappone viene associato spesso al suo passato, dominato dall’aristocrazia militare.
E proprio l’esponente dell’aristocrazia militare, il samurai, è una delle prime immagini che viene alla mente. Il termine di per sé è complesso da analizzare in termini tecnici, posto che nel linguaggio comune sotto tale etichetta si includono persone appartenenti sì allo stesso ceto in senso ampio, ma con stratificazioni sociali che si sono andate a formare in centinaia di anni, e con una grande differenziazione all’interno della classe samuraica stessa.
La percezione dell’etica e delle regole di questo ceto di guerrieri è in Occidente oggetto di mitizzazione. I manager delle grandi imprese studiano (perlopiù con risultati poco brillanti) testi come Il libro dei Cinque Anelli, del leggendario spadaccino Miyamoto Musashi. I consulenti suggeriscono ai propri giovani collaboratori l’apprendimento di quello che è pubblicato in Italia con il sottotitolo “codice segreto dei samurai”, l’Hagakure di Yamamoto Tsunetomo. Testo che non è un codice, non è segreto e non rappresenta l’ideologia dei samurai collettivamente considerati.
Se è da moltissimi anni che il pubblico italiano ha familiarità con l’idea del guerriero giapponese, è solo da qualche tempo che un altro protagonista del folklore di questo Paese ha iniziato a essere conosciuto anche in Occidente: si tratta del fantasma.
Soprattutto grazie al fruttuoso e popolare filone del cinema horror, gli spaventosi fantasmi giapponesi hanno cominciato a popolare gli incubi degli italiani: ad esempio Sadako, la ragazza spettro di The Ring, vestita di bianco e con il volto nascosto da lunghi capelli neri, è ormai una figura iconica, riconosciuta anche nella nostra cultura pop.
Nonostante si tratti di un fenomeno relativamente recente, le immagini dei fantasmi giapponesi arrivate al pubblico nostrano sono spesso molto accurate nel recuperare l’iconografia tradizionale: abiti bianchi, capelli folti e scarmigliati, corpi magri ed evanescenti sono rappresentazioni comuni nell’arte giapponese (non soltanto nell’ukiyo-e citato all’inizio, ma anche nelle creazioni di pittori contemporanei).
Con i fantasmi della tradizione i loro corrispettivi contemporanei condividono molto oltre all’aspetto: in base alle leggende, perché si crei uno spettro è necessario che qualcuno sia morto in una situazione di ingiustizia, di conseguenza lo spirito non riuscirà a trovare pace fino a che non avrà compiuto la propria vendetta. Non è un caso che uno dei più famosi film di fantasmi sia proprio intitolato Rancore (Ju-on).
Le storie di spiriti sono ovviamente un prodotto della cultura in cui nascono, e quelle giapponesi non fanno eccezione. Ma il lessico della paura non conosce barriere linguistiche, e gli spettri estremo-orientali sono in grado di terrorizzare anche gli spettatori italiani.
Nel tentativo di ricostruire le tradizioni giuridiche del Sacro Romano Impero i fratelli Grimm girarono per anni a raccogliere storie: gli abitanti dei luoghi che visitavano però preferivano riferire loro fiabe e leggende, e alla fine i due giuristi passarono alla storia come favolisti anziché come studiosi. Io qui vi proporrò una lettura giuridica di vari prodotti letterari e artistici, e se il diritto non dovesse affascinarvi a sufficienza, vi resteranno sempre i racconti.

Tre indagini di Auguste Dupin

Newton Compton editori, porta in libreria Le indagini di Auguste Dupin. Con i tre racconti incentrati sul personaggio di Auguste Dupin, Edgar Allan Poe diede inizio alla storia del “giallo”. Per la prima volta nella letteratura, ne I delitti della Rue Morgue (uscito su una rivista di Philadelphia nell’aprile del 1841), il protagonista è un investigatore chiamato, con i soli mezzi della ra­gione, a scavare tra gli indizi per ricostruire passo dopo passo gli avvenimenti e incastrare il colpevole. È anche il primo e il più classico degli “enigmi della stan­za chiusa”, nei quali, cioè, sembra impossibile stabilire come si sia consumato il delitto in una stanza chiusa dall’interno.

Cattedrale vi propone un estratto della prefazione al libro, a cura di Roberto Galofaro.

di Roberto Galofaro


La Morgue, una suggestione

Per le tre storie raccolte in questo volume [I delitti della Rue Morgue, Il mistero di Marie Rogêt, La lettera rubata, n.d.r.], Poe sceglie come ambientazione l’esotica Parigi (città-specchio di New York, come si vedrà leggendo la seconda delle indagini di Dupin) e chiama Rue Morgue la strada in cui sorge la triste dimora delle signore L’Espanaye, le vittime del primo caso che l’investigatore è chiamato a risolvere. Per formulare un’ipotesi che spieghi perché la scelta di questo nome non sia un innocente esotismo, è il caso di approfondire che cosa realmente fosse, intorno alla metà dell’Ottocento, la Morgue parigina.

Innanzitutto l’etimologia: il verbo del francese antico morguer dovrebbe significare «scrutare, interrogare con lo sguardo»: nella sua prima accezione la Morgue fu infatti il luogo del carcere in cui le guardie schedavano, esaminavano e verosimilmente interrogavano i detenuti prima di rinchiuderli nelle celle. Del 1734 è la prima attestazione di un deposito di cadaveri nei sotterranei della fortezza parigina del Grand Châtelet, cui è dato lo stesso nome: è qui che, fino al 1804, avrà luogo l’identificazione dei cadaveri, soprattutto di quelli ripescati nella Senna e ricomposti, nudi, su tavoli di marmo, visibili attraverso una vetrata. Nel 1804 si inaugura uno spazio apposito al Marché-Neuf, in un edificio basso sulla riva del fiume, poi demolito, nel cuore dell’Île de la Cité, a due passi da Notre-Dame.
Qui accade qualcosa di inedito nella storia dell’umanità. Sì, l’istituzione aveva un fine caritatevole, ovvero permettere il riconoscimento e dare una dignitosa sepoltura ai corpi non reclamati, consentendo l’accesso a chiunque volesse, turandosi il naso con le dita; eppure, ben presto, visitare la morte finì per diventare una moda.
In Thérèse Raquin (1867) Émile Zola descrive la Morgue soffermandosi sul rapporto morboso e grottesco che con i defunti esposti instaurano gli avventori, affascinati dalla vista dei cadaveri e tuttavia percorsi dal timore della propria stessa fine. È così per Laurent, l’assassino-protagonista, che vi si reca nella speranza che venga ripescato dal fiume il corpo del marito di Thérèse, e che si ritrova turbato dalle carni gonfie e molli, e però anche sedotto dalla pelle e dai seni esposti di una bella fanciulla impiccatasi per amore. Ma non solo, Zola ci dice anche che:

 

L’obitorio è uno spettacolo alla portata di tutte le borse, che possono permettersi i passanti ricchi e quelli poveri. La porta è aperta, entra chi vuole. Ci sono certi amatori che allungano il proprio tragitto pur di non mancare a una di queste rappresentazioni della morte. Quando le lastre sono nude, la gente esce delusa, quasi defraudata, borbottando tra i denti. Quando al contrario le lastre sono ben fornite, quando c’è una bella mostra di carne umana, i visitatori si accalcano, si concedono qualche emozione a buon mercato, si spaventano, scherzano, applaudono o fischiano, come a teatro, e si ritirano soddisfatti, dichiarando che quel giorno l’obitorio «è stato all’altezza»
(Émile Zola, Thérèse Raquin, trad. it. di Maurizio Grasso, Newton Compton).

Lungi dall’essere un luogo sordido, la Morgue era enormemente frequentata: quando vi si poteva trovare un cadavere al centro di un caso che occupava le prime pagine dei giornali, vi accorrevano anche quattrocento persone al giorno, fino a contare, come riporterà «L’Eclair» del 29 agosto 1892, la cifra incredibile di un milione di visitatori all’anno (Cfr. F. González-Crussi, On Seeing. Things Seen, Unseen, and Obscene, Overlook Duckworth, Londra 2006, p. 69). Non solo: quando la funzione di pubblica utilità fu decisamente soppiantata dalla curiosità di vedere del pubblico, lo Stato francese istituì un biglietto, creando anche una scenografica cortina di tende, quasi un sipario, davanti alla vetrata che separava i vivi dai morti.
Era inevitabile che il notturno, il cimiteriale Poe provasse fascinazione per un’istituzione che aveva la sua cifra distintiva nell’ostensione della morte – con la sua grottesca materialità e la sua poetica evidenza. Inoltre, Poe aveva sicuramente letto almeno due articoli sulla Morgue parigina pubblicati nell’ottobre e novembre del 1838 sul «Saturday News» – lo stesso giornale dalle cui pagine aveva forse tratto l’ispirazione per il “colpevole” dei primi delitti di cui si occupa Dupin (Cfr. Richard Kopley, Edgar Allan Poe and the Dupin Mysteries, Palgrave MacMillan, s.l. 2008, p. 36).
La fittizia Rue Morgue appare perciò un’azzeccata suggestione per lo scenario delle indagini e delle deduzioni dell’investigatore, poiché l’obitorio è il luogo in cui attivamente si interroga la decomposizione. Non è il luogo dell’elegia, della malinconia e del lamento (che ritroviamo invece nel Corvo), ma il luogo in cui, per mezzo di un’osservazione attenta, la ragione scova gli indizi, riconosce l’identità del defunto, individua le circostanze del delitto, formula ipotesi sull’assassinio.
Il pubblico odierno è ormai in confidenza da decenni con la figura dell’anatomopatologo, protagonista o co-protagonista di romanzi, film e serie tv: il professionista del decadimento, capace, con il cinismo del clinico, di ricostruire gli eventi ex post, dove quel post è l’estrema dipartita. A volte connotato da un’ironia che sconfina nel grottesco, a volte da un’ingenuità che ne conserva i buoni sentimenti, questa sorta di Caronte delle salme verso la verità della fine è diventato un elemento non trascurabile di ogni racconto delittuoso che si rispetti. E ciò è accaduto perché le funzioni di analisi degli eventi e di analisi del corpo della vittima si sono distinte, negli anni. Ma se facciamo un passo indietro e torniamo al nostro Dupin, lo troveremo intento sul capo mozzato di Madame L’Espanaye con la perizia di uno specialista di anatomia patologica. E con la stessa perizia seguiremo i suoi ragionamenti sulla «base logica» dell’affioramento dei corpi degli annegati, nel Mistero di Marie Rogêt.

Il fegato di Prometeo. Le maestose rovine di Michele Mari

«In verità… io… mi chiamo Michele Mari».


di Eleonora Daniel

Il viaggiatore di “Strada provinciale 921”, il racconto che apre Le maestose rovine di Sferopoli di Michele Mari, superati ulivi, piatti tipici e macerie, si ritroverà prima a urlare «solo per scoprire di essere urlato» e in seguito ridotto a pedina in una teca, feticcio museale. Guardato collezionato ispezionato, pronto a esistere nell’unica dimensione in cui può iterare se stesso all’infinito (e dunque forse nell’unica dimensione in cui può esistere davvero, esistere meglio), quel viaggiatore è uno scrittore sotto mentite spoglie. È lo scrittore (per) Michele Mari: con una giravolta vorticosa passa dall’avere massimo potere sul racconto all’esserne sua vittima. «“Affabula, mostro”. E il mostro affabulò».

Quelli che caratterizzano i venticinque racconti editi lo scorso settembre per Einaudi sono i temi che Michele Mari declina fin dagli esordi. Accanto al viaggio e all’indagine metaletteraria già citati compaiono l’infanzia, con la consueta spinta autobiografica, il buio e i mostri (Lovecraft e Poe si scambiano sguardi compiaciuti tra crepe e buchi della serratura); o ancora la tradizione letteraria italiana, se tema può essere considerata. Non c’è da stupirsi: Michele Mari è il sacerdote dei feticci, e l’insistenza non è ripetizione ma dedizione ossessiva. La materia narrativa è il fegato di Prometeo; l’aquila lo scrittore: torna ogni giorno a beccare lo stesso sangue.

Trovano così posto nel volume l’inesauribile rapporto padre-figlio e quelle che per certi versi potrebbero esserne considerate le estensioni voraci: il legame casa-inquilino e città-uomo. La forma varia ogni volta; si va dal puro dialogo di “Il buio” alla nostalgia enciclopedica per i luoghi d’infanzia di “Vecchi cinema”, che nelle righe finali rovescia l’elenco (quasi) sterile di sale scomparse in un racconto commovente:

Quando io ero piccolo il Savona dava due film alternati al prezzo di un biglietto: dei due film, sempre, uno era in bianco e nero e l’altro a colori; il primo era in genere una commedia, il secondo un western o un mitologico o un cappa e spada. Di norma, stante gli orari di mio nonno, li vedevo a chiasmo, secondo un ordine che produceva effetti surreali: secondo tempo del primo film, secondo film, primo tempo del primo film. In effetti nessuno, all’epoca, faceva caso all’orario di inizio: si entrava quando si entrava, e il bisbiglio che annunciava ritualmente l’uscita era: «Ecco, siamo entrati qui».

C’è persino il Mari docente, rintracciabile nel professore che in “Sghru” chiede gli venga presentata la seconda ode foscoliana; e c’è tutto il Mari lettore (ancor prima che scrittore) nella chiusa: lo studente impreparato traduce la poesia in una lingua sconosciuta, annienta i ruoli, ipnotizza l’uomo che ha davanti, boicotta l’esame.

«Io… io… ah, sí», disse il professore. Poi, dopo una pausa: «Le do trenta e lode».

«Sghru».

«Che significa?»

«Occhei».

«Sa a memoria anche i Sepolcri?»

«Sí».

«Me li reciterebbe nella sua lingua?»

«Sghru».

A dirla proprio tutta, il professore del racconto e il suo autore condividono più l’argomento d’esame che la pazienza: Michele Mari si sarebbe fermato ben prima. Si sarebbe fermato al silenzio di fronte al «Mi dica qual è la prima parola della Ginestra» – è «qui», e saperlo, per chiudere la parentesi, lungi da essere nozionismo fine a se stesso, è questione primaria: ogni lettura è introiezione, e ogni scrittura è rimasticamento, è espulsione.

Di questa dimensione parassitaria e divoratrice nella produzione di Michele Mari Giacomo Leopardi è da sempre nutrimento privilegiato. Mettendo da parte la variante mannara di Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, tutti i racconti e i romanzi pubblicati conservano tracce implicite ed esplicite del poeta; Le maestose rovine di Sferopoli non è da meno. Il debito (l’omaggio) va dall’impianto complessivo di un testo (come nel “Dialogo fra Leopold Mozart, Wolfgang Amadeus Mozart e un venditore di formaggi”) al riferimento indiretto (le mummie che «si sbriciolavano al contatto con l’aria» di “Oniroschediasmi”), o ancora alla citazione diretta (per cinque volte nella raccolta si chiama in causa il nome «Leopardi»).

E però non c’è solo autobiografia, né solo il consueto rapporto con la letteratura che passa attraverso citazioni e manipolazioni. Con Le maestose rovine di Sferopoli Michele Mari porta avanti un processo già avviato nelle sue opere più recenti, e l’autobiografia si fa sempre più autobibliografia. Nel salto tra Filologia dell’anfibio e Leggenda privata (o il meno noto Asterusher) si collocano anche Le maestose rovine: sia perché, volendo, l’operazione ha una larvale parvenza filologica (metà dei racconti pubblicati era già apparsa in altre antologie o su quotidiani e riviste), sia perché nell’infiltrazione letteraria e nella riscrittura che da sempre caratterizzano la produzione mariana trova spazio anche la citazione di sé. Un esempio su tutti: nel già nominato “Dialogo fra Leopold Mozart, Wolfgang Amadeus Mozart e un venditore di formaggi” c’è sì Leopardi, ma compaiono anche «dei verdini e dei verderami» – dove il «dei» originario è complemento di specificazione e non partitivo, ma poco importa: quel che importa è che le venature del gorgonzola, qui presentato come formaggio massimo e di per sé simbolo creativo, big bang artistico, quelle venature sono le vene verdi dei polsi mariani: Verderame e “Certi verdini” di Tu, sanguinosa infanzia. Come a dire, se lo scrittore dice sempre lo stesso (e quello stesso non è solo l’infanzia, non è solo il mostro, se quello stesso è la scrittura) ora lo scrittore dirà lo scrittore. A maggior ragione quando si tratta di uno scrittore politropo, che con la multiformità non ha mai smesso di giocare. E se anche il peso complessivo di questi testi non è ai picchi massimi a cui la prosa di Michele Mari si è spinta – eufemismo che riassume tutta la tragedia di contestualizzare un gigante –, Le maestose rovine di Sferopoli è il libro in cui più di altri si manifesta lo zigzagare divertito (il divertimento alla latina) del suo autore.

«E il divertimento formale resterà un mezzo, o saprà essere il fine?»

