La moderna inquietudine del giovane Pavese, di Giusi Baldissone

Diana edizioni porta in libreria La trilogia delle macchine, una delle prime prove narrative di un giovanissimo Cesare Pavese. Novelle brevi, prose rapide e veloci; talvolta dei soffi sussurrati all’orecchio del lettore; altrove grida di protesta e di lotta, spasimi narrativi sull’inatteso sfondo della realtà urbana e industriale degli inizi del XX secolo. Le storie tratteggiate dal grande scrittore, appena ventenne, hanno in comune il senso di sospensione e inconcludenza. I personaggi lasciano attoniti, in bilico tra l’esaltazione, il titanismo e la costante, catartica idea del suicidio.

Cattedrale vi propone il saggio introduttivo di Giusi Baldissone, per gentile cocnessione dell’editore.

La moderna inquietudine del giovane Pavese
di Giusi Baldissone


Nei medesimi anni giovanili di più profonda e sentita attività poetica, Cesare Pavese si cimenta parallelamente nella stesura di una serie di novelle rimaste per anni allo stato larvale di semplici bozzetti, di puri “sfoghi” giovanili, racconti «densi di echi e rimandi al clima culturale contemporaneo e alle personali letture», testi spesso anepigrafi, incompiuti e per troppo tempo (ovviamente) inediti. Racconti scritti tutti tra il 1925 – quando Pavese ha solo diciassette anni, ancora studente presso il Liceo Classico “D’Azeglio” di Torino – e il 1930, anno in cui darà l’abbrivio (con le poesie de I mari del Sud ) alla fase “matura” della sua attività letteraria: una maturità assai precoce, visto che al momento di questo suo esordio è solo un ventiduenne. «Erotismo e autodistruzione, romanticismo e ironia, linguaggio dannunziano e dialetto, Piemonte e America, Gozzano e Whitman» convivono e mirabilmente si fondono in queste prove d’esordio narrativo, la cui natura così giovanilisticamente ondivaga e ancora incerta rispecchia una dialettica profonda che carsicamente serpeggia in Pavese e ne lacera l’animo: quella tipica dicotomia giovanile tra speranze e sogni di gloria dell’intellettuale poco più che adolescente che si apre alla Vita e all’Arte, ed il terrore, quasi l’ossessione di restare un nulla in ogni cosa, un inetto condannato a recitare una insopportabile parte secondaria nella vita.
Combattuto tra queste due contrastanti polarità – la solita, giovanile alternanza di ansie e certezze, paure ed entusiasmi, quella strana altalena emotiva che sempre culla l’animo umano (come dirà lo stesso Autore nell’explicit di Spasimi d’ali) trascinandolo dagli entusiasmi della rivoluzione allo splene della decadenza – il giovane Pavese aduna ed esterna nei suoi primi racconti la sua intima lacerazione tra titanismo e inettitudine, abbandonandosi allo “sfogo” di una prosa fortemente autobiografica che di certo rappresentò il progetto più ambizioso di questi suoi primi anni di apprendista letterato: testi ambiziosi e di ribellistico impatto giovanile che egli stesso definì (nella sua corrispondenza con l’amico di una vita Mario Sturani) il mio romanzo, «lo sfogo di tutta la mia giovinezza […] il fondo intimo della mia anima» .
Un progetto che Pavese pare avesse ben chiaro, almeno a livello teorico e ben fissato nella sua mente, sin dalla prima stesura di queste sue prose. Così infatti si confidava in una lettera, datata 12 ottobre 1926, all’amico Tullio Pinelli:

un disegno di un gruppo di novelle, o bozzetti che dir si voglia sotto il titolo di Lotte di Giovani. Non debbono essere altro che semplici riproduzioni di vite e di stati d’animo di persone che sentono stimolo a compiere qualcosa di grande e non ci riescono. Io, io, io, io, sempre io, non si scappa […]. Le novelle, o meglio, gli elementi delle novelle, un caos di sentimenti, li ho nell’anima.

