Racconti di demoni russi. Un frammento di Andrea Tarabbia

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Il Saggiatore pubblica il volume Racconti di demoni russi, a cura di Andrea Tarabbia che ha selezionato i più importanti esempi letterari di questa fascinazione sinistra, da Gogol’ a Čechov a Bulgakov, apparecchiando un banchetto di prelibatezze macabre – tra cui alcune vere rarità – in cui l’estasi non è mai troppo distante dalla dannazione: ecco Satana che seduce una fanciulla e la condanna con un languido bacio, mentre un vortice di dannati si presenta al cospetto della regina del Sabba, suonano orchestre di morti, appaiono angeli avvolti dalle fiamme: la notte non è mai stata così animata, e racconto dopo racconto si compone, agli occhi del lettore, il ritratto al nero di un’intera cultura.

Cattedrale vi propone un estratto dell’introduzione del curatore, per gentile concessione dell’editore.


I demoni russi.
Un frammento di Andrea Tarabbia

In un affettuoso resoconto degli ultimi anni trascorsi su questo mondo da Michail Vrubel’, il poeta simbolista Valerij Brjusov raccontò di come il pittore, ormai sopraffatto dalle sue ossessioni e dalla follia, parlasse con orrore di una delle ultime grandi opere che la salute gli aveva concesso di comporre, Ostrica con perla, confidando all’amico, in un sussurro, che quel quadro lo tormentava come una maledizione. Ormai ricoverato in una clinica per malati di mente e quasi del tutto cieco, Vrubel’ si stupiva di come, nella raffigurazione di quella conchiglia che sembra contenere l’universo intero, egli fosse stato spinto a rappresentare due figure femminili, immagini forse di sirene o di divinità marine, di cui però almeno una – credo la seconda, quella che sta più in basso – era scaturita dal suo pennello come all’improvviso e contro la sua stessa volontà. Vrubel’, che aveva poco più di cinquant’anni ma sembrava un vecchio, era convinto che in quella seconda figura fosse raffigurato lui. «È lui» diceva. «Sta facendo cose come questa ai miei quadri. S’è preso questo potere perché io, senza esserne degno, ho dipinto il Cristo e la Madre di Dio. Ha stravolto tutti i miei lavori…» Raccontando questo episodio, Brjusov non ebbe nemmeno bisogno di specificare chi fosse quel lui a cui il pittore si riferiva: era chiaro, a lui come ai lettori del suo memoir, che l’immagine che accompagnò gli ultimi anni di Vrubel’ era quella del diavolo che, insinuandosi perfino nei suoi quadri, veniva a punirlo per una vita vissuta nel peccato.
Vrubel’ soffriva di allucinazioni continue, e a lungo rimase convinto che il modo più efficace per espiare i suoi peccati e levare il demonio dalle sue opere fosse trascorrere gran parte delle giornate nudo, gattonando per i quattro angoli della stanza e facendo altre stranezze. Circolano molte voci, molte storie, sull’origine della sua follia; a partire dagli anni novanta del xix secolo, avvinto dai versi del Demone di Lermontov, egli aveva cominciato a dipingere, con un’ossessione che si era trasformata in una sorta di monomania, quadri ispirati al poema: la prima raffigurazione di un Demone seduto è del 1890; nello stesso anno, scolpì una Testa di demone, e ne disegnò molte altre: il demone ha quasi sempre lo stesso volto, quello di un giovane malinconico e irrimediabilmente solo, con occhi grandi e liquorosi e la testa coperta di ricci che non riescono, però, a proteggerlo né a nascondere il suo languore; seguono un Demone abbattuto e molti Demone seduto, una Lotta tra Faust e Mefistofele e una raffigurazione dell’amore tra Tamara e il demone, sempre di ispirazione lermontoviana. Componendo il Demone abbattuto, pare che Vrubel’ avesse mescolato ai colori della polvere di bronzo, che nelle sue intenzioni avrebbe conferito una certa luminescenza al soggetto, rendendo esplicita la sua origine ultraterrena. Ma il pittore non aveva tenuto in considerazione, o per lo meno è così che molti la raccontano, il processo di ossidazione del bronzo, che nel giro di breve tempo modificò la colorazione e l’espressione del demone, il quale divenne, in modo del tutto indipendente dalla volontà del suo creatore, un essere cupo, smorto, lontano dalla bellez­za malinconica che egli aveva immaginato per lui. Gallerie e collezionisti, turbati da qualcosa di sulfureo che scorgevano nell’espressione di questo diavolo afflitto, respinsero il quadro, e qualcuno ancora oggi sostiene che la follia di Vrubel’ ebbe inizio proprio per via di quel dipinto che, in modo misterioso, si era modificato da solo. All’inizio del xx secolo, l’ossessione demonologica del pittore in parte si attenuò, per fare posto alle conchiglie e a quelle rappresentazioni cristologiche della cui rovina a opera del diavolo, però, Vrubel’ si lamentava con Brjusov: ormai, il demonio aveva rovinato irreparabilmente la sua psiche.