L’ironia, strumento caro a Mari, in quest’ultima raccolta si estende fino a permeare anche ai racconti gotici e orrorifici. C’è ironia nell’itinerario di citazioni apocrife che sommate portano a Il mondo di Jimmy Fontana in “Le fonti del mondo”, o nella riscrittura boccacciana di “Il falcone”, in cui Federigo degli Alberighi è costretto a fare in eterno la stessa fine del rapace; e ancora ironico è il tentativo di consolare un figlio che ha paura del buio finendo invece per inquietarlo (“Il buio”), o il brevissimo “Medio Evo”:

«Avete fatto squartare mio padre e stuprare e sgozzare mia madre. Ditemi un motivo per cui non dovrei uccidervi», disse il cavaliere.

«Perché sono il Duca», disse il Duca senza pensarci due volte.

Il cavaliere rimase qualche istante sovrappensiero, poi annuí e ritornò là dond’era venuto.

A sintetizzare al meglio il perno della raccolta – la variazione divertita – sono tuttavia le microriscritture di “Variazioni Goldberg”, con cui Mari rielabora sintetizza interpreta modi di dire, dati di fatto, episodi noti: «Minor passeggiava giulivo, ma, come incontrò Maior, cessò di esistere»; «Giacomo Parkinson e Luigi Alzheimer, imprima pargoli, poscia scolari, indi maestri nell’arte medica, mutaronsi finalmente, e per sempre, in dua cose orrende», «Appena sentivano “Ucci ucci” i bambini battezzati apostasiavano»…

In questo suo porsi come continua variazione sul tema, Le maestose rovine di Sferopoli assurge a esempio esasperato (e, forse paradossalmente, più riuscito) di una tendenza che in fondo caratterizza da sempre la prosa di Michele Mari: «C’erano una volta otto scrittori che erano lo stesso scrittore».

Cronaca del fuggiasco Henry James, di Fabrizio Coscia

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Corrimano porta in libreria tre magistrali racconti di Henry James, raccolti in Vite private, con la postfazione di Fabrizio Coscia, che Cattedrale vi propone per gentile concessione dell’editore.



Cronaca del fuggiasco Henry James
di Fabrizio Coscia


Ogni volta che ci si accinge a scrivere su Henry James si ha la frustrante impressione, come disse Ezra Pound, di stilare “un Baedeker per un continente”. Da dove cominciare, allora? Comincerei dalla banale constatazione che nessuno studio, nessun saggio sul grande scrittore americano potrà mai dirsi esaustivo, né tantomeno conclusivo. Al limite, si può concepire una parziale proposta di lettura, una tra le tante possibili, nell’auspicio che abbia bastante forza sineddotica da dirci qualcosa di illuminante sull’opera in generale di James. Proprio i tre racconti qui riuniti appaiono idonei a un tentativo del genere, in quanto dalla loro posizione piuttosto marginale (non sono, infatti, tra i più celebri e celebrati) riescono a descrivere con una certa icasticità il momento in cui, nel passaggio di secolo, la scrittura di James assume forme e intenzioni nuove, segnando un congedo definitivo dall’età del realismo. Tutto ciò che appare evidente nei quattro grandi romanzi sperimentali – Le spoglie di Poynton (1897), Ciò che sapeva Maisie (1897), L’età ingrata (1899) e La fonte sacra (1901) –, quelli cioè che inaugurano la “stagione della crisi” nella letteratura e nella cultura del primo Novecento, insieme a una manciata di magistrali racconti, come L’altare dei morti (1895), La cifra nel tappeto (1896), Il giro di vite (1898), La belva nella giungla (1903), La panchina della desolazione (1909-10), ci viene infatti suggerito e confermato in filigrana nei tre titoli proposti – Brooksmith (1891-92), La vita privata (1892-93) e, inedito in Italia, Il castello di Fordham (1904) – in tono minore, per così dire, e tuttavia particolarmente efficace e pregnante. Di che costa sto parlando? Del fatto che nell’arco di un ventennio, quasi in preda a una sorta di furore creativo, James ha portato la letteratura nel “cuore di tenebra” della contemporaneità, compiendo un radicale processo di ripensamento sullo statuto stesso della “realtà” e della sua percezione, che ne ha svelato la fallacia, l’illusione, l’inafferrabilità. E da dove origina questa evoluzione, o meglio questa faglia, questa frattura, questa crisi della rappresentazione?
Per rispondere a una tale domanda ci può tornare utile riprendere l’abbozzo di un saggio giovanile di Marcel Proust, intitolato La poesia o le leggi misteriose, scritto durante la composizione del Jean Santeuil, tra il 1895 e il 1901, più o meno dunque negli stessi anni in cui James realizzava la sua rivoluzione letteraria. Lo scrittore francese vi analizza la scissione perenne del poeta in due personalità contrastanti, facendo un paragone con lo sdoppiamento tra il dottor Jekyll e Mr Hyde, della celebre novella di Stevenson: a sorprenderlo nella sua stanza, il poeta ha l’aria smarrita, spiega Proust, “in preda a un’inaudita agitazione”, come se avesse appena commesso un delitto e fosse stato scoperto, ma non c’è più nessuna traccia della vittima, quasi scomparisse appena si entra, “come quando si cercava di scoprire che cosa Hyde facesse a Jekyll: quando si vedeva Jekyll, non c’era più nessuna traccia di Hyde, e quando si vedeva Hyde, nessuna traccia di Jekyll”. Il poeta, conclude lo scrittore, “lo trovate sempre solo”. A che cosa voleva alludere Proust con questa immagine del double, se non al fatto che il poeta vive sempre diviso tra un suo côté sociale, mondano, pubblico insomma (il dottor Jekyll), e un altro invece privato, solitario, alieno da tutto e da tutti, nel quale è dedito in modo quasi criminoso alla sua opera, “chiuso nella sua camera”? Il poeta, lo scrittore in generale, ha bisogno cioè di rinchiudersi nel suo mondo personale, per dare vita all’opera e annullarsi come uomo.
Anche nel racconto La vita privata di James c’è una “stanza del delitto”, una camera in cui uno scrittore – l’affermato Clare Vawdrey – si trasforma in una sorta di Mr Hyde, ma non facendo sparire le tracce del dottor Jekyll, piuttosto mandandolo in giro, negli spazi sociali di una pensione svizzera sulle Alpi, o nei suoi dintorni, a intrattenere fatui rapporti con gli ospiti, come una sua proiezione, un suo fantasma, mentre lui scrive da solo, all’insaputa di tutti. Uno sdoppiamento, dunque, che mantiene in vita entrambe le istanze, quella mondana e quella creativa, ma delegando a quest’ultima il ruolo essenziale e riducendo la prima a un vuoto simulacro. Tra gli ospiti della pensione è lui la celebrità, l’attrattiva principale, ma la sua conversazione ha qualcosa di scialbo, che delude le aspettative di chi ammira il suo genio. Al contrario, Lord Mellifont, un altro ospite della pensione, anima le serate mondane dei gitanti con il suo brio, il suo stile da perfetto uomo di mondo, che sa adattarsi anche alle situazioni più complicate. “Rivestiva sempre il ruolo di anfitrione, era il mecenate, il moderatore d’ogni riunione”. Ma dietro entrambi si nasconde un enigma che il narratore – un giovane scrittore che viene definito “un rubacuori”, “un osservatore”, aiutato dalla affascinante attrice Blanche Adney – cerca di svelare. Una sera, infatti, dopo aver lasciato l’attrice a conversare con Vawdrey, il narratore si reca di nascosto nella stanza dello scrittore per recuperare un manoscritto dimenticato, ma quando apre la porta senza bussare scorge inaspettatamente una figura seduta al tavolo vicino a una delle finestre, intenta a scrivere al buio. Il narratore scopre cioè – in un vero e proprio colpo di scena di grande effetto – che Vawdrey, mentre è impegnato a chiacchierare del più e del meno di sotto con gli ospiti della pensione, contemporaneamente è impegnato anche a scrivere nella sua stanza. “Quando uno esce, l’altro rimane a casa” spiega il narratore a Blanche, subito dopo, svelandole la sua scoperta. “Uno è il genio, l’altro è il borghese; e il borghese è il solo che noi conosciamo personalmente. Parla, si mette in mostra, è molto popolare, flirta con voi…”. Questa scoperta fantastica – che apparenta di fatto il racconto al genere delle ghost stories, il cui massimo capolavoro jamesiano è Il giro di vite (1898) – fa il paio con quella in cui si è imbattuta, altrettanto casualmente, la stessa Blanche, e che riguarda Lord Mellifont: l’uomo, per quanto assurdo possa sembrare, vive solo quando è in compagnia degli altri; è una maschera che ricopre un volto disabitato. Per scoprire questa terribile verità – la verità, cioè, di una identità che vive in una dimensione esclusivamente pubblica e che nel privato si dissolve – basta sorprenderlo da solo e verificare che egli, da solo, non esiste. Ci troviamo di fronte, evidentemente, a un paradosso, che coglie però un nodo concettuale essenziale per comprendere la poetica di James, ma anche la sua evoluzione in questi anni di transizione. Lo sdoppiamento di Vawdrey rimanda allo sdoppiamento di cui scriveva Proust nel suo saggio giovanile. Ma non solo. Qualche anno dopo, all’inizio del 1914, Franz Kafka in una lettera alla fidanzata Felice Bauer, quasi a volerla spaventare, o quantomeno scoraggiare da ogni progetto di vita matrimoniale e borghese, evoca un’analoga “stanza” dello scrittore, spiegando che “quando si scrive non si può mai essere abbastanza soli” e bisognosi di silenzio interiore: “Ho già pensato più volte” scrive Kafka “che il mio migliore tenore di vita sarebbe quello di stare con l’occorrente per scrivere e una lampada nel locale più interno di una cantina vasta e chiusa. Mi si porterebbe il cibo, lo si poserebbe sempre lontano dal mio locale, dietro alla più lontana porta della cantina. La strada per andare a prendere il pasto, in veste da camera, passando sotto le volte della cantina, sarebbe la mia unica passeggiata. Poi ritornerei alla mia scrivania, mangerei lento e misurato e riprenderei subito a scrivere. Chissà quali cose scriverei! Da quali profondità le farei sorgere!”. Anche il “tenore di vita” immaginato da Kafka per sé stesso ha qualcosa di criminoso: la stanza in un “locale più interno di una cantina vasta e chiusa”, la sua separatezza e segretezza, il rifiuto di ogni contatto umano (“Mi si porterebbe il cibo, lo si poserebbe sempre lontano dal mio locale, dietro alla più lontana porta della cantina”), tutto sembra alludere a qualche atto da tenere nascosto, a qualche oscura metamorfosi. Insomma, la scrittura è qualcosa che può ottenersi soltanto nella più assoluta solitudine, nella rinuncia ascetica al consorzio umano, nel silenzio e nel vuoto: al polo opposto, c’è la vita, che si esprime, nel caso di Proust, nella mondanità, nei rapporti sociali, e nel caso di Kafka, nel matrimonio e nella vita familiare e borghese (su questo stesso tema del conflitto tra arte e vita borghese anche Thomas Mann, tra gli scrittori più amati e ammirati da Kafka, aveva composto la novella Tonio Kröger, nel 1903). Ma perché lo scrittore, per ritrarre la vita attraverso la letteratura, ha bisogno di allontanarsi dalla vita stessa, di commettere il crimine di negarla in sé, per restituirla nella pagina scritta? E, soprattutto, è davvero certo che questo “crimine” conduca all’obiettivo prefissato? Proust, da quell’ultimo grande scrittore dell’Ottocento che è stato, in fondo, non ha mai avuto dubbi sulla forza della letteratura, sul suo potere rivelatorio, sulla sua capacità di rappresentare “la vita vera, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta”. Lui è come il monaco che deve ritirarsi dal mondo per poter riflettere su di esso. La camera foderata di sughero del suo appartamento di boulevard Haussmann è la “stanza del delitto” dove si compie quella straordinaria alchimia che sola può salvare l’uomo dall’insensatezza del vivere. Con Kafka, invece, questa fiducia è svanita, caduta sotto i colpi del dubbio, dell’inadeguatezza, della crisi. Con Kafka “la menzogna viene elevata a ordine del mondo” e la letteratura non può che validare questo ordine. Come un rabbino senza Dio, Kafka crea il suo Talmud letterario su una Torah inesistente, o smarrita per sempre. L’ambizione ottocentesca di dominare il reale attraverso la scrittura lascia il posto a un’ammissione di impotenza: la realtà si offre ormai come un rebus, o un puzzle da combinare tassello per tassello, senza però mai poter pervenire alla sua conclusione, poiché ci sarà sempre qualche tessera mancante. La realtà è un enigma su cui ci si interroga invano, un vuoto sul quale ci sporgiamo attratti e spaventati a un tempo. Quel crimine nella stanza solitaria, allora, è stato commesso invano, o al limite solo per demistificare, rinnegare o sconfessare l’illusione di mettere ordine nel caos della vita astraendosene. Rispetto a tutto ciò, dove si situa James con il suo allegorico e paradossale racconto di fantasmi che si aggirano in una mondana pensione alpina? Se il racconto si fosse limitato a rappresentarci lo sdoppiamento dello scrittore non sarebbe difficile apparentarlo alla poetica proustiana. Chiunque scriva sa che la propria vita più autentica coincide con l’atto della scrittura. Del resto, lo stesso James sembra confermarlo quando annota nella Prefazione a Le spoglie di Poynton: “Poiché la vita è tutta inclusione e confusione, e l’arte tutta discriminazione e scelta, quest’ultima, in cerca del duro valore latente di cui solo si preoccupa, ringhia attorno alla massa tanto indistintamente e infallibilmente quanto un cane sospettoso d’un qualche osso sepolto”. Con la differenza che mentre “il cane cerca il suo osso solo per distruggerlo”, l’artista trova “nella sua piccola pepita, lavata dalle incrostazioni e martellata in sacra durezza, la materia stessa per una chiara affermazione, l’occasione più felice per l’indistruttibile”. È uno sforzo di indagine che ha come oggetto la vita stessa e che è concentrato solo sulla ricerca del “duro valore latente” della nostra esistenza. E tuttavia, la presenza dell’altro fantasma, quello di Lord Mellifont, ne La vita privata ci spinge a un’ulteriore riflessione. È lui, infatti, che rappresenta la cifra “inclusiva” della vita, la teatralizzazione della realtà. Lui è l’attore sul palcoscenico che vive solo nello sguardo del pubblico, ma dietro questa apparenza di stile, di charme, di armonia, si nasconde il vuoto. E che cos’è questo vuoto se non la verità che si rivela sotto la pressione euristica della scrittura? In altre parole, con La vita privata James instilla un dubbio allo stesso tempo estetico ed esistenziale, di forma e di contenuto: da un lato c’è lo scrittore che rinuncia a vivere (o meglio che demanda a un doppio, a un falso sé la dissipazione mondana) per carpire nella solitudine e nel buio della sua stanza l’essenza della vita stessa (“Noi lavoriamo nelle tenebre” scrive James in un altro racconto, Gli anni di mezzo); dall’altro c’è la scoperta – attivata dallo stesso meccanismo indagativo del racconto, e che ci porta oltre le soglie del Novecento (nei paraggi dei terrori kafkiani) – che quell’essenza coincide con l’Assenza. Ma la mondanità che James mette in scena ne La vita privata, e che lo scrittore stesso, proprio come Proust, ha vissuto senza risparmiarsi, può davvero rivelare nell’opera letteraria il “duro valore latente”? O non è piuttosto vero il contrario, che cioè la scrittura, più che mettere ordine nella confusione di quel “mondo stupido e volgare”, non può fare a meno di decifrarne il vuoto, la mancanza di significato; non può fare a meno, cioè, di scoprire che il vero enigma è l’assenza di qualsiasi enigma, proprio come capiterà al narratore del romanzo La fonte sacra, che trascorre un fine settimana in una casa di campagna osservando, e cercando invano di capire, le misteriose dinamiche che legano due coppie; o a John Marcer, l’uomo che, ne La belva nella giungla, si ritiene destinato a qualcosa di eccezionale e trascorre tutta la sua vita in attesa del suo accadimento, salvo scoprire che la sorte riservatagli era proprio quella di mancare al suo destino (una parabola sorprendentemente simile, mi pare, al racconto di Kafka Davanti alla legge).

