Il rasoio di Beckham, di Roberto Barbolini

Titolo: Il rasoio di Beckham
Autore:Roberto Barbolini
Editore: La Nave di Teseo
pp. 352 Euro 18,00

di David Valentini

Roberto Barbolini, classe 1951, è un personaggio decisamente eclettico. Critico letterario e teatrale, nella sua lunga carriera artistica ha scritto romanzi e raccolte di racconti, ma anche opere di teatro e saggistica, oltre a occuparsi di varie curatele. Insomma, una vita dedicata all’arte, sia quella più seria che quella più faceta.
A questo secondo gruppo appartiene la sua ultima raccolta di racconti, Il rasoio di Beckham, pubblicato verso la fine dello scorso anno per i tipi di La nave di Teseo. Già dal titolo si può comprendere lo spirito dell’opera. Il richiamo “elevato” è infatti al rasoio di Occam, il famoso principio metodologico attribuito al teologo, filosofo e religioso francescano inglese Guglielmo da Occam, vissuto nel XIV secolo, che indica di scegliere la soluzione più semplice tra più soluzioni egualmente valide di un problema. C’è però anche un richiamo che potremmo definire “pop”, ossia quello riferito a David Beckham, ex calciatore e attualmente dirigente sportivo e imprenditore (nonché icona e sex symbol degli anni Duemila e marito della ex Spice Girl Victoria Adams). L’associazione del rasoio di Occam con il nome di David Beckham crea sin da subito un forte contrasto: il richiamo ai due diversi mondi – la filosofia e il calcio – è così immediato da far scattare subito l’ironia che vi è dietro, oltre a esemplificare in quattro parole (due, se non contiamo l’articolo e la preposizione) un fenomeno che capita spesso a chi tenta di far sfoggio di una cultura appresa sui banchi di scuola e mai più rielaborata, ossia la confusione di campi semantici che genera errori grossolani.

 

Ho sempre pensato che i vegani prendessero il nome da Vega, la stella più brillante della costellazione della Lira e la quinta dell’intero firmamento, nonché la seconda per luminosità dopo Arturo nell’emisfero celeste boreale. Ma mentre accompagnavo Cloe al tavolino che ci avevano riservato, a questa genealogia astrale andavo sovrapponendo mentalmente l’immagine sfavillante di Las Vegas.

(dal racconto Sotto il segno di Vega)

 

Il rasoio di Beckham è una raccolta di ventisette racconti suddivisi in quattro parti, le quali tentano di ripartire le storie in macro temi non sempre precisi (ad esempio la seconda parte, tutti a tavola, raccoglie sei racconti inerenti, fra le altre cose, il cibo). Di questi racconti, ventuno sono inediti mentre gli altri sei sono apparsi in precedenti raccolte o antologie. Barbolini spazia dal racconto breve, anche di tre pagine, al racconto lungo (il più lungo, L’Orgoglio di Modena, è di trentacinque pagine). Queste storie sono slegate fra loro: se qualche richiamo c’è, appare più incidentale che voluto perché le ambientazioni sono spesso connesse all’hinterland modenese o, più in generale, alla zona emiliana.
C’è da dire sin da subito che la quantità di racconti e la presenza di diverse storie brevi non aiuta il lettore a percepire un legame all’interno della raccolta. A creare un senso identitario non sono tanto le vicende narrate o i personaggi quanto l’umorismo e l’equivoco che spesso dà il la alla narrazione e costituisce il vero leitmotiv del libro di Barbolini. Molte vicende prendono avvio infatti da piccole incomprensioni, a volte proprio sull’uso delle parole, che generano discussioni e litigi fra i personaggi e portano a un finale tragicomico. Nei racconti più lunghi, nei quali c’è modo di assistere a uno sviluppo di trama articolato, questo meccanismo riesce meglio al punto che, in alcuni casi – come il già citato L’Orgoglio di Modena –, non solo è impossibile anticipare il finale ma quando si arriva alle ultime righe si viene colti dal senso di spaesamento tipico di una narrazione che appare quasi senza senso e che invece un senso lo ritrova: quello delle disavventure assurde di un gruppo di amici di lunga data che hanno vissuto un’esperienza da raccontare.

 

Sentite come andò la faccenda. Una gran brutta faccenda, se diamo retta a Marcellus IV, da non confondere con Marcellus I. Non chiedetemi notizie degli altri due Marcellus, il numero II e il numero III, perché semplicemente non sono mai esistiti. Altrimenti, anziché un duo, Marcellus IV e Marcellus I avrebbero messo su un quartetto, e sarebbe stata tutta un’altra musica (dal racconto In culo a Bruce Willis)

 

 

La narrazione di Barbolini infatti risente molto del parlato quotidiano. Molti incipit si rivolgono direttamente al lettore come fosse parte di una combriccola di persone che condividono un background socio-culturale, o meglio ancora che vivono a poca distanza l’uno dall’altro e si incontrano al bar per raccontarsi gli ultimi eventi. Il risultato è un senso immediato di intimità rispetto ai personaggi che vengono presentati come fossero amici, conoscenti o amici di conoscenti. Il destinatario della narrazione, però, ossia i “noi” a cui si rivolgono i narratori, non siamo tanto noi lettori quanto altri personaggi che non compaiono nel racconto ma che sono seduti al tavolo insieme al narratore. Noialtri, invece, siamo al tavolo accanto a origliare quel che viene raccontato, col risultato di ascoltare una storia di cui non possiamo conoscere tutti i retroscena perché, come accade nella narrazione orale, vengono omessi. La mancanza di dettagli a volte fondamentali amplifica sia il senso di spaesamento sia l’effetto comico: da un lato infatti può capitare di fermarsi a un certo punto e chiedersi “Ma di che stiamo parlando qui?”, o anche “Dove vuole andare a parare il narratore?”; dall’altro, il continuo equivocare e il presentare situazioni al limite del paradossale, certamente amplificate ed esagerate come accade quando si racconta una vicenda a un amico, conduce a un crescendo e a un parossismo tali da strappare più di una risata. Se fossimo veramente al bar ad ascoltare queste vicende sorseggiando un caffè, ciò che vorremmo fare sarebbe scrivere ai nostri amici esordendo con “Non sai che storia assurda ho appena ascoltato”.

 

Ma anche il paradiso terrestre può venire a noia e questo spiega perché Sandra è diventata Chandra, la sciroccata che va in giro col suo sari arancione, il piattino e il tamburello chiedendo l’elemosina per conto degli Hare Pio: una setta di squinternati che nel nome di Krishna e di Padre Pio da Pietrelcina praticano la preghiera e l’accattonaggio a favore dei ricchi (dal racconto Mio marito è un mi bemolle)

 

Le storie di Barbolini sono costellate, oltre che da equivoci e astrusità varie, anche da riferimenti di vario tipo alla cultura popolare, all’arte, alla filosofia, alla religione. Può capitare che in alcune pagine vi siano una decina di citazioni o richiami appartenenti ai più disparati campi culturali, e che vengano collegati fra loro in maniera così precisa da sentirsi smarriti dinnanzi alla lettura. Così come il rasoio di Beckham può apparire, a tutta prima, qualcosa di realmente esistente – salvo poi soffermarsi un istante per ragionare meglio su ciò che si è letto –, allo stesso modo si può nutrire un senso di perplessità nell’associazione fra gli Hare Krishna e Padre Pio, o fra un tesoro misterioso e il maiale più premiato di una gara decisamente peculiare. C’è di tutto fra le pagine di Barbolini: Star Wars e Re Artù, Ilona Staller e la Russia di Putin, il paradosso di Schrödinger e Salgari. A tratti sembra di osservare un quadro di Hieronymus Bosch, con tutte quelle forme umane e semiumane che tappezzano ogni centimetro della tela e che, più ci si sofferma a guardarle, più sembrano irragionevoli. Il che, è appena il caso di farlo presente, richiede nel lettore un certo sforzo e un certo bagaglio culturale se intende comprendere tutti i riferimenti, gli scherzi e i vari divertissement con cui Barbolini ha arricchito la propria opera.

Le bestie, di María Fernanda Ampuero

Titolo: Le bestie
Autore:Marìa Fernanda Ampuero
Editore: granvia
Traduzione: Francesca Lazzarato
pp. 128 Euro 14,00


di Chiara Bianchi

In esergo, una frase di Clarisse Lispector «Sono un mostro, oppure è questo che significa essere una persona?», una frase in forma di domanda che ha probabilmente ossessionato María Fernanda Ampuero mentre scriveva questi tredici racconti che compongono Le bestie, pubblicato da granvia, nella traduzione di Francesca Lazzarato.
María Fernanda Ampuero, classe 1976, scrittrice ecuadoriana, ci conduce negli abissi di quella domanda iniziale presa in prestito, fino a farla diventare un’affermazione.
I corpi distrutti dalla malattia, dall’abuso e dall’odio, la violenza perpetrata e la smisuratezza del quotidiano s’insinuano nel racconto. L’efficacia della mostruosità risiede proprio nel luogo in cui si sviluppano le storie: all’interno di case di famiglie appartenenti alla classe media latinoamericana, in cui la violenza irrompe per distruggere tutto. Si ha la percezione di vivere sul bordo di un precipizio, continuamente e in compagnia dei personaggi che Ampuero con abilità stilistica costruisce attorno a quelli che sembrano fatti di cronaca, in cui la brutalità è specchio di una società malandata.
La prosa di Ampuero calamita il lettore, mentre sviscera scene terribili, avvolgendole di un’aurea intima ed evocativa in una sinestesia di olezzi attraverso cui i personaggi rivivono esperienze di disgusto capaci di oltrepassare la pagina e arrivare dritta a noi che leggiamo.
In molti di questi racconti, la famiglia appare come il generatore di queste tragedie e la preadolescenza è rappresentata come una via crucis penosa, dolorosa e obbligata, da cui i personaggi non potranno uscirne indenni.
I titoli sono formati, tutti e tredici, da un’unica parola, evocativa. Il racconto che apre la raccolta è quello che è stato più apprezzato dalla critica statunitense. Si intitola Asta e racconta di una particolare tradizione sudamericana legata ai combattimenti dei galli. Il ricordo della protagonista si focalizza su suo padre, sulle corse a cui la lasciava partecipare pur bambina, alla crudeltà di sottoporla alla tortura della morte: «Toccava a me raccogliere la palla di piume e interiora e portarla al cassonetto della spazzatura». Le lacrime delle prime volte e le parole di suo padre: «Su non fare la femminuccia. Sono galli, cazzo». L’odore disgustoso di morte torna e collega l’evento presente. La protagonista si ritrova legata e bendata in un luogo sconosciuto. Rapita da una banda di uomini disposti a tutto pur di vendere i loro prodotti: gli umani sequestrati.
Il racconto si focalizza sull’evento e toglie il fiato per la crudeltà con la quale vengono descritte le angherie subite dai prigionieri, degno di un film splatter.

E come nei migliori film horror, la presenza dei gemelli emerge nei racconti successivi: in Mostri, la serva Narcisa mette in guardia le due dodicenni: «bisogna avere paura più dei vivi che dei morti». Nella loro pubertà le due ragazzine guardano film horror di nascosto dai genitori e giocano con le loro bambole all’esorcista. Non sanno però che la loro fantasia non ha ancora superato la realtà brutale che si nasconde nella loro casa. La figura del padre emerge fin da subito come il tipico patriarca a cui tutto è concesso.

In Griselda, emerge la solitudine procurata dalla violenza domestica subita ai danni dell’anziana del quartiere, famosa per le sue torte di compleanno. Raccontata dagli occhi di una bambina di undici anni; la storia di Griselda assume i toni di una delusione infantile e ciò che accade alla donna non ha importanza in un contesto comunitario in cui l’eccezione diventa la norma.

 

L’anno dei miei undici anni non ebbi la torta. Dopo quella faccenda, la mia mami non volle ordinarla alla signora Griselda, perciò mangiammo un triste pan di spagna coperto di meringa bianca, confettini e una candela a forma di numero undici. (da Griselda)

 

Le coppie di gemelli in fase preadolescenziale continuano a costellare i racconti in Nam, come in Creature, compare l’infatuazione, il sesso – in un contesto domestico turbato da genitori dal passato incrinato dalla guerra o dalla malattia mentale e con un futuro incerto – e l’amicizia.

 

Con lei rido come se a casa mia non succedesse nulla, come se mio padre mi volesse bene come un padre. Rido come se non fossi io, ma una ragazza che dorme felice.
Rido come se non esistesse la crudeltà. (
da Nam)

 

I padri sono violenti, le madri assenti. Questo è un mood costante, perpetuo, in cui ci abituiamo a vivere la lettura di queste storie fino a Persiane, racconto affidato a Felipe, prima voce maschile narrante, che ci racconta la sua giovane esistenza tra le mura domestiche, dove le persiane vengono chiuse di giorno e aperte la notte.
«In questa casa in culo a questo paese in culo al mondo la vita era abbastanza bella. Qui siamo cresciuti tutti e tre» dice Felipe ricordando i giorni in cui i suoi cugini passavano le estati lì. La figura della nonna, vecchia, temuta, ora immobile si mescolano ai ricordi di promesse materne mai mantenute. E nel caldo di una insopportabile estate, Felipe non vuole più restare dove «gli uomini non ci sono più» e lui l’uomo non vuole esserlo. Vorrebbe tornare nel passato dove i ricordi si fanno dolci. Ma la madre lo trattiene in un vortice di violenza inaspettata, proprio sul finale.

E di madri si parla anche in Cristo. Una ragazzina che guarda sua madre e la descrive come «un’altra bambina perduta in un mondo di bambine perdute». L’abbandono familiare, la vita difficile, due figli da mantenere, il mestiere di prostituta come unica via d’uscita dalla fame, la violenza subita «a te, creatura delle botte, figlia della brutalità, principessa delle notti che si concludono come le donne malconce», un uomo da amare nonostante la sua predisposizione alla violenza, la ragazzina costretta a occuparsi di un fratellino malato: tutto sbagliato.

In Passione, Ampuero ci regala un Cristo donna: una madre abbandona la sua bambina che poi crescerà sotto la cura dei suoi nonni. La gente del villaggio gli dice che sua madre è andata a cercare uomini. La bambina cresce e prende una decisione verso i suoi nonni. Diventa un essere vile finché non incontra un uomo che sarà la sua più grande rovina.

 

Quello che è stato, è stato. Quello che è, è. (da Lutto)

 

In Lutto è ancora l’aspetto religioso a essere rilevante. Due sorelle vivono sole, un fratello moribondo che abusava di una di loro, sole «senza un uomo in casa, e dovremmo tremare come cuccioli di una cagna morta». La fede diventa l’unico motore per andare avanti, nelle preghiere la volontà di restare sole. Le due Maddalene ci fanno immergere in un racconto surreale, forse l’unico che ricorda le intenzioni della seconda raccolta di racconti Sacrifici umani (che granvia ha pubblicato nel 2022).

 

In Ali, troviamo il bel racconto delle domestiche che descrivono la loro padrona, come «strana, perfino nella generosità». Ci addentriamo in riti domestici e abitudini consolidate fondati sulla violenza.

 

Sì. La signorina Ali era una bravissima madre, fino a un po’ prima della fine. Poi è andata fuori di testa e non ce la faceva più, non più. (da Ali)

 

Ali ha una madre che per eccesso di preoccupazione invade il suo spazio privato. Ali non parla più, così sua madre per farsi compagnia «si portava le amiche per non annoiarsi, anche se era chiaro che alla figlia non piaceva che venisse gente: «nascondeva la testa sotto il lenzuolo e restava così, come avvolta in un sudario».
Il divario di classe tra le ricche donne e le domestiche si trasforma nel racconto in un divario di sentimenti. L’empatia assente nella madre di Ali è invece forte nell’amore delle domestiche, ma nonostante questo la fine della donna pare segnata.

 

Così vanno le cose, no? Vediamo qualcuno e non sappiamo cos’è successo dietro la porta di casa sua. (da Ali)

Nel successivo Coro i ruoli si invertono e a parlare sono quelle ricche donne amiche della madre di Ali. Tutto assume i toni dell’ipocrisia, non c’è benevolenza ma soltanto pettegolezzo, perché «non dover parlare degli altri significa dover parlare di sé». Coro è il nome della domestica «nera, che lavora in casa, e magari ha un odore diverso perché loro hanno un odore diverso». Sul finire compare una piscina e il racconto successivo si chiama Cloro. Ambientato in un albergo, in una suite, una donna avanti negli anni dalla pelle bianca osserva gli inservienti neri che puliscono la piscina. Il confronto tra l’inutilità della sua vita e quella di quegli uomini destinati a essere dimenticati giunge a conclusioni sporcate di razzismo.

 Giunti all’ultimo racconto Altra i toni chiaroscuri si allontanano dal Sudamerica per avvicinarsi a quelli al neon dei racconti americani statunitensi. Si svolge in un supermercato, una donna è lì per fare la spesa e acquistare quanto necessario al desiderio di suo marito.

 

Mangiare prodotti del supermercato prima di pagarli è una delle poche trasgressioni che ti concedi.
È l’unica che ti concedi.
(da Altra)

In Le bestie, non incontrerete trucchi letterari o parole inverosimili per addolcire la brutalità narrata. Qui dentro troverete morte, sangue, viscere, merda, sperma, sudore: violenza e terrore.
Un libro dell’orrore, dove la casa familiare, quello spazio che costruisce – o distrugge – le persone è una feroce prigione. Tutti gli orrori e le meraviglie racchiusi tra quelle mura: lo spavento e la gloria delle nostre vite quotidiane.

Le piccole cose tutt’altro che da nulla di Claire Keegan

Titolo: Quando ormai era tardi
Autore:Claire Keegan
Editore: Einaudi
Traduzione: Monica Pareschi
pp. 96 Euro 13,00

di Debora Lambrischini

«Elegance is saying just enough. And I do believe that the reader completes the story»
Parlava così Claire Keegan in un’intervista rilasciata al Guardian lo scorso anno, in occasione dell’uscita di So Late in the Day. Stories of Women and Men: poche parole, anche in questo caso, che arrivano dritte al punto della questione e danno un’idea piuttosto chiara della postura autoriale di Keegan, tra le voci più acclamate della narrativa irlandese contemporanea. È alla produzione breve che la scrittura di Keegan si lega indissolubilmente, il racconto o la novella quali dimensioni a lei più congeniali. A portare per primo i suoi testi in Italia fu diversi anni fa l’editore Neri Pozza, con due raccolte di racconti che oggi sono purtroppo introvabili: Dove l’acqua è più profonda nel 2010 (Antarctica, 1999) e nel 2009 Nei campi azzurri (Walk the blue fields, 2007), entrambe tradotte da Massimiliano Morini. Tuttavia, nel nostro paese, il successo di Keegan è cosa più recente, con la pubblicazione per Einaudi di due novelle magistrali, Un’estate (Foster, 2010) e Piccole cose da nulla (Small Things Like This, 2021) entrambe tradotte da Monica Pareschi e uscite tra il 2022 e il 2023. La traduzione di Morini era inappuntabile dal punto di vista formale – e sarebbe davvero un gran regalo per i lettori che entrambe le raccolte Neri Pozza fossero nuovamente disponibili – ma l’incontro con Pareschi è un connubio perfetto, fatto tanto di tecnica che di connessione emotiva e capacità profonda di comprendersi nelle sfumature del testo, nell’apparato di immagini, simboli, rimandi ed echi letterari. È ancora Pareschi, dunque, a dare voce all’ultima raccolta della scrittrice irlandese, Quando ormai era tardi (So Late in the Day. Stories of Women and Men): la raccolta è uscita a fine anno per Einaudi e contiene tre racconti originariamente scritti in tre momenti differenti e qui riuniti in ordine cronologico inverso, dal più recente che dà il titolo al volume, passando per “Una morte lenta e dolorosa” del 2007 e “Antartide” del 1999. Tre storie, quindi, che coprono un arco temporale molto ampio, indipendenti, ma che dialogano tra loro legate dal fil rouge della riflessione sui rapporti umani che anche in questo caso Keegan indaga con lucidità, penetrando anche negli angoli più oscuri e, tutte e tre, avvinte da un’atmosfera di inquieto disincanto. È anche la scrittura a tenere insieme questa breve raccolta, la voce autoriale di Keegan: la narrazione è tesa e misurata, fa ampio uso dell’ellissi e poggia su una generale economia descrittiva che si fonde alle immagini, ai simboli, agli echi della tradizione letteraria. Ogni storia è fatta anche dei suoi spazi bianchi perché, come sosteneva appunto l’autrice nell’intervista citata in apertura, è compito del lettore completarla trovando da sé le proprie risposte. Un’idea di libertà e interpretazione che è propria già della prosa di Keegan, concentrata sulla storia e non sul messaggio da trasmettere. È naturale, dunque, che la forma breve sia quella a lei più congeniale e la cura che dedica alla parola si evince anche da una bibliografia che gli standard editoriali giudicherebbero scarna, con “soli” cinque libri pubblicati dall’esordio nel 1999 a oggi, un’economia di parole che rimarca l’artigianalità della scrittura.
È possibile dunque osservare nel suo quadro complessivo la produzione letteraria di Keegan e notare, nelle varie sfumature della narrazione e nelle evoluzioni della scrittura, una serie di riferimenti e ricorrenze, tematiche e formali. La sua scrittura ha il passo della tradizione irlandese del Novecento, come sottolineava anche la sua traduttrice Monica Pareschi nel corso di un’intervista che le feci lo scorso anno, vicina alle narrazioni di Edna O’Brien, John McGahern, Joyce ma, a mio avviso, in qualche modo anche alla generazione di scrittrici irlandesi contemporanee da Sally Rooney a Naoise Dolan, passando per Eimear McBride, Anna Burns e soprattutto i racconti di Claire-Louise Bennet, pur nelle differenze peculiari di ognuna di loro. C’è dunque nei racconti di Keegan l’eco della letteratura su cui si è formata più o meno direttamente attraverso immagini e citazioni, l’urgenza di raccontare le storture dell’ambiente culturale e sociale entro cui si sviluppano, c’è il discorso di classe, diversi gradi di alienazione e solitudine che ricorrono nelle storie e una tensione costante che pur non sfociando spesso in aperta violenza, anzi proprio per questo, si insinua sottopelle.
I protagonisti delle narrazioni di Keegan sono uomini e donne qualunque, alle prese con un quotidiano che può essere alienante, solitario, teso tra ideale e realtà. Di queste vite l’autrice ci restituisce qualche istante, una porzione piuttosto limitata nel suo dispiego temporale ma profondamente incisiva, costellata di epifanie minime, piccoli gesti, drammi.

Uno dei suoi testi più acclamati, Piccole cose da nulla, è tutto concentrato nella settimana prima di Natale: tanto basta a Keegan nello spazio di meno di un centinaio di pagine per affrontare tematiche profonde e complesse, tratteggiare con poche pennellate mirate uno spaccato dell’Irlanda rurale degli anni Ottanta. A discapito del titolo è la storia di scelte fondamentali che cambiano una vita – più d’una in realtà – ma anche una riflessione profonda su quanto decidiamo di non vedere per proteggere noi stessi e l’equilibrio delle nostre vite, sull’omertà cui è facile finire invischiati per convenienza, quieto vivere, necessità. Un giorno uguale all’altro. Finché non è più possibile fare finta di niente e un gesto, tutt’altro che una “piccola cosa da nulla” ricorda al protagonista quanto la solidarietà possa fare invece la differenza e cambiare il corso di una vita, anche se questo significa mettersi contro le istituzioni religiose, attirarsi il malcontento della propria famiglia, andare incontro a sfide che rischiano di gettare in crisi un’esistenza ordinaria.

