Ghiak. Racconti di sangue, di Dimosthenis Papamarkos

di Elisabetta Garieri

«Smirne sì che era una gran città. Altro che Atene e Salonicco. Le avevo viste tutte e due durante la guerra, ma città come Smirne, caro Gùssia, ce ne sono solo in America».

Una frase emblematica, questa, di ciò che rappresenta Ghiak - Racconti di sangue di Dimosthenis Papamarkos, il caso editoriale più significativo degli ultimi anni in Grecia, uscito a maggio per Crocetti editore, nella traduzione di Valentina Gilardi, dieci anni dopo la pubblicazione in lingua originale. Edito nel 2014 da Antipodes – casa editrice nata nello stesso anno che, dopo il successo iniziale dovuto a Ghiak, si è affermata come uno degli approdi più ambiti per chi scrive narrativa oggi in Grecia, nell’ambito della piccola e media editoria di qualità – e poi acquisito nel 2020 dal colosso Patakis, ha sperimentato un successo virale, passando da bestseller a longseller, è stato adattato per la radio e varie volte per il teatro.

È una frase emblematica perché colloca il libro in una zona apparentemente marginale della Grecia di oggi, per come la conoscono i più: la costa dell’odierna Turchia chiamata un tempo Asia Minore, o Anatolia, antistante le isole greche dell’Egeo. Questa zona ha infatti smesso di essere greca a seguito della pesante sconfitta subita contro i turchi in Asia Minore, nel 1922, culminata proprio con l’incendio di Smirne. Evento chiave della storia greca moderna, assieme al conseguente scambio forzato di popolazioni stabilito nel 1923 dal Trattato di Losanna, la cosiddetta Catastrofe stravolse il tessuto sociale e urbano della Grecia del tempo. Attorno a questa ferita della storia recente ruota Ghiak, il cui successo, incredibile e inatteso, è inedito per almeno due motivi.

Innanzitutto nelle nove storie che raccoglie, tutte in forma di monologo, a parlare in prima persona sono uomini della Ftiotide (antica Locride Opunzia, di fronte all’isola Eubea), che hanno partecipato alla fallimentare campagna d’Asia Minore e che raccontano le atrocità di cui loro stessi sono stati protagonisti. Riconoscere le violenze perpetrate in quel contesto anche dai greci, a fronte di un discorso comunemente incentrato, a tal proposito, sulla furia distruttrice dell’esercito turco, non è una novità assoluta, nella letteratura greca sulla Catastrofe. Se infatti gli autori del periodo tra le due guerre (cfr. in italiano, Ilias Venezis, Il numero 31328, tr. Francesco Colafemmina, Edizioni Medhelan e Stratìs Dukas, Storia di un prigioniero, tr. Francesco Scalora, Edizioni Aiora) «hanno vissuto gli eventi da vicino, trasmettono il sentimento di sconfitta e il vissuto di rifugiati, impiegano la memoria per mettere in risalto la nostalgia per le patrie perdute», come scrive il critico Ghiorgos Perandonakis sulla rivista online “Bookpress”, sulla scia della Megali Idea, ormai naufragata per sempre, l’approccio cambia nei primi decenni del secondo dopoguerra, quando «la distanza cronologica e l’influenza del pensiero di sinistra spingono gli autori a mettere in evidenza la convivenza pacifica che esisteva tra greci e turchi prima della guerra e a sottolineare le responsabilità delle grandi potenze nel fomentare il conflitto», (cfr. in italiano Didò Sotiriou, Addio Anatolia, tr. Maurizio De Rosa, Crocetti editore) scrive sempre Perandonakis. Per la prima volta, però, il punto di vista dei greci come attori di violenze assume un ruolo centrale.

In secondo luogo i narratori sono della Ftiotide ma sono anche greci arvaniti, appartengono cioè a una popolazione di origine albanese, presente in varie zone della Grecia, che ha una propria lingua, un po’ come la comunità arbëreshë in Italia. Ghiak è dunque scritto in una lingua orale, dal registro informale e un po’ antiquato, che è un impasto di parlata locale della Ftiotide, nello specifico di Malessina, paese di origine dell’autore, e di parole o frasi in lingua arvanitica, come il titolo stesso, che significa sangue, parentela, vendetta, razza. Questo aspetto, molto difficile da rendere in traduzione, traspare in parte nella bella versione italiana, quasi fin troppo elegante.

