Fantasmi e guerrieri. Giustizia e vendetta nell'immaginario giapponese

Edizioni Le Lucerne, ha portato in libreria Fantasmi e guerrieri. Giustizia e vendetta nell'immaginario giapponese, a cura di Giorgio Fabio Colombo che si mette sulle tracce di antiche leggende e racconti popolari, capaci di fare luce sul complesso sistema della giustizia (e dell’ingiustizia) giapponese. Scorci di un immaginario fantastico che ci dispiega l’eterno scontro tra diritto e giustizia, tra forte e debole, facendoci scoprire quanto sia ancora vivo nel Giappone di oggi.

Cattedrale vi propone l’introduzione a questo affascinante testo, per gentile concessione dell’editore.

di Giorgio Fabio Colombo

Giappone, X secolo. Ci troviamo all’interno di uno spazio indefinito, forse una stanza, forse una casa: lo sfondo è buio, nero e minaccioso. L’ambiente è ingombro di ragnatele, segno evidente di abbandono. Dall’oscurità emerge un enorme scheletro. Le mani spolpate lacerano le pareti, il candore della sua gabbia toracica incombe e il teschio dalle orbite vuote e denti mancanti si protende verso due uomini vestiti con eleganti kimono che rivelano il loro rango di nobili guerrieri. Dovrebbero essere terrorizzati, ma i loro volti non tradiscono un’ombra di paura, anzi: lo sguardo è risoluto. Le loro mani corrono ai katana, pronti a fronteggiare la creatura delle tenebre. Intanto, in un’altra stanza, vediamo una donna avvolta in un ricco kimono. È in piedi, intenta a leggere una pergamena: è proprio lei che ha evocato il feroce spettro grazie a un antico incantesimo, e lo ha fatto per vendicarsi dei guerrieri, servitori della casata che ha provocato la morte di suo padre.
Giappone, XVII secolo. Un’altra stanza, un’altra notte buia. Dallo sfondo appare una figura bianca, sembra un essere umano con braccia aperte e gambe divaricate. I suoi lineamenti sono indefiniti, così come i contorni. Accanto a essa, macchie chiare e scure formano dei teschi. Sopra la scena si apre una sorta di varco temporale, una vignetta raffigurante un paesaggio: si riferisce a qualcosa che è accaduto prima, altrove, ma di cui lo spettatore deve essere messo a conoscenza. In primo piano, un guerriero con un ampio kimono azzurro e viola sta sguainando la spada, ma i lembi della sua veste sono già sollevati da sottili arti spettrali. Davanti a lui siede la silhouette di un uomo, un essere trasparente; forse gli sta parlando, forse sta solo osservando la lotta del samurai. La sensazione che ci raggiunge è però inequivocabile: il katana potrà ben poco contro l’inesorabile attacco dei fantasmi.
Queste due famosissime opere – “La strega Takiyasha e lo scheletro-spettro” e “Horikoshi Dairyō”, entrambe dell’artista Utagawa Kuniyoshi (1798-1861) – rappresentano in modo immaginifico e vigoroso la fascinazione giapponese per due categorie di figure: i guerrieri e i fantasmi.
Ovviamente queste figure sono protagoniste di storie e rappresentazioni in quasi ogni tradizione e cultura del mondo, con peculiarità e caratteristiche diverse a seconda del contesto, ma in Giappone sono particolarmente ricche. E in questo volume desidero osservare la tensione, e talvolta la contraddizione, tra diritto e giustizia nell’immaginario popolare giapponese proprio attraverso storie riguardanti guerrieri (o, per dirla con un termine più familiare al lettore italiano, samurai) e fantasmi.
La storia culturale del Giappone è ricchissima di esempi in tal senso: leggende popolari, teatro delle marionette (bunraku), teatro kabuki e nō, fino ad arrivare ai più recenti film, anime, dorama (serie tv) e videogiochi hanno attinto a piene mani dall’immaginario legato al sovrannaturale da un lato, e alla lunghissima tradizione di aristocrazia militare dall’altro – e spesso a entrambi.
