Neroconfetto: dietro le quinte di un esordio

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Racconti edizioni ha da poco portato nelle librerie Neroconfetto, l’esordio di Giulia Sara Miori: una raccolta dal gusto gotico che trae forza dalla migliore letteratura gotica classica e contemporanea.

Giulia Sara Miori ci racconta, con questo inedito, la genesi del libro, e del modo in cui ha lavorato con la scrittura per giungere alla pubblicazione del manoscritto.

di Giulia Sara Miori

Poco più di un anno fa, qualche mese prima che scoppiasse la pandemia, senza saperlo e senza volerlo ho cominciato a pensare a Neroconfetto. Mi trovavo in biblioteca e stavo cercando in tutti i modi di scrivere un romanzo che in seguito avrei interrotto. Siccome il romanzo mi annoiava, mi sono messa a spiluccare i racconti di E.A. Poe: in particolare, sospinta da un desiderio che ancora non mi era chiaro ma di cui mi fidavo come ci si fida delle intuizioni, sono andata a cercare i racconti con i nomi di donna, e cioè Eleonora, Ligeia, Morella. Li ho riletti con attenzione, uno dopo l’altro, senza una ragione precisa. Poi sono andata a bere un caffè alle macchinette, mi sono rollata una sigaretta col tabacco e sono scesa a fumare. Mentre fumavo, con Čajkovskij nelle cuffie (quando lavoro ascolto sempre Čajkovskij) e le bici che mi sfrecciavano sotto il naso, ho visto nella mia mente una ragazzina esile e bionda con le dita incerottate. Quella ragazzina, che mi ricordava vagamente una mia compagna del liceo, si sovrapponeva però all’immagine di un’altra ragazza con cui non molto tempo prima avevo interrotto i rapporti, e a cui non avevo perdonato un tradimento. Al tempo stesso, però, entrambe mi hanno fatto venire in mente Carmilla, l’affascinante vampira dell’omonima novella di Le Fanu. Ora, curiosamente, io non ripensavo a Carmilla da quando avevo letto la novella, e cioè da venticinque anni, eppure qualcosa aveva scatenato quel ricordo e l’aveva arricchito di nuove suggestioni.
A un certo punto, comunque, la sigaretta è finita, e così sono rientrata, mi sono seduta, e con calma mi sono messa a scrivere un racconto che si chiamava Camilla e che parlava di un breve amore adolescenziale tra ragazze. Nel racconto, che ho scritto in un paio d’ore, la voce narrante descrive un’adolescente dalle mani incerottate, tanto bella quanto inaffidabile. Quella prima storia, che poi ho inviato al concorso 8x8 di Leonardo G. Luccone, è il seme da cui si è sviluppato Neroconfetto. 

Ma procediamo con ordine. Dicevo: ho inviato Camilla a 8x8 e anche a un paio di riviste; poco tempo dopo ho ricevuto una risposta positiva sia dal concorso sia da una delle due riviste a cui l’avevo inviato. Naturalmente non mi aspettavo nulla di tutto ciò, anche perché era la prima volta che spedivo in giro qualcosa di mio.

Nel frattempo, sempre in quest’ordine, è scoppiata la pandemia e sono arrivata in finale a 8x8: Camilla era piaciuto molto alla giuria tecnica, di cui faceva parte anche Emanuele Giammarco di Racconti edizioni. Subito dopo la finale, l’editore mi ha contattata e mi ha chiesto se avessi altri racconti pronti da fargli leggere, perché lui e Stefano Friani, il suo socio, avevano intenzione di pubblicarli. Lì per lì sono rimasta di sasso, sospesa in una bolla di incredulità. Ho telefonato a Rita Vivian, la mia agente, e lei mi ha detto di mandarle immediatamente tutti i racconti che avevo scritto, e che se l’avessero convinta li avremmo inviati all’editore così com’erano. Io, che dopo Camilla non ero più riuscita a lavorare al romanzo perché continuavano a venirmi in mente nuove storie con personaggi femminili, le ho mandato quei pochi racconti che avevo (cinque o sei). Il giorno successivo l’agente mi ha chiamato e mi ha detto che i racconti le erano piaciuti molto e che potevamo mandarli subito all’editore. Da un lato per scaramanzia e dall’altro perché proprio non volevo crederci, mi ero convinta che la cosa non sarebbe andata in porto, anche perché sapevo che, almeno fino a quel momento, l’editore aveva pubblicato solo tre autori italiani ed era estremamente selettivo. Invece, con mia grande sorpresa, non solo i racconti sono piaciuti, ma dopo qualche giorno ho ricevuto il contratto da firmare: un contratto per un libro che non esisteva ancora e che era appunto tutto da scrivere. Per me si trattava di dimostrare che ero una scrittrice vera, e non una che per un colpo di fortuna aveva azzeccato un paio di racconti. Ho accettato la sfida e mi sono messa subito al lavoro, anche perché ormai mi serviva solo una scusa per mollare il romanzo e cominciare a pensare seriamente ai racconti. Visto che ero costretta a casa dalla pandemia, poi, non avevo molto da fare, e allora mi sono immersa nel flusso di immaginazioni che avrebbero costituito la struttura portante del libro.

