Isola. Storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico, di Senko Karuza

Titolo: Isola, storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico
Autore: Senko Caruza
Editore: Bottega errante Edizioni
Traduzione: Ginevra Pugliese
pp. 232 Euro 17,00

di Giordana Restifo

Un’isola con la sua vita lenta che scorre tra il mare, i campi, le vigne, e che nella stagione estiva viene presa d’assalto da una moltitudine di turisti. È lei la protagonista della raccolta di racconti appena pubblicata da Bottega Errante Edizioni, Isola. Storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico, di Senko Karuza, tradotta da Ginevra Pugliese. Proprio la nota finale della traduttrice svela che l’edizione italiana è frutto di una miscela di racconti provenienti da una prima raccolta, Vodič po otoku (Guida all’isola), uscita nel 2005 in Croazia, e da una selezione dell’ultima, Prsa u prsa (Petto contro petto), del 2016. Il risultato finale è un volume con più di ottanta storie diviso in due parti: Guida all’isola, che contiene cinquantasei racconti brevissimi, e Camera obscura, con trentuno racconti più lunghi. La differenza non sta solo nella lunghezza: nella prima parte l’autore porta i lettori alla scoperta dei luoghi, del cibo, del rapporto degli isolani con il mare, con i venti; nella seconda, invece, si immerge in elucubrazioni sulla quotidianità della vita sull’isola, su un passato che sta svanendo e un presente vissuto tra i ricordi e i rimpianti, ma riflette anche su un’economia che è sempre più vocata al turismo.
Vis, in italiano Lissa, è un’isola dell’Adriatico, situata al largo di Split (Spalato), in Croazia; è qui che Karuza ha trascorso la sua infanzia e la sua giovinezza, ed è qui che ha deciso di tornare a vivere, dopo aver frequentato le scuole a Spalato e la facoltà di filosofia a Zagabria. Un’emigrazione al contrario. Da siciliana, che vive in Sicilia, leggendo Isola. Storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico, non posso far altro che pensare alla mia di isola, ma anche alle isole Eolie, alle Egadi, a quelle della Grecia e della Spagna. Vis racchiude in sé tante isole, di sicuro quelle del Mediterraneo. Hanno tutte in comune un presente che prova a resistere alla globalizzazione, alla frenesia delle città, alla recessione economica, che cerca di ancorarsi a un passato quasi estinto. Un tempo di cui ci si è vergognati e che ora si vuole riscoprire, recuperare. 
Ci sono due tipi di isolani: chi nasce su un’isola, si sente appartenente a quel posto, a quella terra galleggiante, che quando arriva su un’altra isola si trova immediatamente a proprio agio, perché è come se fosse a casa; e chi ci vive perché la sceglie, nondimeno questi ultimi sentono di appartenere a quel luogo, lo vivono in tutte le stagioni e ne conoscono bene gioie e dolori. Queste due tipologie, che formano anche la comunità degli isolani di Vis, sono il “noi” narrante che conduce i lettori nell’opera di Karuza.
Poi ci sono i turisti.
Da cosa sono attratti tutti questi turisti che ogni anno sbarcano sull’isola croata? Dall’odore di pesce alla griglia innaffiato di olio d’oliva e da quello della kapula (cipolla) che proviene dalle strade, dalle terrazze; dalle acque cristalline che circondano il perimetro dell’isola; dal modo di vivere lento e ostinato degli abitanti; dal ritrovarsi in piazza a sorseggiare caffè guardando il mare; dagli antichi rituali della vendemmia e della raccolta dei pomodori per fare tutti insieme la salsa. D’altronde, come si fa a non essere sedotti da tutto ciò? Si potrebbe pensare di ricreare questo paradiso, questo giardino in mezzo al mare, nelle città, ma la verità è che anche se si esportassero gli alberi, le ricette, le bevande, mancherebbe il legante, e cioè il tempo. Il tempo che sembra fermarsi non appena si mette piede sull’isola. Quel tempo scandito dalla pennichella dopo pranzo, un rituale al quale non si può rinunciare. D’estate il calore rende lascivi e obbliga all’orizzontalità, d’inverno la sensazione di abbandono, di svuotamento, spinge a cercare riparo nel sonno. In quei brevi o lunghi pisolini si sognano tutti gli scuri della cittadina aperti, tutti i mestieri di una volta ricomparsi, tutte le persone andate via e tornate, i saperi tramandati, e sembra di stare in paradiso con gli anziani che tranquillizzano i più giovani: tutto è tornato al proprio posto, non è un miracolo, tutto è come una volta; ma quando ci si sveglia si è di nuovo in purgatorio (dal racconto Il purgatorio). Quel tempo che gli isolani, mentre sono sulla loro barca e si scostano dalla riva per andare sul loro “scoglio”, non scambierebbero con nulla al mondo perché sentono «molto bene che questa gita di solitudine in solitudine, da isola a isola» non la cambierebbero «per nessun tesoro o città» (dal racconto Lo scoglio). Il rapporto con il mare, e tutto ciò che implica (la pesca, la barca, i venti), è molto forte per chi vive su un’isola. Un legame inscindibile, come nel racconto La barca:

 

«La barca rimane imprigionata in noi o noi in lei, è indifferente, perché non si possono contare i momenti in cui dipendevamo l’uno dall’altra e ci imponevamo di lasciar perdere, di metter giudizio, di obbedire, sull’orlo della tragedia, in una qualche terribile tempesta, o in un improvviso impeto di dispetto, quando dovevamo mostrare al mondo, e un po’ anche a noi stessi,

cosa possono un uomo e una barca quando diventano una cosa sola».

 

Il mare e la sua vita condizionano quasi totalmente l’esistenza degli isolani, così quando muore qualcuno sull’isola, gli altri che restano si sentono come dei naufraghi, anche se non sono rimasti senza barca (da La veglia). Quando i venti soffiano forte e agitano il mare non si può uscire. Nelle giornate in cui compare lo scirocco, un vento caldo proveniente da sud-est che lascia la pelle appiccicosa, gli abitanti di Vis si sentono come se fossero a Utopia, anche se Tommaso Moro non l’hanno mai letto. Trasformano l’isola in terraferma, hanno il loro dottore e il loro prete, i loro vigneti e le loro pecore, il loro pesce, le barche, le bandiere e le fabbriche, insomma la loro Città reale e la loro Città perfetta, e si chiedono cosa gli manchi per essere uno Stato.

 

«Ma lo sapete, annunciano alcuni saccenti, che a Dubrovnik, ai tempi della sua indipendenza, non si poteva prendere nessuna decisione importante quando soffiava il vento di scirocco? Certo che lo sappiamo, rispondiamo prontamente, ma chiedi loro come ha fatto a diventare una città-Stato! Quelli che non lo sanno abbassano lo sguardo, noi calciamo il piede in avanti e guardiamo verso il cielo, che si veda che lo scirocco non ci può ottenebrare il raziocinio e che, ora più che mai, abbiamo il diritto di essere padroni di noi stessi. Qualcuno guarda l’ora, è mezzogiorno, ora di pranzo, in silenzio ci lasciamo, lo Stato si sfascia, ma se nel pomeriggio non arriva la bora, si potrebbe trovare con facilità il presidente» (Dal racconto Lo scirocco).

 

Come in ogni paradiso che si rispetti, gli umani convivono con gli animali, galline e galli, pecore, agnelli, capre, gatti e asinelli. Bastet protegge l’umanità anche a Vis, come in tutte le isole del Mediterraneo, manifestandosi nei molti gatti che scorrazzano liberi e indisturbati, dormono per strada, vengono accuditi dagli abitanti e fotografati dai turisti. Gli asini, invece, sono meno comuni dei felini, sull’isola non ve ne sono più molti, proprio questa rara presenza lascia esterrefatti i forestieri che, non appena ne avvistano uno, lo circondano per fotografarlo e mettergli i loro bambini in groppa.
Di anno in anno, sempre più vacanzieri approdano nella stagione estiva sull’isola, occupando massicciamente gli spazi, reclamando a gran voce “esperienze tipiche”, dando consigli non richiesti agli abitanti, interessandosi ai lotti di terreno, alle abitazioni e alle konobe (taverne, trattorie), per acquistare un pezzo di quell’eden. Non c’è bisogno di fantasticare troppo per immaginarlo, abbiamo visto tutti quest’estate i video di Santorini con frotte di turisti che scendono dai traghetti e affollano le strette vie dell’isola delle Cicladi. L’arrivo di capitale estero non ha portato a Vis nuova linfa, gli isolani che ne hanno guadagnato sono andati a vivere sulla terraferma, li si rivede solo per la bella stagione o non tornano proprio più; quelli rimasti aguzzano l’ingegno per sopravvivere, alcuni diventano nullatenenti ma l’arte di arrabattarsi è millenaria, e anche in momenti di penuria di cibo, in agosto soprattutto di pesce, il loro spirito arguto permane:

 

«Giù al nostro molo è attraccato un motoscafo con un uomo che guarda verso la nostra terrazza, vede che stiamo mangiando. C’è un’aragosta, chiede. Nostro cugino si alza e allarga le braccia, non c’è, compare, dice, c’è la recessione, ci sono rimaste solo le sardelle. E allora possiamo venire a mangiare le sardelle? chiede. No, compare, gli risponde di nuovo nostro cugino, le abbiamo appena mangiate!»
(da La bomba atomica).

