Newton Compton editori, porta in libreria Le indagini di Auguste Dupin. Con i tre racconti incentrati sul personaggio di Auguste Dupin, Edgar Allan Poe diede inizio alla storia del “giallo”. Per la prima volta nella letteratura, ne I delitti della Rue Morgue (uscito su una rivista di Philadelphia nell’aprile del 1841), il protagonista è un investigatore chiamato, con i soli mezzi della ragione, a scavare tra gli indizi per ricostruire passo dopo passo gli avvenimenti e incastrare il colpevole. È anche il primo e il più classico degli “enigmi della stanza chiusa”, nei quali, cioè, sembra impossibile stabilire come si sia consumato il delitto in una stanza chiusa dall’interno.
Cattedrale vi propone un estratto della prefazione al libro, a cura di Roberto Galofaro.
di Roberto Galofaro
La Morgue, una suggestione
Per le tre storie raccolte in questo volume [I delitti della Rue Morgue, Il mistero di Marie Rogêt, La lettera rubata, n.d.r.], Poe sceglie come ambientazione l’esotica Parigi (città-specchio di New York, come si vedrà leggendo la seconda delle indagini di Dupin) e chiama Rue Morgue la strada in cui sorge la triste dimora delle signore L’Espanaye, le vittime del primo caso che l’investigatore è chiamato a risolvere. Per formulare un’ipotesi che spieghi perché la scelta di questo nome non sia un innocente esotismo, è il caso di approfondire che cosa realmente fosse, intorno alla metà dell’Ottocento, la Morgue parigina.
Innanzitutto l’etimologia: il verbo del francese antico morguer dovrebbe significare «scrutare, interrogare con lo sguardo»: nella sua prima accezione la Morgue fu infatti il luogo del carcere in cui le guardie schedavano, esaminavano e verosimilmente interrogavano i detenuti prima di rinchiuderli nelle celle. Del 1734 è la prima attestazione di un deposito di cadaveri nei sotterranei della fortezza parigina del Grand Châtelet, cui è dato lo stesso nome: è qui che, fino al 1804, avrà luogo l’identificazione dei cadaveri, soprattutto di quelli ripescati nella Senna e ricomposti, nudi, su tavoli di marmo, visibili attraverso una vetrata. Nel 1804 si inaugura uno spazio apposito al Marché-Neuf, in un edificio basso sulla riva del fiume, poi demolito, nel cuore dell’Île de la Cité, a due passi da Notre-Dame.
Qui accade qualcosa di inedito nella storia dell’umanità. Sì, l’istituzione aveva un fine caritatevole, ovvero permettere il riconoscimento e dare una dignitosa sepoltura ai corpi non reclamati, consentendo l’accesso a chiunque volesse, turandosi il naso con le dita; eppure, ben presto, visitare la morte finì per diventare una moda.
In Thérèse Raquin (1867) Émile Zola descrive la Morgue soffermandosi sul rapporto morboso e grottesco che con i defunti esposti instaurano gli avventori, affascinati dalla vista dei cadaveri e tuttavia percorsi dal timore della propria stessa fine. È così per Laurent, l’assassino-protagonista, che vi si reca nella speranza che venga ripescato dal fiume il corpo del marito di Thérèse, e che si ritrova turbato dalle carni gonfie e molli, e però anche sedotto dalla pelle e dai seni esposti di una bella fanciulla impiccatasi per amore. Ma non solo, Zola ci dice anche che:
L’obitorio è uno spettacolo alla portata di tutte le borse, che possono permettersi i passanti ricchi e quelli poveri. La porta è aperta, entra chi vuole. Ci sono certi amatori che allungano il proprio tragitto pur di non mancare a una di queste rappresentazioni della morte. Quando le lastre sono nude, la gente esce delusa, quasi defraudata, borbottando tra i denti. Quando al contrario le lastre sono ben fornite, quando c’è una bella mostra di carne umana, i visitatori si accalcano, si concedono qualche emozione a buon mercato, si spaventano, scherzano, applaudono o fischiano, come a teatro, e si ritirano soddisfatti, dichiarando che quel giorno l’obitorio «è stato all’altezza»
(Émile Zola, Thérèse Raquin, trad. it. di Maurizio Grasso, Newton Compton).
Lungi dall’essere un luogo sordido, la Morgue era enormemente frequentata: quando vi si poteva trovare un cadavere al centro di un caso che occupava le prime pagine dei giornali, vi accorrevano anche quattrocento persone al giorno, fino a contare, come riporterà «L’Eclair» del 29 agosto 1892, la cifra incredibile di un milione di visitatori all’anno (Cfr. F. González-Crussi, On Seeing. Things Seen, Unseen, and Obscene, Overlook Duckworth, Londra 2006, p. 69). Non solo: quando la funzione di pubblica utilità fu decisamente soppiantata dalla curiosità di vedere del pubblico, lo Stato francese istituì un biglietto, creando anche una scenografica cortina di tende, quasi un sipario, davanti alla vetrata che separava i vivi dai morti.
Era inevitabile che il notturno, il cimiteriale Poe provasse fascinazione per un’istituzione che aveva la sua cifra distintiva nell’ostensione della morte – con la sua grottesca materialità e la sua poetica evidenza. Inoltre, Poe aveva sicuramente letto almeno due articoli sulla Morgue parigina pubblicati nell’ottobre e novembre del 1838 sul «Saturday News» – lo stesso giornale dalle cui pagine aveva forse tratto l’ispirazione per il “colpevole” dei primi delitti di cui si occupa Dupin (Cfr. Richard Kopley, Edgar Allan Poe and the Dupin Mysteries, Palgrave MacMillan, s.l. 2008, p. 36).
La fittizia Rue Morgue appare perciò un’azzeccata suggestione per lo scenario delle indagini e delle deduzioni dell’investigatore, poiché l’obitorio è il luogo in cui attivamente si interroga la decomposizione. Non è il luogo dell’elegia, della malinconia e del lamento (che ritroviamo invece nel Corvo), ma il luogo in cui, per mezzo di un’osservazione attenta, la ragione scova gli indizi, riconosce l’identità del defunto, individua le circostanze del delitto, formula ipotesi sull’assassinio.
Il pubblico odierno è ormai in confidenza da decenni con la figura dell’anatomopatologo, protagonista o co-protagonista di romanzi, film e serie tv: il professionista del decadimento, capace, con il cinismo del clinico, di ricostruire gli eventi ex post, dove quel post è l’estrema dipartita. A volte connotato da un’ironia che sconfina nel grottesco, a volte da un’ingenuità che ne conserva i buoni sentimenti, questa sorta di Caronte delle salme verso la verità della fine è diventato un elemento non trascurabile di ogni racconto delittuoso che si rispetti. E ciò è accaduto perché le funzioni di analisi degli eventi e di analisi del corpo della vittima si sono distinte, negli anni. Ma se facciamo un passo indietro e torniamo al nostro Dupin, lo troveremo intento sul capo mozzato di Madame L’Espanaye con la perizia di uno specialista di anatomia patologica. E con la stessa perizia seguiremo i suoi ragionamenti sulla «base logica» dell’affioramento dei corpi degli annegati, nel Mistero di Marie Rogêt.