Insieme a Camilla, erano molti i nomi di donna che mi ossessionavano: Laura, per esempio, che era il nome di una mia vecchia compagna di università. E siccome a quel nome si è subito associato un desiderio mai sopito di vendetta, ho pensato senza nessun rimorso che avrei potuto utilizzare quel personaggio e fargli fare una brutta fine. Ora, mi sono accorta che questa cosa di usare la fiction per vendicarmi di persone reali che in passato mi avevano fatto soffrire mi procurava un piacere enorme, un piacere sadico. Così mi sono detta: di chi altro desidero vendicarmi? Non è che mi sia seduta a tavolino e abbia fatto un elenco, intendiamoci: ma sentivo che quell’esercizio mi faceva stare bene e mi serviva a liberarmi di certi fantasmi che mi portavo dietro. Devo dire infatti che, per come sono fatta, tendo a vivere nel passato, e se da un lato questo può essere utile alla scrittura, dall’altro è una forma di intossicazione di cui farei volentieri a meno. A ogni modo, insieme a Laura ho ritrovato altre vecchie conoscenze e altri ricordi legati a luoghi in cui ero stata infelice. Poiché intendevo liberarmi di tutti quelle presenze inquietanti, ho pensato che l’unico modo per farlo sarebbe stato scrivere un libro gotico. A quel punto ho capito perché avessi avuto bisogno di rileggere proprio quei racconti di Poe, e ho sentito chiaramente che se avessi avuto il coraggio di sbloccare certi ricordi allora il libro si sarebbe scritto quasi da sé.

Mi pareva però che alle storie che avevo in mente mancasse un tassello: da ragazzina, avevo amato molto la letteratura gotica anglosassone (non solo Carmilla e Poe, ma anche Dracula di Bram Stoker, Il Dottor Jekyll e Mister Hyde di Stevenson, i racconti di Henry James e di Lovecraft...) e più di recente mi ero appassionata a Shirley Jackson e a Joyce Carol Oates; tuttavia avevo bisogno di un’atmosfera particolare, che fosse in grado di rafforzare il potere simbolico delle storie, rendendole immediatamente universali nella mente del lettore. Così ho pensato all’atmosfera delle fiabe.
Da bambina adoravo le fiabe, ma non ho mai avuto nessun interesse per il principe azzurro o per le storie romantiche: ad attirarmi erano sempre i particolari macabri e morbosi, tant’è che un giorno (avrò avuto sì e no cinque anni) ho chiesto a mia madre di comprarmi un lettino di vetro uguale alla bara di Biancaneve. Un’altra delle mie fiabe preferite è Scarpette rosse, una storia di Andersen a dir poco terrificante, in cui una ragazzina viene punita per aver osato indossare le sue scarpe preferite (rosse, per l’appunto) al funerale della nonna. Siccome si era lasciata andare alla vanità, dio l’aveva punita mandandole un angelo che le aveva mozzato i piedi con un’ascia e l’aveva poi costretta a danzare sui moncherini fino alla fine dei suoi giorni. Questa fiaba in particolare mi ha colpito così tanto da plasmare il mio immaginario in modo un po’ perverso: in Neroconfetto c’è un racconto, La giacca, ispirato a Scarpette rosse, anche se trasfigurato al punto da renderlo irriconoscibile. A dire il vero non è che abbia pensato: adesso mi metto a riscrivere Scarpette rosse con una trama diversa. Piuttosto, tempo fa avevo comprato una giacca che mi stava particolarmente bene, e mi ero accorta che quando la indossavo mi guardavano tutti. In quel momento, mi è venuto in mente il quadro di Dorian Gray. Anche lì c’era un oggetto magico (il quadro, appunto) che portava fortuna al suo possessore, ma a un certo punto la fortuna si rovesciava e proprio l’oggetto magico iniziava a vivere di vita propria, generando conseguenze tragiche. Ho pensato subito che avrei potuto applicare questo schema anche alla mia storia, rendendola però incentrata sul corpo e sulla bellezza. Da donna, infatti, ho sempre vissuto con una certa ambivalenza il desiderio più che legittimo di piacere e quello di fregarmene dei giudizi sul mio corpo: non mi sono mai sentita bella e ho sempre invidiato chi invece lo era, e credo che La giacca, con la sua ambiguità, dia voce proprio a questa ossessione.