Aleksandr Blok, forse con Anna Achmatova e Osip Mandel’štam il poeta più grande che la lingua russa ci abbia dato dopo la morte di Puškin, guardò ai quadri maledetti di Vrubel’ per comporre, tra il 1910 e il 1916, alcune liriche di carattere esplicitamente demonologico e ispirate, ancora una volta, al poema di Lermontov: sono poesie piene di maschere, di doppi, di figure demoniache che attraversano le città o si acquattano nelle paludi, e poi di malinconia e di desiderio. In una lirica del 1910, intitolata appunto Demone, sembra che il poeta narratore, durante un amplesso, abbia una visione della morte della sposa: si tratta, quasi, di una riscrittura del momento chiave del poema lermontoviano, quando il demone riesce finalmente a sedurre la bella Tamara; ma il bacio del diavolo è maledetto: Tamara muore e il demone torna nella condizione in cui è sempre stato e da cui ha tentato di fuggire, la solitudine.
Scritto, ripensato e riscritto per almeno otto volte, Il demone, la cui ultima redazione è del 1841, anno in cui il suo autore, Michail Lermontov, trovò la morte a soli ventisette anni in un duello, è non solo l’opera di una vita di una delle voci più malinconiche e allo stesso tempo ribelli della letteratura europea, ma è anche uno dei momenti fondativi della demonologia nelle lettere russe. Il tema portante del poema è tradizionale e già frequentato da autori dell’Europa occidentale: l’amore di un demone per una fanciulla e la sua seduzione. Solo, affetto da un’irredimibile malinconia, il demone protagonista del poema si invaghisce di Tamara, una ragazza che, per contrasto con le afflizioni del protagonista, è piena di gioia, leggerezza, amore. Per conquistarla, il demone si sbarazza del fidanzato della fanciulla, facendola piombare nella disperazione: ma egli è una creatura ultraterrena e sa come farla rifiorire e farle di nuovo provare amore e fiducia. Le promette, mefistofelicamente, di donarle la conoscenza, benché egli, in cuor suo, non vi creda: per il demone, infatti, ogni conoscenza è effimera; egli è uno scettico, uno spirito di negazione che, in fondo, disprezza il mondo poiché lo sa imperfetto (è un tema, questo, che riverbererà anni più tardi in un altro grande personaggio faustiano della letteratura russa: Ivan Karamazov). Tamara è invece ingenua, pura, e si lascia sedurre senza sospettare che il vero scopo del demone non sia trovare l’amore, ma far leva sulla sua devozione per riottenere l’armonia perduta dopo la cacciata dal paradiso. Morta, Tamara viene portata nei cieli tra le braccia di un angelo, e ciò scatena la gelosia del demone, che si scopre umano e vulnerabile: ha provato a redimersi attraverso l’inganno e l’egoismo e dunque, anziché trovare salvezza, ripiomba nella condizione di miseria e dolore da cui voleva affrancarsi all’inizio del poema.
Questa è, per sommi capi, la vicenda raccontata da Lermontov e di cui i lettori di questa antologia avranno in assaggio un solo capitolo, per quanto ghiotto: l’episodio del bacio e della dannazione.
Ma non è, ovviamente, per via degli eventi che vi capitano che Il demone è un’opera ­matrice. Qualcuno ha sostenuto che Lermontov sia stato il primo a introdurre nella letteratura russa «il problema religioso del male», e che ciò sia accaduto proprio con Il demone.
Nella tradizione ebraico-­cristiana, il demonio ha molti nomi, ma i fondamentali sono, oltre a diavolo, Lucifero e Satana: come Lucifero, egli ricorda il paradiso perduto, quando era l’angelo della luce; come Satana, invece, egli rappresenta l’oscurità, la negazione, l’odio, la morte. Nel suo poema, Lermontov sembra porre come condizione fondamentale per il suo demone quella di essere qualcuno che è stato portatore di luce e che si strugge di nostalgia per quel passato santo; allo stesso tempo, e per ben quattro volte, il poeta si riferisce al suo protagonista chiamandolo esplicitamente «Satana»; è del tutto evidente, infine, che il «demone» (demon) a cui il poeta si riferisce non sia uno spiritello, ma un «demonio» (bes), e questa differenza, nella letteratura russa, non è di poco conto. In ogni caso, egli è capace di passione e di tensione verso il Bene, ma inevitabilmente cade nel Male: è dunque, in quanto angelo caduto, uno spirito ambiguo, inafferrabile, che illumina e crea ma che può uccidere (e ne è cosciente) con un bacio; sa dare e ricevere fiducia, ma vive divorato dall’egoismo e dall’ambizione. È insoddisfatto, incompleto come un eroe romantico, eppure conosce tutto e vede tutto. Non scorge nessun significato morale nella vita terrestre, eppure, da qualche parte nel profondo, desidera quella pace che l’ignoranza delle cose oltremondane garantisce agli esseri umani e che lui, evidentemente, non potrà mai raggiungere. La natura ambigua e polimorfa del demoniaco fu dunque definitivamente codificata nelle stanze del Demone di Lermontov, rendendo il poema un’opera che, si può dire, mise per la prima volta a sistema ciò che la letteratura, il folklore, la religiosità, la superstizione e le importazioni dall’Europa occidentale avevano fino a quel punto elaborato in forma frammentaria.