 

[…] si ritrovò a domandarsi che senso aveva essere vivi se non ci si aiutava l’un l’altro. Era possibile tirare avanti per anni, decenni, una vita intera senza avere per una volta il coraggio di andare contro le cose com’erano e continuare a dirsi cristiani, a guardarsi allo specchio? (Piccole cose da nulla, p. 89)

 

È una novella piuttosto breve, dunque, ma che resta a lungo nella memoria del lettore, per l’incanto della scrittura e la potenza delle riflessioni che porta con sé: possiamo davvero considerarci brave persone se viviamo una vita onesta ma scegliamo di non vedere le ingiustizie intorno a noi? Quali sopraffazioni decidiamo di ignorare? Anche in questo caso Keegan costruisce una narrazione in cui coinvolgere direttamente il lettore, lasciando gli opportuni spazi bianchi della narrazione e un finale aperto, concentrando la storia su quei piccoli momenti decisivi, tra presente e passato, in un arco temporale circoscritto.

Lievemente più disteso il tempo di Un’estate, con la storia che si sviluppa appunto entro il tempo di una stagione, quella necessaria alla piccola protagonista a comprendere il significato di cura, amore, gentilezza. Un’estate è un apprendistato all’affetto dove sono i piccoli gesti a modificare profondamente le cose. La protagonista è una bambina di nove anni, cresciuta in una famiglia affollata, povera, per lo più ignorata; viene mandata a trascorrere l’estate presso la fattoria di certi parenti della madre, un uomo e una donna che hanno perso un figlio molti anni prima. Una novella scarna di parole e dialoghi che si compie magistralmente mediante quei piccoli gesti entro cui è racchiusa ogni cosa: l’estraneità, l’affetto istintivo, la ritrosia, il dolore sepolto ma mai superato, la perdita, la scoperta dell’affetto.

 

Kinsella mi prende per mano. Allora mi rendo conto che mio padre non l’ha mai fatto, nemmeno una volta, e una parte di me vorrebbe che Kinsella mi lasciasse andare, così non sarei costretta a provare niente di simile. È una brutta sensazione, ma andando avanti comincio ad abituarmi alla differenza tra la mia vita a casa e quella che ho qui, e la accetto. (Un’estate, p. 37)

 

Da questa storia – come da Piccole cose da nulla – è stato anche tratto un bellissimo film, The Quiet Girl, per la regia di Colm Bairéad che ne ha saputo rievocare i silenzi, gli spazi sospesi della narrazione, il punto di vista della giovane protagonista, le atmosfere e l’intensità. Non era affatto semplice, ma questo film è un gioiello, al pari della novella di Keegan e la profondità di quello che racchiude entro così poche pagine. Anche in questo caso ciò che lo sguardo dell’autrice inquadra è solo una parte delle vite dei personaggi, quel «moment of truth» che fa il racconto, costellato talvolta di piccole fondamentali epifanie, ma che di lì a poco si appresta a sfumare, togliendo tutto il superfluo, dosando le parole con garbo e attenzione, aprendo le porte al lettore.

I tre racconti recentemente pubblicati da Einaudi nella raccolta Quando ormai era tardi portano in loro un’inquietudine più esplicita delle due novelle poc’anzi citate, la scrittura maggiormente tesa, lo sguardo disincantato. I rapporti umani sono indagati nei loro angoli più bui, la violenza latente pare pronta a esplodere, poco conta se sulla scena o appena fuori campo. Storie indipendenti ma accomunate dalla rappresentazione di una mascolinità negativa, mischiata al patriarcato, alla misoginia, a un costante desiderio di prevaricazione sul femminile, emotivo o fisico. L’uso peculiare del linguaggio nelle narrazioni di Keegan tra immagini e piccoli dettagli disvela nella rilettura tutto il potenziale e il sostrato di rimandi, epifanie, particolari sottesi, forte anche in questo della lezione dei classici della narrativa breve otto-novecentesca. Ecco dunque che una lettura veloce della storia eponima di questa più recente raccolta mostra la malinconia per la fine di un amore; il secondo racconto, “Una morte lenta e dolorosa”, la quiete del ritiro di una scrittrice disturbata da un vecchio professore antipatico; il terzo e ultimo racconto, “Antartide”, le insidie di una relazione extraconiugale. Ma lo stile piano non deve trarre in inganno: dietro ogni parola, ogni omissione, ogni dettaglio in apparenza minimo, c’è un mondo di riferimenti, simboli, particolari importanti. È interessante che nel primo racconto, “Quando ormai era tardi”, Keegan scelga il punto di vista del protagonista della storia, Cathal, con il quale in primo momento siamo portati a empatizzare ma che nel giro di una manciata di paragrafi si rivela un uomo meschino, incapace di reale affetto per la compagna, di cura, di generosità. La storia si scopre in un viaggio a ritroso ed ecco che tutti i pezzi che l’hanno portato a quella solitudine rivelano la misoginia dell’uomo.

 

«È solo che non immaginavo sarebbe stato così, tutto qua, - aveva detto lui. – Pensavo solo al fatto che saresti stata qui, che avrei cenato con te. Forse è solo una dose eccessiva di realtà».
(“Quando ormai era tardi”, p. 24)

 

Quella «dose eccessiva di realtà» è la vita, lo spazio da dare all’altro, i suoi bisogni, i gesti dell’affetto. E dunque di fronte alla troppa realtà, per Cathal resta soltanto l’ingombro delle cose della donna che dice di amare, le stravaganze, le differenze che non si completano ma si fanno distanza. Mentre la relazione diventa più seria da un punto di vista formale, i sentimenti non vanno di pari passo ed è come se in fondo non fossero altro che convenzioni sociali da cui non si è disposti a staccarsi.

Quelle stesse convenzioni, forse, che spingono la donna del racconto finale, Antartide, a restare dentro il ruolo che ci si aspetta da lei, cercando però altrove la passione che manca nella sua vita:

 

Ogni volta che la donna felicemente sposata si allontanava da casa, si chiedeva come sarebbe stato andare a letto con un altro uomo. (“Antartide”, incipit, p. 63)

 

Con la scusa degli acquisti per Natale la protagonista si allontana per qualche giorno, decisa a vivere una passione che nel suo quotidiano ha perduto. La seguiamo al suo arrivo in città, nell’elegante camera d’albergo che ha prenotato, mentre si prepara con cura per uscire alla ricerca di un amante sconosciuto. E quando dunque lo troverà al bancone di un bar, tra fiumi di alcol, non vorrà cogliere i tanti campanelli d’allarme che a noi lettori – soprattutto di oggi – risuoneranno invece potenti. Ciò che sembra dirci Keegan, con questa storia amara e ironica insieme, è che il mondo non perdona una donna che non rispetta le regole.
Il ruolo di una donna e, soprattutto, la delegittimizzazione del suo lavoro, è al centro di “Una morte lenta e dolorosa”, in cui Keegan sceglie il punto di vista di una scrittrice senza nome – anche questo un dettaglio importante – che soggiorna per un periodo nella casa dove Heinrich Böll scrisse alcune delle sue opere e riconvertita in residenza per artisti. Ma il soggiorno che dovrebbe fornirle la pace e l’ispirazione necessaria alla scrittura, è disturbato da uno sgarbato vecchio professore di letteratura tedesca che, si scopre tra le righe, non nutre la minima stima per la scrittura di quell’estranea che si insedia senza tante cerimonie nella casa di un autore della levatura di Böll. Nei modi sempre più apertamente sgarbati dell’uomo, nelle sue frasi spezzate, nel disprezzo malcelato, Keegan sottende una riflessione su un tema che ha radici antiche ma che è tutt’altro che risolto, ossia la legittimazione del lavoro femminile, dell’intelletto e del talento letterario. La donna rivendica il proprio ruolo di scrittrice, finendo anche per usare quell’esperienza, e già il suo soggiorno in quelle stanze rimarca l’esigenza di uno spazio da reclamare per sé; l’uomo, dunque, è archetipo della quotidianità che incombe sul lavoro intellettuale femminile, le esigenze da assecondare, il brusio di sottofondo che toglie concentrazione e il tentativo di delegittimarne il ruolo. 
La prevaricazione maschile, più ancora del discorso sulle relazioni e i rapporti umani, dunque, è l’elemento che lega le tre storie di Quando ormai era tardi, che pur scritte a una certa distanza temporale restano ancora attuali e interessanti da leggersi nella particolare realtà contingente. La violenza di genere si compie qui tanto nei gesti che nelle parole, a riprova di un fenomeno radicato, culturale, e verso il quale continua ad avere un peso significativo la colpevolizzazione delle vittime, il femminile da sminuire, tentare di mettere a tacere. È una violenza verbale, intellettuale, fisica, che porta con sé un retaggio patriarcale da cui è difficile liberarsi davvero ma che la sensibilità contemporanea pare almeno riconoscere.

Ecco, dunque, che le narrazioni di Claire Keegan si dispiegano nello spazio di poche pagine ma in uno sviluppo in profondità difficile da dimenticare. Sono racconti magistrali, piccole cose tutt’altro che da nulla.  

Ghiak. Racconti di sangue, di Dimosthenis Papamarkos

di Elisabetta Garieri

«Smirne sì che era una gran città. Altro che Atene e Salonicco. Le avevo viste tutte e due durante la guerra, ma città come Smirne, caro Gùssia, ce ne sono solo in America».

Una frase emblematica, questa, di ciò che rappresenta Ghiak - Racconti di sangue di Dimosthenis Papamarkos, il caso editoriale più significativo degli ultimi anni in Grecia, uscito a maggio per Crocetti editore, nella traduzione di Valentina Gilardi, dieci anni dopo la pubblicazione in lingua originale. Edito nel 2014 da Antipodes – casa editrice nata nello stesso anno che, dopo il successo iniziale dovuto a Ghiak, si è affermata come uno degli approdi più ambiti per chi scrive narrativa oggi in Grecia, nell’ambito della piccola e media editoria di qualità – e poi acquisito nel 2020 dal colosso Patakis, ha sperimentato un successo virale, passando da bestseller a longseller, è stato adattato per la radio e varie volte per il teatro.

È una frase emblematica perché colloca il libro in una zona apparentemente marginale della Grecia di oggi, per come la conoscono i più: la costa dell’odierna Turchia chiamata un tempo Asia Minore, o Anatolia, antistante le isole greche dell’Egeo. Questa zona ha infatti smesso di essere greca a seguito della pesante sconfitta subita contro i turchi in Asia Minore, nel 1922, culminata proprio con l’incendio di Smirne. Evento chiave della storia greca moderna, assieme al conseguente scambio forzato di popolazioni stabilito nel 1923 dal Trattato di Losanna, la cosiddetta Catastrofe stravolse il tessuto sociale e urbano della Grecia del tempo. Attorno a questa ferita della storia recente ruota Ghiak, il cui successo, incredibile e inatteso, è inedito per almeno due motivi.

Innanzitutto nelle nove storie che raccoglie, tutte in forma di monologo, a parlare in prima persona sono uomini della Ftiotide (antica Locride Opunzia, di fronte all’isola Eubea), che hanno partecipato alla fallimentare campagna d’Asia Minore e che raccontano le atrocità di cui loro stessi sono stati protagonisti. Riconoscere le violenze perpetrate in quel contesto anche dai greci, a fronte di un discorso comunemente incentrato, a tal proposito, sulla furia distruttrice dell’esercito turco, non è una novità assoluta, nella letteratura greca sulla Catastrofe. Se infatti gli autori del periodo tra le due guerre (cfr. in italiano, Ilias Venezis, Il numero 31328, tr. Francesco Colafemmina, Edizioni Medhelan e Stratìs Dukas, Storia di un prigioniero, tr. Francesco Scalora, Edizioni Aiora) «hanno vissuto gli eventi da vicino, trasmettono il sentimento di sconfitta e il vissuto di rifugiati, impiegano la memoria per mettere in risalto la nostalgia per le patrie perdute», come scrive il critico Ghiorgos Perandonakis sulla rivista online “Bookpress”, sulla scia della Megali Idea, ormai naufragata per sempre, l’approccio cambia nei primi decenni del secondo dopoguerra, quando «la distanza cronologica e l’influenza del pensiero di sinistra spingono gli autori a mettere in evidenza la convivenza pacifica che esisteva tra greci e turchi prima della guerra e a sottolineare le responsabilità delle grandi potenze nel fomentare il conflitto», (cfr. in italiano Didò Sotiriou, Addio Anatolia, tr. Maurizio De Rosa, Crocetti editore) scrive sempre Perandonakis. Per la prima volta, però, il punto di vista dei greci come attori di violenze assume un ruolo centrale.

In secondo luogo i narratori sono della Ftiotide ma sono anche greci arvaniti, appartengono cioè a una popolazione di origine albanese, presente in varie zone della Grecia, che ha una propria lingua, un po’ come la comunità arbëreshë in Italia. Ghiak è dunque scritto in una lingua orale, dal registro informale e un po’ antiquato, che è un impasto di parlata locale della Ftiotide, nello specifico di Malessina, paese di origine dell’autore, e di parole o frasi in lingua arvanitica, come il titolo stesso, che significa sangue, parentela, vendetta, razza. Questo aspetto, molto difficile da rendere in traduzione, traspare in parte nella bella versione italiana, quasi fin troppo elegante.

Nemmeno un libro scritto in lingua regionale è una novità assoluta nella letteratura greca contemporanea: già nel 1987 uscì la raccolta di racconti Ntiálith'im, Christákī di Sotiris Dimitriou, che usa il dialetto epirota, con qualche elemento in lingua arvanitica –  come il titolo, che è il verso di una canzone popolare. Per la prima volta, però, un libro tutto scritto in una lingua locale, e dal registro spiccatamente informale, ha un successo così dirompente. La rilevanza di Ghiak, in questo senso, è anche quella di essere stato all’origine di una vera e propria tendenza del panorama letterario contemporaneo, inaugurando un clima da «ritorno alle radici», con le parole di M. Hulot, direttore della testata online “Lifo”. Tra i detrattori di questa tendenza, qualcuno, come la critica Lina Pantaleon sulla rivista “O Anagnostis”, l’ha addirittura definito «l’origine del male», sostenendo che ormai la letteratura sia troppo schiacciata sulla forma a discapito dei contenuti – cosa che senz’altro stupisce, in Italia, dove il dibattito spesso si esprime in termini diametralmente opposti. Interpellato a più riprese in proposito, Papamarkos ha sempre risposto che la voce che si sceglie di dare ai propri personaggi deve essere al servizio dell’opera letteraria, e degli scopi che ci si pone con essa, e non un fine in sé. In ogni caso, dal 2014 a oggi, dall’Epiro a Cipro, i libri che fanno uso di parlate locali non si contano e questa tendenza continua a fiorire, tanto che un altro best-seller, del 2021, Chàthike Velòni (alla lettera Un ago si è perso, con riferimento a un’espressione che riguarda qualcosa di insignificante) di Christos Armandos Ghezos, è scritto per un terzo nel dialetto del nord dell’Epiro parlato nei paesi grecofoni albanesi.

Al di là delle questioni legate allo spazio letterario greco, però, il successo di Ghiak si deve alla sua potenza narrativa – amplificata dal ritmo ammaliante e dal tono vivo e crudo della lingua – e alla capacità di dare respiro universale a vicende storiche specifiche, raccontate per di più dal punto di vista di una minoranza. Quanto all’aspetto formale, ciascun monologo si presenta come lo stralcio di una conversazione iniziata prima del racconto e destinata a continuare dopo la sua fine, e comincia con un’allocuzione del narratore al suo interlocutore, che non prende mai davvero la parola. Quella dello pseudodialogo, o monologo con interlocutore muto, è una tradizione  lunga e luminosa nella letteratura greca moderna, che ha le sue origini nei monologhi della tragedia antica e la sua punta di diamante nella Quarta dimensione di Ghiannis Ritsos.

I nove narratori, tornati a casa, a distanza di anni, raccontano episodi di sangue di cui sono stati protagonisti nella campagna microasiatica, che però si intrecciano quasi sempre con vicende della vita locale e familiare, costellata di violenze. Le violenze che i protagonisti hanno perpetrato durante la guerra si fanno così specchio di un male tutto endogeno alla loro comunità di appartenenza, che è regolata dal Kanoùn, il diritto consuetudinario albanese, sulle cui specificità l’autore si sofferma nella nota che accompagna il testo. Da questi racconti emana allora la sensazione destabilizzante che non ci sia soluzione di continuità tra guerra e non guerra; e che la guerra non faccia altro che esacerbare i comportamenti promossi dagli usi ancestrali di una comunità fondata sulla vendetta. 

Nessuno ti racconterà quello che ha fatto laggiù ma, Andonis, abbiamo disimparato a essere uomini

 dice il narratore del primo racconto, Do t’ a pres kotsìdete (Ti taglierò le trecce). Oltre a come e perché si manifesta il male, un’altra delle domande che il libro sottende infatti è: come si diventa uomini? Tanto da poterlo leggere anche come una radiografia della mascolinità alla luce della violenza patriarcale, di cui le prime vittime sono proprio i maschi: i nove monologhi appaiono accorate grida di disperazione per la morsa di un sistema di credenze e tradizioni che a loro non sembra lasciare vie di scampo. Per di più, si tratta di un sistema a suo modo aleatorio:

Ti ricordi che un tempo non ci davano neanche una moglie se non rubavamo,
e adesso fai il finimondo per niente?

Anche il dialogo con le figure della tradizione ha la funzione di incarnare la condanna di un destino apparentemente ineluttabile: in Tararoura, l’incontro notturno con la creatura soprannaturale che il protagonista chiama vampiro, dalla faccia di cane e le corna di capra, è lo spettro della violenza che lo attende in guerra. L’unica eccezione a questo destino sembra essere la bellissima Ballata popolare, tradotta magistralmente. Scritta in versi decapentasillabi come il corrispondente genere di canto popolare, alla stregua di quest’ultimo riprende motivi della mitologia antica e della fiaba tradizionale, mettendo in scena l’incontro di Caronte, il «Sire tenebroso», con una giovane ragazza, la quale osa sfidarlo perché le ha ucciso il marito, riuscendo infine a farlo scappare: l’unica speranza di salvezza è riposta in una donna, più libera, in fondo, dalle costrizioni di un codice che pure subisce?

La pietra del gigante, di Andri Snær Magnason

Titolo: La pietra del gigante
Autore:Andri Snær Magnason
Editore: Iperborea
Traduzione: Silvia Cosimini
pp. 160 Euro 17,00


di Debora Lambruschini

Forse per ironia della sorte, quando il mondo alla fine è crollato davvero non è stato per una bomba o un virus, ma per una parola, e principalmente per causa mia.

Per questo sono venuto qui: voglio trovare la Parola. E da questa Parola voglio creare un mondo nuovo. (“Dormi, amore mio”, p. 40)

 

La pietra del gigante, la raccolta di racconti del narratore islandese Andri Snær Magnason appena pubblicata da Iperborea nella traduzione – dall’islandese – di Silvia Cosimini, è un volume piuttosto contenuto nel numero di pagine e racconti inclusi, ma che riesce a racchiudere numerose suggestioni. Ho scelto di partire dalle parole, quelle che mancano al protagonista del racconto “Dormi, amore mio”, quella di cui si mette in cerca e quelle che non possiamo comprendere, nella discrepanza tra testo originale e traduzione. Ho accennato al fatto che Cosimini traduca dall’islandese e non in una versione filtrata da un’altra lingua di passaggio, per esempio l’inglese, come avviene in diversi casi. È un dettaglio importante, a mio avviso, su cui forse non ci si sofferma in modo particolare ma che anche alla luce di quel racconto, il secondo della raccolta, mi pare invece rilevante: perché La pietra del gigante è una raccolta coesa in cui i luoghi, la tradizione, la leggenda e, di conseguenza, la lingua, si intrecciano per dare forma al mondo della narrazione. Ma anche perché su una lingua a me così lontana e impenetrabile, viene istintivo soffermarmi e ragionare appunto sulla voce dell’autore di cui non posso aver coscienza diretta, su che cosa possa significare trasporre un universo linguistico e letterario tanto distante nella lingua italiana, su cosa si perde e cosa arricchisce invece la narrazione. La riflessione sulla lingua, sullo scarto tra originale e traduzione, scatena anche altre considerazioni, a partire dal mistero di una cultura di cui fuori dall’ambito specialistico non abbiamo molta conoscenza, la consapevolezza di un mondo culturale che è per lo più anglocentrico e di quello che tale visione comporta in termini di ricezione, perdita, superficialità. L’Islanda è una terra sconosciuta ai più, al pari della sua cultura e delle sue tradizioni, e della quale ci costruiamo stereotipi basati su una conoscenza appunto superficiale, perlopiù ancorata al passato, quando non al mito. Della straordinaria ricchezza e varietà di questa cultura ne abbiamo oggi un accesso anche grazie all’opera di divulgazione dello studioso e scrittore italiano Roberto Luigi Pagani e al fondamentale lavoro della casa editrice Iperborea, impegnata nel portare nel nostro Paese le voci del Nord tra cui autori e autrici d’Islanda, per mezzo di traduttori preparatissimi come appunto Cosimini. Per superare certi stereotipi e preconcetti, dunque, è anche importante operare una certa selezione nelle proposte editoriali e il caso di Andri Snær Magnason è sicuramente una scelta oculata: la conoscenza del territorio, dall’ambiente alla società, è ben salda ma più che sul mito e sul folklore l’autore punta lo sguardo sulla realtà contemporanea, dagli anni Ottanta ad oggi; la realtà in cui sono calati è fatta di paesaggi e luoghi a noi molto distanti, ma i sentimenti, le dinamiche relazionali, i sogni e le frustrazioni sono ben riconoscibili.
Non voglio affatto dire che il lettore debba ritrovare sé stesso in quello che legge, anzi, è proprio una delle cose che meno mi interessano e che secondo me non dovremmo inseguire: intendo dire, invece, che l’Islanda non è solo quella del mito, terra ancestrale e fissata in un tempo remoto, ma è anche e soprattutto questo oggi, una realtà stratificata, contraddittoria, in cui una natura tanto spettacolare – e ostile, a tratti – è stata spesso trascurata e sfruttata, dove le conseguenze della crisi climatica sono particolarmente evidenti; una società fatta di persone che si interrogano su sé stesse, sulla discrepanza tra la vita immaginata da giovani e quello che è diventata, con peculiarità naturalmente date dal luogo, dalle scelte politiche, dal filtro con cui l’autore sceglie di osservare le cose.
Narratore, poeta, drammaturgo e attivista ambientale, Magnason pone sempre al centro delle sue riflessioni la crisi climatica e qualche anno fa è stato protagonista di un gesto dal forte impatto simbolico: con la sua “Lettera al futuro”, una targa posta sul ghiacciaio Okjokull, il primo in Islanda a essere dichiarato morto, ha sollevato una questione quantomai urgente e che ci riguarda tutti da vicino.
In Italia Iperborea ha portato quindi le sue opere più legate a questo filone, con Il tempo e l’acqua, testo ibrido etichettabile come saggistica narrativa, e La storia del pianeta blu, una “favola ecologica” per ragazzi; La pietra del gigante è una raccolta più variegata dal punto di vista tematico, ma la componente ambientale è senz’altro presente in modo importante e si lega ad altre questioni che ruotano intorno alla parola crisi: la crisi dell’età adulta, delle relazioni, la crisi che nasce dalla difformità tra ciò che immaginavamo sarebbe stata la vita e quello che invece è, la crisi sociale e il profondissimo divario economico e quella ambientale naturalmente.
Due questioni, quindi, mi paiono particolarmente interessanti, e sono appunto la frattura tra il sogno e la realtà della vita adulta e il divario economico delle nostre società.

