Gli elefanti di Ferruccio Parazzoli, di Helena Janeczek

Il Saggiatore porta in libreria Elefanti bianchi di Ferruccio Parazzoli. Uno sbalorditivo zibaldone di narrazioni inedite. Un inno alle possibilità della letteratura di raccontare organicamente il mondo attraverso la sua frammentazione: un eterogeneo mosaico di racconti, romanzi, saggi narrativi, prose di viaggio, sceneggiature teatrali e frammenti di varia natura. Un insieme di testi inediti all’interno dei quali si alterna una sinfonia di personaggi memorabili e luoghi letterari che attraversa l’intero spettro dell’immaginario di Parazzoli.

Cattedrale vi propone un estratto della prefazione al libro a cura di Helena Janeczek, per gentile concessione dell’editore.


Elefanti e balene
di Helena Janeczek


Leggendo Elefanti bianchi mi ronzava in testa un pensiero insistente. Non potevo fare a meno di confrontare Ferruccio Parazzoli – l’uomo e lo scrittore, come si diceva una volta – con le figure di scrittori presenti in questo volume. «Da quando ti conosco» mi rivolgevo mentalmente a lui, «non hai avuto un dubbio su cosa scrivere dopo aver finito un libro. Il “blocco creativo” e altre crisi del mestiere non sai dove stiano di casa…» Capisco che è irrituale aprire in questo modo una prefazione, ma siamo adulti e vaccinati contro l’ingenuità di confondere l’autore e i suoi personaggi. Mi viene anche da dire che Parazzoli è andato un po’ a cercarsela non affidando il compito a uno studioso, ma a una collega del mestiere di chi saccheggia la propria «vita vissuta» per farne letteratura. Siete dunque avvertiti che lo scrittore di cui vi ho appena offerto una prima immagine non è esattamente il «vero Parazzoli». Potete, volendo, fare una tara sia sulle fonti parazzoliane che sull’elaborazione della sottoscritta: due scrittori che si passano la palla. Volendo. Potete anche lasciarvi andare alla «sospensione dell’incredulità», quest’arte da illusionisti senza cilindro e conigli di cui l’autore di Elefanti bianchi ha avuto tanto da insegnare ai più giovani colleghi. Fine dell’excusatio non petita, veniamo al libro. Elefanti bianchi unisce degli inediti di Ferruccio Parazzoli nati in tempi piuttosto recenti: racconti, romanzi brevi o stralci di romanzo, un testo teatrale, un racconto che somiglia a un dramma (o a uno script sgangherato), micronarrazioni, prose composte a partire da note di viaggio che sperimentano le potenzialità del frammento. Ma oltre a raccogliere quasi ogni tipo di testo in prosa, il volume ci pone davanti a una strabiliante varietà di stili e registri, presenti non solo tra i diversi generi letterari, ma anche di racconto in racconto, di romanzo in romanzo.
Parazzoli è dunque uno scrittore poliedrico? Voleva forse mostrare – signore e signori! – che sa estrarre dal cilindro fazzoletti, conigli e colombe, e persino qualche apparizione più inquietante? Giudicherete voi se non ne è capace… Intanto c’è da menzionare un’altra arte da baraccone da cui ha tratto insegnamento. L’arte del ventriloquo, dell’imitatore di voci, per dirla con Thomas Bernhard, che invece ha sempre scritto con una sola voce, al punto da generare uno stuolo di imitatori di voci soggiogati dal suo stile, ritmo e sound incantatorio.
Stiamo toccando il tema della mimesi letteraria e dei suoi rapporti complessi con ciò che viene chiamato «realismo». Parazzoli è mimetico sia quando tesse dei racconti «realistici», dove l’incanto della sospensione dell’incredulità non dev’essere infranto, sia quando ricorre a mezzi espressivi deformanti, attingendoli allo scaffale degli stereotipi e persino del trash, come per metterci in guardia che non può essere preso per vero ciò che narra.
No, non possiamo «prendere per vero» quel che racconta Parazzoli. Ma sul serio sì, e sempre. Per questo Elefanti bianchi offre alla fine il ritratto – cubista o, meglio, baconiano – di uno scrittore poliedrico in superficie, ma ossessivo nella sostanza: vale a dire fedele ai propri temi e tarli quanto lo furono i colleghi con una sola voce, Bernhard e Beckett, per nominarne due molto apprezzati da Parazzoli.
In Elefanti bianchi il suono di insieme – a volte discreto sottofondo, a volte bordone insistente – si impone sulla disparità di strumenti e stili con cui la musica viene eseguita. C’è un riecheggiarsi a distanza di atmosfere e registri, ma non è questo il principio che guida la composizione di un libro stravagante ma, in fondo, meno «centone» o Zibaldone di quanto appaia a prima vista. Benché ricco di sorprese, Elefanti bianchi scorre via lungo il filo delle assonanze tematiche, con topoi e motivi che si ritrovano di testo in testo.
Un topos ricorrente è lo scrittore che non riesce a scrivere; personaggio che, come ho anticipato, sotto questo aspetto non somiglia per niente all’autore.