Che questa assenza, questa mancanza di significato possa essere il risultato di una colossale rimozione (la rimozione di una omosessualità che James non ha mai espresso direttamente nella sua opera e nella sua vita) può interessare più i biografi e gli psicoanalisti che la critica letteraria. Quello che conta, credo, è la conseguenza estetica e concettuale di questa rimozione, quella che potremmo definire a tutti gli effetti una “poetica dell’omissione”. Da un lato la reticenza, appunto, l’ellissi nel discorso retorico, di cui James è maestro riconosciuto, e il meccanismo del racconto che gira attorno al non detto; dall’altro la ricerca del significato destinata a essere frustrata (come nel racconto Il carteggio Aspern, del 1888, vero momento di svolta nella produzione jamesiana). Ritroveremo, del resto, questa stessa poetica dell’omissione legata all’omosessualità anche nelle opere della scrittrice americana Willa Cather, la quale nel saggio Il romanzo démeublé, del 1922, parlando del capolavoro di Hawthorne La lettera scarlatta, sottolinea il meccanismo dell’allusione, “qualunque cosa si senta sulla pagina senza essere nominata”, come arte suprema dello scrittore, elevata a legge generale della composizione: “È la presenza inspiegabile della cosa non detta, della sfumatura che l’orecchio indovina ma non sente, l’atmosfera verbale, l’aura emotiva del fatto, della cosa o dell’azione, a conferire una qualità sublime al romanzo, al dramma o alla stessa poesia”. La “cosa non detta”, in quanto repressa, in quanto indicibile (“l’amore che non osa dire il suo nome”, lo definì Oscar Wilde nel suo processo per sodomia), diviene così la metafora della verità inesprimibile perché rimossa, e dunque annullata, resa inesistente o irraggiungibile. Esemplare, in tal senso, è il racconto Brooksmith, pubblicato nel 1891, un piccolo capolavoro di ambiguità e complessità, nella sua apparente semplicità. È la storia di un domestico, un maggiordomo – Brooksmith, appunto – che lavora a Londra al servizio di un ex diplomatico, Mr Offord, amico del narratore. La devozione assoluta dell’uomo nei confronti del suo padrone si esprime soprattutto nella supervisione che egli dedica alla perfetta riuscita degli incontri che avvengono nel salotto di Offord, dove regna un raffinato livello di conversazione intellettuale, un’armonia di rapporti e di gesti, di parole e di argomenti, che si devono appunto alle attente, silenziose e quasi invisibili cure di Brooksmith, sempre presente con discrezione e sempre disponibile a ricavare da quell’atmosfera un’educazione superiore rispetto al suo grado sociale (impara a parlare correntemente il francese, legge Montaigne e Saint-Simon). Ma sono proprio questa devozione e questa educazione a condannare poi l’uomo al fallimento, dopo la morte del padrone. Brooksmith, infatti, nonostante gli sforzi del narratore preoccupato del suo destino, non riesce a trovare un degno sostituto di Mr Offord, e vive una progressiva degradazione di ruolo e di condizione (in principio come domestico, passando di famiglia in famiglia, ma sempre in situazioni e ambienti poco soddisfacenti per lui, fino a diventare “uno dei tanti camerieri” per ricevimenti, assunto a serata), una “volgarizzazione” che lo condurrà a una “inerte malinconia servile” e – probabilmente – al suicidio. Brooksmith può essere letto almeno in tre modi diversi. In primo luogo si può definire, sorprendentemente, un racconto sulle implicazioni classiste della società londinese di fine Ottocento. E dico sorprendentemente, considerato che James è lo scrittore in apparenza più alieno dall’analisi politica e dalla lotta di classe (anche se a smentire questa ipotesi definitivamente ci penserà, qualche anno dopo, Il giro di vite). Brooksmith, “cresciuto in una classe servile”, sembra infatti qui subire una sorta di nemesi ben poco divina e molto materialistica (in senso marxiano), che lo punisce per una hybris tutta sociale, ovvero per quella sua mite tracotanza manifestata nel momento in cui ha preteso di superare le barriere sociali, educandosi alla scuola intellettuale del salotto del suo padrone, e soprattutto per esser stato tentato di sostituirsi a lui nelle funzioni di anfitrione, durante la sua malattia. La degradazione successiva alla morte di Offord è di fatto il prezzo che la società gli fa pagare per aver avuto la presunzione di non voler restare al suo posto (“La sua sensibilità era tale che non avrebbe mai potuto approvarsi come sostituto di Mr Offord, ma, saturato dall’abitudine al punto da ritenerla una sorta di religione, in favore dei nostri amici avrebbe compiuto quel sacrificio necessario per venerare la divinità”). Cruciale, allora, è la visita del narratore a Brooksmith, che – scopriamo per la prima volta – vive in una “sordida stradina”, dentro una camera che odora di umido, “come di biancheria sporca messa a bollire”: il domestico è sorpreso seduto a una finestrella da dove si potevano vedere “bottega di un lattoniere e una piccola e viscida taverna”. Tutto, in questa scena – gli oggetti, i colori, gli odori –, sembra voler denunciare lo status inferiore di Brooksmith, la sua distanza dall’ambiente che ha frequentato durante tutti quegli anni di servizio presso Mr Offord, lo squallore e la miseria in cui è costretto a vivere. Attraverso lo sguardo del narratore assistiamo così alla definitiva sconfitta di Brooksmith, espulso da un Eden sociale al quale si è illuso di poter appartenere.
C’è poi un secondo livello di lettura del racconto, ed è quello che riguarda la natura mimetica del desiderio che esso mette in scena. Che rapporto lega Brooksmith al suo padrone? Il narratore afferma che l’uomo è il maggiordomo di Mr Offord, ma anche il “suo più intimo amico”. E quando Mr Offord muore, in un momento di abbandono Brooksmith confessa la sua disperazione al narratore, il quale giudica quella confessione come “la parola definitiva dell’intera vicenda”: “Oh, signore, per voi è triste, è davvero molto triste, e lo è per moltissime dame e per moltissimi gentiluomini; proprio così, signore. Ma per me, signore, è, se posso dirlo, anche più grave: è semplicemente aver perso qualcosa che era tutto”. E che rapporto lega il narratore a Brooksmith e allo stesso Offord? Che cosa si cela dietro questa sua ossessione per il domestico e per il suo destino, dopo la morte del padrone? Mr Offord ci viene descritto dal narratore come “il più simpatico e affettuoso degli scapoli”, “l’inglese più delizioso che si fosse mai conosciuto”. Appartenere alla sua cerchia ristretta di habitué voleva dire appartenere a un’Arcadia esoterica ed esclusiva. Un’Arcadia felice alla cui realizzazione ha contribuito in maniera decisiva Brooksmith. Ci troviamo così di fronte a un chiaro schema triangolare, una relazione a tre mediata, che rimanda al desiderio imitativo teorizzato da René Girard: il soggetto desidera un oggetto attraverso la mediazione di un modello, cioè dell’altro che si ammira e si desidera imitare. L’interesse del narratore nei confronti di Brooksmith è dunque un desiderio imitativo, un desiderio secondo l’altro, che è sempre desiderio di essere l’altro. Ma questo desiderio di essere l’altro, che passa attraverso una mediazione, come spesso accade nell’opera di James è anche desiderio dell’altro, un desiderio omoerotico mai dichiarato, omesso, censurato, impronunciabile. Mi sembra, a questo proposito, rivelatore soprattutto un passo del racconto, laddove il narratore afferma il desiderio imitativo nei confronti di Mr Offord, ricorrendo non a caso alla parentesi, attraverso la sua stessa negazione, ovvero il desiderio viene dichiarato impronunciabile (la “cosa non detta”), ma allo stesso tempo affermato nell’ordine del discorso: “A quei tempi non avrei potuto permettermelo […] ma anche qualora le mie entrate l’avessero permesso, non avrei osato dire a Brooksmith (emulando Mr Offord): ‘Mio caro amico, vi prenderò io’”
Ma c’è un’ultima lettura del testo, in qualche modo complementare alla precedente, ed è una lettura che sembra preannunciare il tema dello sdoppiamento dell’artista che James avrebbe affrontato, in maniera più esplicita, l’anno successivo con La vita privata. È lo stesso narratore a suggerircela, quando, parlando della gestione del salotto di Mr Offord, del mistero che si nasconde dietro la sua naturalezza e armonia, afferma che quella mondanità così perfetta è il risultato di un’arte dissimulata. E da qui la domanda attorno a cui si arrovella: “Chi era, dunque, quest’artista occulto?”. La risposta giunge poche righe dopo, ed è la scoperta che alla “base di quel mistero” vi è proprio Brooksmith, che “Brooksmith, in poche parole, era l’artista!”. Del resto, lo stesso narratore aveva dato vita, poco prima, a una metafora illuminante, dichiarando che “il salotto di Mr Offord era davvero il giardino di Brooksmith, il suo parterre umano, potato e ben curato”. Una metafora che ci richiama subito alla mente la frase che lo stesso James scrisse nella prefazione al romanzo Gli ambasciatori (1903): “L’arte tratta di ciò che vediamo” scrive James “deve anzitutto offrire a piene mani quell’ingrediente: raccoglie il suo materiale, per dirla altrimenti, nel giardino della vita – il quale materiale, cresciuto altrove, è stantio e immangiabile”. E se il salotto di Mr Offord è il “giardino della vita” da cui, secondo James, l’arte deve raccogliere il suo materiale, chi è Brooksmith se non l’artista, appunto? Il salotto mondano di Offord diviene così la metafora della vita a cui lo scrittore attinge, quel giardino che lo scrittore osserva e di cui seleziona il materiale, per evitare che possa diventare, altrove, “stantio e immangiabile”.
James, dunque, ancora una volta parte da un presupposto proustiano per poi superarlo, negarlo. Da un lato l’antitesi tra la vita – “tutta inclusione e confusione” – e l’arte – “tutta discriminazione e scelta” – laddove quest’ultima va “in cerca del duro valore latente di cui solo si preoccupa” (un’antitesi che esprime una fiducia di partenza nell’arte, nella sua capacità di manifestare un potere rivelatorio, di mettere ordine e dare senso alla realtà, di illuminarla di significato); dall’altro l’approdo a una buia disfatta, a una impasse cognitiva che incrina quella fiducia, crepandola dall’interno. Come scrive Blanchot, la narrativa di James rappresenta “il movimento meraviglioso e terribile che lo scrivere esercita sulla verità, tormento, tortura, violenza che infine conducono a morte, dove tutto sembra che si riveli, e tutto ripiomba nel dubbio e nel vuoto delle tenebre”. La letteratura per James allora non svela più la “vita vera”, come in Proust, ma solo il vuoto di significato che la vita stessa cela. E lo fa ponendosi come inchiesta, come quête esistenziale e narrativa allo stesso tempo, come “critica della vita” (quello stesso “criticism of life” la cui atmosfera Brooksmith vuole, con cento pretesti, respirare nel salotto di Mr Offord attraverso una “partecipazione intensa”). Che cosa succede, infatti, quando questa critica porta fino in fondo la sua ricognizione? Per l’artista-Brooksmith (anche lui, in effetti, un doppio, il doppio di Mr Offord, anche lui dunque un Hyde solitario e criminale che ha bisogno del suo dottor Jekyll) il salotto mondano è la “fonte sacra” da cui egli attinge la sua arte, ma è proprio la rivelazione ultima che quella società nasconde a determinare il fallimento, la perdita, il vuoto a cui essa inevitabilmente conduce. L’epilogo del racconto che cosa ci dimostra? Allo stesso modo in cui, secondo Girard e la sua triangolazione, il desiderio non raggiunge mai il suo vero oggetto e “conduce all’oblio, alla delusione, alla morte”, così anche la scrittura in James non riesce più a cogliere il suo obiettivo, ma è costretta a contemplarne l’assenza. Da quando Mr Offord si ammala, da quando cioè il suo salotto mondano è contagiato dalla malattia, qualcosa nel meccanismo ineccepibile dell’arte del maggiordomo si inceppa, il “giardino della vita” va in rovina finché la morte non espelle Brooksmith dal luogo che lui stesso ha creato. Questa cacciata edenica segna la fine del domestico, poiché la “critica della vita” a cui lui si è votato non può che condurre proprio “all’oblio, alla delusione, alla morte” che la dinamica del desiderio triangolare aveva attivato.
Nel suo seminario sull’Etica della psicoanalisi, Jacques Lacan illustra come il desiderio inconscio ruoti attorno a un vuoto di senso, che chiama la “Cosa”. Questo vuoto centrale attorno a cui, dice Lacan, è organizzata l’arte, è impossibile e reale allo stesso tempo. Se questo vuoto, questo silenzio, questo non-senso, per l’essere umano, è strutturalmente centrale, come può l’arte del Novecento non organizzarsi attorno a esso, che sia per sublimarlo o per smascherarlo? Come può, dunque, anche la narrativa non tenerne conto?

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James sembra vicinissimo a cogliere questa verità soprattutto nel già citato La belva nella giungla, dove “la Cosa” (“the thing”) è proprio il nome che il protagonista del racconto dà più volte al vuoto che marchia la sua vita. E nel successivo Il castello di Fordham, pubblicato un anno dopo, dove il vuoto di rappresentazione si fa esso stesso rappresentazione. Come ne La vita privata, l’ambientazione è in una pensione svizzera, ma stavolta non sulle Alpi, bensì sul Lago di Ginevra. Qui si incontrano Abel Taker e Mrs Magaw, che hanno in comune il fatto di essere ospiti di quell’albergo entrambi sotto una falsa identità. Il racconto inizia proprio con lo sdoppiamento dei nomi: una lettera che la padrona della pensione porge a Taker, indirizzata a “Mr C.P. Addard”, un nome che non corrisponde a quello che appare invece “sui due o tre libri che lui aveva lasciato nella sua stanza”, né alle iniziali – “A.F.T.” – attaccate al suo bagaglio. Questa sfasatura, questa mancata corrispondenza dei nomi scandisce così fin dall’inizio il tema del racconto legato al protagonista, il quale ha omesso di registrarsi al momento dell’arrivo in albergo. Ha deciso, cioè, di cancellare la sua vera identità. Quando si ritrova a pranzo accanto a una donna americana arrivata il giorno prima, Mrs Magaw, Taker percepisce subito in lei un comune destino: quello di un esilio dalla vita, che James descrive come un lento “scivolare lungo una superficie tesa e lucida […] dentro il vuoto”. Il nome falso è una falsa identità, dietro la quale si nascondono “le oscure viscere della verità”. Ma di che verità si tratta, quella di cui fanno esperienza i due personaggi? Quando James annotò il primo germe del racconto nei suoi Taccuini, era interessato a trattare il fenomeno americano dell’uccisione sociale dei genitori, ovvero quel modo tipico e snob di certi giovani americani saliti nella scala sociale di nascondere le loro vere origini. Inizialmente il progetto prevedeva di raccontare la storia di due figlie che desiderano negare l’esistenza della madre, per convenienza sociale. Ma poi il racconto ha preso una forma diversa, speculare, e tipicamente jamesiana: abbiamo infatti un protagonista maschile che è costretto dall’amata moglie ad allontanarsi per un periodo di tempo e ad assumere una nuova identità (è lei che gliela impone questa nuova identità, è lei che gli scrive la lettera indirizzandola a C.P. Addard all’inizio del racconto), così come lei stessa si è ribattezzata Mrs Sherrington Reeve, ed è con questa sua nuova identità che la donna si reca al Castello di Fordham, nella contea inglese del Wiltshire, libera da ogni vincolo, per ricostruirsi una vita, dal momento che “forse lei credeva che la pena d’essere Mrs Taker fosse un ostacolo alla sua ascesa sociale che solo la morte reale, ufficiale, pubblicizzata (con tanto di copia di cortesia dei documenti americani) del marito avrebbe potuto rimuovere”. C’è un momento del colloquio tra Taker e la sua nuova amica americana, durante il pranzo, che suona come un singolare indizio. Taker a un certo punto mente, affermando di essere stato a Costantinopoli per visitare la tomba della moglie, “Mrs Addard”. E Mrs Magaw risponde che anche lei era andata a Roma per lo stesso motivo: per visitare la tomba della figlia, morta qualche tempo prima. Questa coincidenza luttuosa mette in guardia Taker, e quando l’uomo, mentre prendono il caffè, vede una lettera che la donna ha appoggiato sul parapetto della terrazza, con sulla busta indicato il nome di “Mrs Vanderplank”, intuisce che la sua stessa sorte è capitata a Mrs Magaw, costretta dalla figlia – che l’ha rinnegata – ad assumere un altro nome. Catturato da questa “sottile comunione”, Taker sente intensificarsi una certa attrazione per la donna, che rivede a cena, durante la quale i due si confessano reciprocamente la loro vera identità. L’intuizione di Taker si è rivelata giusta: la figlia di Mrs Magaw è viva e conduce una battaglia disperata contro il suo nome. È diventata Lady Dunderton e incontrerà la moglie di Taker nello stesso luogo di “rinascita”, il Castello di Fordham. Mr Taker e Mrs Magaw si trovano dunque entrambi in un limbo di attesa, messi a morte simbolicamente per non intralciare l’ambizione sociale dei propri familiari. Il parallelismo tra Taker e la donna è così perfettamente simmetrico a quello tra Sue – la moglie di Taker – e Mattie – la figlia di Mrs Magaw. Ma che cosa cercano Sue e Mattie? Che cosa rappresenta il luogo in cui sono? Vogliono approdare al posto a cui appartengono veramente. Che è un posto sociale, certo, ma non solo. Se anche qui, dunque, come in Brooksmith, James si rivela scrittore attento alle dinamiche classiste, alla spietatezza di certo ambiente mondano, è altrettanto vero che in questo caso c’è una differenza. Il Castello di Fordham rappresenta, infatti, il luogo in cui la vita si compie in tutta la sua pienezza, ma proprio per questo è un luogo lontano, inaccessibile; è dunque proprio quel Vuoto che Lacan chiama la “Cosa”, ma sublimato nel suo simulacro, negato dal suo opposto. In questo simulacro Sue e Mattie vogliono collocarsi, nell’illusione di una pienezza che non potranno mai raggiungere. È Taker che ha il ruolo di chi questa illusione deve smascherare. Mentre Mrs Magaw ha accettato solo temporaneamente di adottare una nuova identità, restando in fondo nell’orbita di quella stessa sublimazione che persegue la figlia, Abel Taker si spinge molto più in là. Capisce, cioè, che la sua morte non è solo simbolica, né soltanto sociale, ma ha a che fare con qualcosa di addirittura metafisico. Quando accetta di restare con la nuova identità, abbandonando per sempre il suo vecchio “io” morto, è un salto nel vuoto quello che compie. È un salto in quel Vuoto di senso a cui lo ha costretto la moglie, condannandolo a un esilio a tempo indeterminato. In fondo Taker accetta di trasformarsi in un fantasma, perché sa che l’unica verità possibile è proprio nel non-essere. Mrs Magaw, pur tentata, non è disposta a seguirlo, perché il prezzo da pagare è troppo alto, e Taker deve proseguire in perfetta solitudine. Taker (estrema controfigura dello scrittore James, che compie letterariamente un analogo salto nel vuoto) sceglie la non-vita, perché sa che, in fondo, la vita e la morte sono la stessa cosa.