 

E così eravamo in viaggio per Legoland con i bambini. Loro erano troppo piccoli per capire dove stavamo andando, ma in effetti nemmeno noi sapevamo perché lo facessimo. Doveva avere un valore simbolico visitare la capitale dell’infanzia proprio quando la vita ti si rovescia addosso come un macigno – anche se forse non è la cosa più giusta da dire quando è appena morto qualcuno. (“Legoland”, p. 55)

 

“Legoland” è uno dei racconti più interessanti e stratificati della raccolta, nel quale sono condensati moltissimi spunti di riflessione. La narrazione in prima persona e il punto di vista del protagonista, un uomo di trent’anni circa che sta attraversando un momento di profonda crisi personale, guidano il lettore dentro una storia che si sviluppa – come tipico di questa raccolta – su piani temporali diversi, intervallata da spazi bianchi che segnano i confini della narrazione e che raccontano sentimenti complessi. Il viaggio con la famiglia e alcuni amici verso Legoland, agognata meta dell’infanzia, è ora caricato di emozioni difficili da elaborare e che forse proprio attraverso quei piccoli mattoncini trovano una via di fuga e una chiarificazione. Nella stanza ricolma di tutti i pezzi prodotti da Lego, quella sognata durante l’infanzia, mattone dopo mattone il protagonista dà corpo alle proprie emozioni, ai sentimenti complessi che prendono ora la forma di una scatola nera, in quel mare di colore tra cui scegliere. È la scatola nera del lutto da elaborare, delle scelte prese e da cui ormai non si torna indietro, della paura del futuro, delle ambizioni di scrittura e delle responsabilità.
«Forse non volevo diventare adulto», sono le parole che il protagonista non riesce a esprimere ad alta voce ma che permeano tutta la sua esperienza e che si legano anche al suo essere padre, alla vita ordinata che si è costruito, alle scelte prese, alle rinunce, alle porte delle possibilità «in parte solo accostate e in parte chiuse per sempre». La paternità cambia ogni cosa per il protagonista, rallenta il ritmo della vita nel tentativo di essere prudente, con il fisico che sembra aver «sviluppato anticorpi contro l’adrenalina» per evitare il pericolo, per essere figura presente nella vita del figlio. Il viaggio arriva in un momento particolare della vita di tutti loro, si lega al ricordo, alla perdita di un amico, alle difficoltà di venire a patti con la vita adulta.

 

Così adesso stavamo andando a Legoland per distrarci, ma quel posto, che avrebbe dovuto essere divertente, mi riempiva di nostalgia per gli anni dell’infanzia e per l’innocenza che non sarebbe più tornata, e con noi c’era l’ombra di una persona che se n’era andata per sempre. (“Legoland”, p. 64)

 

Magnason ci conduce nei meandri della nostalgia, in quella crepa profonda che crea la maturità e che per molti dei protagonisti di queste storie significa confrontarsi con la frustrazione, con la disillusione e la rabbia verso una società impregnata di capitalismo e smania di ricchezza in cui per affermarsi pare necessario prevaricare gli altri.
Ricorre spesso in queste storie quindi la riflessione sulla ricchezza e, di conseguenza, sul divario tra vite fatte di un quotidiano ordinario e altre impregnate di soldi, potere, possibilità sempre più estreme. Un estremo raccontato in “Wild Boys”, protagonisti un gruppo di amici e uomini d’affari che hanno «superato qualsiasi limite in fatto di lusso ed eccentricità»: jet privati, star della musica ingaggiate per un concerto privato, bottiglie costose e abiti di lusso a rappresentare uno status conquistato con l’ossessione per il denaro e il potere che ne deriva. Un racconto in cui si intrecciano spunti diversi, dalla bramosia del denaro, alla distanza sempre più netta dalla realtà ordinaria, dalle relazioni e i ruoli da interpretare al discorso anche su rivalsa e desiderio di emanciparsi dalle condizioni di partenza. Filtriamo la storia attraverso lo sguardo della moglie di uno dei wild boys, ai margini del gruppo delle “vedove bianche” come si auto definiscono per il tempo che passano da sole mentre i mariti sono impegnati a far soldi. Un po’ outsider rispetto al gruppo, ha mantenuto il proprio lavoro di insegnante ed è anche questo uno spunto interessante su che cosa dica di noi la nostra professione, quanto il lavoro si intrecci ad altre questioni oltre il dato economico e il sostentamento, quanto per una donna sia fondamentale mantenere la propria autonomia, ma anche la stortura di una società come quella attuale in cui il valore della professione e perfino delle persone pare legarsi sempre più al potere economico.
Noi e loro, le vite ordinarie e quelle dell’1% della popolazione, è un tema che si rincorre quindi in questi racconti e si interseca al discorso ambientale, alla riflessione sui rapporti e la natura umana, ai luoghi e alla crisi. E che, in qualche caso, porta ad azioni impreviste, di cui non vediamo le dirette conseguenze ma tutto ciò che ha portato fino a quel decisivo momento. “La pietra del gigante”, il racconto che dà il titolo alla raccolta tutta, è quindi una storia in cui Magnason gioca con il tempo: non solo la narrazione segue binari differenti, tra presente e passato, ma il tempo appare malleabile. Materia duttile, dalle molteplici implicazioni e possibilità che mi ha richiamato alla mente certe narrazioni di Daina Opolskaitè (avevo scritto qui del suo Le piramidi di giorni, anche questo nel catalogo Iperborea), riflessioni e resa differente ma una comune concezione circa la malleabilità del tempo. Mentre la traiettoria della pietra si compie, Magnason attraversa i momenti che hanno portato il protagonista proprio lì, a scagliare un sasso contro la macchina al cui interno ci sono il cugino e la moglie e un’azione da cui non si tornerà più indietro, a differenza della narrazione che invece segue un filo cronologico non lineare. In quella pietra l’accumulo di tensione, frustrazioni e disagio del protagonista di fronte a un divario sempre più insopportabile tra ricchi e poveri che è anche il ritratto degli aspetti più problematici delle nostre società capitalistiche.  

 

Avevo progettato case di ogni tipo – ville indipendenti, condomini, ville a schiera – e sapevo bene che non tutti avevano le stesse possibilità, che c’erano disuguaglianze nette nel tessuto sociale; ma quella era la prima volta che progettavo case così diverse per lo stesso committente. Mi sentivo un ladro.

(“La pietra del gigante”, p. 108)

 

E forse è necessario rendersi conto, oggi più che mai, delle scelte che compiamo ogni giorno e dell’impatto che hanno sugli altri e sul nostro pianeta. La consapevolezza con cui a un certo punto il protagonista guarda alla propria vita e al percorso che l’ha condotto a quel momento è una riflessione amara ma molto lucida delle derive delle nostre società, che si applica tanto al mondo reale quanto a quello dei social.

 

Ecco l’ideologia. Il cittadino deve essere un consumatore, deve essere in debito con le banche, mandare avanti il sistema economico, dimenticare la qualità e dare profitti a un piccolo pugno di ricchi. Ecco lo spirito dei tempi. La totale insensatezza. (“La pietra del gigante”, p. 111)

 

L’Islanda di Maganson, dunque, è ben lontana dal mito e dal folklore, ma è una realtà complessa e contraddittoria, e i suoi racconti sono spietati, tesi e illuminati da squarci improvvisi. Storie lontane, vicinissime. 

Corpi idrici, di Gerald Murnane

di Fabrizia Gagliardi

Avete mai sentito parlare di Gerald Murnane? La figura dello scrittore australiano sembra tormentata dall’oblio che affligge qualsiasi autore favorito al Nobel per la letteratura. In effetti, è un traguardo che non ha ancora raggiunto, probabilmente perché nelle sue opere si rintraccia uno stile unico e introspettivo che genera nel lettore un giudizio claudicante.
Avrebbe tutti i requisiti per ambire a questo titolo, ma sembra essersi formato nella solitudine di un continente isola. A lui interessa un’introspezione dilagante, calibrata alternativamente dall’eleganza del periodo e da una macchia d’olio che appanna la direzione della storia e il ritmo della narrazione.
Eppure, le opere di Murnane non sono nuove nel panorama editoriale italiano; ci aveva pensato Safarà Editore a portare in Italia i lavori più iconici: il memoir Qualcosa per il dolore. Memorie dal mondo dell’ippica e Le pianure, entrambi tradotti da Roberto Serrai.
Per completare la conoscenza di Gerald Murnane o chissà, iniziare proprio da qui, arrivano per la prima volta in Italia i racconti di Corpi idrici, pubblicati da La Nave di Teseo con la traduzione di Elena Malanga.
Come sempre accade alla prova della forma breve, la raccolta offre un'introduzione perfetta all'universo letterario di Murnane: un approccio narrativo che gravita ossessivamente intorno all'interiorità, all'esplorazione della memoria e alle possibilità infinite dell'immaginazione.

Ne L’entroterra di Gaaldine l’autore svela gradualmente la propria natura, il suo rapporto con la narrativa e con l’idea di un personaggio-autore. Durante la lettura si percepisce la tensione che esiste tra il desiderio di raccontare storie e la difficoltà di esprimere la complessità dell'esperienza umana a partire da una prospettiva che sarà sempre inquinata dal sé.

Ho letto molti testi nella mia vita: molti più di quanti non ne abbia scritti. Ogni volta che leggo un testo ho un’immagine del personaggio che ha fatto in modo che il testo venisse alla luce: l’autore implicito, come lo chiamo io. Quest’immagine fantomatica del personaggio è il risultato della lettura di alcuni dettagli all’interno del testo. Spesso, leggendo un testo, mi ritrovo a non fidarmi dell’autore implicito e scopro che lui o lei non mi piace. Non appena mi succede una cosa del genere smetto di leggere. Leggendo altri testi scopro che l’autore implicito mi piace e che mi fido di lei o di lui. Quando mi succede una cosa del genere vado avanti a leggere e a volte mi sento così vicino all’autore implicito che mi pare di capire perché abbia scritto quel testo. Leggendo le pagine della ventiquattrore mi è parso di capire che l’autore implicito di quelle pagine – la persona che ha scritto quelle pagine nella mia mente – le abbia scritte per evocare nella mente dell’uno o dell’altro lettore o lettrice l’una o l’altra immagine di un personaggio che al lettore o alla lettrice pare più simpatico.

 

I racconti presentano personaggi complessi, plasmati dal cambiamento, per lo più intrappolati tra il presente e il passato, la cui vita interiore viene svelata con una lentezza meditativa e un'attenzione quasi ossessiva per i dettagli. In questo flusso si intrecciano spesso i temi dell'ansia, dell'imbarazzo, della vergogna e della gioia, trattati con una precisione disarmante. Murnane esplora con disciplina e raffinatezza i segreti sepolti nella mente, catturando l’attenzione del lettore con uno stile che, a tratti, sa essere dolce e brutale​ nello stesso tempo.

Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, il protagonista diventa una pellicola di ricordi: le sovrapposizioni temporali della sua vita sono immagini scaturite da un dettaglio visivo. Il luogo che accoglie un’installazione chiamata corpi idrici ricorda la forma di un cuore umano intravisto dal disegno di un gioiello; il gioiello porta il ricordo dei cataloghi di bigiotteria posseduti dalle sorelle del padre; l’adagiarsi di una collana sul décolleté di una donna; l’immagine della scollatura e di un reggiseno rivelato al fratello del protagonista in una delle tante case abitate durante l’infanzia.

In Primo amore un misterioso viaggiatore reitera la capacità di raccontare diverse storie mentre scrive dallo scompartimento della carrozza di un treno. Il risultato si allontana da un esperimento stilistico alla Esercizi di stile di Queneau e si avvicina alla misurazione di quanta esperienza simulata è in grado di creare un'interiorità unica e immobile.

Vi scrivo dallo scompartimento della carrozza di un treno. Davanti a me e un po’ più in alto rispetto ai miei occhi una strada chiara attraversa la cima sabbiosa di una collina. Sulla strada c’è un’auto ferma: un’auto con la capote e i finestrini laterali fatti di un materiale duro e color ocra che non è vetro. Vicino all’auto c’è un uomo. L’uomo ha folti baffi, e un panciotto e la catenella di un orologio sotto la giacca. Si trova fra me e una macchia sfocata di dune, mare lontano e nuvole caliginose. Ai piedi dell’uomo c’è una scritta che copre tutta la strada nella sua ampiezza: Warrnambool e Lady Bay.

Vi scrivo dallo scompartimento della carrozza di un treno. Davanti a me, esattamente all’altezza dei miei occhi, una prateria ocra sale e scende, si gonfia e si affloscia e si sposta di continuo da sinistra a destra. Sulla destra la prateria scompare, fra impennate e avvallamenti, dietro il cappello di feltro grigio con una piuma di pavone nel nastro, il volto rasato e l’abito a tre pezzi di un uomo di sette anni più giovane di me. Sulla sinistra la prateria ocra si rinnova di continuo, ma l’uomo con la piuma di pavone nel nastro del cappello mi dice che da dove si trova lui riesce a vedere la fine delle pianure di Keilor e l’inizio del monte Macedon.

Non è un caso che i critici di Gerald Murnane spesso ricorrano al racconto del suo stile di vita, come a voler provocare un confronto incredulo. L’autore non ha mai viaggiato in aereo né ha mai lasciato l'Australia, non ha mai avuto un senso dell'olfatto, non possiede una televisione, guarda raramente film, non frequenta gallerie o musei, non indossa occhiali da sole, non sa nuotare, non sa usare una macchina fotografica, non ha mai utilizzato un computer e non naviga su internet.
Ciò che rende Murnane unico è il modo in cui è riuscito a dimostrare una fantasia così sconfinata a partire dalle sue esperienze intenzionalmente limitate. Il suo progetto artistico cerca di rappresentare, nei minimi dettagli, la sua specifica prospettiva sul mondo.
Tutti i racconti si posizionano ambiguamente tra narrativa e saggistica perché il contenuto attinge alle sue esperienze personali, poco convenzionali e quasi anacronistiche.
Come rilevato dal Guardian molti fan di Murnane considerano la noia una parte cruciale della sua estetica. Ben Lerner sostiene che «le frasi di Murnane sono piccole dialettiche di noia e bellezza, piattezza e profondità», e il piacere di leggerle deriva proprio da questa oscillazione tra noia e splendore visionario. C'è un languore nella sua scrittura che rende i suoi libri sia piacevoli che unici, ma per apprezzarlo è necessario che i lettori siano aperti a esperienze letterarie insolite.
La sua opera ha suscitato ammirazione a livello internazionale, pur rimanendo più controversa in patria, perché sembra essere vittima del cosiddetto cultural cringe. Nel campo degli studi culturali e dell'antropologia sociale, il termine si riferisce a un complesso di inferiorità interiorizzato in cui le persone liquidano la propria cultura come inferiore rispetto alle culture di altri paesi.
Alcuni critici considerano Gerald Murnane un genio, altri trovano il suo stile troppo esoterico e criptico per i lettori comuni. Questo contrasto emerge anche nell’accoglienza di Corpi Idrici, una raccolta che richiede un lettore paziente, disposto a immergersi in un flusso di coscienza, senza aspettarsi narrazioni lineari o finali risolutivi​.
Lo stile di Murnane, con le sue ripetizioni ipnotiche e l'attenzione minuziosa agli stati d’animo, viene paragonato a quello di scrittori come Proust e Beckett, ma con una qualità profondamente visiva e spaziale.
I racconti di Corpi Idrici non cercano di risolvere misteri o di fornire risposte definitive, piuttosto tentano di evocare domande e riflessioni. Parte del successo di Murnane risiede nella sua capacità di mitizzare le fascinazioni apparentemente banali, una vita qualunque e quotidiana che tutti abbiamo a disposizione.

Come sottolineato dalla Chicago Review of Books, la narrativa di Murnane ha una qualità "liquida", un po' come i corpi idrici che danno il titolo alla raccolta: fluisce da un’immagine all’altra, da un ricordo all’altro, senza una direzione chiara, ma con una logica interna che diventa evidente solo a chi è disposto a seguirla fino in fondo​.
Al centro delle sue narrazioni c’è sempre una profonda riflessione sull'atto stesso di scrivere e di ricordare. L'autore non racconta semplicemente storie, ma sembra voler analizzare come nascono, come si formano nella mente, come si legano ai paesaggi interiori e ai ricordi. Questo lo rende un maestro dell'introspezione, capace di esplorare infiniti territori emotivi. Tuttavia, proprio questa attenzione ossessiva ai dettagli mentali e psicologici può risultare alienante per alcuni lettori, che potrebbero trovarlo eccessivamente cerebrale o stilisticamente impenetrabile.
Murnane non offre risposte facili, ma invita il lettore a intraprendere un viaggio nella propria mente, nei propri ricordi, nei propri sogni. Come osservato da The Paris Review, la sua scrittura è un'arte solitaria, una sorta di avanguardia domestica che resiste alle etichette e alle convenzioni del mercato editoriale​.
In conclusione, Corpi Idrici di Gerald Murnane è una raccolta affascinante e impegnativa, che richiede una lettura attenta e riflessiva. È un libro che non si accontenta di raccontare storie, ma cerca di esplorare l’atto stesso della narrazione, con uno stile unico che può incantare o frustrare, ma che di certo non lascia indifferenti.

Isola. Storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico, di Senko Karuza

Titolo: Isola, storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico
Autore: Senko Caruza
Editore: Bottega errante Edizioni
Traduzione: Ginevra Pugliese
pp. 232 Euro 17,00

di Giordana Restifo

Un’isola con la sua vita lenta che scorre tra il mare, i campi, le vigne, e che nella stagione estiva viene presa d’assalto da una moltitudine di turisti. È lei la protagonista della raccolta di racconti appena pubblicata da Bottega Errante Edizioni, Isola. Storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico, di Senko Karuza, tradotta da Ginevra Pugliese. Proprio la nota finale della traduttrice svela che l’edizione italiana è frutto di una miscela di racconti provenienti da una prima raccolta, Vodič po otoku (Guida all’isola), uscita nel 2005 in Croazia, e da una selezione dell’ultima, Prsa u prsa (Petto contro petto), del 2016. Il risultato finale è un volume con più di ottanta storie diviso in due parti: Guida all’isola, che contiene cinquantasei racconti brevissimi, e Camera obscura, con trentuno racconti più lunghi. La differenza non sta solo nella lunghezza: nella prima parte l’autore porta i lettori alla scoperta dei luoghi, del cibo, del rapporto degli isolani con il mare, con i venti; nella seconda, invece, si immerge in elucubrazioni sulla quotidianità della vita sull’isola, su un passato che sta svanendo e un presente vissuto tra i ricordi e i rimpianti, ma riflette anche su un’economia che è sempre più vocata al turismo.
Vis, in italiano Lissa, è un’isola dell’Adriatico, situata al largo di Split (Spalato), in Croazia; è qui che Karuza ha trascorso la sua infanzia e la sua giovinezza, ed è qui che ha deciso di tornare a vivere, dopo aver frequentato le scuole a Spalato e la facoltà di filosofia a Zagabria. Un’emigrazione al contrario. Da siciliana, che vive in Sicilia, leggendo Isola. Storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico, non posso far altro che pensare alla mia di isola, ma anche alle isole Eolie, alle Egadi, a quelle della Grecia e della Spagna. Vis racchiude in sé tante isole, di sicuro quelle del Mediterraneo. Hanno tutte in comune un presente che prova a resistere alla globalizzazione, alla frenesia delle città, alla recessione economica, che cerca di ancorarsi a un passato quasi estinto. Un tempo di cui ci si è vergognati e che ora si vuole riscoprire, recuperare. 
Ci sono due tipi di isolani: chi nasce su un’isola, si sente appartenente a quel posto, a quella terra galleggiante, che quando arriva su un’altra isola si trova immediatamente a proprio agio, perché è come se fosse a casa; e chi ci vive perché la sceglie, nondimeno questi ultimi sentono di appartenere a quel luogo, lo vivono in tutte le stagioni e ne conoscono bene gioie e dolori. Queste due tipologie, che formano anche la comunità degli isolani di Vis, sono il “noi” narrante che conduce i lettori nell’opera di Karuza.
Poi ci sono i turisti.
Da cosa sono attratti tutti questi turisti che ogni anno sbarcano sull’isola croata? Dall’odore di pesce alla griglia innaffiato di olio d’oliva e da quello della kapula (cipolla) che proviene dalle strade, dalle terrazze; dalle acque cristalline che circondano il perimetro dell’isola; dal modo di vivere lento e ostinato degli abitanti; dal ritrovarsi in piazza a sorseggiare caffè guardando il mare; dagli antichi rituali della vendemmia e della raccolta dei pomodori per fare tutti insieme la salsa. D’altronde, come si fa a non essere sedotti da tutto ciò? Si potrebbe pensare di ricreare questo paradiso, questo giardino in mezzo al mare, nelle città, ma la verità è che anche se si esportassero gli alberi, le ricette, le bevande, mancherebbe il legante, e cioè il tempo. Il tempo che sembra fermarsi non appena si mette piede sull’isola. Quel tempo scandito dalla pennichella dopo pranzo, un rituale al quale non si può rinunciare. D’estate il calore rende lascivi e obbliga all’orizzontalità, d’inverno la sensazione di abbandono, di svuotamento, spinge a cercare riparo nel sonno. In quei brevi o lunghi pisolini si sognano tutti gli scuri della cittadina aperti, tutti i mestieri di una volta ricomparsi, tutte le persone andate via e tornate, i saperi tramandati, e sembra di stare in paradiso con gli anziani che tranquillizzano i più giovani: tutto è tornato al proprio posto, non è un miracolo, tutto è come una volta; ma quando ci si sveglia si è di nuovo in purgatorio (dal racconto Il purgatorio). Quel tempo che gli isolani, mentre sono sulla loro barca e si scostano dalla riva per andare sul loro “scoglio”, non scambierebbero con nulla al mondo perché sentono «molto bene che questa gita di solitudine in solitudine, da isola a isola» non la cambierebbero «per nessun tesoro o città» (dal racconto Lo scoglio). Il rapporto con il mare, e tutto ciò che implica (la pesca, la barca, i venti), è molto forte per chi vive su un’isola. Un legame inscindibile, come nel racconto La barca:

 

«La barca rimane imprigionata in noi o noi in lei, è indifferente, perché non si possono contare i momenti in cui dipendevamo l’uno dall’altra e ci imponevamo di lasciar perdere, di metter giudizio, di obbedire, sull’orlo della tragedia, in una qualche terribile tempesta, o in un improvviso impeto di dispetto, quando dovevamo mostrare al mondo, e un po’ anche a noi stessi,

cosa possono un uomo e una barca quando diventano una cosa sola».

 

Il mare e la sua vita condizionano quasi totalmente l’esistenza degli isolani, così quando muore qualcuno sull’isola, gli altri che restano si sentono come dei naufraghi, anche se non sono rimasti senza barca (da La veglia). Quando i venti soffiano forte e agitano il mare non si può uscire. Nelle giornate in cui compare lo scirocco, un vento caldo proveniente da sud-est che lascia la pelle appiccicosa, gli abitanti di Vis si sentono come se fossero a Utopia, anche se Tommaso Moro non l’hanno mai letto. Trasformano l’isola in terraferma, hanno il loro dottore e il loro prete, i loro vigneti e le loro pecore, il loro pesce, le barche, le bandiere e le fabbriche, insomma la loro Città reale e la loro Città perfetta, e si chiedono cosa gli manchi per essere uno Stato.

 

«Ma lo sapete, annunciano alcuni saccenti, che a Dubrovnik, ai tempi della sua indipendenza, non si poteva prendere nessuna decisione importante quando soffiava il vento di scirocco? Certo che lo sappiamo, rispondiamo prontamente, ma chiedi loro come ha fatto a diventare una città-Stato! Quelli che non lo sanno abbassano lo sguardo, noi calciamo il piede in avanti e guardiamo verso il cielo, che si veda che lo scirocco non ci può ottenebrare il raziocinio e che, ora più che mai, abbiamo il diritto di essere padroni di noi stessi. Qualcuno guarda l’ora, è mezzogiorno, ora di pranzo, in silenzio ci lasciamo, lo Stato si sfascia, ma se nel pomeriggio non arriva la bora, si potrebbe trovare con facilità il presidente» (Dal racconto Lo scirocco).

