Lo Amador: il quartiere del dolore senza rimedio, di Martha L. Canfield

Le Commari Edizioni porta in libreria la raccolta Lo Amador, di Roberto Burgos Cantor, con la traduzione curata da L’officina Los Amadores: Leonardo Archila, Jineth Ardila Ariza, Alejandro Burgos Bernal, Simona Donato, Marino Galdiero, Paolo Patti, Maria Corona Squitier.
Lo Amador è un quartiere popolare di Cartagena de Indias (Colombia).
Roberto Burgos Cantor ci regala una raccolta di racconti, piccole storie che fanno una grande storia, ricreando, attraverso un linguaggio suggestivo, il ritmo del parlare popolare. L’autore, tra poesia e narrazione ci porterà a conoscere tutti i personaggi che popolano il quartiere Lo Amador dell’inizio degli anni ‘60: il meccanico, la prostituta, la reginetta e l’operaio leader sindacale; il pugile, il giornalista, i cantanti, e le cartomanti. Un intreccio di storie suggestive, uniche. Il racconto di un barrio emarginato, di gente emarginata, dove la nascita di un cinema, il Laurina, accende la speranza, i desideri e i sogni degli abitanti de Lo Amador.

Cattedrale vi propone la prefazione al libro di Martha L. Canfield, per gentile concessione dell’editore.