Abbandonato il progetto unitario, Lotte di giovani restò il titolo del suo primissimo “bozzetto”, scritto quando aveva diciassette anni. Sopravvissero così novelle brevi, prose rapide e veloci, da leggersi tutte di un fiato; talvolta dei respiri leggeri, quasi dei soffi sussurrati all’orecchio del lettore, talvolta invece grida di protesta e di lotta, spasimi narrativi che nel loro febbrile trepidare lasciano attoniti coloro che li leggono (ancor più se giovani come l’Autore), avvincendoli nel condividere un comune senso di sospensione e inconcludenza.
Del vasto materiale manoscritto che ci svela le prime prove narrative di Pavese, la Trilogia delle macchine (1928) rappresenta quanto di più strutturato e organizzato in una propria architettura interna, ovvero tre racconti completi di titoli che hanno un comune denominatore formale, stilistico e contenutistico. Le storie sono infatti inscritte in una ambientazione urbana (e di periferia) che predilige lo sfondo di una realtà industriale, operaia, immersa in una “modernità” occhieggiante (ma solo di sbieco e con toni squisitamente avvilenti) i recenti miti della macchina e della vita cittadina. I protagonisti e i titoli stessi dei racconti portano con sé definizioni che sminuiscono la scelta “modernista” ed esprimono scoramento e rassegnazione: L’avventuriero fallito, Il cattivo meccanico, Il pilota malato inducono il lettore a cercare soprattutto le motivazioni psicologiche sottese a tali preannunciati fallimenti.

Il ritorno in città dell’avventuriero, col conseguente riadattarsi ai luoghi della sua giovinezza, dopo una infruttuosa esperienza di vita oltreoceano, gli crea nell’anima una grande rovina. L’America sognata e vissuta con ambizioni cinematografiche si è rivelata un fallimento, continente spietato. Lo sforzo enorme profuso in quegli anni per vivere lo ha segnato per sempre: si sente distrutto e ributtato lontano come un rifiuto inutile nel battito formidabile della sua vita. La fiamma di immaginazioni che lo aveva animato si spegne inesorabilmente; nella sua città si sente un estraneo, sconfitto dai suoi stessi sogni. Monotonia e avvilimento lo pongono davanti all’eterno rimpianto e all’estraneità verso un’umanità che gli brulica intorno, tra i fischi disumani e gli acutissimi frastuoni della città. Trova lavoro, in un teatro del centro, come aiuto-macchinista e da lì non si muove più. L’immagine di una ballerina piena di vita lo tiene desto per qualche tempo, ma poi l’avventuriero si ritrova faccia a faccia con il proprio fallimento: non comprendeva più neanche la sua vita, tormentato dall’assillo atroce della sua bassezza, eppure non riusciva ad uccidersi. Finché, assorto su se stesso, indifferente alla vita e al mondo, solo e abbandonato in una città anch’essa spietata, viene travolto da un’automobile arrangolata che lo spezza al suolo.

Il cattivo meccanico è il racconto della Trilogia in cui si palesa ancor più la disperazione per l’inabilità a conquistare la gloria: nelle vie della grande città, vertiginose, andava avanti lento, chino sulla sua anima, soffocato da un ribrezzo pauroso di sé, che si placava soltanto nella solitudine e nell’ombra della sera. Poeta fallito, egli vive colla lusinga del suicidio nel cuore, aspettando un coraggio, necessario a commetterlo, che non arriverà mai. Diventa un operaio incapace di imparare e di adeguarsi ad una specifica mansione. Alla fine, di trasferimento in trasferimento nella sua fabbrica, trova la sua dimensione come collaudatore di automobili, operaio addetto alla prova delle macchine. Lontano dalla fabbrica e dalla città, tutto intento a sfrecciare tra le colline della sua infanzia, ubriaco di vento e di velocità, gli pare finalmente di trovare una effimera elevazione. La sua identificazione con la macchina, con cui faceva un corpo solo, diventa quasi totale, e la esaltazione della velocità sembra per lui divenuta una nuova, parafuturista scuola di libertà e di forza:

Quando, piantato sul sedile greggio, sotto l’antenna del volante, si faceva portare da una di esse, gli pareva di sentir fluire la benzina nelle sue vene e gli scoppî del motore erano quasi i battiti del suo polso. Sotto gli occhi, il breve quadrato dei comandi ancor restii, e la lancetta delle velocità, oscillante sempre, nervosissima, erano come il suo cuore e il suo orecchio vivi, tesi alla minima mutazione.

