Come raccontano i racconti di Margaret Atwood

di Debora Lambruschini

Qualche anno fa, in occasione dell’uscita della raccolta L’uovo di Barbablù per Racconti edizioni, ho scambiato alcune riflessioni con Gaja Lombardi Cenciarelli, traduttrice italiana di Margaret Atwood; dei numerosi spunti che sono emersi, uno mi è tornato in mente riflettendo oggi su questa nuova raccolta, edita sempre da Racconti, Consigli per sopravvivere in natura: in riferimento alla eterogeneità intrinseca dei testi di Atwood, al suo ricco e variegato immaginario, alla capacità/incapacità di comprendere e farsi comprendere dagli altri, Cenciarelli citava un passo dei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, che ben sintetizzava un nodo centrale della questione:

“Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!

Chi scrive, chi traduce - e, in generale, chi si occupa di cultura e di editoria a vario titolo - lavora sempre con questa consapevolezza”.

 

Mi torna in mente ora, mentre rifletto su quest’ultima raccolta tradotta in italiano – ma pubblicata per la prima volta in inglese nel 1991 – e in un certo senso mi pare di capire meglio che cosa intendessero Pirandello e Cenciarelli con lui, qualcosa con cui da lettrice mi trovo da sempre a fare i conti: è quello scarto inevitabile tra le intenzioni dell’autore e ciò che da questa parte riceviamo; è ciò che, per stare entro i confini del racconto, finisce sulla pagina e ciò che si insinua negli spazi vuoti, tra i non detti e quello che tentiamo di interpretare; è, ancora, ciò che dell’intreccio narrativo si lega alla nostra stessa sensibilità letteraria e personale, idee e spunti che risuonano dentro di noi.
Accettare quello scarto, sforzarsi di renderlo minimo, è la meccanica del lettore di racconti. Nel caso di una scrittrice come Atwood, dalla produzione letteraria variegata e ricchissima di rimandi, prendere anche un solo racconto e tentare di penetrarne il mistero della scrittura, la sua collocazione nella bibliografia dell’autore, significa riconoscere gli indizi disseminati nei romanzi, nei racconti, nelle poesie; nel caso di questa raccolta uscita in Italia trent’anni dopo la sua prima apparizione, significa anche rendersi conto di quanto la distanza temporale dalla scrittura si annulli entro certi limiti.

Ragionare sul mondo letterario di Atwood richiede un tempo e uno spazio di riflessione ben più ampio di questo, ma ciò che potrebbe essere interessante fare è allora concentrare l’attenzione su un solo racconto o, a essere sinceri, su due. E vedere dove ci porta, quali considerazioni, riflessioni e spunti possono nascere da una lettura approfondita del testo.
Inizialmente pensavo di trattare il racconto che dà il titolo alla raccolta, “Consigli per sopravvivere in natura”, assai interessante e denso di rimandi particolarmente attuali, come l’opera tutta di Atwood; arrivata alla fine del libro, però, mi è parso inevitabile soffermarmi invece su altre due storie, per il dialogo che intercorre fra loro e con noi lettori. In “Vera spazzatura” e “Morte per paesaggio”, come nel resto dei racconti qui contenuti, Atwood costruisce la storia su due piani temporali distinti: a un capo c’è il momento in cui il confine tra infanzia ed età adulta sembra farsi sempre labile e indistinto, lì dove si svolge la parte più consistente della narrazione e dove si formano le increspature sulla superficie dell’acqua; all’altro capo c’è il presente narrativo, il tempo che è intercorso tra gli avvenimenti come la chiave per interpretarli o osservarne le diverse implicazioni dalla dovuta distanza.
In entrambi i racconti, i confini entro cui si delineano le esperienze sono quelli di un campo estivo: Camp Adanqui per i ragazzi di “Vera spazzatura” e Camp Manitou per le ragazze di “Morte per paesaggio”, due luoghi distinti ma per certi versi molto simili; microcosmo di adulti e bambini, immerso nella natura, il cui equilibrio a un certo punto si spezza. A partire dal centro, con il suo effetto più evidente, ma anche in tanti infiniti pezzi più piccoli.
Ecco, la natura appunto, che pare essere il centro nevralgico della narrazione, lo sfondo privilegiato di questi racconti: una natura di cui Atwood evoca i contorni attraverso immagini a fuoco che coinvolgono tutti i sensi; gli alberi e i boschi, i laghi, la luce mutevole, l’aria. Ma non è una natura pacifica, anzi: porta già in sé i segni del cambiamento climatico, il pericolo dell’intervento umano, le sue alterazioni. E, soprattutto, non sembra essere questa la natura al cuore della riflessione di Atwood, non del tutto almeno: è, invece, la natura umana, i suoi angoli più bui, a catturare lo sguardo dell’autrice che si insinua in quelle pieghe, ne osserva le ombre, ci mette in guardia dai pericoli. Come escono da certi eventi i sopravvissuti? Quale verità scegliamo di raccontarci? Di quanta distanza abbiamo bisogno per proteggerci dal passato?