Lo Amador: il quartiere del dolore senza rimedio

di Martha L. Canfield


Con Roberto Burgos Cantor ci siamo conosciuti in Colombia negli anni ’70, ai nostri primi passi come scrittori. Poi io mi sono trasferita in Italia nel ’77 e ci siamo rivisti molto più tardi, a Vienna, nel 1996, essendo lui console onorario della Colombia. Mi aveva invitato per uno dei molti incontri culturali e artistici che era solito organizzare. Sempre in quella sede aveva coinvolto, per le stesse ragioni, Álvaro Mutis, con cui ero molto legata, avendo tradotto diverse sue opere. Burgos Cantor era inoltre molto amico di Gabriel García Márquez, chiamato affettuosamente Gabo. Questo giro di conoscenze sarebbe riduttivo considerarlo aneddotico, perché rivela un tratto importante della personalità di Burgos Cantor (nato a Cartagena de Indias, in Colombia, il 4 maggio del 1948 e morto il 16 ottobre del 2018), figura fondamentale della generazione del post-boom e ancora ingiustamente sconosciuto in Italia.
Il rapporto fraterno che aveva con gli amici e con i colleghi scrittori era senz’altro autentico; ma era al tempo stesso un sentimento rintracciabile nei suoi racconti e romanzi. Era sua consuetudine organizzare a casa sua delle tertulias: incontri dove gli scrittori si scambiavano delle idee e si leggevano reciprocamente quanto stavano creando. Lui, accompagnato dalla moglie Dorita, era uno straordinario anfitrione. Ovviamente a quel tavolo non mancava Gabo, solo per dire il più noto dei commensali. Ma Roberto aveva un’attenzione particolare anche per i giovani scrittori, che cercava di stimolare e di promuovere. Ha lanciato, per esempio, Santiago Gamboa e Mario Mendoza, entrambi nati a metà degli anni Sessanta. Come se in qualche modo ci tenesse a trasmettere un sapere e a moltiplicare le voci. Del resto è stato lui ad aver portato, in maniera del tutto originale, i corsi di scrittura creativa in Colombia, oltre ad averla insegnata all’Università Central di Bogotá. Lo Amador (1981), il suo primo libro, mi ha colpito subito, sin dalla prima volta che l’ho letto. Si presenta come un insieme di racconti, però in realtà sono tutti collegati, sette storie diverse, con voci narranti che cambiano, voci intradiegetiche, che si esprimono in prima persona. L’altro aspetto che mi è rimasto impresso, e non è comune, è che spesso queste voci sono femminili. L’autore riesce molto bene a mimetizzarsi nel modo di raccontare di una donna, nella psicologia femminile. Con disinvoltura la storia passa da un narratore all’altro, poi le storie si intrecciano, e diversi personaggi ritornano in più racconti. Tutto questo ha un chiaro significato: il vero protagonista dell’intero libro è il quartiere, che si chiama appunto Lo Amador. Si tratta di una zona storica di Cartagena, seppure sia stata molto trascurata dalle autorità locali, lasciandola quasi in uno stato di abbandono. In tutto il libro si percepisce questa condizione di degrado e di violenza, una visione drammatica della vita, che spesso sembra annunciare la distruzione. Un esempio di questo lo troviamo nel finale del secondo racconto, intitolato L’Altro, dove si dichiara: “Giuro su mia madre, da quando hanno ammazzato Atenor Jugada, in questo quartiere i bambini muoiono per via di vermi, le donne di tristezza e gli uomini di paura. Io non so se questo succedeva prima, però è solo ora, da quando Atenor non è più tornato al cinema Laurina che ce ne rendiamo conto”.
Si tratta di un quartiere caratterizzato, da un punto di vista sociale, da una popolazione soprattutto proletaria. Burgos Cantor è riuscito, in effetti, a dare voce letteraria a quelle persone che non hanno voce perché emarginate e silenziate dai ricchi. Il linguaggio utilizzato testimonia il profilo sociale dei personaggi, non solo per i numerosi colombianismi, ma anche per la predominanza della lingua familiare, in particolare della costa atlantica. Resta tuttavia presente questo orizzonte di distruzione e di violenza che incombe su Lo Amador. Lo scrittore di Cartagena vuole denunciare le ingiustizie sociali che colpiscono gli abitanti di questo quartiere, ma il suo discorso – con quella militanza tra le righe a favore dei lavoratori malpagati e di coloro che sono sfruttati – evidenzia anche una situazione politica e sociale che riguarda tutta la Colombia.
Sicuramente Burgos Cantor ha ereditato molto da García Márquez, non tanto il realismo magico, verso cui tutta la sua generazione ha posto una distanza perché hanno preferito privilegiare una narrativa di denuncia. L’eredità la si può trovare in primo luogo nel fatto di concentrarsi in un piccolo luogo (Macondo, Lo Amador) emblematico però di tutta una regione; in secondo luogo, nel non poter congedare certi suoi personaggi una volta finita la storia e quindi farli tornare ripetutamente; in terzo luogo, nel modo di impostare il linguaggio narrativo, cioè nella costruzione sperimentale e antiaccademica delle frasi. Il lettore può notare subito, in effetti, che Burgos Cantor elimina in buona misura la punteggiatura e collega proposizioni che non si sa bene se siano coordinate o subordinate, allungando notevolmente i paragrafi, come già aveva fatto García Márquez, soprattutto ne L’autunno del patriarca.
Un altro tratto stilistico comune sono le ripetizioni, qualcosa che mentre in Italia è visto negativamente, qui si carica di significato e di piacere ritmico, più vicino ai ritornelli poetici. Per l’autore la ripetizione dà ritmo alla frase, le dona musicalità, e serve anche a fissare nel lettore l’elemento significativo centrale del racconto. Così, per esempio, nel quarto racconto, Queste frasi d’amore che si ripetono tanto, ci sono due storie che si alternano: una del narratore intradiegetico con la sua ragazza che viene da fuori ma ha deciso di vivere nel quartiere con lui; e l’altra quella di José Raquel, “nero, fronte spaziosa e mani corte”. Il tutto è diviso in tredici brevissime parti, di cui quelle dispari riguardano la storia amorosa del narratore e quelle pari la storia di José Raquel, un lavoratore del porto, appassionato musicista che suona il sassofono. Le sei parti dedicate a questo personaggio (2-4-6-8-10-12) iniziano invariabilmente con “José Raquel es negro”, dopo di che segue la sua descrizione fisica, con i tratti caratteristici degli afrocolombiani, le labbra grosse, gli zigomi sporgenti, i capelli ricci… Quando il racconto si conclude drammaticamente con il destino ingiusto e fatale di José Raquel, il lettore ha già capito – anche se il narratore non lo dice mai – che questa fine era inevitabile in un ambiente razzista.
Un altro tratto stilistico comune con García Márquez e con altri narratori della costa atlantica è l’abbondanza di riferimenti alla musica caraibica, con citazioni di canzoni, talvolta nascoste all’interno del discorso. Per esempio nel primo racconto, Storie di cantanti, viene citato Lucho Bermúdez (1912-1994), famoso musicista colombiano che adattò ritmi tradizionali caraibici, come la cumbia e il porro in ritmi moderni che sono diventati simboli dell’identità nazionale, già a partire dagli anni ’30. E nello stesso racconto si cita il famoso bolero del cubano Frank Domínguez, Tú me acostumbraste. Burgos Cantor non si limita però alla musica caraibica, ma cita e introduce senza spiegazioni parole di canzoni di altre zone latinoamericane, dal Messico all’Argentina. Nel quarto racconto, per esempio, il narratore a un certo punto dice “E so che scriverò, vincendo il timore che la letteratura sia una sostituzione, scriverò su questo quartiere argentato di luna”. L’immagine finale (este barrio plateado de luna) fa parte del tango Melodía de arrabal, reso famoso da Carlos Gardel, molto popolare anche in Colombia, dove morì in un incidente aereo nell’aeroporto di Medellín nel 1935.
Infine, per situare storicamente lo scrittore Burgos Cantor, è importante tenere presente che appartiene agli scrittori venuti dopo il cosiddetto boom della letteratura ispano-americana, di cui fanno parte, oltre che García Márquez, l’argentino Julio Cortázar, il peruviano Mario Vargas Llosa, il messicano Carlos Fuentes, il cileno José Donoso, il cubano Lezama Lima e altri. La generazione successiva li ha considerati i propri maestri, che hanno insegnato come staccarsi dal classicismo precedente e come rinnovare le impostazioni narrative. I nuovi scrittori però non si limitano a seguire i modelli del boom, ma introducono anche diverse novità, come si è visto che fa Roberto Burgos Cantor.
La traduzione de Lo Amador è benvenuta in Italia dove finora non era stato pubblicato nulla dell’autore. Il lettore italiano inoltre troverà in quest’opera, composta da sette racconti, qualcosa dell’Italia in via di sviluppo, quando il senso di comunità dei piccoli o grandi paesi si affacciava verso un mondo in profondo cambiamento. In questo senso non è casuale il riferimento al film di Luchino Visconti Rocco e i suoi fratelli. Ci sono poi altri due film italiani citati, entrambi di Gillo Pontecorvo: Queimada, le cui riprese avvengono a Cartagena durante la narrazione, dato che il regista si era avvalso di molti nativi locali come attori; e La battaglia di Algeri. Entrambi hanno come tema il colonialismo, questione che non poteva mancare nella penna di Roberto Burgos Cantor.