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La Gioia! di Annie Vivanti letta da Lidia Ravera

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La nuovissima e sofisticata casa editrice Fve, pubblica Gioia! di Annie Vivanti, riproponendo ai lettori italiani una voce essenziale del nostro panorama letterario. Sono otto i racconti di Gioia!, un testo ricco di colpi di scena che incalza continuamente i lettori e le lettrici esortandoli a non fermarsi alle apparenze. Con lo stile diretto ed esuberante che la contraddistingue, Vivanti fa emergere tutta la complessità e le sfumature dei rapporti umani, e ce le restituisce nella loro versione più sincera.

Cattedrale vi propone la prefazione di Lidia Ravera, per gentile concessione dell’editore.

di Lidia Ravera

Mentre leggevo i racconti raccolti in Gioia! di Annie Vivanti, sottolineavo e ridevo, anche se sarebbero due azioni che si escludono a vicenda. Mi tormentava, e mi tormenta, uno stupore, una domanda: come è possibile che tutto questo consapevole brio, tutta questa modernissima leggerezza, questo senso quasi di superiorità di genere, quest’ironia pungente, appartengano ad una scrittrice vissuta nei primi decenni del secolo scorso, una ragazza del 1886? Leggevo e rileggevo certe frasi: “Strano a dirsi, si è sempre inclini a credere che felici siano gli altri. Per i bambini sono felici i grandi. Per i grandi sono felici i bambini. Quest’ultima asserzione, pur così abituale, è falsa anch’essa. I bambini non sono felici perché non sanno di esserlo. E prima condizione della vera felicità è la consapevolezza”.
Che sicurezza, pensavo, che talento per la conversazione: la fa semplice, come se fossimo tutte insieme sedute al caffè, io lei e le altre, non è mai complicata, come chi vuole essere letta da tutti, ma complessa sì, complessa e profonda. Il racconto si intitola Lezioni di felicità e, protetta dal tono scherzoso, insegna a non patteggiare troppo con il destino, prendere quello che viene e farselo piacere. “Lei” c’è sempre, lei Annie, in ogni novella. E con lei ci sono un’amica, un amico, un amante, un poeta, una regina, un cavallo, un passante, l’ultima vittima di Landru, una formica Punzaiola… è un mondo, quello di Gioia!, abitato da creature che prendono vita quando vengono scrutate dall’occhio attento della scrittrice. Non si tratta di autobiografia, ma di storie che l’autrice ha incontrato sul suo cammino, celebrando la quotidiana magia del vivere. E che condivide allegramente. Senza niente di monumentale o autocelebrativo. “Ero brutta, so che ero brutta iersera. Alice mi pettina esecrabilmente. Mi fa una testa che pare una ‘pagnotta Garibaldi’. La licenzierò. Farei bene ad andare in campagna per un mese a curarmi i nervi e la carnagione, contro i primi soli di febbraio non c’è di meglio che la crema Hazeline coll’acqua di rose e alcune gocce di tintura di benzoino”. «Cosmopolitan» d’epoca? Macché. La frase è contenuta nel racconto che dà il titolo alla collezione Gioia!, e che, come promette il sottotitolo Un idillio in sei mesi, analizza, dando voce ai due punti di vista, quello di lui e quello di lei, il nascere, il montare e il disfarsi d’una storia d’amore. È l’intelligenza femminile, audace e puntuta, al lavoro sui sentimenti: in poche pagine affossa un’intera poetica, il romanticismo, con le sue beate illusioni. Ci si innamora così e così… poi ci si disamora. È questo che mi incanta, nella voce di Annie Vivanti: non compiace il lettore in cerca di consolazione erotica, ma smonta e rimonta le dinamiche, sempre uguali e sempre diverse, della relazione fra l’uomo e la donna, con furia iconoclasta e un costante sorriso da monella. Questa volta si tratta dell’idillio fra uno scultore e una scrittrice dalla risata irresistibile. È lei che conduce il gioco, ed è lei che ne rimane schiacciata. E lei è “Lei”: Anna Emilia Vivanti, nata in Inghilterra, dove il padre, rivoluzionario mazziniano ha dovuto riparare, per evitare la galera. “Lei”: vissuta nel Regno Unito e in Italia e negli Stati Uniti e in Svizzera. “Lei”, poliglotta e giramondo, che cavalca come un fantino professionista, che scrive poesie in italiano e una decina di romanzi in inglese. “Lei”, autrice di best seller e tuttavia amata dalla critica (oggi sarebbe quasi impossibile, soprattutto per una donna). “Lei”, che viene recensita e studiata da personaggi del calibro di Benedetto Croce. “Lei” che alla prima raccolta di poesie giovanili, riceve la prefazione e la benedizione di Giosuè Carducci, facendolo innamorare (ha 24 anni, lui ne ha 55). “Lei” che è letta da tutti, colti e incolti, borghesi e popolo. “Lei”, che cambia identità scegliendosi di volta in volta una patria o un’altra. Annie Chartres Vivanti nel Regno Unito, maritata con John Chartres, attivista di Sinn Fein, il movimento indipendentista irlandese impegnato nella lotta di liberazione dall’Inghilterra. Annie Vivanti in Italia, dove si avvicina, sull’onda del comune odio per l’Inghilterra (ha affiancato il marito nella lotta per l’indipendenza dell’Irlanda) a Mussolini e al Fascismo. “Lei”, che dal fascismo, nel 1941, viene mandata al confino perché nata comunque nella “Perfida Albione” ed è Mussolini stesso che deve intervenire per salvarla. “Lei” che mette al mondo una bambina prodigio, violinista a sette anni e poi artista di fama internazionale, e la racconta in due romanzi La vera storia di una bambina prodigio e I divoratori, analizzando anche le ricadute drammatiche dell’eccesso di talento. “Lei” che deve sopportare l’insopportabile: quando, avvelenata dalla sua stessa precocità e dal dono inestimabile del genio musicale, la figlia violinista muore suicida, nel 1941. A 48 anni. “Lei” che muore un anno dopo sua figlia. E chissà se è riuscita a difendersi dal dolore, almeno parzialmente, in quell’ultimo anno di vita, mantenendo il suo straordinario sorriso: provocatorio e tuttavia volonteroso. Un sorriso da dominatrice dei sentimenti che, nell’epoca in cui è vissuta, non era patrimonio comune delle donne. Oggi, sì. Non del tutto, ma molto di più. Oggi noi donne sappiamo ridere. Di noi stesse e degli uomini. E questo ci mette al riparo dall’aggressività di un patriarcato che, in crisi da decenni, non riesce a morire. Ma nel 1891 (quando uscì il suo primo romanzo), all’inizio del 900, una donna che combatteva ridendo, era una assoluta rarità, un pezzo unico. Annie Vivanti dunque è “una di noi”, nella scrittura e nella costruzione narrativa e nella capacità di mancare di rispetto a Padri e Padroni, e questo mi ha colpita fin dalle prime righe. Me la sono spiegata con il cosmopolitismo, la modernità. Ma poi mi sono detta, no, Annie non è un personaggio da jet set (anche se Giosuè Carducci le ha regalato un cavallo), è piuttosto una sradicata di lusso. La perseguita e la illumina un continuo senso di non appartenenza. Le piace la poesia di Heine, assorbe gli echi dell’ultima Scapigliatura (contro il romanticismo italiano alla Manzoni, a favore del nascente naturalismo francese con un pizzico di maledettismo alla Baudelaire) ma senza aderire al movimento. L’assidua frequentazione di Carducci la rende impermeabile a D’Annunzio e alle pompe dei suoi adoratori. Lei legge, va in giro curiosando, apprende, però se ne sta per conto suo. I racconti che compongono Gioia! sembrano cogliere sempre l’attimo, il qui e ora, la freschezza delle prime impressioni. Come i bambini, nei 75 anni della sua vita (parecchi per l’epoca), Annie Vivanti non smette mai di onorare il presente. Con il coraggio di chi è capace di non guardare mai indietro. E neppure troppo avanti.

Neroconfetto: dietro le quinte di un esordio

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Racconti edizioni ha da poco portato nelle librerie Neroconfetto, l’esordio di Giulia Sara Miori: una raccolta dal gusto gotico che trae forza dalla migliore letteratura gotica classica e contemporanea.

Giulia Sara Miori ci racconta, con questo inedito, la genesi del libro, e del modo in cui ha lavorato con la scrittura per giungere alla pubblicazione del manoscritto.

di Giulia Sara Miori

Poco più di un anno fa, qualche mese prima che scoppiasse la pandemia, senza saperlo e senza volerlo ho cominciato a pensare a Neroconfetto. Mi trovavo in biblioteca e stavo cercando in tutti i modi di scrivere un romanzo che in seguito avrei interrotto. Siccome il romanzo mi annoiava, mi sono messa a spiluccare i racconti di E.A. Poe: in particolare, sospinta da un desiderio che ancora non mi era chiaro ma di cui mi fidavo come ci si fida delle intuizioni, sono andata a cercare i racconti con i nomi di donna, e cioè Eleonora, Ligeia, Morella. Li ho riletti con attenzione, uno dopo l’altro, senza una ragione precisa. Poi sono andata a bere un caffè alle macchinette, mi sono rollata una sigaretta col tabacco e sono scesa a fumare. Mentre fumavo, con Čajkovskij nelle cuffie (quando lavoro ascolto sempre Čajkovskij) e le bici che mi sfrecciavano sotto il naso, ho visto nella mia mente una ragazzina esile e bionda con le dita incerottate. Quella ragazzina, che mi ricordava vagamente una mia compagna del liceo, si sovrapponeva però all’immagine di un’altra ragazza con cui non molto tempo prima avevo interrotto i rapporti, e a cui non avevo perdonato un tradimento. Al tempo stesso, però, entrambe mi hanno fatto venire in mente Carmilla, l’affascinante vampira dell’omonima novella di Le Fanu. Ora, curiosamente, io non ripensavo a Carmilla da quando avevo letto la novella, e cioè da venticinque anni, eppure qualcosa aveva scatenato quel ricordo e l’aveva arricchito di nuove suggestioni.
A un certo punto, comunque, la sigaretta è finita, e così sono rientrata, mi sono seduta, e con calma mi sono messa a scrivere un racconto che si chiamava Camilla e che parlava di un breve amore adolescenziale tra ragazze. Nel racconto, che ho scritto in un paio d’ore, la voce narrante descrive un’adolescente dalle mani incerottate, tanto bella quanto inaffidabile. Quella prima storia, che poi ho inviato al concorso 8x8 di Leonardo G. Luccone, è il seme da cui si è sviluppato Neroconfetto. 

Ma procediamo con ordine. Dicevo: ho inviato Camilla a 8x8 e anche a un paio di riviste; poco tempo dopo ho ricevuto una risposta positiva sia dal concorso sia da una delle due riviste a cui l’avevo inviato. Naturalmente non mi aspettavo nulla di tutto ciò, anche perché era la prima volta che spedivo in giro qualcosa di mio.

Nel frattempo, sempre in quest’ordine, è scoppiata la pandemia e sono arrivata in finale a 8x8: Camilla era piaciuto molto alla giuria tecnica, di cui faceva parte anche Emanuele Giammarco di Racconti edizioni. Subito dopo la finale, l’editore mi ha contattata e mi ha chiesto se avessi altri racconti pronti da fargli leggere, perché lui e Stefano Friani, il suo socio, avevano intenzione di pubblicarli. Lì per lì sono rimasta di sasso, sospesa in una bolla di incredulità. Ho telefonato a Rita Vivian, la mia agente, e lei mi ha detto di mandarle immediatamente tutti i racconti che avevo scritto, e che se l’avessero convinta li avremmo inviati all’editore così com’erano. Io, che dopo Camilla non ero più riuscita a lavorare al romanzo perché continuavano a venirmi in mente nuove storie con personaggi femminili, le ho mandato quei pochi racconti che avevo (cinque o sei). Il giorno successivo l’agente mi ha chiamato e mi ha detto che i racconti le erano piaciuti molto e che potevamo mandarli subito all’editore. Da un lato per scaramanzia e dall’altro perché proprio non volevo crederci, mi ero convinta che la cosa non sarebbe andata in porto, anche perché sapevo che, almeno fino a quel momento, l’editore aveva pubblicato solo tre autori italiani ed era estremamente selettivo. Invece, con mia grande sorpresa, non solo i racconti sono piaciuti, ma dopo qualche giorno ho ricevuto il contratto da firmare: un contratto per un libro che non esisteva ancora e che era appunto tutto da scrivere. Per me si trattava di dimostrare che ero una scrittrice vera, e non una che per un colpo di fortuna aveva azzeccato un paio di racconti. Ho accettato la sfida e mi sono messa subito al lavoro, anche perché ormai mi serviva solo una scusa per mollare il romanzo e cominciare a pensare seriamente ai racconti. Visto che ero costretta a casa dalla pandemia, poi, non avevo molto da fare, e allora mi sono immersa nel flusso di immaginazioni che avrebbero costituito la struttura portante del libro.

Insieme a Camilla, erano molti i nomi di donna che mi ossessionavano: Laura, per esempio, che era il nome di una mia vecchia compagna di università. E siccome a quel nome si è subito associato un desiderio mai sopito di vendetta, ho pensato senza nessun rimorso che avrei potuto utilizzare quel personaggio e fargli fare una brutta fine. Ora, mi sono accorta che questa cosa di usare la fiction per vendicarmi di persone reali che in passato mi avevano fatto soffrire mi procurava un piacere enorme, un piacere sadico. Così mi sono detta: di chi altro desidero vendicarmi? Non è che mi sia seduta a tavolino e abbia fatto un elenco, intendiamoci: ma sentivo che quell’esercizio mi faceva stare bene e mi serviva a liberarmi di certi fantasmi che mi portavo dietro. Devo dire infatti che, per come sono fatta, tendo a vivere nel passato, e se da un lato questo può essere utile alla scrittura, dall’altro è una forma di intossicazione di cui farei volentieri a meno. A ogni modo, insieme a Laura ho ritrovato altre vecchie conoscenze e altri ricordi legati a luoghi in cui ero stata infelice. Poiché intendevo liberarmi di tutti quelle presenze inquietanti, ho pensato che l’unico modo per farlo sarebbe stato scrivere un libro gotico. A quel punto ho capito perché avessi avuto bisogno di rileggere proprio quei racconti di Poe, e ho sentito chiaramente che se avessi avuto il coraggio di sbloccare certi ricordi allora il libro si sarebbe scritto quasi da sé.

Mi pareva però che alle storie che avevo in mente mancasse un tassello: da ragazzina, avevo amato molto la letteratura gotica anglosassone (non solo Carmilla e Poe, ma anche Dracula di Bram Stoker, Il Dottor Jekyll e Mister Hyde di Stevenson, i racconti di Henry James e di Lovecraft...) e più di recente mi ero appassionata a Shirley Jackson e a Joyce Carol Oates; tuttavia avevo bisogno di un’atmosfera particolare, che fosse in grado di rafforzare il potere simbolico delle storie, rendendole immediatamente universali nella mente del lettore. Così ho pensato all’atmosfera delle fiabe.
Da bambina adoravo le fiabe, ma non ho mai avuto nessun interesse per il principe azzurro o per le storie romantiche: ad attirarmi erano sempre i particolari macabri e morbosi, tant’è che un giorno (avrò avuto sì e no cinque anni) ho chiesto a mia madre di comprarmi un lettino di vetro uguale alla bara di Biancaneve. Un’altra delle mie fiabe preferite è Scarpette rosse, una storia di Andersen a dir poco terrificante, in cui una ragazzina viene punita per aver osato indossare le sue scarpe preferite (rosse, per l’appunto) al funerale della nonna. Siccome si era lasciata andare alla vanità, dio l’aveva punita mandandole un angelo che le aveva mozzato i piedi con un’ascia e l’aveva poi costretta a danzare sui moncherini fino alla fine dei suoi giorni. Questa fiaba in particolare mi ha colpito così tanto da plasmare il mio immaginario in modo un po’ perverso: in Neroconfetto c’è un racconto, La giacca, ispirato a Scarpette rosse, anche se trasfigurato al punto da renderlo irriconoscibile. A dire il vero non è che abbia pensato: adesso mi metto a riscrivere Scarpette rosse con una trama diversa. Piuttosto, tempo fa avevo comprato una giacca che mi stava particolarmente bene, e mi ero accorta che quando la indossavo mi guardavano tutti. In quel momento, mi è venuto in mente il quadro di Dorian Gray. Anche lì c’era un oggetto magico (il quadro, appunto) che portava fortuna al suo possessore, ma a un certo punto la fortuna si rovesciava e proprio l’oggetto magico iniziava a vivere di vita propria, generando conseguenze tragiche. Ho pensato subito che avrei potuto applicare questo schema anche alla mia storia, rendendola però incentrata sul corpo e sulla bellezza. Da donna, infatti, ho sempre vissuto con una certa ambivalenza il desiderio più che legittimo di piacere e quello di fregarmene dei giudizi sul mio corpo: non mi sono mai sentita bella e ho sempre invidiato chi invece lo era, e credo che La giacca, con la sua ambiguità, dia voce proprio a questa ossessione.

