Il Saggiatore porta in libreria Tutti i racconti di Witold Gombrowicz, raccolti integralmente per la prima volta in Italia. Una sintesi perfetta della sua satira conturbante, della sua visione grottesca del mondo, delle sue narrazioni paradossali e stridenti, della sua capacità di dare vita a figure irregolari e assurde, in grado di frantumare in pochi istanti le regole su cui poggia la società.
Cattedrale vi propone una parte della postfazione di Francesco M. Cataluccio per gentile concessione dell’editore.
Acrobazie e feroci divertimenti del raccontare
di Francesco M. Cataluccio
Sin da molto giovane Witold Gombrowicz – che era nato cittadino polacco dell’Impero russo nel 1904 –, traumatizzato dalla Prima guerra mondiale, fu disgustato dalla falsità delle forme che dilagava attorno a lui. A Varsavia si sentiva un escluso, un diverso, e si contrapponeva ostentatamente alla Famiglia, ai suoi Valori, alla Patria: «Odiavo i salotti, adoravo di nascosto le dispense, le cucine, le stalle, i braccianti e le serve – allora ero una specie di marxista – e il mio erotismo precoce, saziato dalla guerra, dalla violenza, e dai canti dei soldati, in seguito mi spinse verso quei corpi segnati dai lavori pesanti e sporchi. La bassezza divenne per sempre il mio ideale. Se adoravo qualcuno, quello era lo schiavo. Ma non sapevo che adorando lo schiavo diventavo un aristocratico. […] Il culto dell’assurdo, realtà/irrealtà, bassezza/superiorità, signoria/servitù, già allora si impadronirono di me. Già allora avevo una doppia vita. […] Ero completamente inadatto all’amore. L’amore mi fu tolto per sempre e sin dalle origini, ma non so se ciò sia avvenuto perché non sono stato capace di trovare una forma adatta a esso, un’espressione appropriata, o se invece non lo avevo in me. Non ce lo avevo dentro, o l’ho soffocato in me? O forse mia madre me l’ha ucciso?».
In apparente contraddizione con la sua attrazione verso le persone delle “fasce basse della società”, a Gombrowicz piaceva sentirsi un “nobile” (appartenente a una Forma “alta”) e amava i titoli e le etichette. La sua famiglia era una tipica “famiglia per bene” della piccola nobiltà terriera polacca (szlachta): il padre, un ex proprietario terriero trasferitosi a Varsavia per fare l’industriale; la madre, di ottima famiglia aristocratica (almeno secondo le ricerche genealogiche del giovane Witold), «delicata, sensibile e molto malata di nervi»; tre figli maschi e una figlia, Irena, attivista cattolica. Nelle foto della giovinezza, Gombrowicz appare sempre elegantissimo, con la bella faccia da furetto e gli occhietti malinconici, in un angolo del gruppo di famiglia. Appartato e triste, dà l’impressione di essere fortemente a disagio tra quei «nobilotti imborghesiti». Non si sentiva capito da loro, era un “anormale”, indeciso se diventare o no un adulto, né carne né pesce. Lo consideravano un eccentrico pieno di complessi con l’inquietante ambizione di diventare un artista; lo trattavano come un immaturo e un «signorino».
Era già allora terribilmente solo. Come molti anni dopo, a Berlino ovest, scoprì Ingeborg Bachmann: «Penso che fosse uno degli uomini più soli che abbia mai conosciuto, completamente abbandonato da tutto, dalla Polonia, dall’Argentina, da Berlino…».
Incapace di stare bene con gli altri, metteva in scena se stesso ai tavolini dei caffè Zodiak e Zemiańska, circondandosi di giovani adoratori estasiati dai suoi “atteggiamenti”. Come ha scritto, con un pizzico di astio, uno dei suoi migliori amici di allora, Tadeusz Kępiński, «Witold fu un campione dell’atteggiarsi sociale e intellettuale. Al suo tavolo, al caffè Zemiańska, sedevano bellissime ragazze, soprattutto di origine ebraica, tanto che lo chiamavano “il re delle ebree”». Oppure “il re ebreo”, perché tra i suoi migliori amici c’erano gli scrittori Bruno Schulz e Adolf Rudnicki. Anche in questo Gombrowicz era un anticonformista in un’epoca nella quale già dilagava l’antisemitismo: «Soprattutto gli ebrei erano miei amici intellettuali e costituivano la maggioranza del mio pubblico. […] Devo molto agli ebrei».
Ma finita la recita, quando tutti scemavano allegri per le vie di Varsavia, Gombrowicz rimaneva solo con se stesso, oppresso da un deserto di incomunicabilità e infelicità.
Fu già allora la noia a spingere Gombrowicz a scrivere. Per far piacere al padre aveva studiato Legge all’Università di Varsavia (lavorando, tra l’altro, a una tesina, rimasta tra le carte del fratello Janusz, dal “profetico” titolo: Solidarność i polityka, Solidarietà e politica). Non essendo affatto interessato agli studi, e cominciando a essere malato ai polmoni, trascorreva lunghi periodi presso il fratello a Zakopane, sui monti Tatra. Nella solitudine totale delle foreste cominciò a scrivere. Riempiva le sue giornate con “strane” fantasie, le stesse che daranno esca ai suoi racconti, ai romanzi Gli indemoniati, Pornografia e Cosmo: «La noia, caro mio, fa novanta, peggio della paura. Quando ci si annoia si immagina Dio sa che cosa!».
