Cose da fare per farsi del male, di Michele Orti Manara

Autore: Cose da fare per farsi del male
Editore: Giulio Perrone Editore
pp. 215 Euro 16,00

 

di Alice Pisu

 

Il nuovo libro di racconti di Michele Orti Manara edito da Giulio Perrone Editore è un elogio dell’incapacità umana di liberarsi da un assillo perpetuo, che si tramuta in incubo, tormento, mania, frustrazione, nella tensione perenne tra un passato irraggiungibile e un presente paludoso. L’opera è il compendio dell’intera produzione narrativa dell’autore, richiama il castigo del noto, la ferocia della sopravvivenza, l’enigma dell’altro, il male come voragine a cui ci si affaccia sin da bambini. Aspetti, temi e elementi propri della raccolta Il vizio di smettere (Racconti, 2018) e del romanzo Consolazione (Rizzoli, 2022) che in Cose da fare per farsi del male vedono una sottile evoluzione fantastica nell’inventario sulle possibilità insite nella fine, rese con inattesi scorci grotteschi che fendono il quotidiano apparentemente ordinario dei suoi protagonisti.
La fragilità della cornice famigliare è il terreno d’indagine d’elezione di Orti Manara, capace di insinuarsi nelle pieghe del reale per sfiorare per brevi e intensi tocchi, in Tuo padre che affoga, la stanchezza di vivere di una donna incapace di sottostare all’egocentrismo del marito regista e dell’ingratitudine delle sue figlie. Si colloca sul solco di un dramma per osservare ciò che lo anticipa: accosta le pulsioni preadolescenziali di una ragazzina che anela il mondo del cinema al terrore del fallimento delle aspettative paterne quando, per recitare una breve parte, è costretta da lui a calarsi in un terribile ricordo infantile per risultare verosimile.
I racconti di Orti Manara aprono una breccia verso l’imperscrutabile, evocano aneliti sopiti, fantasie di distruzione, sondano l’origine di un tarlo che cambia forma nel tempo, come accade in Acido lattico. L’autore parte dalle conseguenze per compiere continui andirivieni temporali che palesano oscure fantasie di morte in un bambino segnato dall’uccisione della madre a opera del padre che, tra tentativi riusciti e esperimenti mancati, diverrà un giovane uomo soggiogato da un immaginario violento: un predestinato.
“Ed eccomi qui. Il corpo nudo di Mina sotto di me. La mia eccitazione, e l’indecisione tra il desiderio di penetrarla e quello di metterle le mani al collo”.
Pur partendo da contesti mediocri, i soggetti di Michele Orti Manara finiscono per maneggiare il male riconoscendo un aspetto nuovo di sé che li rende diversi dal passato negli esiti incogniti. È quel che accade quando un’improvvisa scoperta porta un uomo scampato per caso alla morte a cogliere l’ironia del destino e a vedere sotto occhi nuovi la babysitter dei suoi figli, sentendosi sconvolto e attratto da qualcuno che assume una parvenza nuova, un fascino torbido: “Quello che tieni nascosto ti avvelena”.
Tra pagine dai risvolti avventurosi e dagli effetti comico-satirici, grotteschi e in alcuni casi profondamente drammatici su anarchiche spedizioni infantili, vane ricerche di antidoti alla solitudine, tentativi di sopravvivenza in un mondo ostile e indifferente, ribellioni agli atavici contesti famigliari e silenti insurrezioni, i protagonisti di Orti Manara esibiscono capacità inattese nel muoversi tra espedienti e inganni, mostrano la natura misera e dolente dell’individuo.
La ricerca narrativa di Orti Manara solleva istanze sulla violenza, sulla sua origine primordiale attraverso figure smarrite che avanzano nell’esistenza sovrastate da un terrore oscuro, o incuranti delle conseguenze delle loro azioni. Il continuo richiamo fisico, reso nel mistero evocato dalla voce di una natura indolente o dall’allestimento urbano, prende forma nella contrapposizione degli epicentri: traduce il doloroso distacco da sé condiviso da molti dei personaggi ritratti.
A caratterizzare lo sguardo narrativo di Orti Manara è l’attenzione per i grovigli interiori che anticipano rotture, evoluzioni incongrue, stravolgimenti intimi, si legano a nevrosi ricorrenti, a ossessioni tradotte con un’ironia feroce celata in figure ciniche, spietate, o inesorabilmente sole.