Ma le fiabe non sono l’unico serbatoio di elementi macabri cui attingo: sono una grande appassionata di cronaca nera, e quando leggo di un delitto particolarmente efferato vado alla ricerca di tutti i particolari più crudi, nonché delle motivazioni psicologiche che stanno dietro ai fatti di sangue. Se potessi, scriverei subito un libro sul delitto di Novi Ligure come ha fatto Lagioia con la vicenda dell’omicidio Varani.

A ogni modo, i miei fantasmi non sono solo persone in carne e ossa, ma anche luoghi: Trento, per esempio, e cioè la città in cui sono cresciuta, nei miei racconti non è mai un’ambientazione neutra né tanto meno positiva, ma è sempre una sorta di cimitero dei ricordi: non a caso, L’incidente comincia proprio con una morta che si risveglia al cimitero di Trento. Nel racconto L’Inquilina, invece, abbiamo una casa stregata e delle presenze che chiaramente fanno riferimento all’infanzia (e sono molti i racconti in cui si allude all’infanzia come a un paradiso perduto).
A Trento si contrappone Milano: se la prima è la città dei fantasmi, Milano è il luogo dove tutto è possibile. Proprio in una Milano distorta e onirica, infatti, sono ambientati i due “racconti magici”: La giacca e Occhiali. In entrambi i racconti, le protagoniste sono giovani donne alle prese con la maturazione e con la costruzione della loro identità: Clara e Nora sono entrambe intrappolate in relazioni che le rendono dipendenti e insicure, e per poter trovare il loro posto nel mondo devono liberarsi proprio da questi rapporti, e lo fanno con l’aiuto di due oggetti magici.
Utrecht, al contrario, è il luogo della disillusione: proprio in questa città, infatti, Mara si perde, in un labirinto di strade tutte uguali prima, e di corridoi alienanti poi. Infine la Sicilia, ovvero il luogo stregato per eccellenza, che compare brevemente solo nella seconda e terza parte di Notturno. In una città misteriosa di cui nomino solo l’iniziale (P. come Palermo, ma potrebbe essere benissimo Siracusa o un’altra città siciliana sulla costa), un uomo s’innamora perdutamente di una donna che piano piano si rivelerà diversa da come lui crede; questo amore, basato su una menzogna, finirà per avvolgerlo nella ragnatela di bugie e di omissioni che lui stesso ha creato.

Alcuni dei racconti sono stati drasticamente rivisti o addirittura riscritti in fase di revisione, con l’aiuto dell’editor Emanuele Giammarco: penso a Candeggina, (forse il racconto a cui sono più legata), o a La babysitter, o ancora a Notturno. Con Emanuele ho lavorato molto sugli aspetti narrativi, in modo da esplicitare meglio dei nodi di trama che non erano abbastanza chiari o da approfondire le motivazioni dei personaggi e le loro relazioni. In Candeggina abbiamo sacrificato un passaggio a cui tenevo molto, perché la voce narrante, che per tutto il racconto dimostra una certa grettezza frutto della vita di provincia, non era abbastanza omogenea. In La Clinica, invece, il finale non era convincente, e allora abbiamo sviscerato ogni singolo passaggio del racconto per trovare una conclusione che desse forza a tutto quello che veniva prima.
Per quanto riguarda il titolo, è nato davvero per caso: stavo pensando a una frase o a una parola in grado di collegare tutti i racconti che avevo scritto fino a quel momento, e ho pensato che mi sarebbe piaciuto che il lettore consumasse le mie storie come delle caramelle, e cioè una dopo l’altra. Poi però ho pensato ai confetti, perché si mangiano nelle occasioni importanti, e per me l’uscita del libro sarebbe stata di fatto come la nascita di un figlio. O di una figlia, mi sono detta. E quindi: confetti rosa. Ma poi ho pensato che, sebbene avessero protagoniste femminili, i miei erano dei racconti decisamente dark. Confetti neri, quindi. Ho telefonato a Emanuele e gli ho proposto la mia idea. Lui mi ha ascoltato attentamente e mi ha detto che l’idea era buona, ma che mancava qualcosa.
Il giorno dopo mi ha richiamata e, senza nemmeno dire ciao, ha detto solo: Neroconfetto, tutto attaccato.

© Illustrazione di Valallart

© Illustrazione di Valallart

Racconti di demoni russi. Un frammento di Andrea Tarabbia

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Il Saggiatore pubblica il volume Racconti di demoni russi, a cura di Andrea Tarabbia che ha selezionato i più importanti esempi letterari di questa fascinazione sinistra, da Gogol’ a Čechov a Bulgakov, apparecchiando un banchetto di prelibatezze macabre – tra cui alcune vere rarità – in cui l’estasi non è mai troppo distante dalla dannazione: ecco Satana che seduce una fanciulla e la condanna con un languido bacio, mentre un vortice di dannati si presenta al cospetto della regina del Sabba, suonano orchestre di morti, appaiono angeli avvolti dalle fiamme: la notte non è mai stata così animata, e racconto dopo racconto si compone, agli occhi del lettore, il ritratto al nero di un’intera cultura.

Cattedrale vi propone un estratto dell’introduzione del curatore, per gentile concessione dell’editore.


I demoni russi.
Un frammento di Andrea Tarabbia

In un affettuoso resoconto degli ultimi anni trascorsi su questo mondo da Michail Vrubel’, il poeta simbolista Valerij Brjusov raccontò di come il pittore, ormai sopraffatto dalle sue ossessioni e dalla follia, parlasse con orrore di una delle ultime grandi opere che la salute gli aveva concesso di comporre, Ostrica con perla, confidando all’amico, in un sussurro, che quel quadro lo tormentava come una maledizione. Ormai ricoverato in una clinica per malati di mente e quasi del tutto cieco, Vrubel’ si stupiva di come, nella raffigurazione di quella conchiglia che sembra contenere l’universo intero, egli fosse stato spinto a rappresentare due figure femminili, immagini forse di sirene o di divinità marine, di cui però almeno una – credo la seconda, quella che sta più in basso – era scaturita dal suo pennello come all’improvviso e contro la sua stessa volontà. Vrubel’, che aveva poco più di cinquant’anni ma sembrava un vecchio, era convinto che in quella seconda figura fosse raffigurato lui. «È lui» diceva. «Sta facendo cose come questa ai miei quadri. S’è preso questo potere perché io, senza esserne degno, ho dipinto il Cristo e la Madre di Dio. Ha stravolto tutti i miei lavori…» Raccontando questo episodio, Brjusov non ebbe nemmeno bisogno di specificare chi fosse quel lui a cui il pittore si riferiva: era chiaro, a lui come ai lettori del suo memoir, che l’immagine che accompagnò gli ultimi anni di Vrubel’ era quella del diavolo che, insinuandosi perfino nei suoi quadri, veniva a punirlo per una vita vissuta nel peccato.
Vrubel’ soffriva di allucinazioni continue, e a lungo rimase convinto che il modo più efficace per espiare i suoi peccati e levare il demonio dalle sue opere fosse trascorrere gran parte delle giornate nudo, gattonando per i quattro angoli della stanza e facendo altre stranezze. Circolano molte voci, molte storie, sull’origine della sua follia; a partire dagli anni novanta del xix secolo, avvinto dai versi del Demone di Lermontov, egli aveva cominciato a dipingere, con un’ossessione che si era trasformata in una sorta di monomania, quadri ispirati al poema: la prima raffigurazione di un Demone seduto è del 1890; nello stesso anno, scolpì una Testa di demone, e ne disegnò molte altre: il demone ha quasi sempre lo stesso volto, quello di un giovane malinconico e irrimediabilmente solo, con occhi grandi e liquorosi e la testa coperta di ricci che non riescono, però, a proteggerlo né a nascondere il suo languore; seguono un Demone abbattuto e molti Demone seduto, una Lotta tra Faust e Mefistofele e una raffigurazione dell’amore tra Tamara e il demone, sempre di ispirazione lermontoviana. Componendo il Demone abbattuto, pare che Vrubel’ avesse mescolato ai colori della polvere di bronzo, che nelle sue intenzioni avrebbe conferito una certa luminescenza al soggetto, rendendo esplicita la sua origine ultraterrena. Ma il pittore non aveva tenuto in considerazione, o per lo meno è così che molti la raccontano, il processo di ossidazione del bronzo, che nel giro di breve tempo modificò la colorazione e l’espressione del demone, il quale divenne, in modo del tutto indipendente dalla volontà del suo creatore, un essere cupo, smorto, lontano dalla bellez­za malinconica che egli aveva immaginato per lui. Gallerie e collezionisti, turbati da qualcosa di sulfureo che scorgevano nell’espressione di questo diavolo afflitto, respinsero il quadro, e qualcuno ancora oggi sostiene che la follia di Vrubel’ ebbe inizio proprio per via di quel dipinto che, in modo misterioso, si era modificato da solo. All’inizio del xx secolo, l’ossessione demonologica del pittore in parte si attenuò, per fare posto alle conchiglie e a quelle rappresentazioni cristologiche della cui rovina a opera del diavolo, però, Vrubel’ si lamentava con Brjusov: ormai, il demonio aveva rovinato irreparabilmente la sua psiche.
Aleksandr Blok, forse con Anna Achmatova e Osip Mandel’štam il poeta più grande che la lingua russa ci abbia dato dopo la morte di Puškin, guardò ai quadri maledetti di Vrubel’ per comporre, tra il 1910 e il 1916, alcune liriche di carattere esplicitamente demonologico e ispirate, ancora una volta, al poema di Lermontov: sono poesie piene di maschere, di doppi, di figure demoniache che attraversano le città o si acquattano nelle paludi, e poi di malinconia e di desiderio. In una lirica del 1910, intitolata appunto Demone, sembra che il poeta narratore, durante un amplesso, abbia una visione della morte della sposa: si tratta, quasi, di una riscrittura del momento chiave del poema lermontoviano, quando il demone riesce finalmente a sedurre la bella Tamara; ma il bacio del diavolo è maledetto: Tamara muore e il demone torna nella condizione in cui è sempre stato e da cui ha tentato di fuggire, la solitudine.
Scritto, ripensato e riscritto per almeno otto volte, Il demone, la cui ultima redazione è del 1841, anno in cui il suo autore, Michail Lermontov, trovò la morte a soli ventisette anni in un duello, è non solo l’opera di una vita di una delle voci più malinconiche e allo stesso tempo ribelli della letteratura europea, ma è anche uno dei momenti fondativi della demonologia nelle lettere russe. Il tema portante del poema è tradizionale e già frequentato da autori dell’Europa occidentale: l’amore di un demone per una fanciulla e la sua seduzione. Solo, affetto da un’irredimibile malinconia, il demone protagonista del poema si invaghisce di Tamara, una ragazza che, per contrasto con le afflizioni del protagonista, è piena di gioia, leggerezza, amore. Per conquistarla, il demone si sbarazza del fidanzato della fanciulla, facendola piombare nella disperazione: ma egli è una creatura ultraterrena e sa come farla rifiorire e farle di nuovo provare amore e fiducia. Le promette, mefistofelicamente, di donarle la conoscenza, benché egli, in cuor suo, non vi creda: per il demone, infatti, ogni conoscenza è effimera; egli è uno scettico, uno spirito di negazione che, in fondo, disprezza il mondo poiché lo sa imperfetto (è un tema, questo, che riverbererà anni più tardi in un altro grande personaggio faustiano della letteratura russa: Ivan Karamazov). Tamara è invece ingenua, pura, e si lascia sedurre senza sospettare che il vero scopo del demone non sia trovare l’amore, ma far leva sulla sua devozione per riottenere l’armonia perduta dopo la cacciata dal paradiso. Morta, Tamara viene portata nei cieli tra le braccia di un angelo, e ciò scatena la gelosia del demone, che si scopre umano e vulnerabile: ha provato a redimersi attraverso l’inganno e l’egoismo e dunque, anziché trovare salvezza, ripiomba nella condizione di miseria e dolore da cui voleva affrancarsi all’inizio del poema.
Questa è, per sommi capi, la vicenda raccontata da Lermontov e di cui i lettori di questa antologia avranno in assaggio un solo capitolo, per quanto ghiotto: l’episodio del bacio e della dannazione.
Ma non è, ovviamente, per via degli eventi che vi capitano che Il demone è un’opera ­matrice. Qualcuno ha sostenuto che Lermontov sia stato il primo a introdurre nella letteratura russa «il problema religioso del male», e che ciò sia accaduto proprio con Il demone.
Nella tradizione ebraico-­cristiana, il demonio ha molti nomi, ma i fondamentali sono, oltre a diavolo, Lucifero e Satana: come Lucifero, egli ricorda il paradiso perduto, quando era l’angelo della luce; come Satana, invece, egli rappresenta l’oscurità, la negazione, l’odio, la morte. Nel suo poema, Lermontov sembra porre come condizione fondamentale per il suo demone quella di essere qualcuno che è stato portatore di luce e che si strugge di nostalgia per quel passato santo; allo stesso tempo, e per ben quattro volte, il poeta si riferisce al suo protagonista chiamandolo esplicitamente «Satana»; è del tutto evidente, infine, che il «demone» (demon) a cui il poeta si riferisce non sia uno spiritello, ma un «demonio» (bes), e questa differenza, nella letteratura russa, non è di poco conto. In ogni caso, egli è capace di passione e di tensione verso il Bene, ma inevitabilmente cade nel Male: è dunque, in quanto angelo caduto, uno spirito ambiguo, inafferrabile, che illumina e crea ma che può uccidere (e ne è cosciente) con un bacio; sa dare e ricevere fiducia, ma vive divorato dall’egoismo e dall’ambizione. È insoddisfatto, incompleto come un eroe romantico, eppure conosce tutto e vede tutto. Non scorge nessun significato morale nella vita terrestre, eppure, da qualche parte nel profondo, desidera quella pace che l’ignoranza delle cose oltremondane garantisce agli esseri umani e che lui, evidentemente, non potrà mai raggiungere. La natura ambigua e polimorfa del demoniaco fu dunque definitivamente codificata nelle stanze del Demone di Lermontov, rendendo il poema un’opera che, si può dire, mise per la prima volta a sistema ciò che la letteratura, il folklore, la religiosità, la superstizione e le importazioni dall’Europa occidentale avevano fino a quel punto elaborato in forma frammentaria.

Amparo Dávila, una scrittrice dall’oscurità

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Il 24 settembre 2020 Safarà pubblica per la prima volta in Italia la prosa indimenticabile di Amparo Dávila, maestra indiscussa di quella narrativa «strana» che sonda l’oscuro, in un libro di testi brevi che ha per titolo L’ospite e altri racconti , nella traduzione di Giulia Zavagna. Noi siamo felici e orgogliosi di darvene un’anteprima pubblicando – grazie alla gentile concessione dell’editore – l’appassionata prefazione di Alberto Chimal (sempre nella traduzione di Giulia Zavagna) che riesce a darci un’idea della complessità di questa scrittrice immensa e ancora poco conosciuta nel nostro paese.

Amparo Dávila
Una scrittrice dall’oscurità

In Messico, nel 2020 – l’anno in cui scrivo queste parole – Amparo Dávila è una scrittrice che non ha praticamente bisogno di presentazioni al pubblico lettore. È una celebrità, soprattutto tra le donne, e ancor di più tra le giovani donne, perché è anche un’icona: mancata pochi mesi fa, all’età di novantadue anni, è morta con la consapevolezza che il suo nome fosse più riconosciuto che mai, dopo decenni di oblio e disdegno da parte della cultura letteraria del paese. La sua biografia è tra gli emblemi della lotta delle donne messicane ai pregiudizi e alla discriminazione che hanno subito per secoli.

Tuttavia – e contrariamente all’idea che si ha della letteratura messicana nel resto del mondo – Dávila non è stata una scrittrice che ha messo l’attivismo o la denuncia al centro delle sue opere. Non ha composto lunghi e densi romanzi di tematiche sociali, né men che meno è autrice di testi di non fiction o autofiction. Al contrario, è stata poetessa e cuentista, scrittrice di racconti, e nella prosa si è dedicata esclusivamente a un tipo molto particolare di storie: una peculiare forma della narrativa dell’insolito, o del fantastico, che ha messo in difficoltà intere generazioni di critici. Il Premio Nacional de Cuento concesso dall’Instituto Nacional de Bellas Artes porta il suo nome dal 2018, ed è certo un omaggio che conferma la sua posizione di rilievo; eppure i suoi testi non sono in alcun modo «rappresentativi» di ciò che oggi ci si aspetta da un autore messicano contemporaneo. La sua opera è affascinante tanto per questa stranezza, per questo suo carattere improbabile, quanto per la sua profondità e bellezza.

