Guardare gialli con mia madre, di Ben Marcus

Prosegue la nostra rassegna Storie senza scadenza, in cui proponiamo racconti, e quindi libri, non più freschi di pubblicazioni, nella assoluta convinzione che i libri non abbiano scadenza e che hanno bisogno di tempi più lenti e duraturi di fruizione, proposta e vita nel sistema editoriale.

Questo venerdì vi proponiamo con Black Coffee il racconto ‘Guardare gialli con mia madre’ di Ben Marcus, tratto dalla raccolta del 2019 Via dal mare e tradotta da Sara Reggiani.

Buone letture!

GUARDARE GIALLI CON MIA MADRE
di Ben Marcus

Non credo che mia madre morirà oggi. È già tarda sera. Dovrebbe morire entro quarantacinque minuti, e non mi sembra probabile. L’ho appena vista a cena. Abbiamo ordinato da asporto e guardato un giallo sulla pbs. Mi ha dato il bacio della buonanotte e ho chiamato un taxi per tornare a casa. Perché muoia, la situazione dovrebbe subire una brusca svolta.
Mia madre ha la sua bella dose di problemi di salute. Vive da sola, e questo aumenta le probabilità di morte. Potrei essere svegliato da una telefonata e scoprire che è deceduta poco dopo che l’ho salutata. Siccome la giornata è ormai finita, vorrei poter dire che le probabilità che muoia oggi sono basse. Deve soltanto sopravvivere, a casa, nel suo letto, per un’altra oretta scarsa, e avrà superato l’ostacolo dimostrando che avevo ragione. Ma non ne so abbastanza, di probabilità. Mi sembra di intuire che una caratteristica insita alla morte – la morte di una donna anziana sola nel proprio appartamento – sia la totale estraneità a concetti umani quali appunto la prevedibilità. Non è insolito sentir dire di qualcuno che ha disatteso le previsioni. Ma allora forse, chiunque fosse questo qualcuno – si presume una persona intelligente – avrebbe dovuto tenere conto sin dall’inizio dell’eventualità di disattenderle e modificarle di conseguenza. Chi è abituato a fare previsioni non può ignorare che spesso vengono disattese. La cosa deve procurargli non poche seccature. E poi le modificherebbe, le sue previsioni, per renderle più accurate? Non so. Le previsioni dovrebbero essere previsioni, e per giunta non dovrebbero mai essere disattese. Perché altrimenti non sarebbero corrette, e andrebbero cambiate.
Se mia madre sapesse che – per non morire oggi – le basterebbe sopravvivere per meno di un’ora, le probabilità che resti viva aumenterebbero? Se ora le telefonassi e la tenessi in linea per non farla morire oggi, le probabilità cambierebbero? In altre parole, le nostre probabilità di sopravvivere aumentano nella misura in cui ci impegniamo attivamente a vivere? Mi sembra improbabile, così come il fatto che mia madre risponda al telefono a quest’ora. Sarà stanca. Era stanca già a cena. Si è addormentata mentre guardavamo il giallo. Degli anziani solitamente si dice che si appisolano. Mia madre si è appisolata. Le ho fatto la cortesia di fingere di non accorgermene, invece l’ho guardata dormire sotto la coperta sulla sua sedia reclinabile preferita. Ho notato che non le si muovono più i capelli, a prescindere dalla posizione in cui si trova. A un certo punto durante l’episodio si è svegliata e sembrava aver afferrato la trama più di me. È possibile che l’avesse già visto. Quelli che lavorano nelle cucine dei castelli inglesi, almeno negli sceneggiati che guardiamo io e mia madre, sono molto più scaltri dei loro datori di lavoro. Le cucine sono vasti antri di pietra con meravigliose pentole che pendono dai ganci. A volte il divario tra l’intelligenza del padrone e del servitore è abissale, fatto su cui mia madre si basa per proporre soluzioni al mistero.
Lo so che sono storie inventate, ovviamente, ma so anche che chi se le inventa è irrimediabilmente ispirato da ciò che ha visto e sentito. Per quanto sogni di uscirsene con una trovata originale, di creare dal nulla un mondo vittoriano nuovo di zecca, un teatro di futili crimini domestici, non ci riesce. È legato, volente o nolente, a ciò che è già successo, a ciò che è già stato fatto e pensato. Nel nostro caso, alla premessa che la classe operaia consista di geni assoluti se messi a confronto con gli individui ottusi, avari e pingui che li comandano. Il successo del programma dipende da questo. Io dipendo da questo. Mia madre dipende da questo. Anche se le capita di addormentarsi mentre lo guarda nel suo soggiorno.
La gente è riluttante ad ammettere di essersi addormentata, in particolare, se non esclusivamente, se questo è accaduto in presenza di testimoni. Anche quando negare non ha senso, loro negano. È una questione di orgoglio, forse. Per questo non ho mai messo mia madre di fronte al fatto di aver dormito per tutto il secondo atto, nonostante l’abbia guardata dormire più di quanto non abbia guardato lo sceneggiato. Perché molestarla con la verità? Ci provo a non guardarla mentre è appisolata, faccio del mio meglio. Mi sembra poco educato. Ma a volte non resisto. Quando è sveglia non ce la faccio a guardarla con altrettanta attenzione, e per un periodo così prolungato di tempo. Se è da maleducati fissare qualcuno mentre dorme, lo è ancor di più farlo quando è sveglio e consapevole di essere oggetto di scrutinio. Fissare a lungo una persona sveglia non è solo da maleducati, ma addirittura impossibile. C’è un codice di comportamento che lo impedisce. Non mi sognerei mai di seguire mia madre guardandola fisso. In generale sono consapevole di cosa non stia bene fare.