 

Come in ogni paradiso che si rispetti, gli umani convivono con gli animali, galline e galli, pecore, agnelli, capre, gatti e asinelli. Bastet protegge l’umanità anche a Vis, come in tutte le isole del Mediterraneo, manifestandosi nei molti gatti che scorrazzano liberi e indisturbati, dormono per strada, vengono accuditi dagli abitanti e fotografati dai turisti. Gli asini, invece, sono meno comuni dei felini, sull’isola non ve ne sono più molti, proprio questa rara presenza lascia esterrefatti i forestieri che, non appena ne avvistano uno, lo circondano per fotografarlo e mettergli i loro bambini in groppa.
Di anno in anno, sempre più vacanzieri approdano nella stagione estiva sull’isola, occupando massicciamente gli spazi, reclamando a gran voce “esperienze tipiche”, dando consigli non richiesti agli abitanti, interessandosi ai lotti di terreno, alle abitazioni e alle konobe (taverne, trattorie), per acquistare un pezzo di quell’eden. Non c’è bisogno di fantasticare troppo per immaginarlo, abbiamo visto tutti quest’estate i video di Santorini con frotte di turisti che scendono dai traghetti e affollano le strette vie dell’isola delle Cicladi. L’arrivo di capitale estero non ha portato a Vis nuova linfa, gli isolani che ne hanno guadagnato sono andati a vivere sulla terraferma, li si rivede solo per la bella stagione o non tornano proprio più; quelli rimasti aguzzano l’ingegno per sopravvivere, alcuni diventano nullatenenti ma l’arte di arrabattarsi è millenaria, e anche in momenti di penuria di cibo, in agosto soprattutto di pesce, il loro spirito arguto permane:

 

«Giù al nostro molo è attraccato un motoscafo con un uomo che guarda verso la nostra terrazza, vede che stiamo mangiando. C’è un’aragosta, chiede. Nostro cugino si alza e allarga le braccia, non c’è, compare, dice, c’è la recessione, ci sono rimaste solo le sardelle. E allora possiamo venire a mangiare le sardelle? chiede. No, compare, gli risponde di nuovo nostro cugino, le abbiamo appena mangiate!»
(da La bomba atomica).

 

L’isola ha anche il potere di far fare buoni propositi, esprimere desideri, sussurrare sogni, ma «non è immune ai cambiamenti globali», anche se nessuno degli abitanti di Vis li comprende; «in quei due mesi estivi tutti quanti accendono desideri che non hanno nulla a che fare con noi, e che in inverno lentamente evaporano e riscaldano i corpi con un calore illusorio e irragionevole» (da Sotto zero), aggiungerei almeno fino all’estate successiva, quando i desideri si rinfocolano non appena sbarcati, un po’ come i propositi di capodanno.
Chissà qual è a Vis il momento che segna il cambio di stagione. Nella mia città la fine dell’estate e l’esodo si rivelano attraverso le lunghe code agli imbarchi delle navi che dalla Sicilia portano in Italia, regolate dal suono dei fischietti dei vigili urbani che entra dalle mie finestre in casa; alle isole Eolie è la festa del santo patrono che indica la fine del periodo di massima apertura verso l’esterno, come dice un caro amico.
Durante l’inverno, al caldo dello špaher (stufa), si ha il tempo di immergersi in pensieri profondi sull’esistenza, sulla resistenza e sulla resa. Privati dei propri scogli, delle proprie baie, dei vitigni e dei terreni «stiamo zitti e non reagiamo a nulla, non vediamo nulla e non sappiamo nulla. La domanda è se esistiamo» (da La concessione). Non è solo questo, ogni autunno e inverno che passano, l’isola si spopola sempre più, le famiglie vanno via, i giovani sono tutti andati a studiare o a lavorare nelle grandi città, chi resta si prepara per il pianto invernale ascoltando le lamentele degli altri. Ogni tanto a qualcuno viene “l’idea folle” di rinnovare e riavviare le antiche tradizioni, per non perdere la vera ricchezza della gente e del sapere dei luoghi, o semplicemente per non annoiarsi e deprimersi.
Pescare nel torbido, La scomparsa, I bisogni, Cosa nostra, La crisi, La tradizione, sono solo alcuni dei racconti attraverso i quali il lettore può farsi un’idea su come gli abitanti di Vis trascorrono la stagione fredda.

 

«Abbiamo avuto tempo questo inverno, come mai prima d’ora, per riflettere attentamente e a fondo sulla nostra vita, sulle catene e sulle ancore a cui abbiamo dato nomi, e non sono più sconosciuti nemmeno i concetti romantici dei canti popolari, tantomeno le persone reali e gli usi e costumi che non possiamo abbandonare, figuriamoci sostituire» (da Sotto zero).

 

Già, perché l’isola ti tiene ancorato a sé. C’è una domanda sulla copertina di Isola. Storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico: Che cos’è l’Isola e perché ci lega a sé a doppio filo? L’isola è come un guinzaglio che si allenta e lascia andare via i propri abitanti a esplorare la terraferma, il mondo fuori, poi si blocca e inizia a tirare finché non si torna indietro. Non c’è solo la questione del tempo, ma anche quella dello spazio. Guardando l’immensità del mare si ha la percezione di spazi vasti, si possono sognare e immaginare orizzonti perduti o sconosciuti, mondi lontanissimi. Sull’isola c’è tutto, ci sono i quattro elementi: terra, aria, acqua, fuoco. Ci sono i vulcani, le spiagge, le montagne, a Vis arriva anche la neve a volte, elemento spiazzante che rallegra e imbarazza gli isolani, ci sono le campagne. Gli abitanti non resistono negli spazi angusti e chiusi degli uffici, delle città.
Infine, riprendendo un concetto del racconto Addio mare (modo di dire dalmata che sta per “acqua passata”), anche se credo che le nostre sensazioni non siano dissimili, spero che gli isolani di Vis mi perdonino se non sono riuscita a immaginare l’isola a modo loro.

Parti e omicidi, di Murata Sayaka

Titolo: Parti e omicidi
Autore: Murata Sayaka
Editore: e/o
Traduzione: Gianluca Coci
pp. 160 Euro 11,99

di Fabrizia Gagliardi


C’è chi dice di voler essere la psicologa di Murata Sayaka, altri confermano con convinzione il soprannome dell’autrice («Crazy Sayaka»), altri ancora si esprimono con un semplice «Mind blow».
In effetti, le recensioni di Parti e omicidi, l’ultima raccolta di racconti dell’autrice giapponese pubblicata da Edizioni e/o (traduzione di Gianluca Coci), non sono particolarmente elaborate e non richiedono grandi giri di parole per riassumere la sensazione dominante: un senso di straniamento tra orrore e curiosità.

In un futuro indefinito il governo giapponese ha adottato il Sistema di parti e omicidi: per risolvere il problema del calo demografico uomini e donne possono scegliere di diventare “gestanti”. Coloro che portano a termine, con successo, dieci gravidanze, guadagnano il diritto di uccidere una persona a loro piacimento (la persona scelta rientrerà a sua volta nella categoria sociale dei “morenti”). La protagonista, Ikuko, non è del tutto d’accordo con il presente perché fa parte della generazione che ha vissuto un passato in cui l’omicidio era condannato. Tuttavia, nella sua diversità, non si oppone alla norma e comprende che il nuovo ordine offre una possibilità di riconoscimento alla sorella, da sempre emarginata:

Io sento lontani da me sia il mondo di prima che quello di adesso. Il mondo cambia sfumatura a poco a poco, all’interno di un tempo sconfinato, e, per quanto il passato sia agli antipodi rispetto al presente, tutto resta sempre collegato come milioni di tonalità in una stessa cartella di colori. Ecco perché la “normalità” del mondo di oggi non è altro che un istante.

Come nella precedente raccolta di racconti, La cerimonia della vita, lo sguardo di chi scrive espande solo uno dei possibili risvolti del mondo. L’equilibrio di coloro che credono di essere nel giusto, o che hanno decretato cosa è normale e cosa non lo è, può essere sconvolto da un momento all’altro.

In Triade, per esempio, una ragazza scopre i piaceri di una relazione a tre e rimane sconvolta quando la normalità ampiamente tollerata prevede, al contrario, una relazione a due. Un matrimonio pulito racconta di una coppia di sposi che desidera un figlio, ma che ha concordato di non avere rapporti sessuali.
Vita, morte, sessualità, sono i temi che l’autrice dispone su un foglio bianco lasciando al lettore il pensiero di svilupparli. La prosa estremamente precisa e metodica diventa quasi un reportage clinico che amplifica il senso di distacco emotivo. La scelta di un linguaggio sobrio e diretto contribuisce a creare un'atmosfera inquietante, dove la normalizzazione dell'orrore quotidiano diventa palpabile.

Il percorso verso l’alienazione dei suoi personaggi è iniziato gradualmente con La ragazza del convenience store, la storia di Keiko, una ragazza che rifiuta le aspettative sociali per dedicarsi ai ritmi di un konbini. Nel 2021 è poi arrivato I terrestri, romanzo in cui la protagonista è alla ricerca di un luogo in cui sentirsi casa, ed è convinta di essere stata contattata dagli alieni che costituiscono una via di fuga da una società cieca e spietata.
In effetti, la voce di Murata Sayaka si fa notare tra gli sguardi orientali che offrono percezioni nuove agli occhi dell’Occidente, come hanno fatto autrici come Mieko Kawakami e Matsuda Aoko o gli emergenti come Bora Chung con Coniglio maledetto.
In piena coerenza con la cultura nipponica, dove è lodata la capacità di rispettare il proprio posto all’interno della società e dove il gruppo, la forza lavoro unita da un obiettivo comune, scoraggia qualsiasi possibilità di elevazione del singolo, i personaggi di Murata Sayaka sono spesso ingranaggi in balia di un sistema più grande. Incarnare le contraddizioni della società in cui vivono e tentare di opporsi non è sempre sinonimo di una vera e propria opposizione morale. Ecco perché durante la lettura è frequente la sensazione di assenza di profondità emotiva e di eccessivo distacco.
L’invito dell’opera è mettersi in ascolto all’interno del cambiamento inaspettato – anche quando ci sono tracce, per quanto piccole e innocue, nel tempo presente –, vestire i panni di chi discrimina o di chi è discriminato e chiedersi cosa si sarebbe disposti a fare se all’improvviso si passasse dalla parte della minoranza.
Il gioco della distanza critica da ogni narrazione non propone una rivoluzione, ma suggerisce di spostare l’attenzione verso chi a quella rivoluzione si è arreso. Nessun protagonista è coraggioso o particolarmente innovativo, i nascosti e gli emarginati subiscono il presente fino ad accettarlo, consapevoli che si tratta di un momento nell’infinita casualità dell’esistenza umana.
In fondo, le storie di Murata Sayaka parlano alla normalità di tutti smuovendola con la lente della distopia: chi di noi sarebbe in grado di alzare la testa e risalire le maglie della propria solitudine per reagire?

Com'è stato per me, di Andrew Sean Greer

Titolo: Com’è stato per me
Autore: Andrew Sean Greer
Editore: La Nave di Teseo
Traduzione: Elena dal Pra
pp. 288 Euro 20,00

di Debora Lambruschini

«Tutti bramano grandezza». Si chiude così “La vita è là”, uno dei racconti di Com’è stato per me, la raccolta di racconti dello scrittore premio Pulitzer Andrew Sean Greer appena pubblicata da La nave di Teseo nella traduzione di Elena dal Pra, da sempre voce italiana dell’autore. «Tutti bramano grandezza», ma è la vita – il quotidiano teso tra disillusioni e tentativi, piccole felicità, lavoro, relazioni quasi sempre sbilanciate – a impregnare queste pagine, dargli forma, dargli corpo. Sono racconti scritti da Greer lungo tutto il corso della propria carriera, molti dei quali quindi risalenti agli esordi, alla giovinezza: un dato da tenere a mente quando qui e là avvertiamo una qualche incertezza nella scrittura, una tendenza a insistere su certe tecniche narrative. Allo stesso tempo, quello sguardo di uno scrittore agli esordi, quell’urgenza di narrare e la vicinanza ai personaggi, a certi meccanismi della gioventù, rappresentano anche la forza delle storie, non tutte parimenti riuscite ma molte di notevole interesse. A partire proprio da “Com’è stato per me”, il racconto che dà il titolo alla raccolta italiana ma anche a quella americana con cui Greer esordì nel 2000 (How it was for me).   

 

Quando Percy ci aveva esposto i fatti, nella rimessa per gli attrezzi puzzolente di insetticida, renderci conto che le nostre insegnanti di pianoforte erano streghe era stato uno shock.
(Com’è stato per me, p. 73)

 

L’apertura in media res caratterizza buona parte di questi racconti e quando, come in questo caso, Greer sceglie di raccontare la storia dal punto di vista di un ragazzino pare aver già trovato la sua misura più felice, più riuscita. L’eco di quello che forse è il più bel racconto – lungo – sul tema dell’amicizia, sulla perdita dell’innocenza, ossia “The body” di Stephen King, risuona in questo e più in generale nel modo stesso dell’autore di connettersi al mondo dell’infanzia e della pre-adolescenza da cui osservare anche il mondo degli adulti, con tutte le complicazioni e i misteri che rappresenta. In “Com’è stato per me” quattro bambini di dieci anni si convincono che le rispettive insegnanti di musica siano delle streghe, non «streghe vere e proprio ma praticanti di qualche sottile macchinazione» contro di loro e costruiscono quindi un marchingegno per annientarle e mettersi al sicuro dal loro potere. Sono il simbolo del contrasto-distanza tra mondo dell’infanzia ed età adulta:

 

Sembrava l’antidoto perfetto al mondo adulto che stavamo combattendo, al puntuale sabotaggio a cui venivano sottoposte le nostre vite, non solo da parte delle maestre di pianoforte, ma da ogni capriccio degli adulti, che parevano tutti complicati senza un perché.
(Com’è stato per me, p. 86)

Greer, mediante il suo narratore-bambino, osserva il mistero che il mondo degli adulti rappresenta, fatto di regole che ai loro occhi sono impossibili da decifrare, di complicazioni, di cose non dette. Come il mistero della madre del protagonista-narratore: 

 

Ma come mai ero senza madre? Ancora adesso non lo so; mio padre non me ne ha mai parlato. […] Magari era un po’ matta anche lei. Ma il suo talento principale era quello di sparire, cosa che poi fece per sempre. (Com’è stato per me, p. 79)

 

E quando l’illusione si infrange e resta la realtà tutto assume contorni nuovi. “Com’è stato per me” è innocenza e verità, è la fiducia assoluta nei legami che si creano a quell’età e che non hanno bisogno di farsi domande. Ma sono anche le crepe che corrono lungo la facciata. Le insegnanti-streghe rappresentano il pretesto per combattere contro quello che non si comprende, forse la stessa vita adulta, la perdita dell’innocenza che di lì a poco sarà inevitabile. Non c’è un cadavere come nel racconto di King, ma ci sono epifanie e svolte altrettanto dolorose a segnare il passaggio. E i piccoli segnali della vita adulta che è lì ad attenderli e che inevitabilmente metterà una distanza nella loro amicizia. Sprazzi di futuro che appaiono nella narrazione, una tecnica che, proseguendo nella raccolta di Greer, si farà via via fin troppo insistente ma che in questo momento, in questo racconto, funziona perfettamente.  

Come funziona, ancora, in “La vita è là”: in una narrazione che lievemente ricorda “Kew Gardens” di Virginia Woolf, Greer sorvola un campo da calcio dove dei ragazzini sono impegnati in un torneo, i genitori accalcati ai bordi, concentrati sul gioco; un gruppetto, poco distante, intento in altri giochi, un’avventura da far sembrare reale. Come per Woolf è un narratore esterno che pare sorvolare la scena, avvicinandosi di volta in volta a un gruppetto di loro, per poi soffermarsi su ognuno di quei ragazzi fuori dal campo da calcio, concentrati nei loro giochi al fiume. Una zoomata, per osservare meglio Debbie e la sua improbabile barchetta fatta con una scatoletta di tonno, mentre commenta «Nelle pieghe del tempo così tante volte che no sa neanche dire quante» e sogna avventure che non capitano mai a ragazzine come lei. Per osservare Martin, lasciato in panchina per tutta la stagione, e si applica a perfezionare la sua barca di legno di pino, mentre borbotta incessantemente i versi di una poesia di Dickens da recitare durante un’assemblea a scuola; parole che si inseguono e che non comprende, come quasi tutto quello che riguarda il mondo degli adulti, le regole scritte in un codice tutto loro. O, ancora, Kristin, avventurosa e ribelle, che si cala nell’acqua gelida del fiume con i pantaloni arrotolati: tutti «la trovano strana», i bambini e pure gli adulti che li mettono in guardia da quelle come lei.  

 

Guardate com’è già avventata la sua vita. Qualche anno dopo, suo fratello, ora sul campo da calcio, sarà investito da una macchina. Tutto il vicinato resterà paralizzato dall’orrore, e lei in cucina si girerà verso la madre e vedrà quel viso per un attimo svelato. La madre mostrerà qualcosa di scandaloso in un genitore; mostrerà la propria antipatia per la figlia. Ma subito le si nasconderà rapida dentro il viso, e lei correrà ad abbracciare la figlia. Però Kristin l’avrà vista e lo saprà.
(La vita è là, p. 130)

 

Eccola qui, ancora, la prolessi cara a Greer, sprazzi di un futuro che sta già prendendo forma nell’istante in cui siamo e che ne “La vita è là” funziona perfettamente mentre lo sguardo si sposta dall’uno all’altro, dai bambini agli adulti, tra ciò che è il momento presente e le rovine che per qualcuno di loro già rappresenta. Tra chi è fuori posto, tra i segreti che qualcuno custodisce, la rabbia, il dolore, lo sgomento. E forse quel codice di regole per la vita adulta neppure loro, gli uomini e le donne, lo conoscono davvero.

Di certo, sembra sottintendere questo Greer degli anni giovanili, anche il codice delle relazioni è un mistero e i suoi personaggi sembrano decisi a ignorare tutti gli avvertimenti del disastro imminente. C’è una bellezza struggente in “Vieni a vivere con me e sii il mio amore”, il racconto d’apertura della raccolta, perché sappiamo fin da principio che qualcosa è andato storto e il matrimonio tra i due protagonisti è la copertura di altri sentimenti e inclinazioni impossibile da confessare e vivere apertamente senza perdere la sicurezza delle vite cui aspirano. Ma c’è molto più di questo, c’è un’intera vita comune che nel frattempo si compie fino a quando non sa più tenersi insieme:

 

Quello che mi ricordo è che parlammo così, per tutto il pomeriggio, come se stessimo cancellando un cocktail party, e non una vita.
(Vieni a vivere con me e sii il mio amore, p. 43)

 

È forse il racconto più intenso e maturo di tutta la raccolta, nel quale Greer dimostra una spiccata capacità di indagare le pieghe delle relazioni, addentrarsi nei meandri dei propri personaggi e restituirne l’anima e il corpo, scevri da stereotipi o sterili caratterizzazioni. La materia narrativa non è nuova – una relazione eterosessuale per mascherare l’omosessualità di entrambi – ma la trattazione è meritevole e si infonde di rinnovati spunti. Una narrazione in prima persona, dal punto di vista del marito, che ancora una volta gioca su piani temporali diversi nel raccontare la storia di quel matrimonio, delle persone amate, delle crisi. E, soprattutto, delle innumerevoli sfumature dell’amore. Una storia di scelte, di addii e di ritorni, di sentimenti complessi come lo sono nella vita vera: per questo il racconto funziona, indipendentemente dalla soggettività dell’argomento, per la vita che Greer gli ha saputo infondere. È questo, alla fine, l’elemento più importante di tali racconti e, di contro, la loro debolezza quando viene a mancare: la vita che si respira nelle storie. La felicità, la disperazione, la rabbia, l’amore, l’incomprensione, lo spettro intero dei sentimenti umani che fa vibrare le pagine. Dove è nata la voce di un autore come lo conosciamo oggi.   

Coniglio maledetto, Bora Chung

Titolo: Coniglio maledetto
Autore: Bora Chung
Editore: La Nave di Teseo
Traduzione: Andrea De Benedittis
pp. 288 Euro 19,00

di Fabrizia Gagliardi

Nella distopia c’è una distanza che rassicura il lettore: in fondo la storia è una versione possibile del futuro in cui tutte le tendenze più distorte e indesiderabili del presente hanno trovato la strada della realtà nella finzione. Cosa succede quando le storie del presente diventano ticchettii che segnano l’imminente compimento di quella rappresentazione immaginaria? Sarebbe un po’ come osservare un disastro nel momento in cui ogni idea risolutiva diventa rimpianto, fino a creare il paradosso di essere stati testimoni e complici del collasso.

È un monito che percorre i dieci racconti di Coniglio maledetto di Bora Chung (traduzione di Andrea De Benedittis, La Nave Di Teseo) dove realismo magico, horror e folklore si intrecciano dando vita a narrazioni che assecondano le convenzioni dei generi letterari per ritrarre storture sociali ed economiche.
L’opera, tradotta in ventidue lingue, è stata selezionata per il Booker Prize 2022 e il National Book Award 2023 per la letteratura tradotta, ed è comparsa nella lista dei migliori libri  del 2022 sul New Yorker. Una serie di traguardi di visibilità che hanno alzato l’attenzione su storie tangenti a una tragica realtà: in Sud Corea l’ingiustizia socioeconomica ha guadagnato da anni neologismi satirici, diffusi tra gli internauti, come “Hell Joseon” (traducibile in una formula come “La Corea è una società infernale e senza speranza”), o anche “Tal-Jon” (una crasi che significa “Fuggi dall’inferno”).

La prosa di Bora Chung ricalca il tono delle favole e del racconto popolare e si muove su un confine poroso tra l’assurdo e il terrore più sottile, tanto da creare un ibrido tra Sayaka Murata e Angela Carter.
Una delle storie più emblematiche è Testa, in cui una giovane donna scopre una testa senza corpo nel suo bagno. Questo macabro ritrovamento è generato dai suoi rifiuti corporei e la tormenterà fino alla vecchiaia.
In Mestruo una ragazza assume una dose eccessiva di anticoncezionali fino a scatenare l’effetto contrario e rimanere incinta. Il racconto è una corsa alla ricerca del futuro padre per un bambino che rischia di non nascere.

“Be’, come prima cosa dovrà mettersi alla ricerca di qualcuno che gli faccia da papà.”
“Da papà? Oddio, e perché?”
“Se ha concepito un bimbo…” replicò sgarbatamente la dottoressa, “avrà diritto o no di avere un padre?”
“Ecco, ma in caso contrario… se non ne avessi uno a disposizione che accadrebbe?”
“Data la situazione, considerando che non si tratta di un concepimento normale, nel caso in cui lei non avesse un partner di sesso maschile, l’embrione non riuscirebbe a formarsi e a crescere regolarmente. Sa, è lo stesso che capita tra le uova: infatti ce ne sono di fertili e di non fertili. È praticamente lo stesso principio,” le spiegò la dottoressa come seccata e fulminandola con gli occhi. “Se l’embrione non riesce a crescere regolarmente, allora si rischia di non riuscire a portare avanti normalmente la gravidanza, ma questo potrà avere delle ripercussioni sulla partoriente. Capisce?”

La voce delle donne è oscurata dal controllo del corpo: quando urlano i loro timori vengono costantemente derubricati, quando sono confuse vengono accusate della loro paura e generano disgusto.
A pensarci bene, nella raccolta ogni lettore può riconoscere elementi che almeno una volta ha incontrato nella realtà: il sorriso di conservazione dello status quo “perché qui funziona così, da sempre”; la tendenza crescente, nel mondo circostante, a minimizzare qualsiasi preoccupazione lecita (lavorativa, sentimentale, relazionale) che denota poca empatia e connessione con l’altro; l’appiattimento verso l’individualismo estremo in cui ogni sentimento è passato al vaglio della stranezza o della solitudine senza possibilità di essere compresi.
Sono i racconti costruiti come favole a generare la sensazione più straniante e, forse, ad apparire come ammonizioni più esplicite per peccati contemporanei. Ne La tagliola l'avidità capitalista si avvale della metafora del sangue dorato di una volpe catturata casualmente da un uomo. Da quel momento in poi la vita del protagonista è votata al profitto, in una spirale crescente di omicidi, cannibalismo e incesto.
Nel racconto che dà il titolo alla raccolta la fiaba della buonanotte raccontata dal nonno si trasforma in un incubo: il declino del CEO di un’azienda di liquori e della sua famiglia s’innesca dopo aver ricevuto un oggetto maledetto che punisce la spietatezza passata.
In Casa, dolce casa! una donna è convinta di poter vivere di rendita acquistando un intero edificio da mettere in affitto, ma una serie di sfortunati eventi sembrerà ostacolarla continuamente.