Nata nel 1928 a Pinos, nello stato di Zacatecas, Dávila scoprì la lettura – come ha raccontato in diverse occasioni – nella biblioteca di suo padre. Di quattro fratelli, solo lei sopravvisse all’infanzia. Questi precoci contatti con il linguaggio e con la morte sembrerebbero collocarla nella tradizione di Edgar Allan Poe, Horacio Quiroga e molti altri autori nelle cui opere l’orrore e l’oscurità della vita si fondono con la scrittura, ed effettivamente Dávila appartiene a questo filone. La sua carriera ha però dovuto affrontare un ulteriore ostacolo: è stata intermittente, con lunghi periodi di silenzio, perché segnata dalle disuguaglianze che oggi le sue ammiratrici più agguerrite combattono.

Sebbene la sua situazione familiare e il fatto di essere cresciuta in una regione conservatrice del paese sembrassero destinarla a una vita domestica, Dávila si adoperò per scrivere e pubblicare fin da subito. Era ancora giovanissima quando si trasferì a Città del Messico: per quasi tutto il ventesimo secolo, vivere nella capitale rappresentava nella pratica l’unica alternativa possibile per gli aspiranti scrittori e, nonostante fosse ancor più difficile per le donne, Dávila riuscì a farsi strada. Lì pubblicò – anche se con lunghi periodi d’attesa tra un titolo e l’altro – i suoi tre libri più importanti: Tiempo destrozado (1959), Música concreta (1964) e Árboles petrificados (1977).

Dopo che Árboles petrificados ottenne il Premio Xavier Villaurrutia, uno dei più alti riconoscimenti letterari del paese, l’autrice non pubblicò altri inediti, e si dedicò principalmente alla famiglia che aveva formato con l’artista Pedro Coronel. Per anni la sua opera divenne una sorta di fantasma, che vagava nei libri prestati di mano in mano, nelle fotocopie di fotocopie, nei consigli entusiastici di una manciata di adepti. Dovette attendere molto per il riscatto e la sua finale consacrazione: il quarto di secolo che va da Muerte en el bosque (1985) – l’antologia di racconti che la presentò a una nuova generazione – alla prima edizione dei suoi Cuentos reunidos (2009), che l’ha resa definitivamente parte del canone nazionale.

Tra i vari elementi, ciò che più attrae nell’opera di Amparo Dávila è proprio questa sua fama di segretezza, di difficile accesso. Ma chi vi si addentra ha anche la possibilità di scoprire perché è davvero singolare.

Per quanto in Messico esista una tradizione (non sempre riconosciuta) di immaginazione fantastica, e in particolare del racconto del sinistro – Das Unheimliche, il perturbante secondo Freud, che troviamo anche in autori molto celebri quali Julio Cortázar, Elena Garro o lo stesso Gabriel García Márquez – Dávila è stata la prima a scrivere racconti «extraños» partendo proprio l’esperienza delle donne messicane in relazione al contesto sociale in cui vivevano. Nessuno in Messico aveva mai provato quella combinazione così particolare e precisa di ambiente quotidiano, domestico, angosciante – in cui lei stessa ha vissuto – con l’oscuro: la cognizione di qualcosa di indecifrabile, una o molte possibilità di esistenza diverse dall’abituale e perfino dall’umano. Nei suoi racconti, il mistero non si spiega mai, né viene mitizzato, ma rimane informe, diventando quindi fonte inesauribile di angoscia, di inquietudine. Chi legge Amparo Dávila non saprà mai esattamente identificare le minacce che le sue protagoniste, quasi sempre donne, si trovano ad affrontare. Come scaturisce la pazzia, perché avviene l’invasione di creature misteriose, quando è cominciata la dissoluzione della realtà stessa: sono domande a cui nessuno può rispondere. E nei mondi di Dávila, il massimo che si può fare è tenere a bada il pericolo: i suoi personaggi sono molto lontani dall’imposizione, dalla guerra, dalla conquista, da questo e dall’altro lato dello specchio. E tuttavia, resistono.

Come alcune altre celebrità letterarie messicane, Amparo Dávila preferiva dare ai suoi racconti fantastici un altro appellativo, per proteggerli da un ulteriore pregiudizio: quello che la cultura del mio paese ha, perfino oggi, contro l’immaginazione fantastica come risorsa estetica e possibilità di riflessione. Lei scelse l’aggettivo «vivencial» – a indicare ciò che nasce dal vissuto, dalle esperienze – con cui sottolineava la parte più personale delle sue influenze. Ancora oggi, più di un critico prende alla lettera questa manovra elusiva, e si affanna nel tentativo di ridurre racconti come L’ospite, Tiempo destrozado o La señorita Julia a esempi di «scrittura testimoniale» o di «letteratura femminile» (categoria di per sé sessista, evidentemente). Ma Amparo Dávila va oltre tutte queste letture. L’oscurità – in casa, in città, nell’universo – diventa sua alleata, e insieme ci chiamano, ancora una volta, per raccontarci le loro storie e i loro enigmi.

 

Alberto Chimal Città del Messico, agosto 2020

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GLI DEI NOTTURNI, EFEMERIDI, L’ORA DEL DESTINO. Tre sguardi tra realtà e sogno

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di Debora Lambruschini

Pezzi di vita. Tra realtà e finzione, Danilo Soscia inventa sulla pagina ossessioni, desideri, fragilità e angoli oscuri di quaranta personaggi del Novecento, protagonisti del mondo della cultura, della politica, dello spettacolo. A legare le storie de Gli dei notturni – vite sognate del ventesimo secolo (minimum fax), la dimensione onirica mediante la scrittura immaginifica dell’autore che contribuisce a creare il senso di inafferrabilità, di effimero, in un continuo dialogo tra realtà e finzione, sogno e veglia, insieme alla connotazione temporale, quel secolo breve di cui i personaggi scelti sono stati in qualche modo protagonisti. Soscia immagina i sogni, che molto spesso rivelano le profondità più dolorose e oscure di questi personaggi, il confronto con la morte, la perdita, la fragilità del reale, la sete di vita e di arte, in quaranta brevi racconti che sono frammenti di vite in una dimensione sospesa e inafferrabile.
Il mondo onirico è una costante nella storia letteraria e del pensiero, con cui scrittori, drammaturgi, filosofi, psicanalisti, si sono via via confrontati nel tentativo di immaginare e interpretare i significati nascosti dentro il sogno, una terra di confine, sorta di limbo in cui Soscia colloca i suoi dei, cercando di ricostruirne l’interiorità spogliata dei ruoli pubblici che normalmente sono chiamati a ricoprire. Un esercizio letterario ambizioso, retto da un’immaginazione ricchissima e una scrittura elegante, capace di calarsi nelle pieghe più oscure dell’animo umano, nell’orrore e nella bellezza, nel quotidiano e nella fantasia più irreale. Santi e peccatori, ma tutti umanissimi: Marilyn Monroe, giovane operaia in una fabbrica di fusoliere e già il presagio della disperazione e della solitudine future; Sylvia Plath impegnata a riscrivere il mito di Dedalo e Icaro, per allontanare i fantasmi che la distruggeranno; Julio Cortàzar esule in Francia che insegue se stesso; Pier Paolo Pasolini che va incontro alla morte, magnifico e tragico in quell’ultima notte; Janis Joplin che scopre la propria voce nascere dalla disperazione; la solitudine di Antonio Ligabue, affamato d’amore, artista osannato, uomo respinto; e, ancora, Eva Braun, Charlie Parker, Alda Merini, Rudolf Nureyev e tanti altri protagonisti del Novecento, esseri umani contraddittori, fragili, demoni e santi.

Un tempo, quando si sopravviveva a un naufragio, si donava la propria tunica al dio del mare in segno di gratitudine, e di resa. Sulla soglia della stanza, scelsi di cedere proprio quella coperta che nel dormiveglia avevo intessuto. Ma il dolore non passò, rimase al mio fianco, a darmi struttura, parole, conforto. A niente era valso sopravvivere alla tempesta.

(Sylvia Plath)

Il sogno, quindi, la collocazione temporale e lo stile uniforme, sono il fil rouge che lega i quaranta racconti di Soscia.
C’è qualcosa che affascina nei brevi ritratti fra verità e invenzione letteraria, che talvolta ci danno la possibilità di osservare da un punto di vista inedito l’uomo e l’artista, colti in un momento particolarmente significativo della vicenda biografica o professionale. Non mancano in questo senso esempi notevoli, tra cui due in questa sede mi sento di ricordare, di natura diversa dai racconti di Soscia e ugualmente interessanti, per scelte stilistiche, intenti, spunti di riflessione. In un catalogo piuttosto ampio di testi che possiamo ascrivere al filone qui indicato, dai classici greci e latini fino al più assoluto contemporaneo narrativo, mi sembra interessante soffermarsi su due testi come L’ora del destino di Victoria Shorr edito da Sem a fine 2019, ed Efemeridi di Cesare Catà uscito per Aguaplano nel 2017. Entrambe, così come il testo di Soscia, sono opere molto differenti fra loro, per stile, tematiche e spunti, ma accomunate dal desiderio di osservare e tentare di comprendere ciò che si cela dietro il ruolo pubblico che conosciamo dei personaggi scelti, provando a coglierne l’aspetto più intimo, il dettaglio minimo che si fa rivelatore e fondante, raccontarne le passioni e le ossessioni, fissandoli in un momento decisivo delle loro esistenze. Sono ritratti intimi, vibranti, in entrambi i casi puntuali nella ricostruzione storico-biografica, che non esauriscono il discorso su un autore e una vita, naturalmente, ma ridanno al lettore il senso di umana partecipazione, aprendo spiragli immaginari sul mondo interiore di scrittori, artisti, personaggi storici.

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Victoria Shorr sceglie di raccontare tre donne: Jane Austen, Mary Shelley, Giovanna d’Arco, in altrettante narrazioni di varia lunghezza e stile accomunate dalla brama di libertà che ha caratterizzato le scelte delle protagoniste. Sono tre donne colte nell’attimo in cui scelgono il proprio destino, frammenti di vita quindi che perfettamente si sposano con la forma racconto. Due scrittrici, una martire, simile il desiderio di libertà, la convinzione delle proprie scelte, la rottura con le convenzioni sociali o morali. Jane Austen ritratta nell’attimo in cui sceglie se stessa, la propria indipendenza, per assumere il ruolo di scrittrice; creare sulla pagina l’armonia perfetta che non ha trovato nella vita reale, instillare nei personaggi tutta l’ironia, la vivacità di pensiero in suo possesso, un limite e una colpa nella vita di una giovane nubile dell’Inghilterra edoardiana, un capolavoro di arguzia nel mondo inventato delle sue eroine.

Aveva scelto il suo lavoro rispetto a quello che si potrebbe chiamare “vita”, il matrimonio, i figli, la sicurezza, la ricchezza. In quanti lo fanno? Specialmente tra le donne dell’epoca. Chi aveva il fegato di farlo? Nessuna. Statisticamente nessuna.

(Jane Austen a mezzanotte)

Quello di Austen è un racconto di intima sofferenza, solitudine che si scontra con un anelito alla libertà e all’indipendenza inusuale per l’epoca in cui è vissuta ma che partecipano al costante dialogo dell’autrice con il contemporaneo.
Amore e libertà, dalle convenzioni e dalla morale, sentimenti e affermazione di sé, la donna e la scrittrice: c’è nel lungo racconto di Mary Godwin – poi Shelley - l’impeto di una donna che prima di tutto vuole essere se stessa. Consapevole delle difficoltà che deriveranno dalle proprie scelte, colta, determinata e fragile insieme. Shorr da voce a una Mary tormentata, in quell’ultima struggente attesa di un ritorno che non potrà essere; è un’anima inquieta, Mary, i fantasmi del passato ne affollano i pensieri, la povertà e l’umiliazione sono fonte costante di preoccupazione. Ed è, ancora, una donna alla ricerca di sé: chi è Mary? Chi sceglie di essere Mary? La figlia di Mary Wollstonecraft e William Godwin, con tutto ciò che un’eredità ideologica di tale livello comporta? La moglie di Percy Shelley, il cui amore provoca una rottura con la famiglia d’origine, le convenzioni, la morale? La madre spezzata dal lutto? O, ancora, l’intellettuale, la scrittrice?

Quanto alla sfida, lei era l’unica di tutti loro a prenderla molto seriamente, ritenendola la sua grande opportunità: esserne all’altezza e pubblicare con Byron, oppure ricadere nell’esistenza di una donna qualunque. Nella maternità.

(Mary Shelley sulla spiaggia)

 

È una donna e tante donne insieme, e in questa complessità e contraddizione, Shorr costruisce il suo racconto su Mary Shelley, restituendone ancora il dialogo con la contemporaneità. Torna qui il sogno, nella leggenda sulla creazione dell’opera più celebre della scrittrice inglese, Frankenstein, aprendo il discorso al tema della creazione artistica, al mito stesso dell’ispirazione quasi divina e al mondo onirico come limbo in cui trovano spazio i desideri, le ossessioni, i tormenti e le passioni più profondi dell’uomo. Un sonno agitato, infine, rispecchierà nel finale del racconto l’attesa di Shelley, carica di presagi funesti.
È ancora il confine sempre più labile tra realtà e finzione, sogno e veglia, che percorre il racconto di Giovanna d’Arco, colta nell’ora più buia, la notte prima del rogo. Giovanna, sospesa tra realtà e visioni, sogno e veglia, è condottiera e giovane donna impaurita per il tragico destino che l’attende. Il racconto di Shorr – anche in questo caso basato su puntuali fonti storico bibliografiche – si carica di intensa partecipazione e costringe il lettore a confrontarsi con la sua paura, i dubbi, tra fede e razionalità. Il sogno di Giovanna è la Francia unita, ma soprattutto anche in questo caso la libertà di una donna di essere sé stessa.

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Altri sogni, altre ossessioni, altri desideri, legano i racconti di Cesare Catà: ventisette scrittori moderni, da Keats a Hemingway, rappresentati in un istante decisivo delle loro vite. Uomini e donne, prima ancora che artisti. La scrittura di Catà è elegante, effimera, capace di raccontare l’intimo di ognuno di questi personaggi, dalla scoperta dell’amore al tormento della perdita. Un gioco di specchi fra arte e vita, verità storica e invenzione letteraria, alla ricerca di una giornata particolare nella vita di questi scrittori che in qualche modo si è fatta determinante, tanto nel privato quanto nella loro arte. Un dialogo continuo fra l’arte e la vita perché l’una non può esistere senza l’altra. Il sogno è quello più ambizioso, quello che si fa da svegli, l’incubo è quello di un reale sconvolto dalla tragedia. Sono pagine dense di passione letteraria e capacità di introspezione, in cui quelli che sono gli dei notturni di Soscia diventano qui “semplici” uomini e donne mossi dall’amore, dalle passioni, dalle ossessioni che sono di noi tutti. Fragili, umanissimi. Eppure esseri altri. Keats, che l’amore per Fanny ha reso davvero poeta. Tolkien, solo un giovane che inventa lingue sconosciute e crea mondi per l’amata Edith, compagna di tutta la vita. C.S. Lewis e Dante Gabriel Rossetti, accomunati dalla disperazione per la perdita, smarriti, tormentati.

 

Gli sembrò di impazzire. La ritrasse ancora, nel suo dipinto più riuscito, Beata Beatrix, musa mistica rapita dall’estasi del morire. La seppellirono nel cimitero di Highgate insieme alle poesie da lei scritte e all’unica copia dei versi composti da Rossetti. Lui rinunciava così, abbandonando le proprie opere, al suo cuore. Le chiedeva vanamente perdono, suicidando nella bara la parte più importante di sé.
(Dante Gabriel Rossetti).

 

Molto più che un esercizio letterario, questi tre libri, arguti e intelligenti, sono un’indagine puntigliosa negli angoli più bui dell’animo umano.

La grande caccia a Carlo H. De’ Medici

http://www.cliquot.it/

La grande caccia a Carlo H. De’ Medici
La storia di un libro riscoperto nel buio


di Andrea Cafarella

Ci sono le storie nei libri e ci sono le storie dei libri. E, allo stesso modo di come non tutte le storie contenute nei libri sono interessanti o avvincenti, anche la biografia di un libro o del suo autore non nasconde necessariamente misteri o aneddoti dalle caratteristiche magnetiche, coinvolgenti o illuminanti. Anzi, quasi tutte le storie (nei e dei libri) normalmente sono molto semplici e anche noiose, banali.
A volte può succedere che un libro sia molto interessante ma il suo concepimento, come la sua storia editoriale, abbia comportato una serie di avvenimenti abbastanza comuni, poco originali e quindi anche trascurabili.
È vero anche esattamente l’opposto: non è detto che, quando alla storia dell’autore – o del concepimento del libro, o del suo futuro in forma d’oggetto cartaceo – corrispondono avvenimenti straordinari o molto affascinanti, allora il libro in questione debba essere sistematicamente un capolavoro. Tuttavia, devo ammettere che la mia sensazione è che spesso, se l’elemento eccezionale risiede nella biografia del libro, allora è più possibile – rispetto alla situazione inversa – che quel libro sia davvero splendido o comunque detenga un fascino suo proprio. Almeno dopo l’ultima prova: il filtro del tempo. La grande vagliata di Chronos.