Il crimine però resta lo stesso: fissare un’altra persona. Che dorma o sia sveglia non dovrebbe importare, ma è evidente che farlo quando è sveglia costituisca un’aggravante. Se nella stanza, oltre a mia madre che dorme e io che la guardo, ci fosse una terza persona – no, non mio padre, per carità – e questa terza persona vedesse che guardo la mamma addormentata, la mia trasgressione sarebbe doppiamente grave?
Non so.
Quando penso che a volte mia madre si scorda di prendere le medicine, di mangiare qualcosa che non sia solo una fetta di torta di riso, di bere acqua, mi viene spontaneo chiedermi quanti anni ancora potrebbe vivere se solo s’impegnasse. I servitori di cucina, soprattutto gli sciroccati che nel primo atto sembrano solo degli idioti, finiscono sempre per rivelarsi i più subdoli. Alla larga dagli stupidi!, esclama la mamma ogni volta che guardiamo un sceneggiato del genere, e sorride agitandomi un dito davanti.
Provo a invogliarla a bere dell’acqua, ma risponde che ha un saporaccio. Anche se mi vede prenderla dal rubinetto, dice che le sembra di bere la risciacquatura dei denti di qualcuno. Sa della bocca di uno sconosciuto, urla, come se al contrario bere acqua che sa della bocca di qualcuno che conosce fosse accettabile. La volontà personale non può – può? – influire su quando si morirà, a meno che non si decida di morire, il che è tutto un altro paio di maniche. Se la volontà avesse un ruolo fondamentale, se cioè si potesse vivere più a lungo per scelta, la morte subirebbe una mutazione strutturale, e la gente inizierebbe a esercitare questo potere in maniera distruttiva, vivrebbe così a lungo da creare disagio alla famiglia. Non oso immaginare un mondo in cui le persone hanno il potere di posticipare la propria morte.
D’altro canto esiste un’intera schiera di persone che nel corso della storia hanno lottato per la propria vita senza muovere un muscolo. Di un infermo allettato e tenuto in vita da sacche e tubicini in una stanza d’ospedale, si dice che è un guerriero. A occhio nudo però non si rileva alcuna attività. In situazioni simili si parla di volontà di vivere. I famigliari, riuniti al capezzale dell’infermo, la avvertono e, quando l’infermo muore, si dice che ha lottato con tutte le sue forze. Che era un guerriero. Che alla malattia ha dato del filo da torcere. Situazioni come queste mi hanno sempre dato da pensare, non solo stasera mentre sto qui a interrogarmi sulla volontà di mia madre di vivere almeno fino a domani – a prescindere dal fatto che, come già discusso, questa volontà giochi un qualche ruolo nella faccenda.
Se fossi io il paziente allettato e qualcuno, perfino un estraneo, mi esortasse a lottare per la mia vita, saprei come farlo? Semplicemente non è chiaro, non lo è mai stato, come per l’esattezza si possa lottare per la propria vita non disponendo di strumenti, né di armi, né di una preparazione, né di qualsivoglia nozione.
Nemmeno i medici che se ne stanno lì a guardarmi morire mi dicono niente su cosa fare ora, in questo momento, per prolungare la mia vita e non soccombere a ciò che la minaccia. Perché mi tengono all’oscuro? Un estraneo potrebbe farmi coraggio, spronarmi a trovare dentro di me l’energia necessaria e combattere – e dico estraneo perché non sono sposato, e mio fratello e mia sorella sono morti. Avrei necessariamente un estraneo al mio capezzale. O nessuno. Più probabile nessuno. Perché un estraneo dovrebbe indugiare davanti alla mia stanza, avvicinarsi al letto ed esortarmi a vivere? Che razza di estraneo farebbe una cosa del genere? E se anche la risposta fosse un bravo estraneo, allora dovrei chiedermi se sia mio dovere, non stasera, stasera ho da fare, ma prima o poi, entrare in un ospedale di notte e individuare un paziente solo nella sua stanza, preferibilmente un moribondo, e incoraggiarlo a combattere, e con tutte le forze per giunta? Dovrei impegnarmi per essere un bravo estraneo, ho capito bene?
Se potesse, mia madre starebbe al mio capezzale, e con ogni probabilità mi istigherebbe a lottare per la vita, nonostante trovi difficile immaginarla impartire un simile comando senza scoppiare a ridere. È sua dichiarata convinzione che molto di ciò che sappiamo, diciamo e proviamo sia ridicolo. Tendo a pensare che quando verrò incoraggiato a lottare per la vita su un letto d’ospedale, lei sarà morta. Avrà già lottato per la sua, di vita, e avrà perso. Ora però che è lei quella in punto di morte, anche se non oggi, non credo, no, ho paura che anche mia madre brancolerebbe nel buio. Posto che sia stata una calamità a condurla in ospedale, se le chiedessi di lottare per la vita è probabile che acconsentirebbe con educazione, potendo parlare, ma dentro di sé sarebbe costretta ad ammettere di non essere in grado di imbarcarsi in una tale impresa. Non è un tipo pratico. Lo stesso vale per il resto della famiglia. Nessuno di noi possiede la capacità di lottare per la propria vita. Cadiamo come mosche, uno dopo l’altro. Se l’intera popolazione mondiale venisse classificata in base alla capacità di lottare per la propria vita, la mia famiglia non sarebbe in una buona posizione.
Tenendole la mano, chiederò a mia madre di resistere. Lei vorrà accontentarmi, lo fa da sempre, e accetterà di lottare per farmi felice, ma quando si tratterà di scendere in campo non saprà che pesci pigliare. Ha vissuto una vita intera senza avere alcun controllo su ciò che avveniva dentro il suo corpo, il sangue, le cellule, le ossa, per non parlare degli organi, dei nervi. Per ottantasei anni di illustre indifferenza ha permesso alle proprie interiora di farsi i fatti propri, e all’improvviso le viene chiesto di dedicare cura e attenzione al corpo affinché questo non perisca. Come si può pretendere tanto da una donna così vecchia e fragile?