Tuttavia un giorno, dopo aver investito e ucciso un passante, e senza neppure il bisogno di scolparsi, s’accorge di non sentire alcun rimorso: si rende conto così di essere simile a tutti i suoi colleghi, i quali, una volta informati del fatto, gli raccontano i loro investimenti con grande indifferenza.

La lusinga del suicidio, da troppo tempo cullata, diventa allora una necessità indifferibile per sovvertire il suo inarrestabile processo di disumanizzazione. Corre con un’auto fin presso la casa dove era nato e si era sognato poeta, poi dà forza al motore e si scaraventa giù per un balzo sulle pietre nude. La ruota del volante gli sfonda il petto, con l’antenna infitta come una lancia.

Il pilota malato, terzo ed ultimo episodio della Trilogia, è forse il racconto più formalmente “futurista”, richiamando quel culto della velocità che assimila “eroicamente” l’uomo alla macchina, tra giochi vertiginosi e temerari che portano il pilota Rafter a sfidare la morte con il suo apparecchio, come un vecchio falco del cielo.

Il motore gli era necessario come a un fumatore la sigaretta. Si sentiva a suo agio soltanto quando, mezzo sepolto nel suo scomparto, traeva in alto, con un polso forte quanto una leva, tutto il fragile scheletro di lino e d’acciaio. […] Era come fanatico del suo mestiere.
Ma di un fanatismo calmo e insieme irresistibile, meccanico.

Il pilota, inizialmente invincibile, sarà invece sopraffatto dalla malattia dei poeti: la tisi, per la quale i medici gli consigliano spiagge calde vivificanti. Ma il suo indomito atteggiamento di sfida lo induce a vivere nel vizio della vita notturna alla ricerca di una impossibile convalescenza, e ciò lo condurrà ad un peggioramento di salute irreversibile e ferale. Tornato in città per incontrare in ospedale una donna nota, morirà in preda alle convulsioni della tosse, sputando sangue, sul selciato della gran piazza.

Come sarebbe oltremodo facile intuire, la “modernità” così intimamente tratteggiata da Pavese ne La trilogia delle macchine sembra repellere, se non ribaltare, lo slancio ottimistico e l’esaltazione frenetica tipici dei più genuini stilemi avanguardisti, propalati in particolare dal Futurismo. Antieroi per “definizione” (si pensi ai titoli), i protagonisti dei tre racconti paiono piuttosto subire il mondo cittadino coi suoi corollari di progresso, novità ed esuberanza estetica. Per Pavese, e per i suoi falliti, non vi è un luminoso spiraglio salvifico da surrogare tra il macchinale respiro delle città, nel loro immaginario futuristico di bellezza e vigore. Ciò che anima e che contraddistingue la inquieta interiorità dei protagonisti de La trilogia delle macchine è (e sarà sempre, come nella successiva produzione letteraria dell’Autore) una tensione e una indefessa appartenenza a una “natura” che non trova rifugio né sfogo nel “nuovo” mondo moderno.

E intorno a tutti questi giovani che s’affannano d’entrare nella vita, intorno ai loro sentimenti, ai loro pensieri, alle loro azioni, sta questa natura immensa, titanica, da rendersi con pochi tratti. | Essa si presta a tutte le loro interpretazioni ed a nessuna. | E così a seconda del personaggio essa è malinconica, gioiosa, mistica o insignificante e così via. | Sempre però deve conservare quella sua faccia da sfinge colossale, sotto cui s’agitano gli uomini piccolini. Ricordati poi, fuori dal romanzo, che essa è eterna e che nessun futurista la plasmerà a suo capriccio.