 

L’isola ha anche il potere di far fare buoni propositi, esprimere desideri, sussurrare sogni, ma «non è immune ai cambiamenti globali», anche se nessuno degli abitanti di Vis li comprende; «in quei due mesi estivi tutti quanti accendono desideri che non hanno nulla a che fare con noi, e che in inverno lentamente evaporano e riscaldano i corpi con un calore illusorio e irragionevole» (da Sotto zero), aggiungerei almeno fino all’estate successiva, quando i desideri si rinfocolano non appena sbarcati, un po’ come i propositi di capodanno.
Chissà qual è a Vis il momento che segna il cambio di stagione. Nella mia città la fine dell’estate e l’esodo si rivelano attraverso le lunghe code agli imbarchi delle navi che dalla Sicilia portano in Italia, regolate dal suono dei fischietti dei vigili urbani che entra dalle mie finestre in casa; alle isole Eolie è la festa del santo patrono che indica la fine del periodo di massima apertura verso l’esterno, come dice un caro amico.
Durante l’inverno, al caldo dello špaher (stufa), si ha il tempo di immergersi in pensieri profondi sull’esistenza, sulla resistenza e sulla resa. Privati dei propri scogli, delle proprie baie, dei vitigni e dei terreni «stiamo zitti e non reagiamo a nulla, non vediamo nulla e non sappiamo nulla. La domanda è se esistiamo» (da La concessione). Non è solo questo, ogni autunno e inverno che passano, l’isola si spopola sempre più, le famiglie vanno via, i giovani sono tutti andati a studiare o a lavorare nelle grandi città, chi resta si prepara per il pianto invernale ascoltando le lamentele degli altri. Ogni tanto a qualcuno viene “l’idea folle” di rinnovare e riavviare le antiche tradizioni, per non perdere la vera ricchezza della gente e del sapere dei luoghi, o semplicemente per non annoiarsi e deprimersi.
Pescare nel torbido, La scomparsa, I bisogni, Cosa nostra, La crisi, La tradizione, sono solo alcuni dei racconti attraverso i quali il lettore può farsi un’idea su come gli abitanti di Vis trascorrono la stagione fredda.

 

«Abbiamo avuto tempo questo inverno, come mai prima d’ora, per riflettere attentamente e a fondo sulla nostra vita, sulle catene e sulle ancore a cui abbiamo dato nomi, e non sono più sconosciuti nemmeno i concetti romantici dei canti popolari, tantomeno le persone reali e gli usi e costumi che non possiamo abbandonare, figuriamoci sostituire» (da Sotto zero).

 

Già, perché l’isola ti tiene ancorato a sé. C’è una domanda sulla copertina di Isola. Storie di un filosofo-chef dal cuore dell’Adriatico: Che cos’è l’Isola e perché ci lega a sé a doppio filo? L’isola è come un guinzaglio che si allenta e lascia andare via i propri abitanti a esplorare la terraferma, il mondo fuori, poi si blocca e inizia a tirare finché non si torna indietro. Non c’è solo la questione del tempo, ma anche quella dello spazio. Guardando l’immensità del mare si ha la percezione di spazi vasti, si possono sognare e immaginare orizzonti perduti o sconosciuti, mondi lontanissimi. Sull’isola c’è tutto, ci sono i quattro elementi: terra, aria, acqua, fuoco. Ci sono i vulcani, le spiagge, le montagne, a Vis arriva anche la neve a volte, elemento spiazzante che rallegra e imbarazza gli isolani, ci sono le campagne. Gli abitanti non resistono negli spazi angusti e chiusi degli uffici, delle città.
Infine, riprendendo un concetto del racconto Addio mare (modo di dire dalmata che sta per “acqua passata”), anche se credo che le nostre sensazioni non siano dissimili, spero che gli isolani di Vis mi perdonino se non sono riuscita a immaginare l’isola a modo loro.