Nei documentari sulla natura la questione è chiara. Quando sentono che la loro vita è in pericolo, gli animali reagiscono infilandosi fra l’erba più veloci del vento, a volte cagandosi sotto dalla paura, oppure si voltano preparandosi ad affrontare la minaccia. Quando lottano per la vita si vede a occhio nudo, mentre agli uomini è richiesto di farlo da fermi, senza mostrare il minimo sforzo. È una lotta che si conduce esclusivamente all’interno e che nemmeno i macchinari dell’ospedale riescono a rilevare.
La domestica del retrocucina spesso ha un confidente. Questo confidente può essere un bellissimo giovane omosessuale con qualche trucchetto cui fare ricorso, qualcuno che ha accesso ai segreti della danarosa famiglia per cui lavora ma che allo stesso tempo le è troppo fedele per tradirla.
Temo di sbagliarmi terribilmente a pensare che mia madre non morirà oggi.
Uno che avrebbe senz’altro qualcosa da dire sulla questione delle probabilità è mio padre. Di mestiere faceva lo statistico. Probabilista, è il termine ufficiale. Il calcolo delle probabilità che mia madre muoia oggi sarebbe una passeggiata per lui e i suoi colleghi, in gran parte provenienti dall’India, un Paese fertile per i matematici, come mi è più volte capitato di sentir dire a mio padre. O magari solo per i probabilisti. Mio padre è mancato, perciò non ha più modo di affrontare l’argomento, e non posso fare riferimento alle sue pubblicazioni, alcune delle quali ho proprio qui con me, perché non vertono su circostanze elementari come questa.
Le probabilità che mia madre muoia aumentano di attimo in attimo. Mai come adesso che se ne sta lì, sdraiata nel suo letto, ha corso un pericolo maggiore. Perciò mi dico che dopotutto non posso essere tanto sicuro che oggi non muoia. Non che sia più particolarmente sicuro di niente ormai, non fosse altro perché le probabilità che muoia in questo momento non sono mai state così alte. E questa affermazione, ogni volta che la pronuncerò, sarà valida per il resto della sua vita. Anzi varrà anche se non la pronuncerò. Anche se non lo formulerò, questo pensiero – che il pericolo che sta affrontando è più grande che mai – varrà, il che mi induce a sospettare che esistano molti altri pensieri che non ho avuto, alcuni dei quali erano veri. Molti, davvero. Contarli sarebbe impossibile. Sono sicuro che alcuni di questi pensieri che non ho mai concepito abbiano il loro peso sulla questione della vita e della morte di mia madre. Di quei molti pensieri che non ho pensato, e tra loro in particolare quelli che sono anche veri, quali, se solo potessi pensarli ora, mi rivelerebbero di più su mia madre e sulle sue probabilità di sopravvivere a oggi?
E se non posso più nemmeno permettermi di pensare che mia madre non morirà oggi, farei meglio a tornare subito da lei così da poter godere degli ultimi istanti in sua compagnia.
Vedete, il mio obiettivo è fare la cosa giusta nel rispetto di mia madre e dei suoi ultimi istanti di vita.
Devo riflettere più attentamente, però. In base a questo ragionamento non sarò più capace di separarmi da lei, perché ogni volta lo farei nel momento di maggiore bisogno, quando cioè è più probabile che mai che venga a mancare. Ammesso che mia madre superi la notte, la cosa varrà ogni volta che la rivedrò. Le augurerò la buonanotte, le dirò di stare in gamba, e poi la lascerò sapendo che le sue probabilità di morire crescono a ogni mio passo mentre abbandono l’edificio, saluto il portinaio con un cenno del capo e attraverso il silenzio del vicolo laterale per uscire nel viale trafficato in cui si fermano i taxi. Sarà dura in frangenti simili non domandarsi che razza di figlio abbandona la madre quando è più in pericolo di morire. Chi lo farebbe mai? Chi avrebbe il coraggio di salutare con un bacio la madre, la propria madre, sulla soglia di casa pur sapendo che per tutto il tempo non ha mai corso un pericolo maggiore?
Io, a quanto pare. L’ho fatto ogni volta che l’ho lasciata. E se dovesse superare la notte lo rifarei, me ne andrei di nuovo pur essendo consapevole che, se ieri il pericolo che morisse era alto, oggi lo è ancor di più. E aumenta via via che ne parliamo, e ciononostante dovrei salutarla come se non m’importasse di saperla in crescente pericolo di vita.
Lo facevo anche da bambino. La salutavo e me ne andavo a scuola. La salutavo e me ne andavo in campeggio. La salutavo il sabato mattina per tornare chissà quando. Tutte le volte la lasciavo agonizzante. Sulla porta, in cucina, in soggiorno, in giardino. Ogni tanto anche quando era a letto ammalata, la salutavo da in fondo alle scale proprio mentre le sue probabilità di sopravvivenza erano al minimo storico. L’ho salutata e sono andato al college quando era più probabile che morisse. E quando tornavo, non passava mai troppo tempo prima che ripartissi, lasciandola lì, a morire. Perfino stasera, dopo aver guardato il giallo sulla pbs, le ho augurato la buonanotte e l’ho lasciata nella sua casa in punto di morte.
Si dice «avere un piede nella fossa», ma non si fa mai parola di metterci anche l’altro piede, poi tutte e due le gambe, poi il busto intero, le braccia, la testa, in questa fossa, nella bara, che poi qualcuno ricoprirà di terra sulla quale pianterà una piccola lastra di pietra.