Quello che intendo dire è che, seppure la storia di un autore misterioso (che scrive sotto pseudonimo, per esempio e di cui “non si conosce” la reale identità) possa risultare avvincente – dopo un’attenta operazione di marketing attraverso cui il “mistero” viene raccontato –, se i suoi libri, la sua letteratura non è all’altezza della Storia, scomparirà assieme alla sua storia editoriale e/o privata. In fondo: chi si darebbe la pena – quando e se attraverserà quel periodo, naturale, in cui la notorietà del momento lascia spazio a un progressivo anonimato – di perpetrarne la memoria? Mi sembra parecchio più semplice e sensato immaginare che un lettore-custode della memoria, disposto a bisbigliare, nel nulla e nella dimenticanza, il nome dell’autore di cui ha scelto d’essere il vassallo, in attesa di qualcuno che lo ascolti e inizi a costruire una nuova catena di lettori in grado di riesumarne le parole, fino addirittura a riportarle in libreria, al cospetto di tutti; ecco, mi pare più logico pensare che codesto lettore-custode scelga un autore di memorabili pagine piuttosto che della qualsiasi serie di romanzetti qualsiasi, identici a mille altri (ma anche questo non è detto).

È certo, tuttavia, che esistono rari, rarissimi casi, in cui le due storie – quella o quelle nel libro e quella o quelle del libro – si equivalgono in fascino. È a quel punto che il lettore accorto e avventuroso si lascia trascinare dagli indizi nella faticosa e grandemente remunerativa caccia al mistero. Il lettore di cui parlo, effettivamente, è un cacciatore.
I lettori-cacciatori possono essere persone molto diverse, fare i lavori più disparati, avere passatempi e ossessioni impensabili, eppure vi è una categoria che non può non far parte della cerchia segreta dei lettori-cacciatori di cui parlo. Ed è quella del buon editore.
Un buon editore caccia per mestiere, la preda sarà il suo cibo e dal buon esito della caccia dipenderà la sua sopravvivenza. La caccia è la sua vita, la voglia istintiva di vivere e la paura della morte sono le sue motivazioni, per ciò un buon editore sarà sicuramente, innanzi tutto, un buon cacciatore.  O un cacciatore morto.

Presentiamo qui, all’acuto lettore, la storia di una caccia. La caccia di uno dei più attenti editori italiani degli ultimi anni, in cerca di una preda sfuggevole e che si muove nell’ombra più nera.
Federico Cenci (Cliquot) ci racconta la loro «più affascinante e rocambolesca avventura editoriale», la grande caccia all’orso. Come se fossero le ore passate, in attesa, davanti alla buca scavata nella lastra di ghiaccio, dalla quale, in ogni momento, potrebbe tornare a galla, per respirare, la foca scura nascosta nelle profondità delle acque. Descrive l’equivalente delle notti sul ponte della Pequod o quelle passate nelle profondità di un castello in Transilvania. Riferisce meticolosamente gli avvenimenti occorsi durante la riscoperta di Gomòria e de I topi del cimitero, i primi due libri ripubblicati da Cliquot a nome di Carlo H. De’ Medici.
Il testo che vi proponiamo (la prefazione al volume I topi del cimitero, Cliquot, 2019) è solo l’inizio dell’appassionante racconto di questa caccia all’uomo – o meglio, al fantasma. Appassionante, forse, quasi quanto gli stessi racconti che contiene, la cui «forza magnetica oscura» riesce ancora a corroborare i pensieri e la cui «prosa raffinata, ponderata, mai banale, degna del miglior Decadentismo italiano» non può che dare un ulteriore valore alla prelibata carne di questo poderoso animale mitologico. È dai suoi resti fossili che quelli di Cliquot – come versioni editoriali del caro vecchio Hammond (e speriamo con esiti differenti) – sono riusciti a restituire questo animale estinto, alla vita. Hanno dovuto donare il loro sangue alla bestia, legandosi così a un patto. Con un demone o con un fantasma, non importa. Di sicuro un patto con le parole: parole che nascondono e perpetuano una forza occulta e piena di vita – e quindi anche di Morte. Per questa, e molte altre ragioni inconoscibili, il nome di chi le ha vergate suona come un richiamo per il lettore-cacciatore, coi sensi sempre all’erta, in attesa di un rumore nel silenzio, di una traccia nel buio, dell’antroponimo altisonante di uno spettro, rimasto tra noi, di sicuro, poiché ha ancora qualcosa di veramente essenziale da dire.


Ringraziamo l’editore (Cliquot) per averci permesso la pubblicazione del testo.

*

 

Carlo Hakim De’ Medici: storia di una riscoperta

di Federico Cenci

 

Mais le saint homme
Prend un chenet, frappe & l’assomme.
C’est où l’attendoit Belzébut.

A.      Piron


Quando una copia di Gomòria di Carlo H. De’ Medici, nell’edizione originale Facchi del 1921, fu recapitata all’indirizzo di Cliquot alla fine del 2017, nessuno in redazione poteva sospettare che stava per avere inizio la nostra più affascinante e rocambolesca avventura editoriale.
Ancora oggi, infatti, la nebbia di mistero che avvolge questa sfuggente figura d’autore non accenna a diradarsi: non solo perché sulla vita di Carlo H. De’ Medici c’e ancora tanto, tantissimo da scoprire, ma anche perché́ le poche e contraddittorie notizie di cui siamo entrati in possesso si sono spesso modificate inspiegabilmente davanti ai nostri occhi, come animate da forze imperscrutabili, mentre altre continuano con ostinazione a negarsi alla nostra conoscenza.
Se a decidere quali informazioni renderci più o meno accessibili sia, a un secolo di distanza, la volontà sovrannaturale dello scrittore stesso – che fu studioso di scienze esoteriche e alchemiche – o se si tratti semplicemente dell’accanimento del caso, è una questione che lascio alla sensibilità̀ di ciascun lettore. Quel che è certo è che una serie di fortunate coincidenze (l’inatteso suggerimento di un nostro cliente proprio quando era disponibile una sola copia originale su eBay, il prezzo contenuto per un libro di tale rarità, e non ultimo, a ripensarci, una curiosa urgenza interiore che mi indusse a premere il pulsante dell’acquisto) portò sulla scrivania della nostra redazione l’unica copia di Gomòria disponibile in quel momento su tutto il mercato dell’antiquariato.
Il libro fu una folgorazione. Conteneva una serie di xilografie di diabolica potenza evocativa, firmate con le iniziali CHM, e ricordo con chiarezza che mi bastò la lettura delle prime pagine per capire che avevo tra le mani un testo carico di una forza magnetica oscura, in cui si fondevano affanni divini e terreni, misticismo e concretezza materiale, spirito e carne. Fra tanti scrittori gotici del primo Novecento – perlopiù artigiani indulgenti con la propria scrittura, lesti fabbricanti di intrattenimento facile – ne avevo finalmente trovato uno che, oltre ad aver letto Poe, Villiers de L’Isle-Adam e Huysmans, inseriva nelle sue storie elementi inediti e personali, frutto delle sue ricerche interiori, del suo cammino iniziatico, del lungo studio di antichi testi di occultismo. E, soprattutto, uno che scriveva bene: una prosa raffinata, ponderata, mai banale, degna del miglior Decadentismo italiano.
In redazione decidemmo subito che il libro andava ripubblicato. Tuttavia, la ricerca di informazioni biografiche sull’autore si rivelò fin da subito incredibilmente difficoltosa. Inizialmente sembrava che fosse nato nel 1877, e così abbiamo scritto nella nostra prima edizione di Gomòria; nuove fonti ci inducono però a credere che la sua data di nascita sia in realtà il 29 agosto 1887. La data di morte, al contrario, è ignota (...se l’autore è in effetti morto, verrebbe lugubremente da pensare sapendolo studioso di alchimia!), e rimane uno dei tanti misteri di cui non siamo ancora venuti a capo.
Ci mettemmo in contatto con l’esperto di avanguardie artistiche Guido Andrea Pautasso, l’unico studioso che, a nostra conoscenza, avesse mai messo per iscritto il nome di Carlo H. De’ Medici. Pautasso ricostruì lo strano intreccio libresco intercorso fra l’autore e due notevoli esponenti della letteratura triestina dell’epoca, Anita Pittoni e Italo Svevo, raccontando poi le sue scoperte nella postfazione alla nostra edizione di Gomòria, alla fine del 2018.
Ma oltre a quella che potremmo definire la “pista triestina”, seguimmo – e stiamo seguendo tuttora – anche una “pista gradiscana”. Gradisca d’Isonzo è un comune in provincia di Gorizia che attualmente conta circa seimila abitanti e dove De’ Medici, stando alle sue stesse indicazioni nelle ultime pagine di Gomòria, scrisse parte del romanzo nel 1921.
Ci giunse prestissimo la conferma che alcune lettere autografe dell’autore erano conservate negli archivi della biblioteca civica comunale di Gradisca. Incredibilmente, cosa ci sia scritto non ci è ancora dato saperlo: una serie di scogli burocratici ci impedisce da due anni di posare gli occhi su quelle lettere. Un altro scherzo del caso o, per chi lo preferisce, di qualche volontà ultraterrena...
D’altro canto, scoprimmo che a Gradisca esiste un’imponente abitazione denominata ancora oggi Villa De’ Medici, su cui solo di recente abbiamo ottenuto alcune notizie grazie all’aiuto del gradiscano Furio Gaudiano, gestore di un b&b e appassionato ricercatore di storia locale, al quale siamo debitori per la maggior parte delle informazioni che posso adesso raccontare.

Villa De’ Medici è situata in una zona abbastanza centrale dell’attuale Gradisca, ma è in posizione molto discreta, e dalla strada, quasi, non si vede. Una volta varcato il cancello e percorso il vialetto ghiaioso circondato da una fitta vegetazione che nasconde la casa agli sguardi curiosi, l’edificio principale a tre piani, con sei finestre sul lato lungo, compare alla vista in tutta la sua solida maestosità. Più discosti, altri stabili che un tempo erano adibiti a stalle e rimesse per le carrozze.
Sopra il portone è conservato ancora, miracolosamente, lo stemma dei De’ Medici, che ha poco a che vedere con quello dell’omonima casata fiorentina (se non per la comune presenza di qualche bisante) e contiene invece, dentro uno scudo più piccolo, un animale rampante sovrastato da un cane accucciato simile a quello di p. 79.
L’interno della villa è oggi molto diverso da come doveva essere agli inizi del Novecento: gli enormi saloni di un tempo hanno lasciato il posto a stanze di dimensioni più ridotte, come se la mutevolezza degli spazi fisici volesse testimoniare simbolicamente il labirintico affanno del nostro percorso verso la conoscenza di Carlo e dei suoi scritti.
In passato, inoltre, l’architettura della casa era organizzata intorno a una scala a chiocciola, posizionata in modo tale – stando a certe voci – da dare all’intera struttura un significato esoterico; purtroppo, è difficile fare supposizioni al riguardo. Si racconta però che una volta, entrando in casa, una sensitiva si arrestò improvvisamente sulla soglia, come percependo influssi sinistri...
Stando alle informazioni in nostro possesso (ma anche qui le fonti sono parzialmente discordi), la villa fu costruita proprio nell’anno di nascita di Carlo, letteralmente sulle ceneri di un’antica fabbrica di surrogati di caffè, che “andò in fiamme – si disse per ‘incendio doloso’ – e la proprietà venne acquistata dal ricco banchiere parigino De’ Medici”.

Sull’incendio doloso sarebbe interessante indagare, se fosse mai possibile. Finora abbiamo appurato che il padre di Carlo, Giovanni Hakim (che con regio decreto del 1889 fu autorizzato a chiamarsi De’ Medici, con il diritto di estendere il cognome ai figli), era davvero un ricco banchiere ebreo parigino, mentre il nonno Giuseppe Hakim era stato amministratore della sinagoga Eliyahu Hanavi ad Alessandria d’Egitto. Che cosa abbia portato la famiglia Hakim a spostarsi da Alessandria d’Egitto a Parigi, per poi stabilirsi in una piccola località di provincia come Gradisca, allora facente parte dell’Impero austro-ungarico, è un altro mistero. A chi si accontentasse di una risposta semplice potrei dire che Gradisca, all’epoca, ospitava una piccola comunità ebraica, residuo di un antico ghetto. A chi fosse invece più sensibile alle suggestioni sovrannaturali (e dato che questa è una raccolta di racconti gotici, mi auguro che siate in tanti) dirò invece che, secondo alcuni, Gradisca sarebbe un importante punto di snodo tra varie correnti energetiche: forze arcane che si incrociano e confluiscono sotto l’antico castello, edificato su un atipico sperone carsico isolato nella pianura noto come Sperone degli spiriti.
Poco altro è quello che abbiamo scoperto: probabilmente Carlo si trasferì a Gradisca dopo la morte del padre, nel 1900, assieme a sua madre (altra figura enigmatica: donna di famiglia non ricca, non nobile, nativa di Eichstätt, in Baviera, cittadina celebre per un’accanita caccia alle streghe fra Seicento e Settecento); successivamente, nel 1921 – forse dopo aver sperperato la fortuna di famiglia per i suoi studi magici e in qualche investimento sfortunato – vendette la villa e si trasferì da qualche parte in Lombardia. E qui ne perdiamo le tracce.

Ma anche se la ricerca è ancora ben lontana dall’essere completa – a tutto beneficio del tenebroso mistero che avvolge la figura dell’autore – quello che possiamo fare è riscoprire pian piano gli scritti che Carlo H. De’ Medici ci ha lasciato. È proprio grazie alla sua bibliografia, e ai temi che trattò nelle sue opere, se possiamo confermare che fu un dotto studioso di scienze occulte, un uomo che per tutta la vita inseguì il sogno di un’evoluzione interiore che potesse portare al disvelamento di verità supreme. La lettura de I topi del cimitero, con il quale Cliquot prosegue la riproposta delle sue opere narrative dopo Gomòria, non potrà che confermare questa visione: nello scorrere le pagine di questi “racconti crudeli” (pubblicati per la prima volta nel 1924 da Bottega d’Arte di Trieste), ci si accorgerà subito che il sottofondo gotico è quasi un pretesto per esprimere i caliginosi rimestii di un’anima profondamente inquieta (ma anche mestamente autoironica). Tutte le storie sono narrate in prima persona, e l’azione, spesso sfuggente, lascia spazio ai voli dell’intelletto verso le regioni sconosciute oltre la materia; ciò che resta è un grido di dolore per la frustrazione di una mancata fusione col Tutto, la somma tragedia dell’esistenza umana.
In coda al volume pubblichiamo una selezione di racconti tratta da quella che, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere una sorta di nuova edizione rivisitata de I topi del cimitero, ovvero la rarissima raccolta Crudeltà (La Sfinge, Milano, 1927), di cui conosciamo una sola copia originale esistente: altro piccolo mistero nel mistero.

Trenta racconti per trenta traduttori

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Dal 21 Novembre 2019, è in libreria La babysitter e altre storie, l’attesa raccolta di racconti di Robert Coover, pubblicata da NN editore; un libro che ripercorre la carriera di uno dei padri della letteratura americana.
Un progetto ambizioso, intelligente e riuscito in cui viene esaltato il ruolo del traduttore e quello delle parole che traduce. I trenta racconti, infatti, sono stati affidati a trenta traduttori diversi, per restituire la gamma sfaccettata e multicolore di cui è intarsiata la scrittura di Robert Coover.

Cattedrale vi propone i commenti di alcuni dei traduttori coinvolti, che ci hanno raccontato come hanno vissuto questo progetto, introdotti dalla postfazione di Serena Daniele che ha curato il testo con Luca Pantarotto.

Qui, invece, potete leggere uno dei racconti contenuti nella raccolta.