Lei stessa ammetteva di andare controcorrente, ma d’altronde non era mai stata il tipo che si metteva a seguire il resto del gregge. Gli altri desideravano una vita da sballo: guadagnare soldi a palate, comprare case e automobili più grandi, mandare i figli in asili internazionali con rette astronomiche e in scuole private stra-competitive, per poi farsi dei bei viaggetti all’estero ogni tre mesi. Ma questo non era ciò che lei voleva per sé. Lei ambiva a una vita tranquilla, tra persone senza troppe pretese, ma affettuose… a un’esistenza che le consentisse di vivere in pace con sé e con gli altri.
E ora pensava finalmente di averla trovata.

Un’immaginazione ricca e una prosa dritta e descrittiva mescolano sogno, memoria traumatica e orrore in uno stile semplice. Chung riesce a unire influenze e generi in un modo che destabilizza le aspettative formali sia della narrativa pulp che della letteratura più intellettuale. Questa fusione porta il lettore a navigare tra le macerie di convenzioni sociali e letterarie per trovare nuovi terreni da esplorare e abbattere.
Coniglio maledetto non è solo un esercizio stilistico aderente all’horror e alle favole surreali, ma è un sistema composito di riflessioni sul conformismo, sulle maledizioni da infrangere attraverso nuove forme di umorismo nero e di reazione.

Ti piacerà quando ci arrivi, di Elizabeth Taylor

Titolo: Ti piacerà quando ci arrivi
Autore: Elizabeth Taylor
Editore: Racconti Edizioni
Traduzione e curatela: Paola Moretti
pp. 288 Euro 18,00

di Debora Lambruschini

Dove se ne stava nascosta Elizabeth Taylor? Non l’attrice, ma quella «famosa per non essere più nota» come sottolineava causticamente il critico Ben Schwarz su The Atlantic? Era nascosta in bella vista e ora che una selezione dei suoi racconti è finalmente approdata per la prima volta anche nelle librerie italiane non ci sono più ragioni per ignorarla. Racconti edizioni scova queste gemme di humor e disperazione, raccolte nel libro Ti piacerà quando ci arrivi, intrise di una englishness che la traduzione di Paola Moretti (a cui si deve tutta la curatela della raccolta) riesce a rendere abilmente in italiano. Per la verità qualcosa di Taylor era già stato pubblicato in Italia, ma pochissimo e ancora meno quello che risulti attualmente reperibile: i romanzi La colpa, A casa di Mrs Lippincote (forse il suo testo più celebre), Mrs Palfrey all’hotel Claremont (anche questo abbastanza noto), Mossy Trotter (il suo unico libro per ragazzi), La gentilezza in persona, Una ghirlanda di rose, Angel. È nella forma breve, però, che il talento letterario, l’arguzia e quell’uso «preciso del linguaggio» intrecciato a uno stile sobrio si fanno davvero peculiari e ammalianti.
Nata Elizabeth Coles (Reading, 3 luglio 1912 – Penn, 19 novembre 1975), prende il cognome dal marito John, conosciuto negli anni Trenta, scegliendo di usare proprio quel nome per la pubblicazione dei suoi lavori, inconsapevole dell’omonimia che di lì a poco l’avrebbe accostata – portando a non pochi equivoci – a una tra le attrici più famosa dei tempi, la diva dagli occhi viola. Cresciuta fuori Londra in una famiglia appartenente alla classe medio bassa, frequenta tuttavia le migliori scuole femminili del posto, distinguendosi soprattutto in inglese, ma l’avversione per la matematica ne comprometterà l’accesso all’università. Ancora adolescente inizia a scrivere e recitare in spettacoli teatrali amatoriali: sarà proprio durante uno di questi spettacoli che rimarrà ferita da un fuoco d’artificio che le danneggia irrimediabilmente la vista dall’occhio sinistro. A seguito del rifiuto da parte delle principali università per via delle sue lacune in matematica, studia stenografia e poi inizia a lavorare come governante, maestra d’asilo, bibliotecaria. Si dedicherà anche alla carriera politica, aderendo al partito comunista, per poi scegliere la vita coniugale e la scrittura, ragionando sempre su come la domesticità influenzi la creazione letteraria, soprattutto per le donne, argomento che ricorre spesso in forme diverse nei suoi scritti.  
Autrice di dodici romanzi, una novella, un libro per ragazzi e svariati racconti, Taylor è stata quindi riconosciuta come una delle maggiori scrittrici britanniche del Novecento, accostata ad autrici quali Elizabeth Jane Howard, Ivy Compton-Burnett, Elizabeth Bowen, Barbara Pym. E Jane Austen, da cui tutto ha avuto origine. La prosa di Taylor è intrisa di humor ma anche di disperazione, retta da un uso peculiare della lingua, lo stile capace di raccontare tanto la realtà tangibile quanto il mondo delle emozioni, soffermandosi sul dettaglio rivelatore, accogliendo le varie sfumature di linguaggio e classe sociale di cui fuori dal contesto britannico forse non si riesce a coglierne appieno la portata ma basta anche un’eco per restarne affascinati. Questi quattordici racconti, selezionati da Paola Moretti, sono scelti come i più rappresentativi, il meglio della produzione breve di Taylor: un microcosmo di storie autonome, attraversate da temi e modi comuni nei quali il confine tra umorismo e grevità è spesso labile. È un sorriso amaro, intrecciato a un’ironia caustica a tratti, ma mai cattiva, tutt’altro. Uno sguardo pieno di umanità per quegli uomini e, soprattutto, per quelle donne protagoniste delle storie. Racconti scritti tra gli anni Quaranta e Sessanta del secolo scorso e apparsi su riviste come Vogue, New Yorker, Harper’s Bazaar, in cui tuttavia la connotazione temporale appare sospesa, dai contorni sfumati, e sono alcuni dettagli – la televisione, la macchia, i telefoni – a riportarci nel tempo in cui sono collocati; una sospensione temporale che si intreccia allo spazio geografico e sociale della narrazione, quella middle class suburbana che è il cuore della riflessione letteraria di Taylor.
Il centro nevralgico di queste storie sono infatti le donne della classe media dei sobborghi, il quotidiano che diviene domesticità, le increspature sulla superficie all’apparenza regolare. Storie in cui più del plot è lo spaccato di vita che rappresentano a fare la narrazione e che grazie allo straordinario orecchio di Taylor si compone in un microcosmo di personaggi, voci, pub decadenti e antiche dimore, cottage, giardini. È la provincia inglese con il suo cicaleccio costante, il quotidiano impresso sulla pagina. Storie autonome ma accomunate da un’occorrenza di tematiche e spunti: la maternità – quasi sempre mancata – , l’alcol, la solitudine, l’insoddisfazione coniugale, la complessità delle relazioni.
Emblematico, il lungo racconto con cui si apre la raccolta, Hester Lilly, un portento di stile, ironia e dramma, minuzia di dettagli e sospensione.     

 

La prima sensazione di Muriel fu quella di un sollievo beffardo. Il nome, Hester Lilly, le aveva dato l’impressione di una delicatezza preraffaellita con un che di tiroideo. Questo, insieme alla giovane età e alla tenerezza che suscitava, avrebbe rappresentato un pericolo per qualsiasi moglie, mentre nei mariti poteva ispirare senso di protezione e galanteria: i nemici più difficili da combattere, rispetto ai quali la semplice ammirazione non era nulla. «Se fa leva sulla compassione» rifletteva, «così giovane e orfana, qualsiasi mia rimostranza sembrerà oltremodo insensibile».

 

Ma Muriel, la moglie protagonista di questa storia, non potrà fare a meno di guardare con sospetto l’arrivo della giovane cugina del marito, accolta in casa loro perché rimasta senza famiglia; Hester Lilly è una creatura timida, spaventata, che Muriel finge di prendere sotto la propria ala ma verso la quale ha sentimenti di natura assai meno caritatevole di quanto vada declamando. Una sottile, feroce gelosia la investe e si insinua nel suo matrimonio. «È chiaro che sei innamorata di Robert»: la brutalità con cui Muriel rivolge a Hester queste parole apre uno squarcio nella finzione, nel rispettoso equilibrio costruito su piccole falsità e non detti. Tutto è destinato a guastarsi. Che la giovane sia effettivamente innamorata del cugino Robert, che tra i due possa o meno nascere qualcosa di romantico, non importa: il dramma al centro della narrazione è la rappresentazione di un matrimonio le cui crepe sono sempre più marcate, logoro di distante e silenzi, convenzioni, perbenismo, dove ogni sentimento d’amore se c’era sembra essere perduto per sempre.

 

«Se Hester non fosse mai arrivata! Se fosse rimasto tutto come prima!»

«Lei non c’entra niente. È del tutto innocente».

«La sua innocenza è velenosa. Ci ha corrotti»

 

È la funebre scoperta del loro disamore, della spaccatura che si è creata nel matrimonio, un abisso nel quale gettare parole «come a volerlo chiudere prima che fosse troppo tardi».
Intorno, i tentativi di Hester di affrancarsi dallo sguardo e dal giudizio di Muriel, la strampalata frequentazione con la vecchia alcolizzata dal paese, un corteggiamento… Ce la faranno Muriel e Robert? Ce la farà il loro matrimonio? È su questi dubbi che Taylor costruisce la narrazione, sulle solitudini e le distanze della coppia, usando nelle storie anche registri diversi: in Gravement Endommagé marito e moglie partono per una vacanza sperando che questo tempo insieme possa riavvicinarli, ma il lungo e monotono viaggio in macchina sembra invece acuire le tensioni e la distanza; in Una tara di famiglia, forse, i rumori familiari del pub sono il canto delle sirene di un neo marito che dimentica completamente la moglie ad attenderlo in camera; o, ancora, in Il rossore la protagonista dimostra un innegabile aplomb di fronte alle bugie della vita coniugale della sua domestica.
Ogni racconto – o quasi – rappresenta una sfumatura dell’indagine di Taylor sulle relazioni, sulla vita coniugale e le sue frustrazioni, con un registro che sa farsi ora ironico ora greve, e dove la solitudine è il fardello comune degli uomini e delle donne ritratte. L’insoddisfazione coniugale è resa al suo massimo nella storia Un uomo devoto, laddove la coppia protagonista non è neanche davvero sposata: è una facciata, una bugia orchestrata per trarne vantaggio, ma che gli si ritorcerà contro. Nella ricerca di Silcox ed Edith di un luogo di lavoro più consono ai loro standard di rispettabilità, si intreccia una rete di bugie che lentamente sembrano confondersi sempre più con la realtà:

 

Avevano sofferto gli orrori della gente comune e questa fuga verso l’eleganza era importante per entrambi. I pericoli che li minacciavano non avevano a che fare con il lavoro, che entrambi padroneggiavano dall’inizio, ma con la loro vita privata. Per Edith era un’agonia pensare che ci si aspettasse
che passassero il loro tempo libero insieme.

 

Alla riflessione sulla vita coniugale, l’autrice alterna anche l’interessante rappresentazione del piccolo mondo della comunità che lo popola: il rituale del pub – l’alcol, una costante di queste storie, tanto per gli uomini quanto per le donne – , le visite tra vicini, il pettegolezzo; lo sguardo di Taylor si posa su questi duplici aspetti, descrive minuziosa l’interno di una casa e le abitudini della sua proprietaria, per poi spostarsi altrove, raccontando un’altra storia ancora (La benefattrice), in un cambio di punti di vista e piani narrativi arditi e funzionali. Curiosa, poi, la scelta di inserire il racconto La carta moschicida, che si discosta dal resto della produzione qui selezionata per la sottile tensione che via via si fa strada nella storia, fino all’ambiguo finale. È una virata interessante, ma non del tutto fuori luogo: è solo l’altra faccia della realtà suburbana, quella più oscura che, pur con le dovute differenze del caso, trova eco in certi racconti di Patricia Highsmith (penso per esempio a Un uomo tanto gentile, contenuto nella raccolta Donne, La Nave di Teseo).
Inseguendo questo filo rosso che lega i racconti di Elizabeth Taylor ad altre storie, ad altre scrittrici – oltre alle influenze più esplicite ricordate in apertura – quella capacità di osservazione della realtà si lega per alcuni versi alle storie di Bette Howland (Storie di vite diverse, Sem), il dettaglio carico di significato e le vite minime di certi racconti di Hilma Wolitzer, fino alla feroce ironia di Dorothy Parker nella rappresentazione della solitudine.
Storie diverse, autrici diverse per contesto geografico, narrazioni, sguardo, ma in qualche modo legate da quel filo. Da Jane Austen a Elizabeth Taylor, che scrisse per sé forse il nome sbagliato ma pesò ogni altra parola con estrema cura.   

Gotico rosa, di Luca Ricci

Titolo: Gotico rosa
Autore: Luca Ricci
Editore: La Nave di Teseo
pp. 256 Euro 18,00

di Francesca Piovesan

Se c’è uno scrittore italiano,contemporaneo, che ha cercato di dare significato e senso al moto dell’amore, quello scrittore è Luca Ricci.
Dopo la Quadrilogia delle Stagioni, torna in libreria con una raccolta di racconti: Gotico Rosa, La Nave di Teseo.
Ricci ritorna alla forma breve per “indagare le passioni delle donne e degli uomini dopo la fine del romanticismo. Perché l’amore fa bene ma può, e forse deve, farci anche male.”
Sappiamo tutti benissimo che il “fare male” non è parte della ricerca, che tutti con ostinazione cerchiamo di scansarlo, ma la maggior parte delle volte è inevitabile, sembra quasi indispensabile alla costruzione di un amore, ed è proprio qui che, Ricci, scava e indaga grazie alla sua scrittura.

 La raccolta inizia con “Deliquio veneziano”, un racconto ambientato a Venezia, una morte a Venezia, morte voluta, simulata in gondole durante un’estate rovente, morte non più così tanto voluta di fronte alla passione improvvisa, inaspettata, di fronte a un essere che si nutre di fantasia, scrigno di antichi miti.

 

Ma eravamo tutti così, uomini che nel momento esatto in cui venivano messi al mondo perdevano la loro parte divina, serbandone tuttavia una memoria labile nei miti classici.
Eravamo tutti l’avanzo di una divinità.

 

Ogni storia di amore e di sesso contiene la sua piccola morte.
“Racconto della pioggia” è il racconto di due amanti in undici temporali.
Il dipanarsi della loro storia, della loro passione, del diventare inevitabilmente e fatalmente coppia, lungo stagionalità di pioggia, un albergo in una città d’arte a metà strada, lungo l’immaginario che ogni pioggia porta con sé.

 

Pioveva anche la prima volta che ci siamo visti”, osserva lei, e io capisco con piacere che stiamo già lavorando alla costruzione di una storia, la nostra storia, che sarà fatta di numeri, analogie, ricorrenze, coincidenze che vogliamo trasformare in destino, ogni relazione tenta questa impresa stupefacente, l’edificazione di un tempio, ogni coppia di amanti prova a inventare la religione del proprio amore…

 

Gli amori non sono tutti uguali, così come non lo sono le piogge, il loro tasso d’umidità, i rumori che richiamano, il loro effetto su corpi asciutti o bagnati, sudati.
La tematica dell’amore proibito, clandestino, che si trasforma in “tempio dell’amore” è uno dei temi che sono più cari a Luca Ricci, che cerca di sviscerare, di farlo proprio con la scrittura, di renderlo godibile al lettore, specchio riflettente.
“Vitalità dell’amore” è uno di questi casi, dove ancora una volta, qualcosa di moralmente perseguibile perde quel fascino di piccola perversione domestica, da zona bene di Roma, per trasformarsi in innamoramento, in invaghimento. La vitalità, la giovinezza di un’adolescente, che incontra la maturità, la voglia di trasgredire ancora le regole, di un uomo adulto, uno stimato professionista.

 

A una certa età si è confortati più dai vizi che dalle virtù. È una questione di prospettiva: le virtù si occupano del futuro, e chi invecchia sa di averne sempre meno.

 

Un’altra ragazza giovane percorre le righe dell’ultimo racconto della raccolta, “Trascurate Milano”, dove la metropolitana fa da sfondo a una storia che si consuma in pochi minuti, che è sempre prima volta e ultima, cupa nei sotterranei e piena di aria pulita, di ossigeno, che in superficie non può durare, non esiste, resiste.
“Tutto marcia diligente verso il Natale, eccetto noi…”.
Milano marcia diligentemente verso il Natale con i suoi regali, i panettoni, mentre sotto, nei vagoni, il palcoscenico porta sulle scene due ruoli definiti e intercambiabili, in cui vittima e carnefice si possono confondere.
Gotico Rosa ospita anche storie di fantasmi, e di maledizioni, come il racconto che da il titolo alla raccolta, dove due giovani sposi vengono posseduti da una coppia morta, antica, confluita nell’oro colato delle loro fedi nuziali.
C’è spazio anche per l”Adolescente (s.m). Convalescente dall’infanzia”, che in “Ferragosto addio!”  incontra il primo amore, la prima vera attenzione rivolta all’altro sesso, durante un’estate calda, lenta, pigra, attorniata da ville con piscina e voglia di distruzione.
Incontriamo anche la pandemia, forse una delle prime produzioni italiane che leggo in merito.
Il nero abisso esistente tra noi” vede un uomo sfregiato dalla vita che, dietro una mascherina FFP3, sperimenta di nuovo il potere della conquista, la clandestinità che in tempo di virus risulta amplificata.
Una passione che, mancante della conoscenza anche fisica dell’altro, lascerà degli strascichi inaspettati.
Luca Ricci riesce, ancora una volta, attraverso la forma breve a rendere tutte le dinamiche del rapporto amoroso. Oscure e confuse, impaurite e in preda alla giostra dei destini umani, le emozioni  vestono ancora nel gioco dell’amore il loro abito irrazionale.

Gotico londinese, di Nicholas Royle

Titolo: Gotico londinese
Autore: Nicholas Royle
Editore: 8tto edizioni. Traduzione: Cristina Cigognini
pp. 240 Euro 18,00

di Debora Lambruschini

Che cos’è reale? Che cosa non lo è? È intorno a questo nucleo che si muovono i racconti di Gotico londinese, dello scrittore ed editor inglese Nicholas Royle, tra «i maggiori esperti britannici della narrativa breve», tradotti da Cristina Cigognini per 8tto edizioni. Quindici racconti esemplari, che compongono una raccolta organica per tematiche e spunti, ambientati nella capitale inglese dagli anni 2000 a oggi, in cui l’ordinario, il quotidiano, è incrinato dall’elemento perturbante che attraversa ogni storia, pronto a deflagrare. Il richiamo alla tradizione gotica è evidente fin dal titolo – che traduce esattamente l’originale, London gothic – segnale di un’influenza mai venuta meno, mutata nel tempo per istanze e modalità narrative ma sempre adatta a raccontare il presente, le sue contraddizioni, i lati più oscuri e problematici. A lungo considerato letteratura meramente popolare che nulla aveva a che spartire con il novel e snobbato dalla critica, è stato dagli anni Settanta del Novecento che il gotico entra invece nel discorso critico, grazie soprattutto alle ricerche del bulgaro Todorov che per primo ne rivendicava una funzione psicanalitica, mezzo ideale per esorcizzare le paure della società entro cui il genere si sviluppa. E pochi generi invero riescono al pari del gotico a raccontare i turbamenti del contemporaneo, riflettere ansie e paure dell’essere umano, accogliere le istanze più problematiche della società, affrontare argomenti scomodi e intrecciarsi a riflessioni, per esempio, su femminile e patriarcato, tecnologia, scienza, fede, malattia mentale… L’influenza del gotico affonda le radici nel Settecento inglese (la sua fondazione si fa generalmente coincidere con la pubblicazione del romanzo The Castle of Otranto, di Horace Walpole, nel 1764, non a caso in pieno Illuminismo) e arriva dunque fino al contemporaneo, in testi che ne riprendono atmosfere, personaggi, istanze, scegliendo di volta in volta chiavi di lettura differenti. Ciò che del gotico affascina critica e lettori contemporanei è proprio la sua natura mutevole, che attraversa mode e correnti letterarie rinnovando atmosfere e sollecitazioni delle origini; materia viva, insomma, che in mani esperte può portare a esiti particolarmente interessanti e riusciti, come dimostrato dai racconti di Royle che si muovono in un contesto letterario codificato reinterpretandolo. In Gotico londinese l’autore concentra la propria attenzione sullo spazio urbano e sul perturbante che irrompe a scardinare l’ordine del quotidiano, mettendo in discussione tutto ciò che consideriamo reale, confondendo i confini di forma come quelli tra bene e male, giusto e sbagliato, realtà e incubo. Una raccolta sperimentale, organica nelle occorrenze tematiche e nel setting generale ma polifonica e particolarmente interessante nell’uso peculiare dei mezzi narrativi, del punto di vista mutevole – anche all’interno di una singola storia – , dei diversi registri espressivi, dei piani narrativi, delle influenze di altre forme espressive, dall’arte al cinema alla scrittura professionale. Molteplici, quindi, le chiavi di lettura per addentrarsi in queste storie, in cui riconoscibili alcuni temi e spunti comuni: l’altrove, la riflessione sul tempo – o meglio, sulle «scollature» nel tempo – , l’ossessione, l’incubo, la domesticità quale luogo principale del perturbante, il mistero delle relazioni, la pornografia della violenza, le relazioni. La materia è viva, plasmata dalla lingua che di volta in volta sceglie la forma più idonea a raccontare la storia, ad avvicinare il lettore giocando sull’empatia che sa creare, per poi deflagrare in una violenza annunciata da piccoli dettagli.
Emblematico il racconto d’apertura, “Benvenuti”:

 

Ciao! Benvenuti nella vostra nuova casa! La porta d’ingresso si inceppa un po’. Mi spiace. Tiratela verso di voi prima di provare ad aprirla. Dovrebbe funzionare. Vi abbiamo lasciato una bottiglia di vino – speriamo che vi piaccia il rosso! – e una pianta grassa portafortuna. Datele da bere di tanto in tanto (non il vino!), ma non esagerate. Non fatela morire! (“Benvenuti”, incipit, p. 11)

 

Scritto come un biglietto di benvenuto ai nuovi proprietari di casa, il tono ironico e la leggerezza dell’atmosfera muta presto in qualcosa di altro, di ben diverso, a partire dall’accenno, quasi casuale, a una macchia di sangue nell’ingresso. Proprio lì, sulla soglia della casa, sulla soglia della storia – sulla soglia della raccolta tutta, in effetti – , i nostri sensi si mettono in allerta, avvertono il mutare dell’atmosfera. Cogliamo gli indizi di un mistero che non sarà mai pienamente svelato ma i cui macabri contorni ci appaiono piuttosto chiari. O, almeno, così pare, come sarà spesso in questa raccolta, dove è il nostro stesso sguardo di lettori, una certa direzione che decidiamo di dargli, a fornire una precisa interpretazione delle cose, del tono della narrazione laddove i confini sono sbiaditi e lo svelamento solo parziale. Sarà il richiamo al gotico ben impresso già nel titolo, saranno gli indizi, certe atmosfere, le ossessioni di taluni personaggi, l’abilità con cui Royle dice e non dice, ma i nostri sensi sono tutti votati a una determinata interpretazione.
Ma Gotico londinese è anche una raccolta di architetture, di strade, di luoghi, di passeggiate per una Londra multiforme, nascosta, gotica appunto, innesco di un progetto narrativo che parte dalla capitale inglese per poi attraversare anche Manchester e Parigi, altre città in cui Royle ha vissuto.
Narratore abile, soprattutto quando si misura con l’ambiguità, con il dettaglio. Come nel racconto “L ONDON”, volutamente staccato, dove i preparativi per il matrimonio si scontrano con il numero degli invitati: «dobbiamo togliere due nomi dall’elenco». Nulla di più normale. Nulla di più ambiguo. La violenza resta come sempre in questi racconti fuori scena, il mistero non svelato, ma sentiamo, sappiamo, che qualcosa è accaduto e per tutto il racconto ci chiediamo come siano andate davvero le cose e chi altri è consapevole di quella verità celata.
Le cose quasi mai sono quello che appaiono, specie in racconti come questi, dove perfino il tempo è mutevole, materia da plasmare, soggetta a «scollature che generano scenari diversi, turbamenti, e dove i contorni del reale e della fantasia si annullano l’uno nell’altra:

 

Mentre indietreggia dalla scena dell’omicidio, e le immagini dello scontro con l’uomo alto dal cappotto scuro con la macchia chiara sul fondo le scorrono di nuovo in testa, Sarah rovista in cerca del telefono. Chiama Tim, ripassando per la sala dei lavorati in ferro, ma parte in automatico la segreteria. Vuole raccontargli dell’uomo alto, il sosia di Eberlin, come se avesse bisogno di essere rassicurata di non essersi persa in una fantasia creata da lei. (“Scollature nel tempo”, p. 140)

 

Fantasia, realtà, concretezza, sogno, si confondono nei racconti di Royle, l’eco della tradizione su cui si posano, i richiami letterari, storie come scatole cinesi: le istanze del gotico, dunque, ma anche una certa brutalità di Flannery O’Connor, le ambiguità di Shirley Jackson, il perturbante domestico di Samantha Schweblin, le alienazioni di Patricia Highsmith. Echi diversi, simile presa salda sulla parola che dà forma al mondo. In questo intreccio si inserisce la riflessione sulla scrittura e la rappresentazione di uno spaccato di mondo ben noto all’autore, editor di lungo corso. Nulla di più adatto della scrittura, dell’invenzione letteraria e del mistero che porta con sé, per raccontare l’ambiguità, la parzialità del punto di vista, la mutevolezza dell’interpretazione, come in “L0nd0n”, che è anche un’interessante riflessione sul ruolo dello scrittore, sul confine tra realtà e invenzione, autore e opera.
Royle e i suoi narratori sono ambigui, inaffidabili, tra svelamento e sottintesi lasciano un certo grado di segreto, il dubbio su quale sia il confine tra verità e menzogna, colpa e innocenza. È in questa ambiguità che si innesca la storia, in queste distanze dal reale che il gotico trova forme e modi nuovi. È lì, tra quelle pieghe, che guardiamo chiedendoci quanto di quel mistero sia possibile svelare, quanto della realtà ci è davvero conoscibile, dove si sconfina nell’ossessione. E dove la realtà è molteplice, le istanze del gotico ancora profondamente perturbanti. 