Il castello è sempre il medesimo. Cambia l’intrigo, cambiano l’esecuzione, gli attori, l’epoca storica, ma il castello è sempre lo stesso. Dev’essere stato comprato a quello scopo e messo a disposizione di chiunque volesse girare un film giallo in stile britannico. Un tempo era abitato da persone vere con vite vere, proprio come noi che, vivendo nelle nostre case, ci consideriamo persone vere con vite vere. E se pensassimo che un giorno le nostre case, come quel castello, saranno usate per girare sceneggiati televisivi su persone molto simili a noi, allora potremmo intravedere il destino cui le nostre case vanno incontro, un destino popolato di persone assunte per interpretare noi che vanno in giro recitandosi battute a vicenda, mentre fuori dall’inquadratura donne e uomini contemporanei, con punti di vista aggiornati sulla vita, divorano varietà inimmaginabili di snack e ridono di quei miopi sempliciotti del passato, che poi saremmo noi.
Non è fuori luogo credere che in un simile contesto, a molti anni da ora, un’anziana signora e il suo unico figlio si siederanno a guardare questo sceneggiato televisivo, o qualunque cosa sarà diventato, mentre si godono la cena senza dirsi un granché, e che in seguito lei si addormenterà e lui continuerà a guardare, in attesa che la madre si svegli e pronunci una dichiarazione illuminante.
Sono tentato di dire che ben mi starebbe, se mia madre morisse oggi. Perché da quando ho iniziato a muovere i primi passi l’ho cronicamente abbandonata, e ogni volta nel momento di massimo pericolo. Me lo meriterei. Che morisse oggi sarebbe appropriato. Un giusto castigo. In ogni caso, quando ci rifletto e capisco che se mia madre morisse oggi me lo meriterei, mi balena in testa il pensiero che allora la sua morte diventerebbe contingente al modo in cui mi sono o non mi sono comportato. La sua morte sarebbe una forma di riscatto per il mio comportamento. La mamma non potrebbe morire a meno che io non me lo meriti completamente, anche se, considerato che me lo merito da un pezzo, pressappoco da subito dopo la mia nascita, mia madre ha avuto a disposizione tanto tempo per morire e io per dimostrarmi meritevole di questo.
A questo punto non posso non chiedermi se al mondo esista qualcuno che si meriterebbe che morissi io. Se, per esempio, la morte di una persona fosse una misura punitiva nei confronti di un’altra, cosa che di certo penserei della morte di mia madre, qualora accadesse oggi, su chi ricadrebbe il giusto castigo quando morirò io? Esiste forse per ognuno di noi un capro espiatorio che pagherà il prezzo della nostra morte?
Be’, è ovvio che non tutte le morti fungano da punizione, sebbene si tratti di una teoria affascinante. Tante di quelle cose si spiegherebbero all’improvviso. Ciononostante alcune morti – la mia, per esempio – potrebbero essere indipendenti dalle circostanze, non concepite come castighi o ammonimenti per qualcun altro su questa Terra. Decessi che non hanno lo scopo di innescare il senso di colpa in nessuno. Decessi che forse non hanno lo scopo di suscitare alcun sentimento. Eventi autoconclusivi e senza impatto. L’ecologia della morte in questo senso dovrebbe certamente tenere conto del principio della varietà. Che poi con che diritto dico certamente, non ho alcuna autorità in materia. Ed esiste la vaga possibilità che la persona per cui il mio decesso, quando sarà, rappresenterà un giusto castigo, non venga mai a sapere che sono morto, così come potrebbe non sapere mai che le sta bene o che se l’è meritato. Questa persona potrebbe trovarsi all’altro capo del mondo, senza accesso ai mezzi di informazione che potrebbero avvertirla della mia dipartita, sempre ammesso che se ne parli. Potrebbe arrivare alla fine dei suoi giorni senza avere la più pallida idea che sono morto, evitando così per l’eternità il giusto castigo.
Dopo essere stato dipinto per decenni come l’incarnazione della malvagità, il maggiordomo è diventato un tipo mite. Adesso è sempre, incondizionatamente, gentile, con chiunque. «È stato il maggiordomo» recita l’adagio, ed è questo, forse, a garantire che qui, negli sceneggiati della pbs che guardiamo io e mia madre, il colpevole non sia mai lui. È troppo buono per essere lui. D’altro canto, tale assoluta innocenza recentemente accordata al maggiordomo in produzioni come questa suggerisce che, non ora ma presto, il cattivo tornerà a essere lui. Mia madre una volta mi ha spiegato che la chiave di questi misteri, per come appaiono all’inizio, consiste nell’individuare il capro espiatorio più improbabile. Spesso quella persona si rivela il cattivo. Ha osservato che di tutte le scoperte che ha fatto nella vita, quella era fra le più tristi, perché da allora non si è più goduta niente. Arrivare a comprendere qualcosa, ha detto, è una tristezza. Tu non conoscevi bene tuo padre, ha detto, ma non era un uomo difficile da capire. E il problema era proprio quello. Una volta capito qualcuno, poi che cosa te ne fai?