Dopo due anni passati in Francia, preso l’Institut des Hautes Etudes Internationales di Parigi, dove tutto fece fuorché studiare, e dopo alcuni tentativi falliti di darsi alla pratica di avvocato a Radom (anche per l’ostilità di molti avvocati del luogo che, a causa delle sue frequentazioni letterarie, lo consideravano di sinistra!), secondo la testimonianza del fratello maggiore, Jerzy Szymkowicz Gombrowicz, Witold cominciò a scrivere in tutta segretezza i suoi racconti rinchiuso nella residenza di Wsola, a novanta chilometri a sud di Varsavia. Scriveva e giocava a tennis (come molti suoi personaggi, a partire dal protagonista degli Indemoniati, faranno). La nobiltà campagnola del luogo gli fornì materiale in abbondanza per le sue storie. Basti pensare al racconto «Il banchetto dalla contessa Frumiga» (Biesada u hrabiny Kotłubaj), che, come narra lo stesso Gombrowicz in Testamento, provocò accese reazioni da parte degli aristocratici. Addirittura i Kotłubaj, una famiglia aristocratica della Lituania, minacciarono di trascinarlo in tribunale per calunnia. In realtà, la protagonista era ispirata alla figura della latifondista-filantropa Marta Krasińska (nel racconto infatti c’è un accenno a un imparentamento di sangue dei Kotłubaj con i Krasiński). Altri spunti gli vennero dalle frequentazioni dei vari caffè della capitale.
Il suo debutto letterario avvenne, nel 1933, con un libro di racconti, non casualmente intitolato Ricordi del periodo della maturazione (Pamiętnik z okresu dojrzewania), che comprendeva sette storie: «Il ballerino dell’avvocato Kraykowski»; «Il breve diario di Jakub Czarniecki»; «Un delitto premeditato»; «Il banchetto dalla contessa Frumiga»; «Verginità»; «5 minuti prima di addormentarsi»; «Eventi accaduti sul brigantino Banbury o dell’aura dell’intelletto di F. Zantman». Gombrowicz scrisse un’introduzione al libro: «Breve chiarimento» (Krótkie objasnienie), che fu tolta quando il volume era già in stampa e si è conservata soltanto in alcuni esemplari. Nella parte finale lo scrittore faceva un’annotazione sorprendente per l’epoca, il 1933 appunto: «Per quel che riguarda in particolare il fattore sessuale, il suo predominio risulta dallo spirito del tempo, che, purtroppo, accentua sempre più fortemente il legame della sfera sessuale con la sfera spirituale; la sopraffazione, la crudeltà in particolare e la ripugnanza risultano dal fatto che, a mio parere, il loro ruolo nella vita supera le più audaci fantasie. Mi riferisco, a questo proposito, a Hitler». Da ciò si comprende come, a ventinove anni, Gombrowicz avesse già raggiunto non soltanto una maturità artistica sorprendente, ma anche una capacità di leggere la sua epoca che ha pochi uguali negli scrittori europei del periodo tra le due guerre. Gombrowicz comunque, molti anni dopo, volle commentare: «A quel tempo non conoscevo né Joyce né Kafka, non avevo mai sentito parlare del surrealismo e di Freud sapevo poco o niente. Se qua o là ho capito qualcosa di queste ispirazioni è solo perché erano già nell’aria, nei discorsi e nelle barzellette».
Il ricco padre di Gombrowicz pagò la metà del costo della pubblicazione dei racconti, come richiesto dalla casa editrice Rój di Varsavia, assecondando a malincuore le inclinazioni del figlio.
Il modo migliore per accostarsi all’opera di Witold Gombrowicz è quello di partire proprio dai suoi racconti: vicende atrocemente ironiche, dove l’assurdità e il paradosso trionfano, e si delinea già nettamente la filosofia visionaria del maggiore scrittore polacco del Novecento. Accingendosi a leggere queste bizzarre storie occorre lasciarsi dietro le spalle il comune senso del reale, le norme che reggono la nostra vita. Gombrowicz e i suoi protagonisti ne fanno polpette, beffandosi di qualsiasi convenzione logica e sociale. C’è un vento di anarchia corrosiva che attraversa questi racconti, una caratteristica che rimarrà anche in tutte le altre opere di Gombrowicz, ma che qui si accompagna con la furia iconoclasta e irrispettosa di un giovane che si sente soffocato dalle forme tradizionali del vivere e dello scrivere, e allo stesso tempo le ama profondamente. Al di là della loro bellezza formale, i racconti sono una schioppettante presa in giro del mondo aristocratico e borghese del periodo tra le due guerre; del moralismo vuoto; della sessualità repressa; del culto dell’apparenza; del rispetto di un’etichetta che appare sempre più ridicola; della famiglia che ha perso ormai il suo ruolo e la sua dignità tradizionali. Questo, però, non pregiudica affatto la grande attualità di molte di queste storie: poche beffe della corruzione dei governanti possono reggere il confronto con il tragicomico banchetto di nozze dell’avido re Gnulo. Ma Gombrowicz ha anche il merito di averci fornito un’interpretazione delle vicende a lui contemporanee estremamente anticonformista e assai vicina al modo che abbiamo oggi di guardare alla crisi del periodo tra le due guerre e all’affermazione dei regimi totalitari. Il successivo romanzo Ferdydurke (1938) racchiude in sé l’essenza di tutti questi racconti e la chiave per capire la natura del successo dei totalitarismi. Scritto alla vigilia della Seconda guerra mondiale, era la satira dell’infantilismo moderno, mostrando gli uomini ridotti a stupidi, fanatici bambini pronti ad azzuffarsi a ogni occasione. La convinzione di Gombrowicz era che più gli uomini si sentono maturi, più sono bambocci. La nostra cultura – avvisava lo scrittore polacco – «non è né completa né intera, non essendo che una fragile costruzione sopra la ribollente anarchia che a poco a poco fa crollare tutto il sistema culturale delle nostre convenzioni».