Minimum fax porta in libreria Cattive strade, il secondo volume di Storie del Wyoming di Annie Proulx, che segue ‘Distanza ravvicinata’ la prima raccolta della trilogia.
Fra tassi parlanti e gare a chi ha la barba più lunga, dolorose riunioni familiari e jacuzzi ricavate da rottami, in un'alternanza di realismo magico e cruda quotidianità strappata con i denti a un ambiente ostile, Annie Proulx ci regala undici racconti spietati e al contempo irresistibilmente spassosi.
Cattedrale vi propone la prefazione al testo di Assunta Martinese, anche traduttrice, per gentile concessione dell’editore.
Cosa resta del West
di Assunta Martinese
Uno degli aspetti che la critica ha elogiato più spesso riguardo alla scrittura di Annie Proulx è la sua capacità di riconoscere una «aderenza fisica» tra la lingua e i luoghi1 e replicarla nelle sue pagine: una varietà linguistica che emerge perfino nelle traduzioni, che purtroppo non possono rendere appieno la vastità degli studi necessari a restituire i dialetti, le espressioni, addirittura la cadenza delle persone. L’osannata «compressione poetica» di Avviso ai naviganti, che evoca la lingua seducente degli spiriti marini o forse delle onde stesse («Era funzionale a questo libro», dichiara l’autrice. «Cercavo di rendere la sensazione dei vecchi quotidiani, con quei sottotitoletti, pensieri condensati come minuscole prefazioni agli eventi racchiuse in poche righe. Ed è anche il modo in cui la gente parla a Terranova») lascia qui il posto alla parlata lenta e concisa della gente del Wyoming, quella noncuranza ritrosa in cui le omissioni più che poesia sembrano una forma di reticenza2 («I vicini dicevano che era autosufficiente, ma lo dicevano in un modo che significava qualcos’altro»), e la sintesi non è più quella degli incantesimi o della cronaca, ma sembra al contrario nascondere una qualche forma di insicurezza, o una resa, di fronte a ciò che non si sa dire.
In un’intervista del 1995 Annie Proulx dichiarava di aver ambientato i suoi libri in luoghi diversi nello «sforzo deliberato di non essere considerata una “scrittrice regionale”». Quattro anni dopo usciva il primo volume delle sue Storie del Wyoming, e leggendo questi racconti – pubblicati in tre raccolte uscite nell’arco di dieci anni – siamo noi a dover fare uno sforzo deliberato per ricordarci che l’autrice non è nata nel Wyoming. Ma come fa Annie Proulx a dare l’idea di conoscere quei luoghi così a fondo, così intimamente? Certo, questo si può in larga misura ascrivere a un innegabile talento di scrittrice – d’altra parte dare l’impressione di verità è uno dei principali requisiti del mestiere – ma il realismo delle sue storie è anche e soprattutto frutto di un lavoro lungo, accurato e meticoloso. Per scrivere Avviso ai naviganti, il romanzo che le è valso il Premio Pulitzer nel 1994, Proulx si è recata otto volte a Terranova, fermandosi per lunghi periodi a fare ricerche, parlare con le persone del posto, ascoltare storie;3 mentre quando è stato pubblicato Distanza ravvicinata abitava vicino Saratoga ormai da cinque anni («anni di osservazione e assorbimento subliminale», dichiara). E naturalmente osservare non basta, c’è anche un’imponente, rigorosa opera di documentazione su ogni singolo aspetto dei luoghi in cui ambienta le sue storie: il paesaggio, la lingua, la storia, le ricette, la mitologia, le superstizioni, i vestiti. «Prima di sedermi e scrivere la prima parola di Avviso ai naviganti devo aver letto cinquanta o sessanta testi di storia e sociologia su Terranova», ha dichiarato l’autrice al New York Times. «Chiaramente è un retaggio dei miei studi di storia. La cosa bella della narrativa è che poi non devi precisare ogni singola cosa nelle note a piè di pagina. Puoi farti delle solide basi di conoscenza e poi, be’, a quel punto limitarti a volare. Puoi inventare tutto». E infatti ancora più impressionante rispetto alla mole di conoscenze che traspare dai libri di Annie Proulx è quello che resta non detto, quelle solide basi che vengono date semplicemente per scontate, dato che la sua generosità estrema in fase di ricerca non si traduce mai in condiscendenza in fase di scrittura, e Proulx non cede mai alla tentazione di istruire il lettore. Siamo davanti a una scrittrice che padroneggia l’arte di tralasciare tutto ciò che si sa (che si è appreso) a parte l’essenziale – dal punto di vista del personaggio, non del lettore, men che meno dell’autore – e risulta difficile concepire la portata di questa rinuncia e la dedizione necessaria a metterla in pratica con una simile, disciplinata costanza, ma forse la chiave per comprenderla è tutta racchiusa in due dichiarazioni della scrittrice: «Essendo cresciuta in campagna, penso che il lavoro sia gratificante in sé. Non lo vedo come un onere, né come un destino ingrato» e «Mi sono formata come storica, fare ricerca è quello che amo». O, più sinteticamente: «Il lavoro funziona così: o lo fai bene, oppure non lo fai».