La cattedrale di nebbia, di Paul Willems

Titolo: La cattedrale di nebbia
Autore: Paul Willems
Editore: Safarà
Traduzione: Giuseppe Grimonti Greco, Federico Musardo
pp. 112 Euro 16,00

di Fabrizia Gagliardi

Se la scrittura fosse una risposta ci sarebbe bisogno di leggere davvero poco. Due o tre libri fondamentali per rispondere alle domande del lettore, e poi altro sarebbe superfluo perché non aggiungerebbe niente a interrogativi ampiamente scandagliati. In effetti, gli scrittori si occuperebbero del bianco e del nero, mostrare senza dire un mondo ordinato, in cui anche lo sconosciuto sarebbe chiuso in confini ben precisi.
Fortunatamente non è così, perché scrivere è «un atto di fede sempre deluso. Al tanto sospirato orizzonte non arriviamo mai neanche lontanamente e ciò che crediamo di aver afferrato svanisce non appena gli diamo un nome. Se le illusioni non fossero indistruttibili, non scriveremmo più».
Sono le parole di Paul Willems nel saggio Scrivere contenuto ne La cattedrale di nebbia. Safarà editore porta per la prima volta in Italia la traduzione di sei racconti e due saggi di uno degli esponenti più importanti del teatro poetico e fiabesco europeo.


Drammaturgo belga, nato a Edegen, Anversa, nel 1912 ha avuto una vita da viaggiatore essendo Direttore del Palais des Beaux-Arts e presidente delle Jeunesses Musicales, coinvolto spesso in scambi culturali che hanno contribuito a concepire opere teatrali percorse da realismo fantastico.
Nella Cattedrale di nebbia, la traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Federico Musardo, restituisce un mondo di magia sottile e oscura, dove il materialismo abbandona le convinzioni del lettore e sfuma le percezioni di sogno e realtà immergendolo in atmosfere surreali e magiche.
In qualche racconto la malinconia e la fine delle illusioni che sopraggiunge in età matura lacerano con il loro realismo viaggi e incontri inaspettati. Nel racconto Čerepiš, per esempio, seguiamo un on the road spirituale verso un monastero. Il protagonista e l’etnologo Hector continuano a conoscersi intervallando racconti personali e incontri lungo il percorso.

Nell’occhio del cavallo racconta di un padre che ha creato una lingua speciale per la figlia non più in vita:

«Da allora» dice Sergej «questa faccenda delle parole mi ossessiona. Sì. Le parole si consumano; anzi, peggio: si guastano. Tutte queste parole che vediamo ogni giorno sui giornali. Automobili usurate. Non c’è niente da fare. Troppo tardi. Anche noi siamo consumati e non abbiamo più radure per erigervi delle stele. Me ne rendo conto ogni giorno di più da quando ho perduto Maŝa. Mia figlia.
[...]E continua a parlarmi nella lingua segreta di Maŝa. È una lingua intessuta di lacrime e d’aria, nella quale i silenzi che separano le parole sono di un rosso cupo che vira al nero. Il vento che attraversa il racconto di Sergej fa tintinnare dei campanelli di carta e risuonare tamburi di sabbia.

Le parole sono intrinsecamente illusorie perché pretendono di delimitare qualcosa che una volta nominato rischia di sparire. Lo stile di Willems si fa giocoso: con maestria e inventiva fa intuire la libertà sterminata della lingua che però si riconfigura continuamente rispetto al passato; fa uso della metafora per suggerire collegamenti immaginifici («Victor viveva come un aquilone, ovvero legato a un filo. Le tempeste – che si era goduto fino ai venticinque anni – tendevano, senza spezzarlo, il filo che lo teneva ancorato all’infanzia») e pensa alla sinestesia accostando il materiale e l’immateriale.

Il racconto che dà il titolo alla raccolta è l’apice della sua poetica perché ci immergiamo in un luogo magico ed enigmatico, dove la nebbia stessa diventa architettura.

La navata centrale era meravigliosa. Centocinquantaquattro colonne di nebbia fluivano verso l’alto per poi ricongiungersi in sette chiavi di volta. Il vapore vi si condensava in gocce d’acqua, che cadevano una a una secondo un ritmo casuale e che venivano accolte, al suolo, da meravigliose iris scolpite dall’orafo Wolfers. Queste iris di un azzurro intenso erano ricoperte di lamine d’acciaio vibratile che si animavano di suoni impalpabili al cadere di ogni goccia.
[...] Qui e là, verso l’alto, da ogni parte, i rami degli alberi che cingevano la radura attraversavano le mura e la volta di nebbia. Sembravano tenere l’intera chiesa sospesa tra cielo e terra. Questa impressione era rafforzata dalla presenza dell’edera che, non potendo aderire alle pareti, ricopriva il suolo di uno spesso tappeto il cui colore verde era esaltato da una luce diffusa di un grigio finissimo. Nonostante la protezione degli alberi, nei giorni di grande tempesta la chiesa si disperdeva. Si riformava soltanto al crepuscolo, con il calare del vento.

È attraverso queste immagini suggestive che Willems ci trasporta in mondi di pura meraviglia e incanto. I racconti si fermano all’ingresso del soprannaturale, senza mai addentrarcisi davvero ed ciò che rende difficile inquadrare un autore che dissemina la narrazione di simboli.
Probabilmente, dovremo prenderla come scrive lui stesso nel saggio Leggere e cioè che ogni lettura è una creazione e tutti i libri di una biblioteca sono, a tutti gli effetti, la creazione di un mondo, un mondo interiore da rispettare come fosse un luogo sacro.
«Io leggo come immagino si preghi».

L’uomo che uccise Liberty Valance, di Dorothy Johnson

Titolo: L’uomo che uccise Liberty Valance
Autore: Dorothy Johnson
Editore: Mattioli. Traduzione: Nicola Manuppelli
pp. 192 Euro 17,00

di Debora Lambruschini

 

Dorothy Johnson è probabilmente la più importante autrice donna di opere western, che ha saputo dare al genere una connotazione letteraria e umana ben precisa. Autrice di diciassette libri, numerosissimi racconti e articoli, Dorothy Marie Johnson nasce nel 1905 in Iowa per poi trasferirsi con la famiglia in Montana, a Whitefish: una terra d’adozione cui sarà legata per tutta la vita, nonostante una lunga parentesi a New York City dove lavorerà per quindici anni come publisher e giornalista. Ma il cuore – e la sua identità di autrice – è laggiù, nel Montana. Un ritorno necessario. Qui alternerà la scrittura all’insegnamento – di giornalismo, presso l’università di Missoula – e il legame con la terra e le tradizioni si intrecceranno in modo indissolubile alle pagine, tra romanzi, racconti, saggi e articoli. E qui, a Missoula, morirà stroncata dal morbo di Parkinson nel 1984: con lo spirito che la caratterizzò tutta la vita, farà scrivere sulla lapide un enigmatico “Paid”, a cui sono state date varie interpretazioni.  

In Italia il nome di Dorothy Johnson non è mai stato particolarmente noto, ma oggi che Mattioli 1885 porta per la prima volta in libreria L’uomo che uccise Liberty Valance, quattro racconti, tradotti magistralmente da Nicola Manuppelli, molti lettori probabilmente riconosceranno titoli ben noti nell’immaginario del pubblico di film western: tre di queste storie, infatti, sono state trasposte al cinema con grande successo. Personalmente non ho mai amato il genere, di cui pure possiedo mio malgrado una nutrita collezione ereditata da un padre invece grande fan di film western: ma l’impronta che certi scrittori e scrittrici hanno dato al genere è tutta un’altra questione. Penso per esempio a Annie Proulx, a Sam Shepard, al Butcher’s Crossing di John Williams – sì, l’autore di Stoner – , per arrivare fino a Cormac McCarthy e Larry McMurtry, per citare giusto una manciata di quegli autori che hanno reso letterario tutto ciò che è westerners. In questo solco si collocano le storie di Dorothy Johnson, di cui Mattioli porta ora in libreria quattro racconti straordinari: “L’uomo che uccise Liberty Valance” (che dà il titolo alla raccolta), “Un uomo chiamato Cavallo”, “L’albero degli impiccati”, “Una sorella scomparsa”. I primi tre sono diventati, come si accennava, celebri film, ma anche il quarto è un piccolo gioiello da non sottovalutare. Ma che cosa c’è nei racconti western di Johnson da esserle valsi i più prestigiosi riconoscimenti letterari e farla perfino diventare membro onorario della tribù dei Piedi Neri?
Con accuratezza storica e varietà di dettagli Johnson crea un mondo di uomini e donne di frontiera liberandoli di pregiudizi e stereotipi che molto spesso caratterizzano il genere, scavando al cuore delle storie e dei personaggi per restituirli al lettore – tanto di ieri quanto contemporaneo – in tutta la loro complessità; uomini e donne molto spesso duri, come la vita di frontiera richiedeva di essere, ma allo stesso tempo umani, preda di dubbi, paure, fragilità. Duri, ma non invincibili. E, andando contro a buona parte della narrazione western, Johnson dedica lo stesso approfondimento e complessità alla rappresentazione delle tribù indigene e all’incontro/scontro tra bianchi e nativi. A scanso di equivoci: Dorothy Johnson usa il termine “Indians” e, nella traduzione, ricorre quindi la parola “indiani”: così deve essere, non edulcorata, perché quello era il mondo entro cui si muovono i personaggi di queste storie.

 Trova spazio sulla pagina anche il punto di vista femminile e delle donne native, di cui un esempio straordinario – che ci auguriamo arrivi presto anche questo nel catalogo Mattioli – è il romanzo Buffalo Women, pubblicato nel ’77 e ancora una volta basato su accurate ricerche e ricostruzione storica ma soprattutto sul desiderio di una rappresentazione non stereotipata o bianco centrica della questione tra nativi e colonizzatori. Johnson, tra l’altro, si muove agilmente tra forme letterarie diverse, calibrando lo sguardo dal racconto alla novella, al romanzo. Ciò che resta costante e che ben si nota in questa raccolta, è l’intreccio calibrato di plot e linguaggio scelto: la lingua è scarna, misurata, i dialoghi ridotti al minimo e ogni parola incisa sulla pagina è quella essenziale a evocare un mondo e le persone che lo popolano, letteraria – anche se forse il termine più idoneo è “artigiana” – ma mai artificiosa. Esempio ideale di che cosa sia una short story, indipendentemente dal genere cui appartiene, i racconti di Johnson prendono forma per sottrazione, a partire da una lingua che è l’unica adatta a raccontare la storia di un vecchio pistolero e il segreto che si porta nella tomba (“L’uomo che uccise Liberty Valance”), un uomo catturato da una tribù e la riconquista progressiva dell’umanità (“Un uomo chiamato Cavallo”), la vita tra euforia e dramma in un campo di cercatori d’oro (“L’albero degli impiccati”), una donna rapita dai nativi quando era ancora una bambina e che fa ritorno dopo quarant’anni dai suoi famigliari divenuti estranei (“Una sorella scomparsa”). Lavorando per sottrazione, plasmando il linguaggio per ridurlo all’essenziale, Johnson – e l’ottimo Manuppelli con lei, nell’aver reso tanto bene lo stile della narrazione – ricorda al lettore il potenziale della short story, con l’intreccio di storia e modo di raccontarla, la ricerca di una voce specifica, l’uso del tempo, degli spazi vuoti, il gusto per una certa sospensione, specie nei finali.
Storie di frontiera, perfettamente collocate nel tempo e nello spazio, ma la portata dei sentimenti che le attraversano arriva con immutata forza fino al lettore contemporaneo, superando distanze geografiche e cronologiche, grazie anche a una scrittura che sa farsi viva, vibrante. Non serve aver vissuto nel Montana di inizio secolo per sentire la polvere, il fango che si secca sugli stivali e la brama di oro dei cercatori, il tormento di segreti che potrebbero portare alla rovina; non serve aver percorso strade dissestate su una diligenza per cogliere il pericolo di un assalto improvviso, la corsa furiosa dei cavalli imbizzarriti, la sete delirante di una donna perduta nel bosco per giorni; come non serve essere stati rapiti da una tribù per addentrarsi nelle gerarchie e nelle usanze dei Crow, dove anche un prigioniero umiliato può lentamente riprendersi la propria umanità.
Di questo incontro/scontro tra bianchi e nativi sono intrise molte pagine delle storie di Johnson e “Una sorella scomparsa”, il racconto che chiude la raccolta è forse uno degli esempi più riusciti, una gemma da scoprire, nella quale riecheggia la celebre vicenda reale di Cynthia Ann Parker.
Bessie, la sorella scomparsa, era stata rapita ancora bambina da una tribù, non conserva alcun ricordo della sua vita tra i bianchi, nella sua famiglia, se non un nome, Mary, quello della sorella maggiore. La sua “liberazione” e il ritorno in famiglia sono accolte con grande commozione e attesa. Ma quella donna di quarant’anni, silenziosa, sfuggente, che dorme sdraiata sul pavimento dell’elegante camera che era stata preparata per il suo ritorno, scruta costantemente fuori dalla finestra e ai piedi indossa semplici mocassini, è ben diversa da quanto si aspettassero.  

 

Margaret avrebbe potuto capire che una donna indiana non fosse in grado di conversare in una lingua civilizzata, ma sua sorella non era indiana. Bessie era bianca, quindi avrebbe dovuto parlare la lingua delle sorelle, la lingua che non sentiva da quando era bambina. (Una sorella scomparsa, p. 181)

 

In poche righe è condensato un sistema di ignoranza, pregiudizi, razzismo, cui del tutto non si sono ancora fatti i conti che si denota già dal quel dettaglio iniziale di non indicare nemmeno il nome della tribù, a sottolineare la distanza che divide la famiglia dal mondo in cui è cresciuta Bessie. I nativi sono selvaggi, la povera Bessie rapita da bambina è finalmente tornata a casa, dalla sua famiglia, nella civiltà. È sconcertante, quindi, per le zie rendersi conto che quarant’anni di vita nella tribù hanno plasmato una donna ben diversa da quella che si aspettavano e che Bessie non conserva alcuna memoria innata di loro e della società cui apparterrebbe. È necessario perfino un interprete della tribù che possa fare da tramite in quei primi momenti; interprete, naturalmente, che viene trattato con profondo disprezzo, tanto a parole quanto a gesti.
La storia è narrata mediante il punto di vista di un ragazzino di nove anni, figlio del fratello defunto – per mano degli indiani appunto – e che vive nella grande casa delle zie con la madre vedova. Una scelta interessante, che porta il lettore dentro la storia ma soprattutto ne permette una particolare connotazione. Se è vero che l’istintiva opinione del ragazzino nei confronti della gente che è responsabile della morte del padre è inizialmente piuttosto netta – lui, che sognava da grande di vendicare l’uccisione del padre – , la giovane età, un certo grado di innocenza e, probabilmente, una sensibilità innata, gli permettono di osservare la storia che si svolge davanti ai propri occhi con curiosità ma anche libero da condizionamenti e preconcetti. Ed è lui, infatti, a comprendere davvero quella zia ritrovata, bizzarra e taciturna, e il grande torto che le viene fatto nel pretendere che quel ritorno sia da chiamarsi libertà.

 

Bessie aveva davvero vissuto un’esperienza terribile, ma non del tipo che le sorelle avevano in mente. Le sue sofferenze, quando arrivò, provenivano dall’essere stata strappata alla propria gente, gli indiani, e consegnata a estranei. Non era stata liberata. Era stata fatta prigioniera. (Una sorella scomparsa, p. 174)

 

Solo il ragazzino e la sorella maggiore Mary comprendono e accettano Bessie, la donna che è diventata, mentre le zie dall’iniziale felicità per la sorella ritrovata sono presto passate alla costernazione e all’indifferenza, attente però a proteggersi dalla curiosità dei vicini.
In poche pagine Johnson costruisce un racconto retta da una storia sotterranea importante quanto quella in superficie, e ancora una volta coglie perfettamente le complessità svincolate da stereotipi nel rapporto tra bianchi e nativi per restituire al lettore una differente chiave di lettura, cambiarne le aspettative. Il finale lascia un minimo grado di vaghezza e dà così spazio al lettore, cui spetta colmare i vuoti della narrazione, ripercorrerne i fili.
Con “Un uomo chiamato Cavallo” forse osa ancora di più, raccontando la cattura e la prigionia di un giovane di buona famiglia che, partito dal New England in cerca di avventure a Ovest, cade presto nelle mani di una tribù Crow: fatto prigioniero, spogliato della propria umanità, è il racconto anche ironico a tratti di due mondi che si incontrano con violenza ma di come in qualche modo sia anche possibile costruire un ponte dall’uno all’altro. Il ragazzo attraversa tutti gli stadi della prigionia, ma nel tempo trascorso con la tribù ne apprende anche i costumi e il suo ruolo muta via via che dimostra il proprio valore, finendo per ritagliarsi una posizione ben diversa da quella iniziale. E, soprattutto, scegliendo di prolungare la sua permanenza nella tribù quando questa si fa necessaria. Farà forse ritorno a “casa”, alla società in cui è nato, ma di quell’esperienza non potrà che raccontare una minima parte, perché molto di quanto ha vissuto non sarebbe compreso. Una distanza, uno scarto, che probabilmente spiega quelle che ci sono tra bianchi e nativi, e la difficile comprensione macchiata di violenza, pregiudizio, rabbia.

 

Si rese conto che c’erano molte cose di cui non avrebbe parlato una volta tornato a casa.
(Un uomo chiamato cavallo, p. 48)

 

Il rapporto con le popolazioni native non è invece oggetto d’attenzione nei due racconti iniziali, che della realtà di frontiera raccontano un aspetto differente, tra cercatori d’oro, pistoleri, banditi, gente in cerca di una nuova vita.

 

«Bart Barricune è stato mio amico per più di trent’anni». Non poteva dirgli: Era mio nemico; era la mia coscienza; mi ha reso ciò che sono. (L’uomo che uccide Liberty Valance, p. 10)

 

“L’uomo che uccise Liberty Valance” è uno dei più celebri racconti, da cui nel 1962 John Ford realizzò un famoso film con John Wayne, John Steward e Vera Miles, e anche in questo caso la narrazione di Johnson è stratificata, complessa e molto interessante. Una storia di segreti, amore e rinuncia, desiderio di vendetta e omissioni, al cui centro ci sono due uomini, la donna che amano e un fuorilegge di cui vendicarsi: Ransome Foster, come tanti altri arrivato a Ovest in cerca di fortuna, si imbatte nel furfante Liberty Valance che lo deruba e lo lascia, malconcio, nel deserto; è Bert Barricune a trovarlo, in fin di vita, e salvarlo. Abile pistolero ma un uomo che, si dirà al suo funerale, «non era stato nessuno»; Barricune trascina Foster fuori dal deserto, restituendolo alla vita.

 

«Dunque ho ucciso Liberty Valance».

Fu la cosa più vicina a un grazie che osò mai dire. E fu allora che Bert Barricune iniziò a essere la sua coscienza, la sua nemesi, il nemico di una vita e l’uomo che lo rese grande.
(L’uomo che uccide Liberty Valance, p. 27)

 

Attraverso i due piani temporali della storia, per mezzo di dialoghi fulminanti e scene tesissime, Johnson costruisce la complessità del rapporto tra i due, complicato dal debito e dal segreto di cui entrambi si fanno tacitamente custodi. È una storia tesa tra verità e menzogna, che parla di rinuncia, di amore e di quanto la leggenda talvolta sia più importante della realtà.
Di ampio respiro, da farne una novella compiuta, è “L’albero degli impiccati”, la più lunga di queste storie, interpretata da Gary Cooper nella trasposizione cinematografica del ’59. È una narrazione più lunga, dunque, ma ha in sé tutta l’essenza del racconto, quella certa postura ellittica, con ambiguità e una storia sotterranea, il gusto per il frammento.

 

Mi chiedo, pensò Joe Frail, se quello è il ramo a cui verrò appeso. Mi chiedo chi sia l’uomo che ucciderò per meritare la corda. (L’albero degli impiccati, p. 52)

 

Sono i primi pensieri di Joe Frail lungo la strada che lo sta portando al campo di cercatori d’oro da qualche parte in Montana. Uomo dall’oscuro passato, è tormentato dal rimorso e dalla “maledizione” che sente incombere su di lui a seguito di un omicidio e dal senso di colpa per la perdita del migliore amico. Trincerato dietro la propria durezza, diviene medico della zona, temuto e rispettato.

 

Doc Frail era arrogante in modo silenzioso ed era l’uomo più solo dell’intero campo. Apparteneva all’aristocrazia di Skull Creek, a quella categoria di persone indispensabili come gli avvocati, il banchiere, il direttore dell’ufficio del saggio dei metalli preziosi e i proprietari di saloon. Ma questi uomini ostentavano rettitudine e nascondevano i loro revolver, come richiedeva la decenza. Doc Frail portava le sue due pistole in bella vista nelle loro fondine. (L’albero degli impiccati, p. 70)

 

È un microcosmo di cercatori d’oro, uomini e donne che fingono di essere privi di passato, avventurieri e furfanti, gente perbene o che quantomeno ne ha l’aria: una realtà che Johnson tratteggia abilmente, permeandola di vita, dettagli, con una scrittura che sa farsi materia. Una storia densa e articolata, in cui si intrecciano il discorso sulla perdita, il desiderio e l’orgoglio, la durezza e la fragilità. Una realtà in cui le parole infiammano gli animi e possono scatenare la violenza. E dove una donna, per tutti fragile, indifesa, inadatta perfino, può diventare arma e salvezza.
Il lettore si troverò a leggere una ricchezza e complessità variegata, una narrazione articolata e piacevolissima di un’autrice il cui nome è rimasto troppo a lungo sommerso, ma anche di un genere che come capita talvolta con le cose popolari è stato bistrattato ma in cui non mancano esempi magistrali.