Nemmeno un libro scritto in lingua regionale è una novità assoluta nella letteratura greca contemporanea: già nel 1987 uscì la raccolta di racconti Ntiálith'im, Christákī di Sotiris Dimitriou, che usa il dialetto epirota, con qualche elemento in lingua arvanitica –  come il titolo, che è il verso di una canzone popolare. Per la prima volta, però, un libro tutto scritto in una lingua locale, e dal registro spiccatamente informale, ha un successo così dirompente. La rilevanza di Ghiak, in questo senso, è anche quella di essere stato all’origine di una vera e propria tendenza del panorama letterario contemporaneo, inaugurando un clima da «ritorno alle radici», con le parole di M. Hulot, direttore della testata online “Lifo”. Tra i detrattori di questa tendenza, qualcuno, come la critica Lina Pantaleon sulla rivista “O Anagnostis”, l’ha addirittura definito «l’origine del male», sostenendo che ormai la letteratura sia troppo schiacciata sulla forma a discapito dei contenuti – cosa che senz’altro stupisce, in Italia, dove il dibattito spesso si esprime in termini diametralmente opposti. Interpellato a più riprese in proposito, Papamarkos ha sempre risposto che la voce che si sceglie di dare ai propri personaggi deve essere al servizio dell’opera letteraria, e degli scopi che ci si pone con essa, e non un fine in sé. In ogni caso, dal 2014 a oggi, dall’Epiro a Cipro, i libri che fanno uso di parlate locali non si contano e questa tendenza continua a fiorire, tanto che un altro best-seller, del 2021, Chàthike Velòni (alla lettera Un ago si è perso, con riferimento a un’espressione che riguarda qualcosa di insignificante) di Christos Armandos Ghezos, è scritto per un terzo nel dialetto del nord dell’Epiro parlato nei paesi grecofoni albanesi.

Al di là delle questioni legate allo spazio letterario greco, però, il successo di Ghiak si deve alla sua potenza narrativa – amplificata dal ritmo ammaliante e dal tono vivo e crudo della lingua – e alla capacità di dare respiro universale a vicende storiche specifiche, raccontate per di più dal punto di vista di una minoranza. Quanto all’aspetto formale, ciascun monologo si presenta come lo stralcio di una conversazione iniziata prima del racconto e destinata a continuare dopo la sua fine, e comincia con un’allocuzione del narratore al suo interlocutore, che non prende mai davvero la parola. Quella dello pseudodialogo, o monologo con interlocutore muto, è una tradizione  lunga e luminosa nella letteratura greca moderna, che ha le sue origini nei monologhi della tragedia antica e la sua punta di diamante nella Quarta dimensione di Ghiannis Ritsos.

I nove narratori, tornati a casa, a distanza di anni, raccontano episodi di sangue di cui sono stati protagonisti nella campagna microasiatica, che però si intrecciano quasi sempre con vicende della vita locale e familiare, costellata di violenze. Le violenze che i protagonisti hanno perpetrato durante la guerra si fanno così specchio di un male tutto endogeno alla loro comunità di appartenenza, che è regolata dal Kanoùn, il diritto consuetudinario albanese, sulle cui specificità l’autore si sofferma nella nota che accompagna il testo. Da questi racconti emana allora la sensazione destabilizzante che non ci sia soluzione di continuità tra guerra e non guerra; e che la guerra non faccia altro che esacerbare i comportamenti promossi dagli usi ancestrali di una comunità fondata sulla vendetta. 

Nessuno ti racconterà quello che ha fatto laggiù ma, Andonis, abbiamo disimparato a essere uomini

 dice il narratore del primo racconto, Do t’ a pres kotsìdete (Ti taglierò le trecce). Oltre a come e perché si manifesta il male, un’altra delle domande che il libro sottende infatti è: come si diventa uomini? Tanto da poterlo leggere anche come una radiografia della mascolinità alla luce della violenza patriarcale, di cui le prime vittime sono proprio i maschi: i nove monologhi appaiono accorate grida di disperazione per la morsa di un sistema di credenze e tradizioni che a loro non sembra lasciare vie di scampo. Per di più, si tratta di un sistema a suo modo aleatorio:

Ti ricordi che un tempo non ci davano neanche una moglie se non rubavamo,
e adesso fai il finimondo per niente?

Anche il dialogo con le figure della tradizione ha la funzione di incarnare la condanna di un destino apparentemente ineluttabile: in Tararoura, l’incontro notturno con la creatura soprannaturale che il protagonista chiama vampiro, dalla faccia di cane e le corna di capra, è lo spettro della violenza che lo attende in guerra. L’unica eccezione a questo destino sembra essere la bellissima Ballata popolare, tradotta magistralmente. Scritta in versi decapentasillabi come il corrispondente genere di canto popolare, alla stregua di quest’ultimo riprende motivi della mitologia antica e della fiaba tradizionale, mettendo in scena l’incontro di Caronte, il «Sire tenebroso», con una giovane ragazza, la quale osa sfidarlo perché le ha ucciso il marito, riuscendo infine a farlo scappare: l’unica speranza di salvezza è riposta in una donna, più libera, in fondo, dalle costrizioni di un codice che pure subisce?