Che si tratti di un temporale capace di tramutare una casa in una “distesa di metallo liquido e inquieto”, di una tragedia appresa dalle immagini senza audio del televisore, di una visione fugace di una sagoma nota su un balcone, di un’uscita sospetta da un palazzo dopo giorni di appostamenti nel bar di fronte, ogni evento traccia l’inesorabilità della trasfigurazione, insinua una riflessione sulla labilità delle relazioni, sul peso del compromesso, sul ricatto della nostalgia, sull’odio che macera i pensieri, sulle deviazioni generate da una perversione, sul confine tra desiderio dell’altro e fantasie di annientamento, sull’assenza di libertà e pace nell’irreversibilità, sulla natura brutale di chi è pronto a divorare i propri simili in caso di necessità.
Tra le costanti dell’opera il racconto di una solitudine radicata, resa con una particolare attenzione agli scenari entro cui si consumano peculiari liturgie famigliari, dall’asfittico clima domestico di una vecchia burbera che subirà sottili vendette dal protagonista di Roditori, alla casa-mausoleo di un tempo remoto in La voce del lago, dove gli oggetti restituiscono momenti non replicabili e definiscono una solitudine di coppia in qualche modo preziosa, all’appartamento materno scenario di una rigenerazione nel dramma ne La veglia, agli spazi apparentemente rassicuranti entro cui un bambino attende che si compia l’inesorabile annunciato dai deliri di suo nonno in V, al teatro di una devastazione chimica di fine anno tra gli inganni, gli eccessi, i presagi, gli incubi di un gruppo di ragazzi ne La penultima notte, alla villa decadente che accoglie una logora e fiera principessa e il suo macilento suddito-bambino in Cervello di paglia.
In ogni racconto l’ambiente riflette un disagio interiore, attesta i cambiamenti e il progressivo inabissamento che riguardano ogni figura. Le cose, gli utensili, i mobili – centrali in particolare per il facchino di Roditori che soppesa le vite degli altri dai beni di cui si sbarazzano – riflettono le inquietudini dei protagonisti, l’insensatezza del vivere, l’indifferenza al presente.
Nella forma breve Orti Manara misura una desolazione al contempo singolare e storica, come emerge nel racconto Inseparabili, dove le omissioni in una coppia, lo spettro del tradimento, le partenze, le separazioni, la frenesia urbana, finiscono per rarefarsi nella cura verso una coppia di pappagalli che finirà per catalizzare l’attenzione al punto da annullare stati d’animo che esulino dalla routine animale.
Di fronte all’impossibilità di rinnovamento, tra segreti e colpe da espiare, si insinuano con anse lirico-descrittive visioni su un vuoto personale, invisibile agli altri. Le nevrosi che prendono forma sulla pagina con un bizzarro campionario umano tracciano la perenne dissociazione esistenziale condivisa da ogni soggetto che assume contorni nuovi nel confronto con un dramma improvviso. Ne La veglia una tragedia inattesa costringe al ritorno alla casa materna i figli cresciuti con zelo e mero senso del dovere da una donna anaffettiva, in perenne equilibrio tra meriti, colpe, punizioni. “Restiamo in cucina a parlare, sulle sedie vecchie e scomode, con l’incerata che si attacca ai gomiti e il lutto che cambia sapore poco alla volta”.
Piombati all’improvviso nel passato evocato da camere da letto intatte, con i poster di Miguel Abàco Rodriguez e Cyndi Lauper e gli adesivi di videogiochi anni Novanta, i tre dismettono per la prima volta i panni di figli, per diventare qualcosa di diverso, in una sorta di capsula del tempo entro cui osservarsi ringiovanire e invecchiare di continuo, recitando “con minime variazioni” parti conosciute a memoria. Il mito di un’infanzia grigia ma in qualche modo integra si disperde nel ricordo di un tempo anteriore che è madre, improvvisamente staccato dal presente, esorcizzato da una ritualità che allude a una possibilità di futuro incorrotta.