*


Serena Daniele

Quando ‘La babysitter e altre storie’ è arrivato nella redazione di NNE, circa un anno fa, abbiamo capito subito che non si trattava di un libro come gli altri. Piuttosto, era come un forziere pieno di tesori: tra quelle pagine c’erano testi che abbracciavano mezzo secolo di carriera letteraria di un unico autore, dal 1962 al 2016, e contenevano di conseguenza anche mezzo secolo di rivoluzioni – del linguaggio, del gusto, della tecnologia, della politica, dei media. Un pezzo di storia della letteratura e della società americana dalla seconda metà del Novecento a oggi. Estratti dal forziere, i tesori si mostrano in tutta la loro pienezza. Se con ragione Luca Pantarotto ha definito Robert Coover come “il quinto moschettiere del postmoderno”, La babysitter e altre storie va oltre e dichiara che di quei cinque Coover è probabilmente il più attuale e incisivo; che i suoi temi riguardano l’arte e la sua creazione, la vita, la morte, il sesso e l’esistenza di un unico tempo, il presente, dove le azioni umane lasciano tracce effimere come i cerchi nell’acqua. Coover si innalza sopra la sua stessa epoca, è acuto e lucido fin quasi a diventare corrosivo, ma è anche commovente – caratteristica piuttosto insolita per uno scrittore capace di evitare con grande maestria ogni convenzione narrativa legata ai sentimenti. E infine, ogni racconto della raccolta possiede una qualità letteraria del tutto autonoma, una molteplicità di voci e di stili che spazia in ogni genere letterario, che trabocca di riferimenti culturali e usa con disinvoltura linguaggi diversissimi fra loro. Per rendere tutta questa ricchezza abbiamo deciso di affidare ogni testo a un traduttore diverso. In questo modo potevamo raggiungere due obiettivi: condividere la raccolta con un primo cerchio di lettori forti, motivati e sensibili; e “doppiare” in italiano ciascuna delle voci letterarie di Coover. Per alcuni racconti abbiamo scelto noi i traduttori, per altri abbiamo lasciato che racconto e traduttore si scegliessero a vicenda. Ed è un po’ quello che è successo tra me e Il trucco del cappello: una sorta di attrazione fatale che mi ha spinto fuori dal consueto e confortevole cono d’ombra del lavoro editoriale e mi ha messo alla prova, per una volta, con la lingua viva di Coover. Tradurre quelle poche pagine è stata un’esperienza notevole, come camminare su un filo: cercando di non cadere di volta in volta nel banale o nell’artificioso, nella tentazione a semplificare o a complicare inutilmente, e senza mai perdere di vista la lingua di partenza e quella di arrivo. Sono arrivata alla fine del percorso molto felice e anche un po’ scossa, e ho scoperto, in fase di revisione dei testi, che anche altri fra i trenta traduttori di questa antologia avevano avuto la stessa impressione. C’è chi lo ha definito “uno di quei lavori che compaio no ogni tanto e che, per diversi motivi, si dimostrano indispensabili per trovare la forza di continuare a fare questo mestiere così bello e così terribile al tempo stesso”; chi si è detta “davvero molto fiera di aver dato il mio piccolo contributo a questo libro... ho riletto il mio racconto e no, sinceramente non mi pare che ci sia più nulla da ritoccare, e come si sa, ‘il meglio è nemico del bene’”. Ma anche chi si è sentito “come il protagonista di un romanzo di Lovecraft quando si rende conto di ciò che pulsa oltre il sottile velo del mondo conosciuto e si affaccia per la prima volta sull’abisso della perdita della ragione”. I nomi di chi ha accettato la sfida sono sotto i vostri occhi (a cui aggiungiamo Susanna Basso, che per prima ci ha ispirato questo progetto): sono quelli che hanno viaggiato nell’immaginario di Robert Coover, ripercorrendo un sentiero che va dalla Bibbia alla fiaba, dalla struttura sincopata del cinema allo slang colorato dei cartoni animati, a volte in brevissimi incisi folgoranti e altre volte in descrizioni ampie e minuziose. Per diversi mesi, abbiamo lavorato insieme, noi e loro, leggendoli, commentandoli, a volte correggendoli e ricevendo da loro altri commenti e altre correzioni, fino al risultato finale – per noi, il migliore possibile.

Silvia Pareschi (L'infanzia dell'artista)

Coover per me è stato una grande scoperta, e per questo devo ringraziare NN che lo ha (ri)portato in Italia con tutto il lustro che si merita. Lo conoscevo un po’ da qualche racconto letto sul New Yorker, ma come diceva Calvino tradurre è il migliore modo per leggere un libro, e traducendo Coover me ne sono innamorata. Il racconto a cui sono stata “abbinata” da Luca Pantarotto, L’infanzia dell’artista, è stato una folgorazione. Una lingua precisissima e raffinatissima, una descrizione del lavoro di un’artista che diventa essa stessa un’opera d’arte plastica, visibile, tangibile, un fuoco d’artificio di prosa che fila sempre sull’orlo della comprensibilità senza mai (miracolosamente) abbandonarla e che ha provocato in me che la traducevo (e sono sicura anche in chi la leggerà) un piacere quasi fisico come solo i grandi maestri della letteratura sanno provocare.

Martina Testa (Variazioni su Riccioli D'oro)

Tradurre «Riccioli d’oro» di Robert Coover mi ha dato un piacere particolare: non si è trattato di immergermi nel mondo emotivo di un autore, come mi è capitato spesso negli ultimi tempi traducendo romanzi che sono forme più o meno velate di autobiografia, ma di affrontare un testo che parla fondamentalmente di se stesso, che crea un proprio mondo autonomo con le sue regole, una forma di fiction pura che oggi è più rara di un tempo. È un racconto che ti sorprende di continuo, una storia che cresce a spirale su se stessa invece di andare convenzionalmente dal punto A al punto B, che gioca con il rispecchiamento, la parodia, i rimandi interni (la cassetta degli attrezzi del postmoderno, l’inebriante sapore vintage di una letteratura che si piaceva come falsa invece di rivendicare «verità» esperienziali) e ha un grado altissimo di controllo formale, cosa che per il traduttore è una sfida costante ma al tempo stesso una manna dal cielo, dato che non c’è testo più difficile da tradurre che quello approssimativo e poco consapevole.

Isabella Zani (Una sera a letto)

È stato più di un anno fa. Ero una donna sposata. Come al solito: estate o inverno, sono sempre sposata. L’unione procedeva anche benino, ma si sa come vanno queste cose...tanta confidenza, tutto molto gradevole e sicuro, ma un po’ di noia, certi giorni. Poche scintille. Zero batticuore, dopo mesi o anni o lustri di capitoli condivisi. Perciò è stato facile cedere al richiamo di un estraneo, e pure parecchio strano (buffo, a pensarci: in inglese si dice uguale), uno che non avrei mai cercato. Distrarsi con una storiella eccitante quanto rapida: non ci ho pensato un attimo. Ho rifilato una scusa alle trecento cartelle del mio marito-romanzo e altro che scintille, mi sono concessa seimila battute di fuochi d’artificio. Tutte d’un fiato, senza una virgola a ricordarmi nessun altro. Grazie, Robert, per quella sera a letto. Ci vediamo in giro.

Roberto Serrai (Cappello a cilindro)

Tradurre "Top Hat" è stata, prima di tutto, un'occasione per esercitare il mestiere, per una volta, come (potendo, e di solito non si può) si dovrebbe. Un testo complesso, ma di poche cartelle e quindi, in proporzione, con tanto tempo. Dunque ho potuto leggermi un bel po' di saggistica su Coover (se non conosci bene, informati), (ri)vedere Top Hat (il film), recuperare il mio vecchio bastone da passeggio per "entrare" nel personaggio - una volta lo facevo sempre - e perfino provare a "suonare" certe frasi con il kazoo per vedere come venivano, un po' come faceva Paolo Conte (si è rivelato inutile, ma tant'è). Sopratutto, ho avuto tempo e modo di cercare e trovare (al centro culturale dove la prole imparava la chitarra) una maestra di danza che potesse aiutarmi a non scrivere sciocchezze (chiedere a chi ne sa più di te è uno dei "ferri" più belli di questo mestiere). Per fortuna, non ho dunque avuto bisogno di ballare.

 

Riccardo Duranti (La fede dell'angelo caduto)

Quanto mai azzeccata la scelta di far tradurre i trenta racconti di Coover da trenta voci diverse per mettere in risalto la polifonica ricchezza di un autore che, all’inizio della sua carriera, deve aver fatto un giuramento (poi mantenuto) di non scrivere niente di scontato e di già udito, ma di scardinare sempre le aspettative dei lettori e dei critici, trovando ogni volta un angolo diverso di prospettiva per mettere in discussione miti, abitudini e orizzonti di attesa, con una verve inventiva e un’abilità verbale davvero impressionanti. Come il mago de “Il trucco del cappello” (il suo racconto più obliquamente auto-biografico, secondo me), Coover tira fuori dalla sua caleidoscopica mente “trovate” sempre più originali e spiazzanti per dare testimonianza di una realtà umana frammentata e contraddittoria. E se lo spunto per far questo è meta-linguistico, oltre che meta-narrativo, come nel caso del racconto da me tradotto, le difficoltà aumentano, ma possono essere paradossalmente superate (come del resto si fa in ogni tipo di traduzione, l’arte possibile di fare l’impossibile), spostando di poco l’asse di riferimento culturalmente “diverso” (in questo caso, sostituendo alla figura di “fall-guy” la vittima designata, il capro espiatorio dello slapstick, quella dell’angelo caduto, archetipo biblico con ruolo analogo a quello del “fallguy”) e puntando invece sulla comune abbondanza, in inglese come in italiano, di tropi linguistici legati al concetto di cadere, e oplà! si attenuano le differenze culturali e si “cade”in piedi in un testo “quasi” altrettanto efficace.

Il dolce veleno della cattiva Signorina. Uno sguardo su Amalia Guglielminetti

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Tipi bizzarri, pubblicato per la prima volta nel 1931 da Arnoldo Mondadori, fa parte di quel genere di produzione narrativa d’intrattenimento, in cui le scrittrici italiane trovarono sempre più spazio per far sentire la propria voce riguardo la questione femminile e il ruolo della donna nella società. Ma ciò che rende ancora oggi questa raccolta veramente rivoluzionaria e di forte attualità è la volontà dell’autrice di presentare la lotta femminile per affermare una piena autonomia, la presa di coscienza del proprio essere e la spinta di emancipazione dai canoni tradizionali che caratterizzarono le prime due decadi del Novecento. Sono proprio questi elementi che accomunano tutti i racconti e ci portano alla scoperta di quella carrellata di personaggi che la Guglielminetti presenta.

Cattedrale vi propone la prefazione al libro, recentemente ripubblicato da Rina Edizionei.

Arabeschi del disinganno
Il dolce veleno della cattiva Signorina

di Silvio Raffo

Il genere della novella al femminile nel panorama letterario del primo Novecento italiano, tranne per qualche caso isolato come la gotica Carolina Invernizio o la cupa e sempre spinosa Deledda, reca l’impronta del raffinato modello, non sempre raggiungibile, di Katherine Mansfield: una struttura all’apparenza esile, uno stile accurato teso a un sottile o a volte approssimativo cesello psicologico, e quanto ai contenuti figure di giovinette in filigrana, spesso costrette a fronteggiare ostacoli e situazioni difficili (le cosiddette damsels in distress) o eroine perseguitate da una sorte avversa – tradimenti, violenze di vario genere – o votate a qualche nobile causa. Leggere le limpide prose più o meno autobiografiche di Ada Negri o le mirabolanti avventure sentimentali di Carola Prosperi dona al lettore (o per meglio dire, alla lettrice) un’intensa emozione e quasi sempre un finale conforto allo sciogliersi del nodo drammatico. Neera, la Contessa Lara e Annie Vivanti, con i loro intrecci appassionanti e le loro vicende di amori più o meno proibiti, preparano la strada al mélo a volte decorosamente contenuto a volte corrivo e pedissequo delle Mura, delle Peverelli, della più compassata e lungimirante Liala, tutte voci che costruiranno le solide impalcature, oltre che della novella, del romanzo femminile.

Il caso di Amalia Guglielminetti è decisamente unico. Proprio come lei che ama definirsi, a pieno diritto, «quella che va sola».

Ci troviamo di fronte a una donna che non scrive «dalla parte delle donne», che non è minimamente corrosa dal tarlo della sensiblerie romantique, che è, e resta, fedele a un solo credo, quello di un’intelligenza radicale, lucida, livida e perfino spietata; nello stile, alla sprezzatura di ascendenza classica filtrata dal più decadente estetismo ma in direzione antidannunziana, proprio come il suo doppio maschile Guido Gozzano. La demitizzazione di tutte le formule e gli stereotipi in voga negli anni Venti e Trenta è il primo elemento che balza all’occhio del lettore: nessuna concessione ai «buoni sentimenti» e alla morale conformista, ma neanche all’anticonformismo di maniera, quello da suffragette o pasionarie. Il suo referente più immediato sembra quello della pirotecnica american bad girl Dorothy Parker, ospitata tra l’altro nelle pagine della rivista che Amalia dirige con esemplare perizia, «Le seduzioni»: ad accomunarle è il gusto del ritratto minuzioso, di un’icastica vividezza, della battuta sarcastica e graffiante, ma soprattutto quell’amarezza di fondo che contamina i loro personaggi, condannati irrimediabilmente alla solitudine e al disinganno, che lo ordiscano ai danni altrui o ne siano vittime.

Il disinganno è ovviamente fratello del disincanto. All’illusione non può che seguire una delusione, ma ciò in cui Amalia supera Dorothy è l’escamotage dell’elusione, un’arma di difesa che diviene una costante per così dire catartica, forse l’unico antidoto efficace alla persistente minaccia della catastrofe e della débacle.

Le vicende di questa raccolta, tratteggiate con briosa eleganza e precisione quasi anatomica di dettaglio, rivelano la più inguaribile refrattarietà al «lieto fine» di stampo tradizionale. L’amore è sempre una chimera o un inganno, nel caso in cui si realizzi, vi si irride subito perfidamente stroncando qualsiasi speranza della lettrice benpensante (cfr. in Le distrazioni di Mimì: «E la felicità del nostro amore?» / «Non crederci. È una bella menzogna che ti farà orrore entro un mese»); i personaggi non sono mai del tutto positivi o negativi: che si tratti di bellimbusti azzimati della ricca e ipocrita borghesia, di aristocratici albagiosi e inconsistenti, di vergini candide ansiose di emozionanti esperienze piuttosto che zitelle petulanti e intellettuali, sono tutte maschere della stessa tremenda impotenza: non solo quella pirandelliana di un’identità negata (il non poter essere se stessi), ma ancor più crudelmente quella di «non-essere» tout court: vittime degli equivoci della volontà (voluttà), marionette azionate dal burattinaio delle convenzioni (o convinzioni presunte), caricature di «cosi con due gambe» e nessuna chiaroveggenza che si ritrovano di continuo a ingannare se stessi e gli altri in una sarabanda senza senso se non quello dell’etichetta che va comunque sempre rispettata: prigionieri di un meccanismo che di fatto non funziona, ma the show must go on, anche se non si sa perché (per pura inerzia, probabilmente).

Nessuno è felice in questi arabeschi del disinganno. Nessuno potrà mai essere felice, ma nemmeno una vera e profonda infelicità visita gli attori di quest’assurda pantomima. Non c’è vera soufferance, ma solo la rappresentazione dell’effimero dell’umana commedia, o per meglio dire farsa. L’amore, la passione, sono simulacri dell’inconsistenza: nei casi in cui sembrano giungere a un traguardo, si dissolvono in brevissimo tempo e l’amore può mutarsi in odio (cfr. La moglie timida); quando ci si crede lo smacco e la beffa sopraffanno l’ingenuo apprendista (cfr. La preda), quando lo rifiuti ti si ripresenta ma non t’interessa più (cfr. Le distrazioni di Mimì); anche l’amicizia più fedele soggiace alle stesse oscillazioni e tradimenti (cfr. Il custode della virtù).

Se volessimo condensare il succo essenziale di questi racconti (un gioco che ad Amalia piacerebbe) in brani musicali degli anni immediatamente successivi alla loro composizione, potremmo scegliere «Veleno» («Veleno… se mi baci ti do il mio veleno»), «Fumo negli occhi» («…fumo e nulla più…») e soprattutto «La vita è un paradiso di bugie» («quelle tue, quelle mie…»).

Occorre precisare che il trionfo del cinismo e del nichilismo non è mai celebrato in toni altisonanti e seriosi né paludato in lugubri gramaglie, poiché Amalia predilige in ogni caso l’aerea vacuità del volo delle piume, una leggerezza che ha qualcosa di vertiginoso: l’acre veleno delle clausole è somministrato con ieratica grazia e fulminea, sorridente perfidia («E le tese la mano al gesto di commiato», in Tipi bizzarri; «…ondeggiante, profumatissima, entrò», in La preda; «E sparve», in La moglie timida; «Diresse in faccia a sua moglie… il metallico scintillio del suo sguardo sarcastico», in La coppia invidiabile).

Il linguaggio della Guglielminetti rivela la non lunga ma sapiente e doviziosa pratica della poesia, che fu la consolazione più grande di questa geniale e incorreggibile outsider assediata di continuo dalla consapevolezza dell’«infinita vanità del tutto». Il lessico della sua prosa è, come quello delle poesie, di un’accuratezza addirittura spasmodica (senza mai cadere nel lenocinio retorico sempre in agguato nella scrittura delle sue colleghe); la scelta di lemmi rari ed esotici ottiene il (voluto) effetto di kitsch grottesco e quasi disorientante (i paraventi sono decorati di «musmè», la protagonista de Il sacro anello indù ha i capelli tagliati «alla Titus» e indossa un «trotteur grigio», la compagna della capricciosa Mimì è una scimmia «uistinì» e così via); l’aggettivazione sempre sofisticata si compiace di accostamenti preziosi anche sul piano fonetico («deserte e deterse»).

Non sappiamo se Amalia abbia letto lo scintillante e camaleontico Ronald Firbank, i cui racconti – e il cui stile – possono ricordare spesso i suoi (Vanagloria, Fiori calpestati, Capriccio, Derelitto splendore); di certo, la nostra «cattiva Signorina» assomiglia molto al suo quasi contemporaneo dandy inglese, creatore di figure altrettanto vanesie e stravaganti. Un altro autore che richiama qua e là anche citandolo, (è quasi superfluo dirlo) resta il suo meraviglioso e più fragile compagno di viaggio, l’«ingannatore-monello giocondo» Guido Gozzano. È soprattutto grazie a lui, forse, che Amalia si mantiene e si consacra «quella che va sola»: nella letteratura del suo tempo così come nella vita.

 

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