Quando lo conobbi, Ferruccio Parazzoli era ancora un funzionario a tempo pieno del palazzone di Segrate. Arrivava tutte le mattine, armato di concentrazione e pazienza per affrontare il traffico allucinante sulla Paullese. A fine giornata rifaceva la stessa strada, dopo aver attraversato la passerella sullo stagno artificiale con le carpe per raggiungere il parcheggio. Nella pausa pranzo scendeva in mensa scegliendo sempre le stesse cose, le meno cucinate: riso in bianco, pasta al pomodoro, verdure, un pezzo di formaggio, un frutto. Non era una scelta dettata solo da una ragionevole attenzione alla salute né da una frugalità francescana o ispirata ad altri monaci e asceti. Frequentandolo si capiva che per lui nutrirsi era uno degli obblighi della vita, come lavarsi i denti o mettersi gli occhiali, ma forse ancora più seccante. La Mondadori degli anni novanta era un posto strano. In mezzo agli uomini in giacca e cravatta e alle donne che declinavano in diversi stili l’essere alla moda, si formavano delle tavolate con giacche e cravatte dall’aspetto meno convinto, tailleurini rari, parecchi jeans, maglioni e giubbotti. Che fossimo gente di libri ci rimaneva stampato addosso anche vestendo i panni del funzionario. Parazzoli, che era arrivato prima della cattedrale nel deserto industriale di Niemeyer, che ricordava quando nel 1966 si era spupazzato un Kerouac ubriaco fradicio, che quando si parlava di letteratura alzava dal vassoio gli occhi all’improvviso non più di un grigio opaco liquido, non poteva che essere un punto di riferimento per chi era venuto dopo. L’altra stranezza era infatti che in quegli anni di aziendalismo trionfante proprio alla Mondadori confluisse un gruppo di persone* che i libri li scriveva pure: non più con la fierezza del doppio ruolo di Pavese, Vittorini, Natalia Ginzburg all’Einaudi (o di Sereni sotto la cui direzione il nostro aveva cominciato la sua carriera editoriale), ma anzi coltivando la scrittura come un’attività privata, quasi un vizio da assecondare nei ritagli. Come faceva Ferruccio Parazzoli, come aveva sempre fatto. Raccontava che quando i suoi bambini erano piccoli, troppo piccoli per lasciarlo un po’ tranquillo almeno nei fine settimana liberi da impegni, si metteva a scrivere tutte le mattine all’alba, prima che la casa si svegliasse e gli toccasse andare in ufficio. Da quando i figli erano grandi si era solo concesso degli orari più rilassati.
A sostegno di quei racconti per noi pazzeschi perché lui li offriva quasi consigliasse di bere un bicchiere d’acqua tiepida al risveglio, c’è l’elenco dei libri pubblicati a suo nome. Sono a oggi cinquantotto titoli! Pubblicati con cadenza al massimo biennale, a volte più di uno nello stesso anno. Ma rappresentano giusto la parte emersa di quel che Parazzoli ha scritto, come dimostrano proprio i testi qui raccolti che, a loro volta, forniscono un mero florilegio di ciò che rimane ancora nei cassetti. Confesso che mi dispiace non arrivare alla cifra tonda di sessanta – una soglia numerica che, come vedremo, corrisponde pressappoco all’età di molti personaggi, non importa se exscrittori o «ex» di altri mestieri che popolano Elefanti bianchi. Prima, però, vorrei condurre il mio divagare allo specifico della scrittura di Ferruccio Parazzoli, convinta che questo libro sia quanto mai prezioso per far emergere ciò che tende a essere coperto dalla pila di quei cinquantotto titoli. Non ho idea di quanti siano fuori catalogo, temo parecchi. Ma sotto l’aspetto già discusso basta quel nudo elenco a fungere da prova: esordiente tardivo a quarantun anni, premiato di tanto in tanto e sempre recensito, Parazzoli non ha mai smesso di scrivere e lo ha fatto senza rincorrere la fame o la fama. […]
L’essere stato definito «scrittore cattolico» ha creato un danno incalcolabile alla curiosità di leggere i libri di Parazzoli. Qui di cattolico – ma anche di convenzionalmente «cristiano» – si trova poco, se non nel rovesciamento, nella pochade quasi blasfema, nella storpiatura dissacrante dei testi sacri fatta in un’epoca dove di sacro non è rimasto nulla. Eppure sarebbe troppo semplice concludere che queste narrazioni restituiscano la visione di un autore che ha perso la fede: un nichilista, come lo sono I demoni dostoevskiani. Non è così perché «naufragio» e «fallimento» non sono equivalenti. La metafora preferita dall’autore mantiene implicito un orizzonte metafisico che oltrepassa di gran lunga la domanda se si possa raggiungere una meta attraverso la scrittura. Lo scrittore non è altro che un povero imitatore di un demiurgo pasticcione. Ciò che non riuscirà mai a risolvere con le sue pagine, ciò che lo condanna a un duplice naufragio, appartiene al corpo umano in cui è venuto al mondo ed è costretto a vivere. Esaltata o, più sovente, semplicemente messa a nudo, la vecchiaia è la stagione dove il naufragio entra nelle ossa.


* I primi da nominare sono senz’altro Antonio Franchini e Antonio Riccardi, approdati agli «Oscar» quando Parazzoli li dirigeva o continuava a svolgervi un ruolo importante. E poi, sempre pensando a un «nucleo mondadoriano», Giuseppe Genna e Sergio (Alan D.) Altieri. Ma in realtà Ferruccio Parazzoli ha avuto un’influenza molto più ampia su generazioni di scrittori.