«Proulx fa rima con true»
In questo mondo demitizzato, demistificato, deromanticizzato, non c’è sgomento al cospetto della crudeltà, né meraviglia di fronte alla magia. Se in Distanza ravvicinata il soprannaturale si dava come follia o allucinazione – il mostruoso bue scuoiato a metà che torna a perseguitare un uomo perso in una bufera di neve, o il trattore che di colpo prende vita per rivelare a Ottaline degli oscuri segreti della vita del padre – colmando i protagonisti di orrore o facendoli dubitare della propria sanità mentale, in Cattive strade il realismo magico sembra aver perso del tutto la forza del portento, il potere di sbalordire: l’assoluta verità, concretezza, di ciò che accade non viene messa in discussione nemmeno per un secondo, né dai testimoni oculari, né – ancora più sorprendente – da chi ne ascolta i racconti: se nella terra si apre una voragine rovente che ingoia i peccatori macchiatisi di crimini crudeli contro la natura, vuol dire che si è aperta una voragine rovente, tutto qui; lo stesso vale se si scopre che un oggetto casalingo possiede la capacità di esaudire all’istante qualsiasi desiderio. Di nuovo: le cose sono quello che sono, punto e basta. Si tratta di un mondo dominato da qualcosa che non è né determinismo, né caso, né ordine divino. Un mondo dove non vi è giustizia ma solo necessità, e le cose sono perché devono essere, proprio come il vento, o la pioggia o la siccità. I protagonisti non sono fatalisti né religiosi, semplicemente accettano la completa amoralità degli eventi, dove la cattiva sorte colpisce in modo equanime i colpevoli e gli innocenti, e quando una rancher che ha investito gli ultimi risparmi nel disperato tentativo di tenere vivo l’allevamento paterno perde tutto in un incendio causato da un ubriacone, il quale a sua volta perde l’unica occasione di tirare su qualche soldo, il commento della barista non può che essere: «Immagino che così stanno pari». Stanno pari, non fa differenza, così vanno le cose nel Wyoming, dove perfino la magia «non fa favoritismi». La solennità e il grande respiro storico di Distanza ravvicinata – i racconti corali e le saghe familiari, le avventure lunghe una vita e le tragedie struggenti – lasciano qui il posto a storie più piccole, quasi aneddoti, racconti da bar. Ma, sembra volerci dire Proulx, una cosa non è più vera dell’altra. Le grandi storie sono fatte anche di piccole storie. E nell’alternarsi regolare di storie e storielle la sensazione è quella di essere seduti insieme ad Annie in un diner di provincia dall’altro capo del paese, avventori invisibili che origliano la conversazione tra due sconosciuti al bancone. Non è detto che si comprenda tutto, ma il piacere dell’ascolto è tale da far passare in secondo piano il desiderio di chiedere delucidazioni. Storie in cui non tutto finisce in tragedia (men che meno in gloria); storie spesso irresistibilmente divertenti in cui, se un insegnamento c’è, assomiglia più alla rassegnata morale con cui si chiude il più buffo di questi undici racconti, una stramba favola esopiana in versione Wyoming: le cose sembrano imminenti e poi in un modo o nell’altro alla fine non succedono mai. E al di là di qualsiasi analisi e speculazione, in Proulx anche le storie sono prima di tutto quello che sono, «una di quelle cose che senti raccontare al Pee Wee in un pomeriggio fiacco» senza porti troppe domande, assaporando il privilegio di poterle ascoltare. E, forse, un’immensa testimonianza d’amore: per la terra, per la sua lingua e per i suoi abitanti, e soprattutto per la ricerca, per la scrittura, per le storie e per l’arte di raccontarle, un lavoro che, come ogni altro, va fatto bene oppure non va fatto. Annie Proulx per me lo fa meglio di tutti.