Mio padre e i suoi colleghi indiani dovevano essere considerati, in quanto probabilisti, dei maestri delle statistiche, i più affidabili fra i calcolatori di probabilità. Non fossero morti sottoporrei le mie domande all’uno o all’altro, ma siccome sono morti, cosa possono saperne ormai di probabilità? Saranno morti anche i probabilisti indiani, oltre a mio padre? Ad ogni modo, vivi o morti che siano, avranno per forza dei successori. Qualsiasi campo di ricerca genera successori che profanano e in seguito sviluppano il lavoro iniziato dai loro mentori, ed entro breve i mentori muoiono. A prescindere da quanto sia autorevole il mentore nel suo campo, c’è sempre un successore che attende in anticamera. Ci saranno altri probabilisti indiani, probabilmente ne arriveranno di nuovi ogni anno, un flusso di eredi che voleranno fin qui dall’India. Perfino mio padre avrà avuto un suo successore, una volta morto. Qualcuno è succeduto a mio padre, il Signore delle Probabilità, della cui arte non ho mai avuto modo di essere testimone. Mio padre deve averla tramandata all’erede, che ora la detiene. Se anche io e mia madre non conosciamo il nome di questa persona o dove si trovi, possiamo a buon diritto credere che in questo momento, da qualche parte nel mondo, si aggiri il successore di mio padre, qualcuno che custodisce ciò che prima custodiva lui. E quando mia madre morirà, non oggi, e quando anch’io alla fine morirò, questo successore di mio padre che non conosciamo sarà considerato un superstite della nostra famiglia? Il pensiero offre un barlume di conforto.
I medici che firmano le autopsie, bollando come sconosciuta la causa della morte, attribuiscono la loro temporanea ignoranza a lacune della scienza che un giorno verranno colmate. Presto o tardi tutte le cause di morte saranno note. Il problema è che noi viviamo tempi curiosi, in cui non si sa niente delle cose finché non accadono. Si suppone che da qui a qualche anno questo dover aspettare che qualcosa accada – come la morte di una madre per dire di averla conosciuta – sarà considerato un toccante limite del nostro attuale stile di vita. Nessuno riuscirà a immaginarsi così paziente ed educato come siamo noi ora, ansiosi di stabilire una distinzione fra le antiquate nozioni di prima e dopo. La gente si affezionerà a queste creature miti, che aspettavano la morte delle loro madri ed erano tutte vittime del tempo, ma si sentirà anche superiore, e alcuni azzarderanno la valida ipotesi che nella nostra ignoranza non fossimo poi così diversi dagli animali. Meritevoli di grande rispetto, ma pur sempre animali.
Se mia madre è morta oggi, non si saprà fino a domani, di questo sono quasi certo. Come minimo, domani. Perché si sappia oggi, qualcuno che non sia suo figlio dovrebbe di punto in bianco pensare, nel cuore della notte, di andare a suonare alla sua porta, e non vedendosi aprire, sentirsi in dovere di chiamare il padrone di casa e guadagnare l’accesso al suo appartamento. Tralasciando l’improbabilità della cosa, che mi sembra alta, ci vorrebbe del tempo. Il mattino potrebbe sorprendere questa persona prima che sia riuscita a mettersi in contatto con il padrone di casa, il quale potrebbe avere il telefono staccato. E se anche fosse raggiungibile, dubito che si presenterebbe di corsa, chiavi in mano, facendo sì che mia madre venga trovata oggi.
È sconcertante pensare che, mentre questi misteriosi intrighi vengono filmati, fuori dall’inquadratura uomini e donne si muovano con indosso abiti del loro tempo, ciascuno col proprio contemporaneo punto di vista sulla sessualità e sull’etica, e si portino la mano alla bocca per nascondere un sorriso di fronte a quel pietoso spettacolo di animali erranti.
Anche se il padrone di casa rispondesse al primo squillo. Potrebbero esserci benissimo altre spiegazioni sul perché nessuno abbia aperto la porta, e il padrone dovrebbe tenerne conto. Spesso si scopre che una giovane donna appartenente alla facoltosa famiglia, e dotata di una bellezza quasi insostenibile, è in combutta con i servitori.
È notte fonda, tutti dormono. I vecchi si coricano presto. Se mia madre è andata a letto, cosa che mi auguro, e si è addormentata, cosa che mi auguro altrettanto, non può sentire il campanello.
La giovane è l’unica in grado di stimolare in chi guarda una sorta di empatia per le classi abbienti, a suggerire cioè che non tutti i ricchi di una volta erano malvagi.
Il padrone di casa insisterebbe sempre sullo stesso punto, sarebbe recalcitrante a servirsi della chiave per entrare nell’appartamento di mia madre. Vorrebbe prima avere le prove che qualcosa, di fatto, è successo. La preoccupazione di un vicino non costituisce una prova. Del sangue che esce da sotto la porta sarebbe una prova. Ma se anche mia madre fosse morta, è improbabile che si vedrebbe del sangue. Trovare delle prove non sarebbe semplice.
A un certo punto arriva sempre un agente di polizia, ma non è mai l’agente di polizia a risolvere il caso. Niente corpo, niente reato!, urla a volte mia madre dalla sua poltrona.
Il padrone di casa avrebbe motivo di interrogarsi sul perché un vicino abbia deciso, nel cuore della notte, di andare a suonare il campanello di una donna anziana pretendendo di entrare in casa. I vicini non fanno così.
Esiste una gerarchia fra gli addetti all’apertura della porta, un compito che solitamente viene lasciato al valletto. Il padrone di casa insisterebbe per aspettare fino al mattino, facendo in modo, quindi, che nonostante mia madre sia morta oggi, il corpo non venga trovato prima di domani.