Il motivo per cui ho deciso di unire in un unico volume storie appartenenti a due mondi a prima vista in parziale antitesi (quello storico dei samurai e quello immaginario – speriamo! – dei fantasmi) è la comunanza di molti dei temi in esse affrontati: vendetta, onore, rancori mai sopiti che reclamano soddisfazione. Ai fini di questa mia analisi non è tanto importante se il protagonista del racconto sia un guerriero vittima di un’onta o una giovane serva oppressa dal proprio malvagio signore: è l’ingiustizia che richiede una riparazione a essere interessante.
Ciò spiega anche la collocazione di questo libro in una collana “giuridica”: nelle pagine che seguiranno intendo mostrare la presenza di un motivo ricorrente legato alla incapacità del sstema legale di offrire una soluzione che venga percepita come equa e corretta dallo spettatore.
Questo contrasto tra diritto da un lato e giustizia dall’altro è colto con attenzione dai vari autori, narratori, cantastorie, drammaturghi che hanno deciso di dare a esso rappresentazione nelle varie forme d’arte e intrattenimento che analizzerò.
Prima di iniziare le narrazioni, però, mi sia consentita una breve spiegazione delle ragioni che mi hanno portato a scrivere questo libro. La prima attiene ai rapporti tra diritto e letteratura in senso ampio.
Già da molti anni, soprattutto negli Stati Uniti ma anche altrove, il filone noto come Law and Literature ha riscosso grande successo. Non è questa la sede per descrivere il dibattito scientifico retrostante, ciò che mi preme sottolineare è come da tempo sia pienamente accettato il fatto che l’analisi del diritto possa essere svolta con profitto anche attraverso fonti letterarie: romanzi, opere, e persino canzoni e film possono dire sul sistema giuridico di un paese molto, talvolta più di quanto non dicano leggi e sentenze. Certo, nella maggior parte dei casi gli autori delle storie che racconterò non sono giuristi, e talvolta commettono imprecisioni, se non addirittura errori nella raffigurazione del sistema legale e delle sue complessità. Questo però non rappresenta un problema, anzi: è un valore aggiunto. I destinatari del diritto non sono infatti, nella stragrande maggioranza, coloro che con le leggi lavorano (giudici, avvocati, ecc.), ma si tratta della popolazione, della gente comune. È per certi versi molto più interessante capire come costoro percepiscono e vivono il diritto che non studiare la visione di chi, per mestiere, è in grado di comprendere le finezze del legislatore e i dettagli delle sentenze, perché questo ci dà un’idea molto più realistica dell’immagine della legge (e dei suoi eventuali limiti) nella società.
Inoltre, spesso gli studiosi si sono auto-limitati alla sfera della cultura “alta” (per usare una semplificazione) come romanzi, poesie, pièce teatrali, ecc. e hanno trascurato la cultura popolare costituita da fiabe, leggende, ballate fino ad arrivare a fumetti e canzoni. Personalmente reputo questa distinzione poco utile: non è in discussione il valore artistico di un’opera culturale, quanto la capacità di fornire una chiave di lettura interessante per l’analisi giuridica. Da questo punto di vista, il testo di una leggenda popolare può essere valido quanto il libretto di un’opera.
La seconda ragione attiene invece alla percezione del Giappone in Italia. La cultura giapponese è spesso vittima di una rappresentazione stereotipata, orientalistica, dovuta prevalentemente a due fattori. Da un lato, l’assenza – ovvia– di una preparazione specifica nella maggior parte degli osservatori. Dall’altro la – meno ovvia – suggestione che il Giappone suscita, soprattutto sulle nuove generazioni: il Paese ha perso da tempo la posizione di leader economico e politico nell’Asia orientale, e tuttavia ha acquisito con gli anni il ruolo di “superpotenza culturale”. A partire dalla mia generazione, ossia dal finire degli anni ’70, i ragazzi italiani si sono nutriti avidamente di film d’animazione (anime), fumetti (manga) e videogiochi, e il territorio che in origine era presidiato da pochi appassionati è diventato una sorta di comune background culturale. L’enorme successo che il Giappone riscuote nel pubblico italiano è testimoniato dalle decine di libri che vengono pubblicati ogni anno sui vari aspetti del Paese e della sua cultura: dalla cucina all’arte, dagli itinerari di viaggio al cinema.