Quelle di Consigli per sopravvivere in natura sono cautionary tales, racconti-fiaba con lo scopo di metterci in guardia. Ma da cosa? Dal pericolo della nostra natura stessa, dalla distruzione che l’uomo porta con sé, dal patriarcato. Il femminile, esplorato da punti di vista diversi, una chiave di lettura imprescindibile per addentrarsi nei testi di Atwood.
«Darce sta parlando di lei come se fosse un pezzo di carne», è la mercificazione immediata del corpo femminile di “Vera spazzatura”: un corpo che cattura la curiosità dei ragazzini del campo che spiano da lontano le cameriere nei momenti di pausa dal lavoro, le loro confidenze, i corpi nudi mentre si tuffano velocemente nel lago; catturare anche solo di sfuggita un dettaglio, tra curiosità e imbarazzo. Ma l’incantesimo si spezza di fronte alla violenza delle parole, all’uso dei corpi. Il corpo femminile che diviene «un pezzo di carne», qualcosa di cui vantarsi con gli amici. Si è attraversato un confine, l’innocenza si trasforma in consapevolezza.

 

Ridicolo all’epoca, possibile adesso. Ora si può fare qualsiasi cosa senza suscitare scandalo. Una scrollatina di spalle e via. Tutto è fico. È stata tirata una riga e dall’altra parte c’è il passato, sia più cupo sia più brillante e intenso del presente.
Lei guarda dall’altra parte della riga e vede le nove cameriere in costume, sotto il sole chiaro e cocente, che ridono sul molo, lei tra loro; e poi tra i cespugli fruscianti e ombrosi della costa, il sesso pericolosamente in agguato. Era pericoloso, a quei tempi. Era peccato. Proibito, segreto, sporco.

 

Da questa parte della riga c’è il presente, l’età adulta, la distanza temporale necessaria per comprendere quello che è successo, mettere insieme i pezzi. Costruire la propria versione delle cose, forse quella reale, forse no.
Si muove su un più marcato confine del dubbio “Morte per paesaggio”, su un trauma mai superato: le estati al campo femminile Manitou scandite dall’amicizia fra Lois e Lucy, la scomparsa improvvisa e inspiegabile di Lucy che distrugge ogni cosa. È la perdita dell’innocenza, la fine del campo, l’insinuarsi di un sospetto che accompagna Lois per tutta la sua vita adulta. Prima l’amicizia, i segreti condivisi, la distanza che separa chi indugia nell’infanzia da chi inizia a muoversi nell’adolescenza, colmata dal legame che si rinnova ogni estate; poi il trauma e l’invenzione di una verità, di innumerevoli verità, per spiegarsi cosa sia successo, per giustificare la rottura dell’equilibrio. È stata Lois a fare qualcosa a Lucy?

 

Sentiva che le altre ragazze nel bungalow la osservavano chiedendosi Può averlo fatto? Deve essere stata lei. Per il resto della vita, ha colto gente osservarla in quel modo.

Forse non ci pensavano. Forse erano solo addolorate per lei. Ma lei sentiva di essere stata processata e condannata, e questa sensazione le è rimasta addosso: la consapevolezza di essere stata presa di mira, condannata per qualcosa di cui non aveva colpa.

 

Il punto di vista ci porta a credere a Lois, alla sua innocenza, ed è il più immediato esempio di quell’intreccio fondamentale tra storia e modo di raccontarla. Colpevole o innocente? Inseguiamo una verità che non troveremo, non dentro la storia scritta. Forse è racchiusa nei dipinti che Lois colleziona da anni, paesaggi che solo alla fine le si rivelano pienamente, similmente a quel titolo e le sue implicazioni. Come un racconto da osservare da vicino e scoprire la storia sommersa nelle ombre e in ciò che si nasconde sotto la superficie, negli spazi bianchi, in quello che resta fuori dalla pagina ma la nutre.

“Vera spazzatura” e “Morte per paesaggio” sono, infine, due storie che ruotano intorno alla costruzione della propria identità: ciò che scegliamo di essere e ciò che mostriamo agli altri, le maschere che indossiamo; la difficoltà del crescere, il cambiamento inevitabile e ciò che con questo perdiamo; i segni nell’infanzia di ciò che saremo da adulti. Sono, ancora, chi decidiamo di essere una volta usciti da certi eventi, da sopravvissuti.
Sono il mondo letterario di Atwood, i rimandi, gli indizi, la polifonia del testo.