Se d’altro canto il decesso di mia madre producesse rumore, se morendo facesse baccano e i vicini lo sentissero, è probabile che la raggiungerebbero in tempo, non necessariamente per salvarla, ma almeno per scoprire che è morta oggi. Trovarla oggi lascerebbe ben poche sorprese al domani. Ci sarebbe la mia, di sorpresa, nel momento in cui dovessi ricevere la fatidica telefonata che m’informa dell’infausto evento di cui la casa di mia madre è stata teatro. Molti avrebbero saputo della morte di mia madre prima di me, e questo pensiero non mi va giù. Vorrei essere io il primo a saperlo, che poi è la spiegazione che forniscono sempre gli assassini: vogliono essere i primi testimoni di un evento importante, e l’unico modo per mettersi in quella posizione è diventare loro stessi la causa che ha provocato tale evento, così uccidono una persona e, di conseguenza, apprendono la notizia prima di chiunque altro. Rispetto a questo, però, il mio movente è tutt’altro. Per alcune di queste persone la morte di mia madre sarebbe ormai storia vecchia quando finalmente ne venissi a conoscenza anch’io. Nel frattempo potrebbero essere morti altri abitanti della zona, che rimpiazzerebbero mia madre nei pensieri altrui. Nel grande spettacolo del mondo molte migliaia di persone potrebbero morire dopo mia madre, ma ben prima che io abbia appreso la notizia. Se cadendo dalle scale avesse urlato. Se fosse crollata a causa di un’improvvisa insufficienza del sistema circolatorio. Forse, piuttosto che urlare, avrebbe avuto la forza di comporre un numero al telefono. Forse non aveva l’energia per urlare abbastanza forte da essere udita. Urlare implica uno sforzo muscolare non indifferente. Mi spaventa il pensiero che un giorno avrò più che mai bisogno di urlare e sarò troppo debole per farlo. Mi limiterò a produrre dei gemiti, a stento percettibili perfino da me stesso. Mettiamo che mia madre, strisciando sui gomiti, resa invalida dalla crisi del sistema circolatorio, raggiunga il telefono e componga un numero. Forse riuscirebbe a spiegarsi con calma, informando la persona in linea delle circostanze in cui si trova. I soccorsi verrebbero allertati, i soccorsi arriverebbero.
La questione della scoperta a questo punto si complica. Se, per esempio, mia madre riuscisse a illustrare la propria condizione clinica alla persona in linea per poi morire l’istante dopo, quell’informazione costituirebbe un valido indizio al fine di determinare a posteriori che la morte di mia madre è avvenuta oggi? Non credo. Credo semmai che la persona in linea si renderebbe conto che l’emergenza è scattata oggi, spingendo quindi mia madre a fare quella telefonata, ma a meno che la mamma non muoia mentre parlano, prima di mezzanotte, sarebbe impossibile stabilire, sulla base della suddetta informazione, l’ora esatta del decesso. E se anche morendo mia madre facesse cadere il telefono, la persona in linea, non potendo vederla, non avrebbe la prova definitiva che sia venuta a mancare all’improvviso durante la loro conversazione. Anzi, potrebbe benissimo dedurne che non poteva più parlare o fare rumori, o muoversi, dato che non sentirebbe proprio nulla se mia madre, contro ogni previsione, morisse oggi. Sentirebbe solo silenzio. Ma il silenzio non basta.
Se voglio che mia madre sopravviva, come continuo a ribadire, in modo tale che non venga trovata morta nel suo appartamento, non dovrei fornirle una compagnia? Se, in base alle statistiche, le persone che non abitano da sole vivono più a lungo e io non ho salvato mia madre da una vita di solitudine, l’ho forse spinta a morire prima, invece che dopo? Questo è un fattore su cui potrei avere il controllo. Sarei io a lottare per la sua vita, dato che, come è stato stabilito, lei non può farlo, e non può nessun altro della nostra famiglia, di cui noi due siamo gli unici superstiti. E se un compagno di vita aumenta le probabilità di sopravvivenza di entrambe le parti, due compagni di vita non regalerebbero a mia madre ancora più tempo per vivere? D’altro canto potrebbero verificarsi dei rendimenti decrescenti. Ma i rendimenti sono rendimenti, per quanto decrescenti, ed è ragionevole pensare che più persone abitano con mia madre, più a lungo lei vivrà. Da questo momento in poi il ragionamento s’incarta. Qual è il limite? Fino a che punto posso continuare a fornire dei compagni a mia madre, estendendo la sua vita oltre il normale corso delle cose tramite l’aggiunta di un individuo nuovo al giorno affinché non muoia mai? Il limite è dettato da questioni di logistica.
Una folla di accompagnatori andrebbe stipendiata e nutrita, bisognerebbe fornire a tutti un alloggio e in determinate occasioni, quando per esempio ci sono io a cena o a guardare la televisione, questa folla a un mio segnale dovrebbe dileguarsi, per permettermi di restare solo con mia madre e di godere della sua compagnia. Insieme passeremmo in rassegna i menù dei ristoranti da asporto, fingendo di essere indecisi fra gli antipasti di quello afgano e i deliziosi contorni del turco, per poi ricadere come sempre sull’italiano, che entrambi adoriamo, e ordinare la solita pasta, con qualche fettina di pane in più, e magari un’insalata da condividere. Se fossimo in vena di birichinate, potremmo trascinare degli sgabelli vicino alle poltrone, per mangiare guardando la tv, e così sentirci veramente birichini. Ma se, congedando la folla, restassi io come sua unica compagnia, la starei forse mettendo in pericolo attraverso un improvviso distacco dalle persone che le stanno salvando la vita? In pratica non sarebbe un altro modo di ucciderla, dove io sarei l’assassino? Prosperava grazie a un nutrito entourage di compagni estendi-vita, finché quell’egoista del figlio non li ha cacciati tutti, condannandola a morte in cambio di un momento privato – per lo più passato in silenzio – come tanti di cui ha avuto modo di usufruire. È suo figlio e la reclama per sé da una vita, anche quando il fratello e la sorella c’erano ancora, e c’era ancora il padre maestro di statistiche, che gareggiava con loro per aggiudicarsi un’attenzione che, come un cono di luce dorata, sua madre ha sempre tenuto puntata innanzitutto su suo figlio, sebbene quello non facesse altro che dirle addio, giorno dopo giorno. Immaginate tutti quei compagni che attendono fuori – bloccando il traffico, perché ha speso fino all’ultimo centesimo per assumerli e ora sono migliaia – e, radunati intorno alla finestra, spiano madre e figlio che mangiano davanti alla televisione, e nel mentre si domandano quale figlio lascerebbe così sola una madre. Che razza di figlio farebbe una cosa simile?
