Amparo Dávila, una scrittrice dall’oscurità

cover_Amparo_Dávila_L-Ospite-e-altri-racconti.jpg

Il 24 settembre 2020 Safarà pubblica per la prima volta in Italia la prosa indimenticabile di Amparo Dávila, maestra indiscussa di quella narrativa «strana» che sonda l’oscuro, in un libro di testi brevi che ha per titolo L’ospite e altri racconti , nella traduzione di Giulia Zavagna. Noi siamo felici e orgogliosi di darvene un’anteprima pubblicando – grazie alla gentile concessione dell’editore – l’appassionata prefazione di Alberto Chimal (sempre nella traduzione di Giulia Zavagna) che riesce a darci un’idea della complessità di questa scrittrice immensa e ancora poco conosciuta nel nostro paese.

Amparo Dávila
Una scrittrice dall’oscurità

In Messico, nel 2020 – l’anno in cui scrivo queste parole – Amparo Dávila è una scrittrice che non ha praticamente bisogno di presentazioni al pubblico lettore. È una celebrità, soprattutto tra le donne, e ancor di più tra le giovani donne, perché è anche un’icona: mancata pochi mesi fa, all’età di novantadue anni, è morta con la consapevolezza che il suo nome fosse più riconosciuto che mai, dopo decenni di oblio e disdegno da parte della cultura letteraria del paese. La sua biografia è tra gli emblemi della lotta delle donne messicane ai pregiudizi e alla discriminazione che hanno subito per secoli.

Tuttavia – e contrariamente all’idea che si ha della letteratura messicana nel resto del mondo – Dávila non è stata una scrittrice che ha messo l’attivismo o la denuncia al centro delle sue opere. Non ha composto lunghi e densi romanzi di tematiche sociali, né men che meno è autrice di testi di non fiction o autofiction. Al contrario, è stata poetessa e cuentista, scrittrice di racconti, e nella prosa si è dedicata esclusivamente a un tipo molto particolare di storie: una peculiare forma della narrativa dell’insolito, o del fantastico, che ha messo in difficoltà intere generazioni di critici. Il Premio Nacional de Cuento concesso dall’Instituto Nacional de Bellas Artes porta il suo nome dal 2018, ed è certo un omaggio che conferma la sua posizione di rilievo; eppure i suoi testi non sono in alcun modo «rappresentativi» di ciò che oggi ci si aspetta da un autore messicano contemporaneo. La sua opera è affascinante tanto per questa stranezza, per questo suo carattere improbabile, quanto per la sua profondità e bellezza.

Nata nel 1928 a Pinos, nello stato di Zacatecas, Dávila scoprì la lettura – come ha raccontato in diverse occasioni – nella biblioteca di suo padre. Di quattro fratelli, solo lei sopravvisse all’infanzia. Questi precoci contatti con il linguaggio e con la morte sembrerebbero collocarla nella tradizione di Edgar Allan Poe, Horacio Quiroga e molti altri autori nelle cui opere l’orrore e l’oscurità della vita si fondono con la scrittura, ed effettivamente Dávila appartiene a questo filone. La sua carriera ha però dovuto affrontare un ulteriore ostacolo: è stata intermittente, con lunghi periodi di silenzio, perché segnata dalle disuguaglianze che oggi le sue ammiratrici più agguerrite combattono.

Sebbene la sua situazione familiare e il fatto di essere cresciuta in una regione conservatrice del paese sembrassero destinarla a una vita domestica, Dávila si adoperò per scrivere e pubblicare fin da subito. Era ancora giovanissima quando si trasferì a Città del Messico: per quasi tutto il ventesimo secolo, vivere nella capitale rappresentava nella pratica l’unica alternativa possibile per gli aspiranti scrittori e, nonostante fosse ancor più difficile per le donne, Dávila riuscì a farsi strada. Lì pubblicò – anche se con lunghi periodi d’attesa tra un titolo e l’altro – i suoi tre libri più importanti: Tiempo destrozado (1959), Música concreta (1964) e Árboles petrificados (1977).

Dopo che Árboles petrificados ottenne il Premio Xavier Villaurrutia, uno dei più alti riconoscimenti letterari del paese, l’autrice non pubblicò altri inediti, e si dedicò principalmente alla famiglia che aveva formato con l’artista Pedro Coronel. Per anni la sua opera divenne una sorta di fantasma, che vagava nei libri prestati di mano in mano, nelle fotocopie di fotocopie, nei consigli entusiastici di una manciata di adepti. Dovette attendere molto per il riscatto e la sua finale consacrazione: il quarto di secolo che va da Muerte en el bosque (1985) – l’antologia di racconti che la presentò a una nuova generazione – alla prima edizione dei suoi Cuentos reunidos (2009), che l’ha resa definitivamente parte del canone nazionale.

Tra i vari elementi, ciò che più attrae nell’opera di Amparo Dávila è proprio questa sua fama di segretezza, di difficile accesso. Ma chi vi si addentra ha anche la possibilità di scoprire perché è davvero singolare.

Per quanto in Messico esista una tradizione (non sempre riconosciuta) di immaginazione fantastica, e in particolare del racconto del sinistro – Das Unheimliche, il perturbante secondo Freud, che troviamo anche in autori molto celebri quali Julio Cortázar, Elena Garro o lo stesso Gabriel García Márquez – Dávila è stata la prima a scrivere racconti «extraños» partendo proprio l’esperienza delle donne messicane in relazione al contesto sociale in cui vivevano. Nessuno in Messico aveva mai provato quella combinazione così particolare e precisa di ambiente quotidiano, domestico, angosciante – in cui lei stessa ha vissuto – con l’oscuro: la cognizione di qualcosa di indecifrabile, una o molte possibilità di esistenza diverse dall’abituale e perfino dall’umano. Nei suoi racconti, il mistero non si spiega mai, né viene mitizzato, ma rimane informe, diventando quindi fonte inesauribile di angoscia, di inquietudine. Chi legge Amparo Dávila non saprà mai esattamente identificare le minacce che le sue protagoniste, quasi sempre donne, si trovano ad affrontare. Come scaturisce la pazzia, perché avviene l’invasione di creature misteriose, quando è cominciata la dissoluzione della realtà stessa: sono domande a cui nessuno può rispondere. E nei mondi di Dávila, il massimo che si può fare è tenere a bada il pericolo: i suoi personaggi sono molto lontani dall’imposizione, dalla guerra, dalla conquista, da questo e dall’altro lato dello specchio. E tuttavia, resistono.

Come alcune altre celebrità letterarie messicane, Amparo Dávila preferiva dare ai suoi racconti fantastici un altro appellativo, per proteggerli da un ulteriore pregiudizio: quello che la cultura del mio paese ha, perfino oggi, contro l’immaginazione fantastica come risorsa estetica e possibilità di riflessione. Lei scelse l’aggettivo «vivencial» – a indicare ciò che nasce dal vissuto, dalle esperienze – con cui sottolineava la parte più personale delle sue influenze. Ancora oggi, più di un critico prende alla lettera questa manovra elusiva, e si affanna nel tentativo di ridurre racconti come L’ospite, Tiempo destrozado o La señorita Julia a esempi di «scrittura testimoniale» o di «letteratura femminile» (categoria di per sé sessista, evidentemente). Ma Amparo Dávila va oltre tutte queste letture. L’oscurità – in casa, in città, nell’universo – diventa sua alleata, e insieme ci chiamano, ancora una volta, per raccontarci le loro storie e i loro enigmi.

 

Alberto Chimal Città del Messico, agosto 2020

202004185.jpg