Una florida ed eccitante vita interiore, di Paul Dalla Rosa

Titolo: Una florida eccitante vita interiore
Autore: Paul Dalla Rosa
Editore: Pidgin. Traduzione: Stefano Pirone
pp. 232 Euro 18,00

di Debora Lambruschini

La letteratura dovrebbe mettere scomodi, spostare lo sguardo verso nuovi punti di vista, destabilizzare e porre in discussione un po’ delle proprie certezze. Ma che succede se quando lo fa, come accade con questo libro, ti senti troppo scomodo? Che ne è del giudizio critico e del mestiere? Con questi racconti tesi fra brutalità e bellezza, Paul Dalla Rosa mi ha sicuramente sfidata come lettrice e a un certo punto anche come essere umano.
Una florida ed eccitante vita interiore racchiude dieci storie – molte delle quali apparse su rivista, da Granta a McSweeney’s – di giovani e talvolta giovanissimi protagonisti sospesi tra aspirazioni e realtà, in un vortice di frustrazioni, desideri, sesso, solitudini. Molti di loro sono queer, tutti quanti si muovono in realtà alienanti, dove sembra non esserci spazio per un reale contatto umano. Sullo sfondo di città globalizzate e praticamente indistinguibili l’una dall’altra ognuno insegue una qualche forma di riscatto e si scontra con una realtà che non può soddisfarne le ambizioni. La tematica non è certo nuova, ma ciò che rende particolarmente interessante la raccolta è la polifonia con cui è architettata – resa abilmente dalla traduzione di Stefano Pirone – e la capacità di Dalla Rosa di mutare registro da una storia all’altra per adattarsi al protagonista, scegliendo il punto di vista necessario per una particolare resa, per suscitare determinate reazioni nel lettore. Ogni storia, perfettamente autonoma, si inserisce quindi in un discorso più ampio, lo sguardo dell’autore ben focalizzato su precise tematiche e spunti. La scrittura è attenta, cesellata e al tempo stesso fluida, l’attenzione di Dalla Rosa a una certa dimensione contemporanea confluisce anche nell’orecchio per i dialoghi e una prosa pronta ad accogliere le istanze del reale.
C’è uno scarto notevole tra me lettrice e alcuni dei protagonisti di queste storie, uno scarto che ha richiesto uno sforzo particolare per tarare il giudizio su certi passaggi e, come dicevo in apertura, rende interessante la riflessione su una letteratura che mette scomodi, su giudizio critico e soggettività. Non ho mai pensato sia necessario riconoscersi in ciò che si legge né provare empatia con i personaggi: eppure mi sono ritrovata a interrogarmi su quanto ciò che ho percepito come una debolezza narrativa, ossia un certo indugiare sulle scene sessuali, sia effettivamente tale o invece qualcosa che non comprendo del tutto perché qui legato alla realtà queer. Mi sono interrogata, una storia dopo l’altra, su questo scarto, sul metro di giudizio che non può mai essere del tutto oggettivo, neutro, ma che è la somma di altre letture e di un certo vissuto. E leggere questa raccolta, pur sentendomi destabilizzata a tratti e in realtà proprio per questo, è la conferma a mio avviso di quanto importante sia il ruolo della letteratura e della necessità di spingersi oltre la propria comfort zone, abbandonare certezze granitiche e interrogarsi, sempre. Solo in questo modo la letteratura si fa viva, reale, concreta.  
Ci sono poi parametri che svincolano dalla soggettività e i dieci racconti di Dalla Rosa, con quell’umanità dolente rappresentata in modo tanto vivido, superano la prova letteraria e, più nello specifico, ben si inseriscono nella produzione breve contemporanea. È sapere maneggiare una tematica tutt’altro che inedita e plasmarla in qualcosa di nuovo che ha tutta l’urgenza della realtà, tenere bene a mente quanto storia e modo di raccontarla siano l’una funzionale all’altra. Attraverso un determinato punto di vista, un narratore in prima persona o esterno, mediante precise scelte stilistiche, la narrazione sa adattarsi di volta in volta al protagonista e all’andamento della storia, connotata quindi in modo particolare.

 

Nell’annuncio di lavoro o nel colloquio non lo avevano definito call center, ma dopo che la donna ha ottenuto il posto tutti lo chiamano call center perché è esattamente quello che è. (Contatto, p. 115)

 

L’estraneità e l’alienazione del lavoro si misurano quindi con la scelta nel racconto Contatto di non dare nome alla protagonista, che resterà solo “la donna”: i paragrafi brevi, intervallati da spazi e segni grafici, scandiscono nettamente una narrazione che sembra ricalcare il ritmo del lavoro della protagonista in un call center, la rigidità e il controllo del tempo dei dipendenti, la produttività richiesta, la facciata imperscrutabile che cela quella «florida ed eccitante vita interiore» cui ognuno di loro in queste storie vorrebbe aggrapparsi.
Modalità similari che Dalla Rosa usa per costruire in Charlie ad alta definizione una storia via via sempre più irrazionale, il Bestiario di Cortàzar che riecheggia nella convivenza complicata con un gatto sempre più incontrollabile e rabbioso, costringendo gli abitanti della casa a inventarsi una nuova quotidianità e adeguata divisione degli spazi.
La condivisione della casa è una condizione frequente in questi racconti: una scelta dettata dalle esigenze economiche dei personaggi ma che non coincide con il superamento della solitudine, dell’alienazione in cui si trovano. Dalla Rosa pare comporre la propria personale critica a una società sempre più globalizzata, dove i luoghi, i minuscoli appartamenti all’interno di anonimi grattacieli si assomigliano tutti e la ferocia del capitalismo ha generato nuove ansie e frustrazioni, all’inseguimento di un benessere che non riesce a essere appagato.

 

[…] per la maggior parte della mia vita avrei desiderato cose che pensavo fosse stupido desiderare, ma che avrei comunque desiderato. (Comme, p. 37)

 

Ognuno dei personaggi di Una florida ed eccitante vita interiore aspira a migliore la propria condizione e inseguire una certa idea di successo, di ricchezza, di rivalsa, ma che inevitabilmente genererà frustrazione, sconfitta. È quello scarto tra aspettative e vita adulta che tanto bene racconta il nostro Paolo Zardi nelle sue storie, che qui, però, resta ancorato a una fase precedente della vita, una gioventù concentrata sul riscatto. Dalla Rosa osserva ciò che succede quando si arriva al punto di rottura, quando è evidente – o perlomeno lo è per noi lettori – la distanza tra aspirazioni e realtà e nessuno dei suoi personaggi sembra davvero pronto a farci i conti, ricalibrare il tiro, ma rimane disperatamente aggrappato al proprio sogno di rivalsa.

 

Ero andato lì per fare soldi e diventare qualcun altro. In effetti guadagnavo; non pagavo tasse sul reddito ma l’affitto era esoso, oltraggioso, quindi mi rimaneva poco dopo le spese essenziali. (La cosa più dura, p. 4)

 

Resta un certo grado di amarezza arrivati alla fine di queste storie che non fanno sconti né possono portare consolazione alcuna. Sono il ritratto, brutale, del lato più oscuro della società in cui siamo immersi, all’inseguimento di fama, ricchezza, riconoscimento che quasi sempre scivolano dalle mani smaniose. E, soprattutto, resta una riflessione amara sulla solitudine, che è la stessa tanto in un misero appartamento di fronte a un fast food specializzato in pancake quanto tra gli ospiti di una festa esclusiva in una villa a Los Angeles. Ecco, quindi, che il desiderio di riscatto dei protagonisti è qualcosa che non ha a che fare solo con la ricchezza o il miglioramento sociale, ma si intreccia al riconoscimento delle proprie capacità e dei propri talenti – poco conta se veri o solo presunti – , all’attesa dell’occasione giusta prima che sia troppo tardi, prima che qualcun altro si appropri del nostro posto. Dalla Rosa costruisce un microcosmo teso tra illusioni, sogni infranti, bellezza e oscurità, in cui il vuoto emotivo rimbomba da un capo all’altro del mondo. Ha i contorni della nostra realtà, connotata dalla tecnologia attraverso la quale i personaggi si ingannano di allontanare la solitudine ma che alla fine non fa che amplificarne la portata. Sono le città tutte uguali, il conformismo di ciò che si indossa, da Los Angeles a Dubai. Sono i rapporti, superficiali, opportunisti. Queste storie, come ha detto Dalla Rosa in un’intervista, nascono dal «tentativo ossessivo di capire il problema dell’essere giovani» e non c’è alcun «sarcasmo o nichilismo» nella scrittura, ma uno sguardo lucido, attento, una scrittura forse aspra a tratti ma riflesso della realtà in cui affonda.  Una scrittura che fa quel che deve

Cose da fare per farsi del male, di Michele Orti Manara

Autore: Cose da fare per farsi del male
Editore: Giulio Perrone Editore
pp. 215 Euro 16,00

 

di Alice Pisu

 

Il nuovo libro di racconti di Michele Orti Manara edito da Giulio Perrone Editore è un elogio dell’incapacità umana di liberarsi da un assillo perpetuo, che si tramuta in incubo, tormento, mania, frustrazione, nella tensione perenne tra un passato irraggiungibile e un presente paludoso. L’opera è il compendio dell’intera produzione narrativa dell’autore, richiama il castigo del noto, la ferocia della sopravvivenza, l’enigma dell’altro, il male come voragine a cui ci si affaccia sin da bambini. Aspetti, temi e elementi propri della raccolta Il vizio di smettere (Racconti, 2018) e del romanzo Consolazione (Rizzoli, 2022) che in Cose da fare per farsi del male vedono una sottile evoluzione fantastica nell’inventario sulle possibilità insite nella fine, rese con inattesi scorci grotteschi che fendono il quotidiano apparentemente ordinario dei suoi protagonisti.
La fragilità della cornice famigliare è il terreno d’indagine d’elezione di Orti Manara, capace di insinuarsi nelle pieghe del reale per sfiorare per brevi e intensi tocchi, in Tuo padre che affoga, la stanchezza di vivere di una donna incapace di sottostare all’egocentrismo del marito regista e dell’ingratitudine delle sue figlie. Si colloca sul solco di un dramma per osservare ciò che lo anticipa: accosta le pulsioni preadolescenziali di una ragazzina che anela il mondo del cinema al terrore del fallimento delle aspettative paterne quando, per recitare una breve parte, è costretta da lui a calarsi in un terribile ricordo infantile per risultare verosimile.
I racconti di Orti Manara aprono una breccia verso l’imperscrutabile, evocano aneliti sopiti, fantasie di distruzione, sondano l’origine di un tarlo che cambia forma nel tempo, come accade in Acido lattico. L’autore parte dalle conseguenze per compiere continui andirivieni temporali che palesano oscure fantasie di morte in un bambino segnato dall’uccisione della madre a opera del padre che, tra tentativi riusciti e esperimenti mancati, diverrà un giovane uomo soggiogato da un immaginario violento: un predestinato.
“Ed eccomi qui. Il corpo nudo di Mina sotto di me. La mia eccitazione, e l’indecisione tra il desiderio di penetrarla e quello di metterle le mani al collo”.
Pur partendo da contesti mediocri, i soggetti di Michele Orti Manara finiscono per maneggiare il male riconoscendo un aspetto nuovo di sé che li rende diversi dal passato negli esiti incogniti. È quel che accade quando un’improvvisa scoperta porta un uomo scampato per caso alla morte a cogliere l’ironia del destino e a vedere sotto occhi nuovi la babysitter dei suoi figli, sentendosi sconvolto e attratto da qualcuno che assume una parvenza nuova, un fascino torbido: “Quello che tieni nascosto ti avvelena”.
Tra pagine dai risvolti avventurosi e dagli effetti comico-satirici, grotteschi e in alcuni casi profondamente drammatici su anarchiche spedizioni infantili, vane ricerche di antidoti alla solitudine, tentativi di sopravvivenza in un mondo ostile e indifferente, ribellioni agli atavici contesti famigliari e silenti insurrezioni, i protagonisti di Orti Manara esibiscono capacità inattese nel muoversi tra espedienti e inganni, mostrano la natura misera e dolente dell’individuo.
La ricerca narrativa di Orti Manara solleva istanze sulla violenza, sulla sua origine primordiale attraverso figure smarrite che avanzano nell’esistenza sovrastate da un terrore oscuro, o incuranti delle conseguenze delle loro azioni. Il continuo richiamo fisico, reso nel mistero evocato dalla voce di una natura indolente o dall’allestimento urbano, prende forma nella contrapposizione degli epicentri: traduce il doloroso distacco da sé condiviso da molti dei personaggi ritratti.
A caratterizzare lo sguardo narrativo di Orti Manara è l’attenzione per i grovigli interiori che anticipano rotture, evoluzioni incongrue, stravolgimenti intimi, si legano a nevrosi ricorrenti, a ossessioni tradotte con un’ironia feroce celata in figure ciniche, spietate, o inesorabilmente sole.
Che si tratti di un temporale capace di tramutare una casa in una “distesa di metallo liquido e inquieto”, di una tragedia appresa dalle immagini senza audio del televisore, di una visione fugace di una sagoma nota su un balcone, di un’uscita sospetta da un palazzo dopo giorni di appostamenti nel bar di fronte, ogni evento traccia l’inesorabilità della trasfigurazione, insinua una riflessione sulla labilità delle relazioni, sul peso del compromesso, sul ricatto della nostalgia, sull’odio che macera i pensieri, sulle deviazioni generate da una perversione, sul confine tra desiderio dell’altro e fantasie di annientamento, sull’assenza di libertà e pace nell’irreversibilità, sulla natura brutale di chi è pronto a divorare i propri simili in caso di necessità.
Tra le costanti dell’opera il racconto di una solitudine radicata, resa con una particolare attenzione agli scenari entro cui si consumano peculiari liturgie famigliari, dall’asfittico clima domestico di una vecchia burbera che subirà sottili vendette dal protagonista di Roditori, alla casa-mausoleo di un tempo remoto in La voce del lago, dove gli oggetti restituiscono momenti non replicabili e definiscono una solitudine di coppia in qualche modo preziosa, all’appartamento materno scenario di una rigenerazione nel dramma ne La veglia, agli spazi apparentemente rassicuranti entro cui un bambino attende che si compia l’inesorabile annunciato dai deliri di suo nonno in V, al teatro di una devastazione chimica di fine anno tra gli inganni, gli eccessi, i presagi, gli incubi di un gruppo di ragazzi ne La penultima notte, alla villa decadente che accoglie una logora e fiera principessa e il suo macilento suddito-bambino in Cervello di paglia.
In ogni racconto l’ambiente riflette un disagio interiore, attesta i cambiamenti e il progressivo inabissamento che riguardano ogni figura. Le cose, gli utensili, i mobili – centrali in particolare per il facchino di Roditori che soppesa le vite degli altri dai beni di cui si sbarazzano – riflettono le inquietudini dei protagonisti, l’insensatezza del vivere, l’indifferenza al presente.
Nella forma breve Orti Manara misura una desolazione al contempo singolare e storica, come emerge nel racconto Inseparabili, dove le omissioni in una coppia, lo spettro del tradimento, le partenze, le separazioni, la frenesia urbana, finiscono per rarefarsi nella cura verso una coppia di pappagalli che finirà per catalizzare l’attenzione al punto da annullare stati d’animo che esulino dalla routine animale.
Di fronte all’impossibilità di rinnovamento, tra segreti e colpe da espiare, si insinuano con anse lirico-descrittive visioni su un vuoto personale, invisibile agli altri. Le nevrosi che prendono forma sulla pagina con un bizzarro campionario umano tracciano la perenne dissociazione esistenziale condivisa da ogni soggetto che assume contorni nuovi nel confronto con un dramma improvviso. Ne La veglia una tragedia inattesa costringe al ritorno alla casa materna i figli cresciuti con zelo e mero senso del dovere da una donna anaffettiva, in perenne equilibrio tra meriti, colpe, punizioni. “Restiamo in cucina a parlare, sulle sedie vecchie e scomode, con l’incerata che si attacca ai gomiti e il lutto che cambia sapore poco alla volta”.
Piombati all’improvviso nel passato evocato da camere da letto intatte, con i poster di Miguel Abàco Rodriguez e Cyndi Lauper e gli adesivi di videogiochi anni Novanta, i tre dismettono per la prima volta i panni di figli, per diventare qualcosa di diverso, in una sorta di capsula del tempo entro cui osservarsi ringiovanire e invecchiare di continuo, recitando “con minime variazioni” parti conosciute a memoria. Il mito di un’infanzia grigia ma in qualche modo integra si disperde nel ricordo di un tempo anteriore che è madre, improvvisamente staccato dal presente, esorcizzato da una ritualità che allude a una possibilità di futuro incorrotta.
Una percezione di estraneità resa bene anche nel racconto Che ci faccio qui, dove un padre operaio che ha lottato in fabbrica per rivendicare diritti individuali e collettivi anche in merito al rispetto della privacy dei lavoratori, vive con sconcerto il successo di suo figlio, che riempie i concerti inneggiando nei suoi brani alla miseria delle case popolari del loro quartiere e rendendo pubblico ogni istante del suo quotidiano.
Sfilano sulla pagina sopravvissuti alla vita in bilico tra fugaci euforie e smanie di devastazione. Colti all’apice di un dissidio privato, i protagonisti delle storie di Orti Manara diventano capaci di garantirsi un benessere insano attraverso possibilità sino ad allora inesplorate. La tendenza al gioco al contrasto tra un’inerzia inalterabile e una lucida efferatezza scandaglia i bagliori improvvisi e la rabbia latente propri di individui privi di qualsiasi possibilità di salvezza.
L’autore indaga i traumi sopiti, le privazioni, le relazioni corrotte, le perdite, i dolori inestinguibili, le corrispondenze fra il desiderio e la repulsione, rivelando il gusto per l’isolamento dell’istante che precede un disfacimento interiore irrecuperabile, reso, ad esempio, nelle nitide descrizioni dell’uccisione non premeditata di una tartaruga che apre Acido lattico.
La tensione al male diventa in ogni racconto la misura di un allucinato immaginario sulla morte retto sulla percezione dell'inafferrabilità del reale, tra costanti incognite sull’altrove. L’apparente immobilità delle storie è resa con sapienti sovrapposizioni di immagini, come nel racconto Anna, dove le sequenze di una lite tra fidanzati osservata morbosamente da un cameriere dall’interno di un bar si fondono con quelle del sangue che sgocciola dalla ferita che egli si è provocato per la tensione, in un desiderio di possesso sfociato nella brama di uccisione dell’amata.
L’inabissamento nella dimensione infantile rimanda a un tempo infimo, segnato dall’abbaglio dell’innocenza. Tra i racconti più originali, Cervello di paglia inscena una favola macabra, una revisione allucinata de Il meraviglioso mago di Oz con un chiaro omaggio kafkiano dagli echi apocalittici. In un contesto di profondo degrado, una principessa regna incontrastata in quel che resta di un’abitazione borghese, tra villette abbandonate e in assenza di altre presenze umane al di fuori del suddito. Scovato in un bozzolo dorato accanto a un morto, egli dovrà esaudire ogni desiderio della principessa in cambio del sostentamento derivato dalle scorte di emergenza celate nei bassifondi di una botola, con l’unica gioia dello spettacolo in pellicola replicato quotidianamente sino a prima del disastro.
Il rilievo della nuova raccolta di racconti risiede nell’inesausta ricerca linguistica, enfatizzata da una ricorrenza tematica capace di condurre a esiti nuovi. Le insistenze descrittive amplificano lo stupore per il tangibile e lambiscono l’irrazionale nel dare forma a miraggi e desideri. La prosa cesellata sulla parola esatta, onesta, è l’esito di un’evoluzione stilistica e formale riconoscibile nella precisione dei frammenti che compongono le scene ricostruite sulla pagina con disvelamenti, percorsi a ritroso, epifanie, all’interno di un disegno narrativo che accoglie scorci lirici e segue le intermittenze emotive delle vicende narrate, traducendo nella raffigurazione del paesaggio le incoerenze di chi lo osserva. Gli ingrandimenti realistici equilibrano gli scorci visionari grazie a un’attenzione estrema per la composizione dei dialoghi, per gli sfasamenti temporali, per la tensione espressiva che in ogni racconto restituisce aspetti inediti e, al contempo, riconoscibili della voce letteraria dell’autore.
Con Cose da fare per farsi del male Michele Orti Manara consegna un elogio del visionario generato dal dolore, l’esito finale dell’esasperazione del reale sfociata nel fantastico tra allucinazioni, assilli, deliri di soggetti sospesi nell’attesa, con una mano tesa sul baratro.

Disastri esistenziali e spese folli, di Robert Perišić

Autore: Robert Perišić
Editore: Bottega Errante. Traduzione: Elvira Mujčić
pp. 208 Euro 17,00

di Giordana Restifo

Nell’ultima opera di Robert Perišić c’è tutto il senso dell’esistenza: l’amore, l’odio, le malattie mentali e quelle fisiche, la pace, la guerra, il sesso, la violenza, il mare, la montagna, il pianto, il riso, la religione. Fin dal titolo il lettore è avvisato, nelle pagine avverrà l’incontro con lo scibile e con l’ignoto. Disastri esistenziali e spese folli, pubblicato ad agosto 2023 da Bottega Errante Edizioni e tradotto da Elvira Mujčić, è una raccolta di ventitré racconti scritti tra gli anni ’90 e 2000. Storie che inquadrano la situazione della Croazia durante la guerra e le successive trasformazioni, dal dopoguerra in poi. Il contesto storico in cui sono ambientate alcune di queste risale a più di venti anni fa, nonostante ciò sembrano una fotografia attuale delle nostre società.

«Dice che esistono i talenti, ma quelli che riescono in questa società sono i primitivi e gli aggressivi, perché la gente normale sta zitta», potrebbe essere una frase pronunciata banalmente dal nostro vicino di casa qui e ora, invece esce dalla bocca di Krama, un particolare personaggio del racconto Il gran finale è in corso, mentre sorseggia birra tedesca in un paesino a sud di Zagabria durante un devastante torneo di bocce. Per Krama vivere in un paese con quel mare, quei profumi, quella gente, è una meraviglia e ogni qualvolta torna nella capitale croata cade in preda a un delirio critico. Per alcuni personaggi della stessa storia l’unica cosa che conta è vincere il torneo, per altri è dimostrare al padre di essere alla sua altezza. Priorità, ognuno ha le proprie. 
Per il protagonista di La festa era nella fase iniziale l’importante è compiacere la sua giovane fidanzata Blanka, che sta muovendo i primi passi come deejay e vorrebbe farlo diventare un lavoro. Pur di starle dietro il narratore indossa un’immaginaria maschera che gli permette di andare in ufficio durante la settimana e tornare a casa all’alba nei weekend per seguire la ragazza e i suoi amici alle feste. E a lungo andare, probabilmente a causa della mancanza di sonno o dell’esagerato uso di bevande energizzanti, perde tutto, compreso l’interesse per la vita.