Ma le fiabe non sono l’unico serbatoio di elementi macabri cui attingo: sono una grande appassionata di cronaca nera, e quando leggo di un delitto particolarmente efferato vado alla ricerca di tutti i particolari più crudi, nonché delle motivazioni psicologiche che stanno dietro ai fatti di sangue. Se potessi, scriverei subito un libro sul delitto di Novi Ligure come ha fatto Lagioia con la vicenda dell’omicidio Varani.

A ogni modo, i miei fantasmi non sono solo persone in carne e ossa, ma anche luoghi: Trento, per esempio, e cioè la città in cui sono cresciuta, nei miei racconti non è mai un’ambientazione neutra né tanto meno positiva, ma è sempre una sorta di cimitero dei ricordi: non a caso, L’incidente comincia proprio con una morta che si risveglia al cimitero di Trento. Nel racconto L’Inquilina, invece, abbiamo una casa stregata e delle presenze che chiaramente fanno riferimento all’infanzia (e sono molti i racconti in cui si allude all’infanzia come a un paradiso perduto).
A Trento si contrappone Milano: se la prima è la città dei fantasmi, Milano è il luogo dove tutto è possibile. Proprio in una Milano distorta e onirica, infatti, sono ambientati i due “racconti magici”: La giacca e Occhiali. In entrambi i racconti, le protagoniste sono giovani donne alle prese con la maturazione e con la costruzione della loro identità: Clara e Nora sono entrambe intrappolate in relazioni che le rendono dipendenti e insicure, e per poter trovare il loro posto nel mondo devono liberarsi proprio da questi rapporti, e lo fanno con l’aiuto di due oggetti magici.
Utrecht, al contrario, è il luogo della disillusione: proprio in questa città, infatti, Mara si perde, in un labirinto di strade tutte uguali prima, e di corridoi alienanti poi. Infine la Sicilia, ovvero il luogo stregato per eccellenza, che compare brevemente solo nella seconda e terza parte di Notturno. In una città misteriosa di cui nomino solo l’iniziale (P. come Palermo, ma potrebbe essere benissimo Siracusa o un’altra città siciliana sulla costa), un uomo s’innamora perdutamente di una donna che piano piano si rivelerà diversa da come lui crede; questo amore, basato su una menzogna, finirà per avvolgerlo nella ragnatela di bugie e di omissioni che lui stesso ha creato.

Alcuni dei racconti sono stati drasticamente rivisti o addirittura riscritti in fase di revisione, con l’aiuto dell’editor Emanuele Giammarco: penso a Candeggina, (forse il racconto a cui sono più legata), o a La babysitter, o ancora a Notturno. Con Emanuele ho lavorato molto sugli aspetti narrativi, in modo da esplicitare meglio dei nodi di trama che non erano abbastanza chiari o da approfondire le motivazioni dei personaggi e le loro relazioni. In Candeggina abbiamo sacrificato un passaggio a cui tenevo molto, perché la voce narrante, che per tutto il racconto dimostra una certa grettezza frutto della vita di provincia, non era abbastanza omogenea. In La Clinica, invece, il finale non era convincente, e allora abbiamo sviscerato ogni singolo passaggio del racconto per trovare una conclusione che desse forza a tutto quello che veniva prima.
Per quanto riguarda il titolo, è nato davvero per caso: stavo pensando a una frase o a una parola in grado di collegare tutti i racconti che avevo scritto fino a quel momento, e ho pensato che mi sarebbe piaciuto che il lettore consumasse le mie storie come delle caramelle, e cioè una dopo l’altra. Poi però ho pensato ai confetti, perché si mangiano nelle occasioni importanti, e per me l’uscita del libro sarebbe stata di fatto come la nascita di un figlio. O di una figlia, mi sono detta. E quindi: confetti rosa. Ma poi ho pensato che, sebbene avessero protagoniste femminili, i miei erano dei racconti decisamente dark. Confetti neri, quindi. Ho telefonato a Emanuele e gli ho proposto la mia idea. Lui mi ha ascoltato attentamente e mi ha detto che l’idea era buona, ma che mancava qualcosa.
Il giorno dopo mi ha richiamata e, senza nemmeno dire ciao, ha detto solo: Neroconfetto, tutto attaccato.

© Illustrazione di Valallart

© Illustrazione di Valallart