Si ha sempre un passato, e il passato ritorna sempre, rovinosamente. Il passato, nella mente della persona che l’ha avuto, è terribile e vergognoso, ma agli occhi di chi guarda la televisione il terribile passato che la persona ha avuto ispira soltanto tenerezza. Quella del figlio illegittimo è una delle figure più comuni negli sceneggiati trasmessi dalla pbs. Mia madre non gradisce l’argomento. Non le interessa. Una volta ha detto che tutti i figli sono illegittimi e io ho riso, ma lei mi ha fulminato con lo sguardo. I figli illegittimi diventano adulti illegittimi che poi muoiono e diventano cadaveri illegittimi, sepolti illegittimamente. A un certo punto si è addormentata e io ho appreso che la figlia illegittima, l’ereditiera, veniva relegata nel retrocucina della reggia della sua stessa ignara famiglia. Mia madre si è svegliata e ha dichiarato, con rabbia ingiustificata, che la ragazza era dunque la principale sospettata dell’episodio, e che sarebbe stata umiliata, abusata e di nuovo umiliata, ma che alla fine si sarebbe scoperto che non era stata lei. C’è sempre un primo sospettato, in seguito perdonato rapidamente. Oggigiorno sono molti i sospettati che si rivelano innocenti. È questo che devi mirare a essere, mi ha ammonito mia madre puntandomi un dito addosso. Il primo sospettato. Il primo sospettato non è mai il colpevole.
Se mia madre morisse oggi, morirebbe mentre scrivo. Fra una manciata d’anni qualcuno potrebbe chiedermi che cosa stessi facendo quando mia madre è morta, e io dovrei rispondere che mi trovavo a casa, scrivevo. Questo scenario prevede che un giorno incontrerò qualcuno che diventerà mio confidente, perché al momento nessuno nella mia vita si sognerebbe mai di farmi una simile domanda. Potrebbe farmela uno sconosciuto mosso da buone intenzioni? Dovrei incontrare una persona che, in fretta o lentamente – mi vanno bene entrambe – acquisisca una tale confidenza con me da pormi una domanda tanto personale. Magari questa persona, uomo o donna, sarà qualcuno con cui stabilirò un legame forte, anche se a quel punto sarò già vecchio e avrò ben poco da offrire in ambito sentimentale. Ci porremo domande a vicenda, seduti su divani, poltrone, panchine del parco, letti, sedili di auto, di autobus, o passeggiando nei campi, o almeno così me lo immagino, impazienti di superare le difese dell’altro, animati dalla speranza che quelle domande personali, e le loro risposte, lascino il posto col passare del tempo all’intimità, ma chiedendoci talvolta se è così che funziona davvero, se tutta quella fatica fatta per indurre qualcuno ad amarci non sia eccessiva.
Ad ogni modo, pare che non usi fare domande del genere quando muoiono dei cittadini qualunque. Solitamente si chiede cosa stessero facendo solo ai familiari di personalità celebri. Quindi forse posso contare sulla probabilità che – anche se in futuro dovessi trovarmi una compagna di vita, ipotesi che auspico – non mi venga domandato che cosa stavo facendo quando mia madre è morta. Nessuno dovrà saperlo, a meno che non sia io a dirglielo spontaneamente – probabile –, o che nel mio elogio funebre, che dovrò comunque sbrigarmi a scrivere, dichiarassi dove mi trovavo quando la mamma è mancata. Spesso è alla giovane scarmigliata, alla sempliciotta dall’accento marcato, che tocca la sorte più infame. Assiste il cuoco e il cuoco la maltratta. Tutti la maltrattano. Il suo stesso impiego è frutto di un atto di carità. È sottovalutata. Ma non da mia madre. All’inizio, alla comparsa dei titoli di testa, agitando l’indice ha detto, Occhio a quella!
Ciò che dirò, senza mentire, sarà che quando mia madre è morta io ero a casa che pensavo a lei, perché per scrivere di lei devo pensare a lei, quindi si può dire che lei è nei miei pensieri. Per aumentare le probabilità che questo resti vero, presumo che dovrei continuare a scrivere di lei, o se non altro a pensare a lei, senza sosta, per non rischiare di pensare ad altro e provocare così il suo improvviso decesso.
Se per esempio adesso mi alzassi dalla poltrona e mi distraessi andando al frigorifero, e decidessi che mi va un po’ di yogurt fresco, smettendo così di pensare a mia madre, correrei il rischio di farla morire, sola e abbandonata da tutti anche col pensiero, mentre il suo unico figlio pescava qualcosa da un vasetto aperto, con lo sguardo fisso nel nulla e la mente, per un attimo, vuota.
Non posso lasciare che accada.
Episodio dopo episodio, guardando lo sceneggiato con mia madre, cerco con gli occhi la sempliciotta scarmigliata. La osservo, aspettando che passi all’azione, ma i suoi obiettivi non sono subito chiari, la strategia è a malapena intuibile, tanto che quando iniziano a scorrere i titoli di coda la sempliciotta ancora non ha spiccato il balzo. Spesso torna al punto di partenza, a lavorare in cucina, a mani vuote. Non ha dove andare, nessuno le vuole bene e lei stessa, questa sempliciotta scarmigliata dai denti marci e ingrigiti, sembra incapace di provare amore per qualcuno. Mia madre annuisce e dice, Ride bene chi ride ultimo.
