di Debora Lambruschini
La letteratura dovrebbe mettere scomodi, spostare lo sguardo verso nuovi punti di vista, destabilizzare e porre in discussione un po’ delle proprie certezze. Ma che succede se quando lo fa, come accade con questo libro, ti senti troppo scomodo? Che ne è del giudizio critico e del mestiere? Con questi racconti tesi fra brutalità e bellezza, Paul Dalla Rosa mi ha sicuramente sfidata come lettrice e a un certo punto anche come essere umano.
Una florida ed eccitante vita interiore racchiude dieci storie – molte delle quali apparse su rivista, da Granta a McSweeney’s – di giovani e talvolta giovanissimi protagonisti sospesi tra aspirazioni e realtà, in un vortice di frustrazioni, desideri, sesso, solitudini. Molti di loro sono queer, tutti quanti si muovono in realtà alienanti, dove sembra non esserci spazio per un reale contatto umano. Sullo sfondo di città globalizzate e praticamente indistinguibili l’una dall’altra ognuno insegue una qualche forma di riscatto e si scontra con una realtà che non può soddisfarne le ambizioni. La tematica non è certo nuova, ma ciò che rende particolarmente interessante la raccolta è la polifonia con cui è architettata – resa abilmente dalla traduzione di Stefano Pirone – e la capacità di Dalla Rosa di mutare registro da una storia all’altra per adattarsi al protagonista, scegliendo il punto di vista necessario per una particolare resa, per suscitare determinate reazioni nel lettore. Ogni storia, perfettamente autonoma, si inserisce quindi in un discorso più ampio, lo sguardo dell’autore ben focalizzato su precise tematiche e spunti. La scrittura è attenta, cesellata e al tempo stesso fluida, l’attenzione di Dalla Rosa a una certa dimensione contemporanea confluisce anche nell’orecchio per i dialoghi e una prosa pronta ad accogliere le istanze del reale.
C’è uno scarto notevole tra me lettrice e alcuni dei protagonisti di queste storie, uno scarto che ha richiesto uno sforzo particolare per tarare il giudizio su certi passaggi e, come dicevo in apertura, rende interessante la riflessione su una letteratura che mette scomodi, su giudizio critico e soggettività. Non ho mai pensato sia necessario riconoscersi in ciò che si legge né provare empatia con i personaggi: eppure mi sono ritrovata a interrogarmi su quanto ciò che ho percepito come una debolezza narrativa, ossia un certo indugiare sulle scene sessuali, sia effettivamente tale o invece qualcosa che non comprendo del tutto perché qui legato alla realtà queer. Mi sono interrogata, una storia dopo l’altra, su questo scarto, sul metro di giudizio che non può mai essere del tutto oggettivo, neutro, ma che è la somma di altre letture e di un certo vissuto. E leggere questa raccolta, pur sentendomi destabilizzata a tratti e in realtà proprio per questo, è la conferma a mio avviso di quanto importante sia il ruolo della letteratura e della necessità di spingersi oltre la propria comfort zone, abbandonare certezze granitiche e interrogarsi, sempre. Solo in questo modo la letteratura si fa viva, reale, concreta.
Ci sono poi parametri che svincolano dalla soggettività e i dieci racconti di Dalla Rosa, con quell’umanità dolente rappresentata in modo tanto vivido, superano la prova letteraria e, più nello specifico, ben si inseriscono nella produzione breve contemporanea. È sapere maneggiare una tematica tutt’altro che inedita e plasmarla in qualcosa di nuovo che ha tutta l’urgenza della realtà, tenere bene a mente quanto storia e modo di raccontarla siano l’una funzionale all’altra. Attraverso un determinato punto di vista, un narratore in prima persona o esterno, mediante precise scelte stilistiche, la narrazione sa adattarsi di volta in volta al protagonista e all’andamento della storia, connotata quindi in modo particolare.
Nell’annuncio di lavoro o nel colloquio non lo avevano definito call center, ma dopo che la donna ha ottenuto il posto tutti lo chiamano call center perché è esattamente quello che è. (Contatto, p. 115)
L’estraneità e l’alienazione del lavoro si misurano quindi con la scelta nel racconto Contatto di non dare nome alla protagonista, che resterà solo “la donna”: i paragrafi brevi, intervallati da spazi e segni grafici, scandiscono nettamente una narrazione che sembra ricalcare il ritmo del lavoro della protagonista in un call center, la rigidità e il controllo del tempo dei dipendenti, la produttività richiesta, la facciata imperscrutabile che cela quella «florida ed eccitante vita interiore» cui ognuno di loro in queste storie vorrebbe aggrapparsi.