C’è Tandar che dovrebbe trovarsi all’ospedale Vinogradska a disintossicarsi dall’eroina, o almeno così ha detto agli amici, nel racconto La visita. I due conoscenti scopriranno, solo dopo aver rischiato di essere aggrediti da un gruppo di donne, che in quella struttura sanitaria non c’è nessuno che corrisponda alla descrizione di Tandar, il loro amico non è mai stato lì. Partito per Zagabria per andare a lavorare come muratore, per la vergogna ha inventato la storia della tossicodipendenza, mentendo a tutti.
Questi sono solo alcuni dei tanti personaggi che popolano le storie di Perišić, le donne e gli uomini di racconti che, anche se profondamente diversi tra loro, hanno tutti una caratteristica essenziale: l’essere impelagati nei propri disastri esistenziali, ognuno con le proprie urgenze, con i propri traumi pregressi che non svaniscono nel presente della narrazione. Su ciascun personaggio pesa il doloroso passato, il passaggio dalla guerra della fine degli anni ’90 al mondo globalizzato. In alcuni racconti l’affanno di quegli anni di conflitto è evidente, in altri non è citato in modo esplicito ma traspare comunque dalle connotazioni caratteriali dei personaggi. C’è chi ha affrontato quel periodo con paura e sconforto, con isteria e preoccupazione, come il ragazzo e la ragazza di Addio alle armi, una storia di amore e di guerra, chiaro richiamo al celebre romanzo di Ernest Hemingway. Il racconto, che inizia con un incipit tutt’altro che premonitore («Giornate calde, notti bollenti. Estate, Dalmazia»), in dodici pagine si fa sempre più impegnativo, grave, passando da un clima di odio verso i serbi invasori alla gioia per l’arrivo in porto di rimorchi croati carichi di armi. Il lettore si imbatte anche in chi, al contrario, non pare preoccuparsi delle granate che esplodono intorno, come Martina, la protagonista di quella che all’apparenza potrebbe sembrare una storia totalmente strampalata, Il formaggione.

È l’argomento di questi giorni: se senti il fischio di una granata, devi buttarti a terra. Perché vuol dire che sta viaggiando nella tua direzione; può caderti in testa, può anche cadere molto dietro di te. Ma meglio non aspettare il risultato in piedi.

Così, tra un bombardamento e un accucciarsi per proteggersi, Martina cammina rapidamente verso casa dei genitori pensando alla grande e rotonda forma di formaggio che trasporta nello zaino. Quel formaggio, che non si sa nemmeno se sia più commestibile dopo dieci giorni di viaggio, è allo stesso tempo il seme della discordia tra la protagonista e il ragazzo che frequenta, e fonte di risate per stemperare la tensione del momento in famiglia.

La guerra nell’ex Jugoslavia ha rinfocolato un antico odio per i combattenti serbi e per i cetnici (termine ripreso dal passato e usato durante il conflitto degli anni ’90 per indicare le milizie irregolari nazionaliste serbe); in alcuni paesi dell’ex repubblica federale ha innescato psicosi, egoismi, nazionalismi. Per contrastare la tragicità degli eventi molti hanno cercato conforto in sostanze psichedeliche, tabacco e alcol, così avviene anche nei racconti di Perišić. Uno di questi è Per chi suona la campana, altro riferimento allo scrittore della generazione perduta, in cui il protagonista racconta di Aleksandar, il proprietario della casa in cui abita abusivamente. Il narratore è in attesa di quest’uomo che da un momento all’altro potrebbe rientrare nel suo appartamento. Un’attesa febbrile che, insieme alla mancanza di sonno, all’alcol (lo aspetta notte e giorno sveglio bevendo birra), all’assunzione di LSD, rende nevrotico il racconto, con una sorpresa nel finale: una proposta per appoggiare una singolare causa in difesa dei diritti umani. In un imperfetto equilibrio tra tragico e comico c’è il grande paradosso raccontato in Non ho smesso di bere, ma ho perso la speranza. All’apparenza una storia su un beone, il Dottore, concretamente, invece, dimostra come la percezione della realpolitik di un paese sia diversa, e alterata in alcuni casi, per ognuno di noi:

Sotto i russi si beveva bene, raccontava il Dottore. Sono stati periodi liberali, voglio dire da noi. E qualcosa si è pure conservato dopo. C’erano quelli che sembravano ortodossi, ma bevevano in segreto. Noi, però, eravamo più audaci, eravamo un pugno di radicali e, ovviamente, si venne a sapere. Bevevamo sempre di più, forse pure per protesta. Comportandoci così, era chiaro che eravamo pro Occidente. Dissidenti, come si suol dire.

 E tutto ciò perché «Giusto perché tu sappia, da noi l’alcol era ufficialmente proibito, dal regime che gli americani stessi hanno aiutato a far salire al potere. Una sorta di democrazia ma senza l’alcol. Con i russi era diverso, è stato il nostro sistema più occidentale». Sostanze che spesso hanno reso il rifugio agognato una trappola di paranoie e fobie e che nelle storie dell’autore croato rendono certe situazioni assurde ed esilaranti.
Nel racconto Strangers in the night, mentre scende la notte e le strade diventano buie, alcuni stranieri si trovano su una panchina a Central Park in attesa di un momento catartico che probabilmente non arriverà mai; contemporaneamente i lettori staranno cercando di decifrare la scrittura cantando tra sé e sé il celebre motivetto interpretato da Frank Sinatra «Strangers in the night exchanging glances, Wondering in the night…». Una lettura ardua.

I personaggi di Perišić ispirano simpatia, insofferenza, sono perlopiù incomprensibili e incompresi, con i loro disastrosi fallimenti esistenziali possono far infuriare ma possono anche suscitare molta ilarità. D’altronde, lo ammettono essi stessi, «Il sorriso aveva contagiato anche il volto di lui, perché i sorrisi si tramandano attraverso certe storie, così come tramite altre storie si trasmettono espressioni del tutto differenti» (in Saluta lo Zar), e ancora «La risata avvicina le persone che non si capiscono» (in Nessun Dio a Susedgrad). Dalla storia più corta (Sotto la scarpa) a quella più lunga (Nessun Dio a Susedgrad), non ce n’è uno che possa dirsi redento, nonostante la costante e inconsapevole espiazione che fa parte dei loro giorni. In fondo, se fossero così trasparenti, accessibili, sarebbero normali, e credo che questo tipo di persona non esista, che normale sia un aggettivo da riferire solo alle cose. Nei racconti Il gran finale è in corso e Saluta lo Zar si fa riferimento a cosa sia considerato normale, alla gente normale, ma ogni essere umano è più complesso di ciò che è conforme alla norma, alla consuetudine, che la complessità sia manifesta o nascosta. In fin dei conti, ne siamo consapevoli noi e anche i protagonisti di Disastri esistenziali e spese folli. In questa sua ultima opera, Robert Perišić fa iniziare tutto da un incontro, dalle storie d’amore, dai tradimenti e da amanti platonici; attraversa matrimoni al tramonto, vendette, amicizie, sesso occasionale, affronta anche i temi del lavoro in fabbrica, dei diritti rivendicati, dei lavori illegali, della disoccupazione, della sanità, della religione, chiamando in causa singoli individui, famiglie, autoctoni e migranti; lo fa sfumando da un racconto all’altro la narrazione, facendo sembrare l’intera opera un’unica macro storia. Quella delle nostre esistenze.

L’amore al fiume (e altri amori corti), di Ezio Sinigaglia

Autore: Ezio Sinigaglia
Editore: Wojtek
pp. 180 Euro 16,00

di Francesca Piovesan

L’amore al fiume (e altri amori corti) ci porta in un campo militare, ma non solo. Ci porta tra uomini giovani, ma non solo. Ci porta in una natura incontaminata, dove l’opera dell’uomo è solo quella messa in scena in queste pagine, dove quella stessa natura assume sembianze ferine, seduttive, erotiche.
Una natura rischiarata dal sole, rinfrescata dall’ombra, puntellata da tende da campo, da divise che appaiono in lontananza luccicanti, perfette e sgualcite.

I racconti di Ezio Sinigaglia ci portano nell’amore, tra corpi che si sfidano e si affidano come i bersaglieri Cecconi e Zanella, intrico di carne e di lingua, quella lingua che divide e unisce, che delimita confini, posizione sociale, affidabilità pura e seduzione ambigua. Quella lingua che l’autore riesce, nella sua imprescindibile differenza, a mutarla in collante, in innamoramento insperato, temuto, stratagemma per svelare l’oscuro, l’inganno.

“Sarebbe troppo pretendere dal bersagliere Cecconi, che ha già compiuto nell’ultima ora progressi tanto impressionanti e ammirevoli, una tranquilla accettazione del fatto di essersi innamorato in quattro e quattr’otto dell’efficace e incantevole bersagliere Zanella (…). Tutto ciò che concerne Mao, la sua anatomia, le sue parole e i suoi gesti è balzato all’improvviso in avanti, in primissimo piano, e si rende facilmente visibile e quasi palpabile, mentre tutto il resto galleggia su uno sfondo grigio e sfocato (…).
“Mò arrivo, a Zzanè!”, grida il feroce Giancrì nella frusciante pace del bosco
e, sulle ali del desiderio, riparte alla caccia.”

Sinigaglia, artigiano di ritmo e parole, scandisce nei dialoghi tempi e luoghi, estasi orgasmiche e fantasie sudate, pièces teatrali come, appunto, in “La pièce”, dove il bersagliere Barigozzi detto Maciste, leggendo ‘La dottoressa dei pompieri’, dirige e interpreta un racconto pornografico dove finisce per immedesimarsi nella stessa dottoressa, nel paziente, in tutti i personaggi, mettendo in scena una vera e propria rappresentazione teatrale licenziosa ma ironica, divertente, a tratti travestita dalla pudicizia e impudicizia dell’infanzia, sfrontata nel suo personale vocabolario.

“Per quanto il concetto di identificazione sia di una complessità e di una sottigliezza che lo pongono nettamente al di fuori delle capacità di astrazione del bersagliere Barigozzi, tuttavia la funzione evocativa del camice è tale da accendere dentro di lui la spaventosa consapevolezza di vivere un’identificazione che non è in grado di nominare e comprendere (...).

I racconti di del libro sono questo, quindi: dizionari del desiderio, che declinano carni, passioni, emozioni e sentimenti; alfabeti  che raccolgono a pieni mani dai dialetti, dalle inflessioni, dal Nord e dal Sud d’Italia; stile che l’autore riesce a rendere magistralmente come suo tratto distintivo, cristallizzandolo in un canone che è riconosciuto, apprezzato, antologizzato.

Il mio consiglio, nell’affrontare questa lettura, è di abbandonarsi al ritmo, alle parole che creano questo ritmo, alla ripetizione che può suonare fra le nostre labbra, allo stupore dei punti esclamativi, alle vocali trascinate, e alle consonanti troncate, assaporando la scoperta di un autore che sta donando ai lettori il suo talento.

La meccanica dei corpi, di Paolo Zardi

Autore: Paolo Zardi
Editore:
Neo Edizioni
pp. 170 Euro 15,00

di Debora Lambruschini

In un editoriale particolarmente interessante che qualche anno fa scrisse per Cattedrale, Paolo Zardi si interrogava sulla nascita di uno scrittore, guardando all’esperienza di due autori a lui  cari, Kafka e Philip Roth: c’è, secondo Zardi, un istante preciso in cui si forma «la propria voce, e quindi la propria identità di autore», quel «momento in cui si prova la certezza che è nato qualcosa di nuovo». Quel preciso momento, continua Zardi, per lui era stato l’autunno del 2013, quando in cinque mesi venne alla luce la novella – lui in realtà lo definiva romanzo breve – Il signor Bovary, una storia bellissima e crudele in cui sentì di aver trovato finalmente la propria di voce. In quel momento era emersa l’identità dell’autore.
Quella novella, pubblicata nel 2014 da Intermezzi in versione ebook, chiude ora l’ultima, magistrale, raccolta di racconti dell’autore padovano, La meccanica dei corpi, in libreria per Neo Edizioni che fin dal 2010 ospita i lavori migliori di Zardi, tra racconti e romanzi. Cinque racconti lunghi, indipendenti l’uno dall’altro ma accomunati da una certa continuità di temi e spunti che si inseriscono perfettamente nell’universo letterario di Zardi, a partire da un momento di crisi che rompe l’equilibrio fragile delle vite dei personaggi; l’imprevisto o, per meglio dire, l’imprevedibile, che squarcia l’esistenza. E sono le relazioni e le persone, ancora una volta, il centro di interesse di Zardi, nell’ottica di quella «ricerca antropologica» sugli esseri umani e sui loro rapporti che è il fil rouge delle sue storie, come perfettamente si esplicava in una delle sue raccolte più riuscite, La gente non esiste. Ne La meccanica dei corpi tale ricerca antropologica si intreccia nuovamente a narrazioni differenti per genere e struttura, nelle quali al realismo più puro si alternano storie intrise di realismo magico, che ha sostituito la vena distopica delle raccolte precedenti. La voce autoriale di Zardi è chiara e riconoscibile, ma ciò non significa si sia adagiata entro confini ormai noti, bensì si muove sperimentando di volta in volta forme e possibilità narrative, con la curiosità dello scrittore-lettore consapevole delle molteplicità intrinseche della forma breve.
Se c’è una cosa poi che mi ha sempre colpito di Zardi e che è emersa da incontri, eventi e presentazioni in cui ci siamo ritrovati accanto, è lo scostamento tra l’uomo e lo scrittore: da una parte c’è l’ingegnere appassionato di letteratura, uomo pieno di garbo, che parla sottovoce e con profonda competenza degli autori amati; dall’altro c’è lo scrittore che non ha mai avuto timore di sporcarsi le mani, indagando le pieghe più oscure dell’animo umano, la scrittura che sa farsi brutale, disturbante, un corpo a corpo tra noi e la storia che leggiamo.
Nei racconti de La meccanica dei corpi l’indagine sul male e sulle forme che assume si intreccia a una corporalità evidente, il «deragliamento» delle vite dei protagonisti di fronte a cui tutto cambia per sempre. Ed è, anche, una riflessione spesso amara sulla società contemporanea e le sue storture.
Come ne “L’età della dignità borghese”, il racconto d’apertura, in cui si intrecciano molti temi e spunti ricorrenti nella narrativa di Zardi: le dinamiche delle nostre società, lo scostamento tra aspettative giovanili e vita adulta, il confronto generazionale, il rapporto città-provincia. Lucia, la protagonista della storia, è una trentenne che lavora con scarso successo come redattrice in un’agenzia che si occupa di informazione:

 

Alle nove di mattina era già stanca. Disintegrata, pensava. Le cose non erano andate per il verso giusto: la migliore al liceo, una laurea prima del tempo, l’inevitabile migrazione verso la città (quella città), le grandi aspettative. […] la sensazione perenne di non farcela, di essere finita in un girone infernale dal quale non sarebbe riuscita a fuggire. Era questa la sua vita. Una centrifuga dove la nostalgia, il dolore e certi sogni lavorativi neppure si distinguevano. (“L’era della dignità borghese”, p. 10)

 

Le aspettative si sono presto scontrate con una realtà e una vita adulta ben diversa da quanto immaginava per sé stessa, finita in quella «centrifuga» di lavoro, pressioni, incertezze economiche, solitudini. Sull’orlo del precipizio in cui le pare di trovarsi, torna brevemente a casa dalla famiglia con l’intenzione di schiarirsi le idee e, forse, trovare una via definitiva tra il partire e il restare:

 

Partire o restare: fino a quel momento non era mai stata così chiara la formulazione della domanda che la vita le aveva posto in tutti quegli anni. Ora poteva dire di aver preso una decisione definitiva, irrevocabile. Si era consumato lo strappo che dentro di sé non aveva mai avuto il coraggio di compiere.
(“L’era della dignità borghese”, p. 26)

 

Uno strappo che si crea quando consegna alla redazione una storia di ombre, abusi, sospetto tra le vie del suo paese d’origine. Una storia che non ha un vero fondamento nella realtà ma che somiglia a molte altre storie di malvagità che la cronaca racconta. Un successo immediato, inebriante, ma che scatena anche una reazione presto fuori controllo. E che cambia per sempre la percezione di sé, del luogo da cui proviene, dell’adulta che diventerà.
“L’era della dignità borghese” è quindi il racconto di una società dell’informazione in cui il dovere di cronaca non conosce limiti morali e la responsabilità delle parole è sfumata e malleabile; una realtà che, senza arrivare all’estremo narrato, ha però confini molto ben riconoscibili nel nostro quotidiano, nella disperata frenesia della città, nella manipolazione delle parole, la ricerca di un capro espiatorio, la responsabilità di quanto diciamo e scriviamo. La società immaginata qui da Zardi è cinica e spietata, paurosamente vicina a un certo mondo reale.
Quelle de La meccanica dei corpi sono quindi storie ancorate al presente, di cui ne riconosciamo alcuni indicatori temporali precisi – gli strascichi del lockdown, le mascherine, i social network – e che pur aprendosi con l’immagine di una grande città - «quella città» appunto - sono però profondamente legate alla provincia, dove si compie davvero la storia. I protagonisti di questi cinque racconti sono uomini e donne di età differenti che a un certo punto si trovano di fronte a un bivio, fotografati nel momento preciso in cui qualcosa cambia o si spezza per sempre.
Il tempo è un altro dei temi chiave di queste storie, su cui la riflessione si intreccia in forme diverse: è il passato, la malleabilità del ricordo, la perdita; ma anche la sua meccanica intrinseca e il desiderio di comprenderlo fino a poterlo manovrare, come in “Non passa invano il tempo”, in cui la virata verso il realismo magico si fa particolarmente evidente. È forse il racconto più fragile della raccolta e anche il più distante dal resto, ma emblematico del desiderio di Zardi di mettersi costantemente alla prova – e i suoi lettori con lui – per esplorare le possibilità della narrazione. Realismo magico che, in forma diversa, attraversa anche “Fantasmi”, una storia che condensa molti temi, dal discorso sulla perdita e il lutto, alla vecchiaia e la solitudine. Quella di Armando, l’anziano protagonista rimasto solo nella vecchia casa con tutti i suoi fantasmi, è una storia dolorosa e commovente in cui forse le risposte sono già intuibili ben prima della conclusione, ma non privo di fascino. È, prima di tutto, storia di mancanze e di un futuro brutalmente interrotto dalla tragedia:

 

Dopo la tragedia che si era abbattuta sulla famiglia, avevano smesso di immaginare il futuro, di volerne uno. E quando finalmente si erano risollevati (una brutta copia della felicità di un tempo) era già tardi. (“Fantasmi”, p. 46)

 

Una famiglia come molte altre, marito, moglie, due figli e una vita ordinaria. Il «deragliamento» in questa storia è avvenuto molti anni prima ed è stato brutale e irreparabile, soprattutto per alcuni di loro.

 

Leonardo, da un giorno all’altro, era sparito. Avevano cercato il corpo, sperando di non trovarlo. E dopo non averlo trovato per anni, avevano sperato di trovare i suoi resti, per avere qualcosa su cui piangere e porre fine a quel dolore perennemente sospeso. (“Fantasmi”, p. 62)

 

Ora che l’uomo è rimasto solo in quella casa, il mistero del passato sembra tornare prepotentemente a chiedere risoluzione, nel tentativo di dare un ordine alle cose. “Fantasmi” è anche la riflessione sulla vecchiaia, sulla solitudine che molto spesso si porta dietro, ma anche su figli e genitorialità, un tema che si rincorre in questa raccolta come in altre narrazioni di Zardi, di cui si indagano ancora una volta le ombre, i dubbi, la distanza tra desideri e realtà.

 

Ogni tanto si chiedeva se erano quelli i figli che avrebbe voluto. Poi guardava quegli degli altri e non ne vedeva uno che fosse all’altezza delle ingenue speranze cui i genitori si erano abbandonati al momento dell’unione. […] ora poteva dire di non aver mai amato nessuno come Leonardo e Laura, e nessuno lo aveva fatto soffrire tanto. […] a ben vedere, neppure lui, Armando, era stato all’altezza. L’imperfezione era il paradigma di ogni cosa. (“Fantasmi”, p. 71)

 

Una genitorialità che ha molte facce diverse, di cui si raccontano gli aspetti più complessi. Talvolta è il centro narrativo, altre un dettaglio più periferico ma non di poco conto, come ne “Il risveglio” – ed è da qui che ho tratto la parola «deragliamento» – con le figure dei genitori del protagonista, vittima di un grave incidente, impossibili da raggiungere e poi una volta rintracciati ancora distanti, confusi dal ruolo che sarebbe loro richiesto di assumere. Ma “Il risveglio” è, soprattutto, una storia potente sull’identità e la coppia, ammaliante e misteriosa, in cui Zardi dosa brillantemente limpidezza e ambiguità, parole e spazio bianco della narrazione. E dalla quale è possibile immaginare altre storie, altre possibilità narrative. Silvia e Andrea sono una coppia normale, qualsiasi cosa questo possa significare: li incontriamo nel bel mezzo della loro quotidianità e nella loro vita intima, una sera qualunque nel loro letto; tutto, tragicamente, cambia con una scelta istintiva.

 

Fu quello l’istante preciso in cui le loro vite deragliarono. (“Il risveglio”, p. 93)

 

In strada, sotto la loro finestra, un uomo maltratta una donna, nella completa indifferenza di chi osserva da dietro le tende ma nulla fa per impedirlo. Andrea si precipita fuori – è stata una sua iniziativa, un suo istinto morale o la risposta a una richiesta di Laura, si chiederà ossessivamente la donna dopo la tragedia – ma lo sconosciuto gli spara e lo ferisce gravemente alla testa. È un istante, brutale, che modifica ogni cosa per sempre. C’è, nella narrazione di Zardi, tutta la drammaticità del momento, mentre la pozza di sangue si allarga sempre di più sul marciapiede, la corsa disperata all’ospedale, l’attesa di notizie, le prime indagini per ricostruire i fatti. La vita di Andrea finisce. Pochi giorni dopo, in terapia intensiva, Andrea per qualche minuto muore. Poi, inaspettatamente, si risveglia. Ma ciò che emerge nel corso della lunga riabilitazione del ritorno alla vita è che l’uomo dietro le fasciature non sembra essere più la persona arrivata in ospedale, quella che Laura conosce e ama. Non è più Andrea, non ne vuole portare più nemmeno il nome.

 

C’era stato un errore di trascrizione tra una versione e l’altra di suo marito: era vivo, poi era morto, e infine qualcuno aveva di nuovo soffiato in quel corpo; ma la seconda vita non ricalcava la precedente, non collimava neanche lontanamente. (“Il risveglio”, p. 114)

 

“Il risveglio” è un racconto strano e immaginifico, che indaga «la meccanica dei corpi» e soprattutto delle relazioni, riflette sul significato di identità, istinto e scelte che facciamo e vira verso un finale inaspettato e ambiguo.
La raccolta si chiude con “Il signor Bovary”, già citato in apertura, ed è la conclusione ideale di un volume che conferma Zardi come uno dei più talentuosi raccontisti italiani, con la suaprosa salda, il desiderio di sperimentazione, lo sguardo attentissimo. Un racconto che porta intrinseco nel nome già tutta la tragedia che racchiude: nella storia di un tradimento si avverte fin da principio l’ineluttabilità della fine e l’eco dell’illustre predecessore letterario che in certa misura omaggia e rilegge. Ma più ancora dell’intreccio e delle virate della trama, sono le scelte formali a rendere particolarmente interessante questa storia, lo scostamento progressivo dalla terza persona alla prima del finale e che ne amplifica l’ambiguità. Alla narrazione del tradimento si intrecciano temi e spunti quali le differenze di classe, l’identità costruita sullo status sociale, la facciata borghese dietro cui certe vite si barricano. È, anche in questo caso, il racconto di un deragliamento, che investe la vita ordinaria del protagonista non tanto con l’avvio di una relazione extraconiugale quanto con le conseguenze della tragedia che li investe, le scelte da lui compiute, la colpa e la vergogna sempre più insopportabili. Un signor Bovary che al pari di Emma pare non avere scampo, non tanto per il tradimento dei voti coniugali quanto per la condanna sociale e le conseguenze pratiche delle proprie scelte. La voce effimera che qui e là appariva nel corso della narrazione, si prende la scena sul finale e accompagna il lettore verso un epilogo dai contorni sempre più sfumati, le domande che si affollano e ci interrogano direttamente, noi lettori, partecipi di quel piccolo miracolo che è la letteratura.