La grande influenza che il Giappone ha sull’immaginario collettivo occidentale passa attraverso una serie di icone chiaramente riconoscibili: contemporanee (come i grattacieli di Tokyo o il treno ad alta velocità shinkansen) ma anche, o soprattutto, legate all’epoca feudale. Il Giappone viene associato spesso al suo passato, dominato dall’aristocrazia militare.
E proprio l’esponente dell’aristocrazia militare, il samurai, è una delle prime immagini che viene alla mente. Il termine di per sé è complesso da analizzare in termini tecnici, posto che nel linguaggio comune sotto tale etichetta si includono persone appartenenti sì allo stesso ceto in senso ampio, ma con stratificazioni sociali che si sono andate a formare in centinaia di anni, e con una grande differenziazione all’interno della classe samuraica stessa.
La percezione dell’etica e delle regole di questo ceto di guerrieri è in Occidente oggetto di mitizzazione. I manager delle grandi imprese studiano (perlopiù con risultati poco brillanti) testi come Il libro dei Cinque Anelli, del leggendario spadaccino Miyamoto Musashi. I consulenti suggeriscono ai propri giovani collaboratori l’apprendimento di quello che è pubblicato in Italia con il sottotitolo “codice segreto dei samurai”, l’Hagakure di Yamamoto Tsunetomo. Testo che non è un codice, non è segreto e non rappresenta l’ideologia dei samurai collettivamente considerati.
Se è da moltissimi anni che il pubblico italiano ha familiarità con l’idea del guerriero giapponese, è solo da qualche tempo che un altro protagonista del folklore di questo Paese ha iniziato a essere conosciuto anche in Occidente: si tratta del fantasma.
Soprattutto grazie al fruttuoso e popolare filone del cinema horror, gli spaventosi fantasmi giapponesi hanno cominciato a popolare gli incubi degli italiani: ad esempio Sadako, la ragazza spettro di The Ring, vestita di bianco e con il volto nascosto da lunghi capelli neri, è ormai una figura iconica, riconosciuta anche nella nostra cultura pop.
Nonostante si tratti di un fenomeno relativamente recente, le immagini dei fantasmi giapponesi arrivate al pubblico nostrano sono spesso molto accurate nel recuperare l’iconografia tradizionale: abiti bianchi, capelli folti e scarmigliati, corpi magri ed evanescenti sono rappresentazioni comuni nell’arte giapponese (non soltanto nell’ukiyo-e citato all’inizio, ma anche nelle creazioni di pittori contemporanei).
Con i fantasmi della tradizione i loro corrispettivi contemporanei condividono molto oltre all’aspetto: in base alle leggende, perché si crei uno spettro è necessario che qualcuno sia morto in una situazione di ingiustizia, di conseguenza lo spirito non riuscirà a trovare pace fino a che non avrà compiuto la propria vendetta. Non è un caso che uno dei più famosi film di fantasmi sia proprio intitolato Rancore (Ju-on).
Le storie di spiriti sono ovviamente un prodotto della cultura in cui nascono, e quelle giapponesi non fanno eccezione. Ma il lessico della paura non conosce barriere linguistiche, e gli spettri estremo-orientali sono in grado di terrorizzare anche gli spettatori italiani.
Nel tentativo di ricostruire le tradizioni giuridiche del Sacro Romano Impero i fratelli Grimm girarono per anni a raccogliere storie: gli abitanti dei luoghi che visitavano però preferivano riferire loro fiabe e leggende, e alla fine i due giuristi passarono alla storia come favolisti anziché come studiosi. Io qui vi proporrò una lettura giuridica di vari prodotti letterari e artistici, e se il diritto non dovesse affascinarvi a sufficienza, vi resteranno sempre i racconti.