Modalità similari che Dalla Rosa usa per costruire in Charlie ad alta definizione una storia via via sempre più irrazionale, il Bestiario di Cortàzar che riecheggia nella convivenza complicata con un gatto sempre più incontrollabile e rabbioso, costringendo gli abitanti della casa a inventarsi una nuova quotidianità e adeguata divisione degli spazi.
La condivisione della casa è una condizione frequente in questi racconti: una scelta dettata dalle esigenze economiche dei personaggi ma che non coincide con il superamento della solitudine, dell’alienazione in cui si trovano. Dalla Rosa pare comporre la propria personale critica a una società sempre più globalizzata, dove i luoghi, i minuscoli appartamenti all’interno di anonimi grattacieli si assomigliano tutti e la ferocia del capitalismo ha generato nuove ansie e frustrazioni, all’inseguimento di un benessere che non riesce a essere appagato.
[…] per la maggior parte della mia vita avrei desiderato cose che pensavo fosse stupido desiderare, ma che avrei comunque desiderato. (Comme, p. 37)
Ognuno dei personaggi di Una florida ed eccitante vita interiore aspira a migliore la propria condizione e inseguire una certa idea di successo, di ricchezza, di rivalsa, ma che inevitabilmente genererà frustrazione, sconfitta. È quello scarto tra aspettative e vita adulta che tanto bene racconta il nostro Paolo Zardi nelle sue storie, che qui, però, resta ancorato a una fase precedente della vita, una gioventù concentrata sul riscatto. Dalla Rosa osserva ciò che succede quando si arriva al punto di rottura, quando è evidente – o perlomeno lo è per noi lettori – la distanza tra aspirazioni e realtà e nessuno dei suoi personaggi sembra davvero pronto a farci i conti, ricalibrare il tiro, ma rimane disperatamente aggrappato al proprio sogno di rivalsa.
Ero andato lì per fare soldi e diventare qualcun altro. In effetti guadagnavo; non pagavo tasse sul reddito ma l’affitto era esoso, oltraggioso, quindi mi rimaneva poco dopo le spese essenziali. (La cosa più dura, p. 4)
Resta un certo grado di amarezza arrivati alla fine di queste storie che non fanno sconti né possono portare consolazione alcuna. Sono il ritratto, brutale, del lato più oscuro della società in cui siamo immersi, all’inseguimento di fama, ricchezza, riconoscimento che quasi sempre scivolano dalle mani smaniose. E, soprattutto, resta una riflessione amara sulla solitudine, che è la stessa tanto in un misero appartamento di fronte a un fast food specializzato in pancake quanto tra gli ospiti di una festa esclusiva in una villa a Los Angeles. Ecco, quindi, che il desiderio di riscatto dei protagonisti è qualcosa che non ha a che fare solo con la ricchezza o il miglioramento sociale, ma si intreccia al riconoscimento delle proprie capacità e dei propri talenti – poco conta se veri o solo presunti – , all’attesa dell’occasione giusta prima che sia troppo tardi, prima che qualcun altro si appropri del nostro posto. Dalla Rosa costruisce un microcosmo teso tra illusioni, sogni infranti, bellezza e oscurità, in cui il vuoto emotivo rimbomba da un capo all’altro del mondo. Ha i contorni della nostra realtà, connotata dalla tecnologia attraverso la quale i personaggi si ingannano di allontanare la solitudine ma che alla fine non fa che amplificarne la portata. Sono le città tutte uguali, il conformismo di ciò che si indossa, da Los Angeles a Dubai. Sono i rapporti, superficiali, opportunisti. Queste storie, come ha detto Dalla Rosa in un’intervista, nascono dal «tentativo ossessivo di capire il problema dell’essere giovani» e non c’è alcun «sarcasmo o nichilismo» nella scrittura, ma uno sguardo lucido, attento, una scrittura forse aspra a tratti ma riflesso della realtà in cui affonda. Una scrittura che fa quel che deve