di Chiara Bianchi
In esergo, una frase di Clarisse Lispector «Sono un mostro, oppure è questo che significa essere una persona?», una frase in forma di domanda che ha probabilmente ossessionato María Fernanda Ampuero mentre scriveva questi tredici racconti che compongono Le bestie, pubblicato da granvia, nella traduzione di Francesca Lazzarato.
María Fernanda Ampuero, classe 1976, scrittrice ecuadoriana, ci conduce negli abissi di quella domanda iniziale presa in prestito, fino a farla diventare un’affermazione.
I corpi distrutti dalla malattia, dall’abuso e dall’odio, la violenza perpetrata e la smisuratezza del quotidiano s’insinuano nel racconto. L’efficacia della mostruosità risiede proprio nel luogo in cui si sviluppano le storie: all’interno di case di famiglie appartenenti alla classe media latinoamericana, in cui la violenza irrompe per distruggere tutto. Si ha la percezione di vivere sul bordo di un precipizio, continuamente e in compagnia dei personaggi che Ampuero con abilità stilistica costruisce attorno a quelli che sembrano fatti di cronaca, in cui la brutalità è specchio di una società malandata.
La prosa di Ampuero calamita il lettore, mentre sviscera scene terribili, avvolgendole di un’aurea intima ed evocativa in una sinestesia di olezzi attraverso cui i personaggi rivivono esperienze di disgusto capaci di oltrepassare la pagina e arrivare dritta a noi che leggiamo.
In molti di questi racconti, la famiglia appare come il generatore di queste tragedie e la preadolescenza è rappresentata come una via crucis penosa, dolorosa e obbligata, da cui i personaggi non potranno uscirne indenni.
I titoli sono formati, tutti e tredici, da un’unica parola, evocativa. Il racconto che apre la raccolta è quello che è stato più apprezzato dalla critica statunitense. Si intitola Asta e racconta di una particolare tradizione sudamericana legata ai combattimenti dei galli. Il ricordo della protagonista si focalizza su suo padre, sulle corse a cui la lasciava partecipare pur bambina, alla crudeltà di sottoporla alla tortura della morte: «Toccava a me raccogliere la palla di piume e interiora e portarla al cassonetto della spazzatura». Le lacrime delle prime volte e le parole di suo padre: «Su non fare la femminuccia. Sono galli, cazzo». L’odore disgustoso di morte torna e collega l’evento presente. La protagonista si ritrova legata e bendata in un luogo sconosciuto. Rapita da una banda di uomini disposti a tutto pur di vendere i loro prodotti: gli umani sequestrati.
Il racconto si focalizza sull’evento e toglie il fiato per la crudeltà con la quale vengono descritte le angherie subite dai prigionieri, degno di un film splatter.
E come nei migliori film horror, la presenza dei gemelli emerge nei racconti successivi: in Mostri, la serva Narcisa mette in guardia le due dodicenni: «bisogna avere paura più dei vivi che dei morti». Nella loro pubertà le due ragazzine guardano film horror di nascosto dai genitori e giocano con le loro bambole all’esorcista. Non sanno però che la loro fantasia non ha ancora superato la realtà brutale che si nasconde nella loro casa. La figura del padre emerge fin da subito come il tipico patriarca a cui tutto è concesso.
In Griselda, emerge la solitudine procurata dalla violenza domestica subita ai danni dell’anziana del quartiere, famosa per le sue torte di compleanno. Raccontata dagli occhi di una bambina di undici anni; la storia di Griselda assume i toni di una delusione infantile e ciò che accade alla donna non ha importanza in un contesto comunitario in cui l’eccezione diventa la norma.
L’anno dei miei undici anni non ebbi la torta. Dopo quella faccenda, la mia mami non volle ordinarla alla signora Griselda, perciò mangiammo un triste pan di spagna coperto di meringa bianca, confettini e una candela a forma di numero undici. (da Griselda)
Le coppie di gemelli in fase preadolescenziale continuano a costellare i racconti in Nam, come in Creature, compare l’infatuazione, il sesso – in un contesto domestico turbato da genitori dal passato incrinato dalla guerra o dalla malattia mentale e con un futuro incerto – e l’amicizia.
Con lei rido come se a casa mia non succedesse nulla, come se mio padre mi volesse bene come un padre. Rido come se non fossi io, ma una ragazza che dorme felice.
Rido come se non esistesse la crudeltà. (da Nam)
I padri sono violenti, le madri assenti. Questo è un mood costante, perpetuo, in cui ci abituiamo a vivere la lettura di queste storie fino a Persiane, racconto affidato a Felipe, prima voce maschile narrante, che ci racconta la sua giovane esistenza tra le mura domestiche, dove le persiane vengono chiuse di giorno e aperte la notte.