Una percezione di estraneità resa bene anche nel racconto Che ci faccio qui, dove un padre operaio che ha lottato in fabbrica per rivendicare diritti individuali e collettivi anche in merito al rispetto della privacy dei lavoratori, vive con sconcerto il successo di suo figlio, che riempie i concerti inneggiando nei suoi brani alla miseria delle case popolari del loro quartiere e rendendo pubblico ogni istante del suo quotidiano.
Sfilano sulla pagina sopravvissuti alla vita in bilico tra fugaci euforie e smanie di devastazione. Colti all’apice di un dissidio privato, i protagonisti delle storie di Orti Manara diventano capaci di garantirsi un benessere insano attraverso possibilità sino ad allora inesplorate. La tendenza al gioco al contrasto tra un’inerzia inalterabile e una lucida efferatezza scandaglia i bagliori improvvisi e la rabbia latente propri di individui privi di qualsiasi possibilità di salvezza.
L’autore indaga i traumi sopiti, le privazioni, le relazioni corrotte, le perdite, i dolori inestinguibili, le corrispondenze fra il desiderio e la repulsione, rivelando il gusto per l’isolamento dell’istante che precede un disfacimento interiore irrecuperabile, reso, ad esempio, nelle nitide descrizioni dell’uccisione non premeditata di una tartaruga che apre Acido lattico.
La tensione al male diventa in ogni racconto la misura di un allucinato immaginario sulla morte retto sulla percezione dell'inafferrabilità del reale, tra costanti incognite sull’altrove. L’apparente immobilità delle storie è resa con sapienti sovrapposizioni di immagini, come nel racconto Anna, dove le sequenze di una lite tra fidanzati osservata morbosamente da un cameriere dall’interno di un bar si fondono con quelle del sangue che sgocciola dalla ferita che egli si è provocato per la tensione, in un desiderio di possesso sfociato nella brama di uccisione dell’amata.
L’inabissamento nella dimensione infantile rimanda a un tempo infimo, segnato dall’abbaglio dell’innocenza. Tra i racconti più originali, Cervello di paglia inscena una favola macabra, una revisione allucinata de Il meraviglioso mago di Oz con un chiaro omaggio kafkiano dagli echi apocalittici. In un contesto di profondo degrado, una principessa regna incontrastata in quel che resta di un’abitazione borghese, tra villette abbandonate e in assenza di altre presenze umane al di fuori del suddito. Scovato in un bozzolo dorato accanto a un morto, egli dovrà esaudire ogni desiderio della principessa in cambio del sostentamento derivato dalle scorte di emergenza celate nei bassifondi di una botola, con l’unica gioia dello spettacolo in pellicola replicato quotidianamente sino a prima del disastro.
Il rilievo della nuova raccolta di racconti risiede nell’inesausta ricerca linguistica, enfatizzata da una ricorrenza tematica capace di condurre a esiti nuovi. Le insistenze descrittive amplificano lo stupore per il tangibile e lambiscono l’irrazionale nel dare forma a miraggi e desideri. La prosa cesellata sulla parola esatta, onesta, è l’esito di un’evoluzione stilistica e formale riconoscibile nella precisione dei frammenti che compongono le scene ricostruite sulla pagina con disvelamenti, percorsi a ritroso, epifanie, all’interno di un disegno narrativo che accoglie scorci lirici e segue le intermittenze emotive delle vicende narrate, traducendo nella raffigurazione del paesaggio le incoerenze di chi lo osserva. Gli ingrandimenti realistici equilibrano gli scorci visionari grazie a un’attenzione estrema per la composizione dei dialoghi, per gli sfasamenti temporali, per la tensione espressiva che in ogni racconto restituisce aspetti inediti e, al contempo, riconoscibili della voce letteraria dell’autore.
Con Cose da fare per farsi del male Michele Orti Manara consegna un elogio del visionario generato dal dolore, l’esito finale dell’esasperazione del reale sfociata nel fantastico tra allucinazioni, assilli, deliri di soggetti sospesi nell’attesa, con una mano tesa sul baratro.