«In questa casa in culo a questo paese in culo al mondo la vita era abbastanza bella. Qui siamo cresciuti tutti e tre» dice Felipe ricordando i giorni in cui i suoi cugini passavano le estati lì. La figura della nonna, vecchia, temuta, ora immobile si mescolano ai ricordi di promesse materne mai mantenute. E nel caldo di una insopportabile estate, Felipe non vuole più restare dove «gli uomini non ci sono più» e lui l’uomo non vuole esserlo. Vorrebbe tornare nel passato dove i ricordi si fanno dolci. Ma la madre lo trattiene in un vortice di violenza inaspettata, proprio sul finale.
E di madri si parla anche in Cristo. Una ragazzina che guarda sua madre e la descrive come «un’altra bambina perduta in un mondo di bambine perdute». L’abbandono familiare, la vita difficile, due figli da mantenere, il mestiere di prostituta come unica via d’uscita dalla fame, la violenza subita «a te, creatura delle botte, figlia della brutalità, principessa delle notti che si concludono come le donne malconce», un uomo da amare nonostante la sua predisposizione alla violenza, la ragazzina costretta a occuparsi di un fratellino malato: tutto sbagliato.
In Passione, Ampuero ci regala un Cristo donna: una madre abbandona la sua bambina che poi crescerà sotto la cura dei suoi nonni. La gente del villaggio gli dice che sua madre è andata a cercare uomini. La bambina cresce e prende una decisione verso i suoi nonni. Diventa un essere vile finché non incontra un uomo che sarà la sua più grande rovina.
Quello che è stato, è stato. Quello che è, è. (da Lutto)
In Lutto è ancora l’aspetto religioso a essere rilevante. Due sorelle vivono sole, un fratello moribondo che abusava di una di loro, sole «senza un uomo in casa, e dovremmo tremare come cuccioli di una cagna morta». La fede diventa l’unico motore per andare avanti, nelle preghiere la volontà di restare sole. Le due Maddalene ci fanno immergere in un racconto surreale, forse l’unico che ricorda le intenzioni della seconda raccolta di racconti Sacrifici umani (che granvia ha pubblicato nel 2022).
In Ali, troviamo il bel racconto delle domestiche che descrivono la loro padrona, come «strana, perfino nella generosità». Ci addentriamo in riti domestici e abitudini consolidate fondati sulla violenza.
Sì. La signorina Ali era una bravissima madre, fino a un po’ prima della fine. Poi è andata fuori di testa e non ce la faceva più, non più. (da Ali)
Ali ha una madre che per eccesso di preoccupazione invade il suo spazio privato. Ali non parla più, così sua madre per farsi compagnia «si portava le amiche per non annoiarsi, anche se era chiaro che alla figlia non piaceva che venisse gente: «nascondeva la testa sotto il lenzuolo e restava così, come avvolta in un sudario».
Il divario di classe tra le ricche donne e le domestiche si trasforma nel racconto in un divario di sentimenti. L’empatia assente nella madre di Ali è invece forte nell’amore delle domestiche, ma nonostante questo la fine della donna pare segnata.
Così vanno le cose, no? Vediamo qualcuno e non sappiamo cos’è successo dietro la porta di casa sua. (da Ali)
Nel successivo Coro i ruoli si invertono e a parlare sono quelle ricche donne amiche della madre di Ali. Tutto assume i toni dell’ipocrisia, non c’è benevolenza ma soltanto pettegolezzo, perché «non dover parlare degli altri significa dover parlare di sé». Coro è il nome della domestica «nera, che lavora in casa, e magari ha un odore diverso perché loro hanno un odore diverso». Sul finire compare una piscina e il racconto successivo si chiama Cloro. Ambientato in un albergo, in una suite, una donna avanti negli anni dalla pelle bianca osserva gli inservienti neri che puliscono la piscina. Il confronto tra l’inutilità della sua vita e quella di quegli uomini destinati a essere dimenticati giunge a conclusioni sporcate di razzismo.
Giunti all’ultimo racconto Altra i toni chiaroscuri si allontanano dal Sudamerica per avvicinarsi a quelli al neon dei racconti americani statunitensi. Si svolge in un supermercato, una donna è lì per fare la spesa e acquistare quanto necessario al desiderio di suo marito.
Mangiare prodotti del supermercato prima di pagarli è una delle poche trasgressioni che ti concedi.
È l’unica che ti concedi.
(da Altra)
In Le bestie, non incontrerete trucchi letterari o parole inverosimili per addolcire la brutalità narrata. Qui dentro troverete morte, sangue, viscere, merda, sperma, sudore: violenza e terrore.
Un libro dell’orrore, dove la casa familiare, quello spazio che costruisce – o distrugge – le persone è una feroce prigione. Tutti gli orrori e le meraviglie racchiusi tra quelle mura: lo spavento e la gloria delle nostre vite quotidiane.