I titoli di coda sono passati, il programma è finito. Uno a uno i nostri contemporanei fuori inquadratura, con la loro visione aggiornata del mondo, se ne vanno a casa. L’attrice che impersona la sempliciotta scarmigliata riassume il suo normale accento da persona ben istruita, si strappa via dalla testa la parrucca con i capelli ritti, torna alla roulotte per farsi una doccia e indossare uno dei suoi tanti bei vestiti.
Mentre guarda scorrere i titoli di coda con un sorriso sulle labbra, però, mia madre mi lancia un’occhiata tagliente.
Aspetta e vedrai, dice come se fosse una promessa. Quella non ha mica finito di lottare, ha energia da vendere. È una guerriera, quella. La prossima volta glielo farà vedere lei.

Collateral Beauty, di Maria Ospina Pizano

Con Edicola, parte la nuova rassegna estiva Storie senza scadenza, in cui proponiamo racconti, e quindi libri, non più freschi di pubblicazioni, nella assoluta convinzione che i libri non abbiano scadenza e che hanno bisogno di tempi più lenti e duraturi di fruizione, proposta e vita nel sistema editoriale.

Come primo titolo vi proponiamo un racconto tratto dalla raccolta Gli azzardi del corpo di Maria Ospina Pizano, tradotta da Amaranta Sbardella e pubblicata nel 2020.
Sullo sfondo di una Bogotá caotica e attraversata da forti diseguaglianze sociali, la scrittrice colombiana - tradotta per la prima volta in Italia - sceglie nell’universo delle relazioni femminili quelle più asimmetriche e inusuali per raccontare sei storie di donne che cercano di salvarsi le une con le altre, il più delle volte fallendo. Una raffinata geografia degli affetti, autentica e spietata, dove la cura e il senso di protezione si alternano all’ossessione e al tradimento, e dove il corpo femminile rivendica, e trova, nuove forme e nuove circostanze per essere raccontato.

So I’m left to pick up
The hints, the little symbols
of your devotion.

Antony Hegarty, Fistful of Love


“Aspettati eccitanti novità, che arriveranno in modo imprevisto.” Questo aveva pronosticato l’oroscopo a Estefanía mentre aspettava nell’ospedale vuoto, in un sabato di agosto. Sulla rivista dove lo aveva letto compariva anche una notizia dal titolo “L’universo sta lentamente morendo”. Ciò nonostante, poiché le era parsa angosciante e ovvia, si era rifiutata di leggerla. Seduta dietro al bancone, Estefanía si perforava un lembo di pelle sollevatasi da una vescica al piede con un grosso ago che aveva trovato nella cassetta dei bisturi e degli strumenti di sutura, e nel frattempo si chiedeva se la notizia, quella delle sorprendenti novità, si riferisse al viaggio a New York. Forse sì, sebbene lei non avesse mai voluto credere all’oroscopo pur di fare la bastian contraria con la madre, che era sempre stata una fanatica dell’astrologia da rotocalco. Nel momento in cui si rimise le scarpe, si rimproverò per essersi fatta trascinare dall’entusiasmo passeggero di quella mattina serena e non aver indossa to le calze. Una volta conclusa l’operazione, passò uno straccio sul bancone di vetro sotto il quale riposavano scarpette, cappelli e accessori da bambola, nonché diversi animali di peluche appena operati, che nelle buste di plastica attendevano i legittimi proprietari. Proprietarie, anzi: erano quasi sempre loro a entrare nell’ospedale, anche se ormai con una frequenza via via minore.
Prese le sei vecchie bambole dalle buste e le adagiò in fila in attesa dell’elegante signora che le aveva fatte ricoverare all’inizio della settimana e che aveva richiesto per loro svariati interventi chirurgici. Ancora nude, irradiavano una dignità scolpita dai decenni. Pur senza i vestitini inamidati di faille, lamé e trine, pur senza le scarpette in velluto e lino con cui erano arrivate, esibivano le loro cuciture e i loro punti di sutura con discreta vitalità e soddisfacente orgoglio.
“Ho invitato alcune amiche a un tè speciale, al quale dovranno portare le loro bambole di infanzia. Le hanno ancora quasi tutte, ben custodite. Visto che siamo così vecchiette, sarà proprio una bel la mostra di cimeli.” Così le aveva detto la signora sciogliendo i fiocchi alla scatola piena di bambole ferite.
Estefanía si immaginò un grande banchetto di anziane dai profumi costosi e dalle pettinature ordinate, che in un ampio salone rimpinguavano le morbide carni con succulenti dessert, mentre i corpicini rigidi delle bambine perenni, adagiati su minuscole sedie, evita vano i loro sguardi. Forse ogni signora avrebbe raccontato la storia di ciascuna bambola, come le era arrivata e fino a quando si era protratta la sua fiducia in lei, fino a quando era stata convinta che possedeva un’anima. Forse nel parlare delle bambole avrebbero modulato il timbro e la cadenza delle parole, e la vivacità delle voci infantili avrebbe interrotto per qualche tempo l’aridità di quelle gole vecchie. E le bambole lì, a scansare senza indulgenza ogni attimo di contemplazione.
“Lei ha un vero tesoro, signora. Ne capisco io di bambole, mi creda, perché sono cresciuta in questo ospedale e ho visto di tutto.”
Nel voluminoso Registro dei ricoveri, dove venivano conservate le diagnosi e le operazioni avvenute negli ultimi quindici anni, Estefanía annotò i sintomi che la signora le descriveva. Accanto all’impeccabile grafia del nonno e della madre, gli addetti al registro prima di lei, le sue lettere sembravano goffe e profane.
“A Leonor, che era la bambola di mia cugina Leonor, andrebbe sistemata la faccina, perché si sono sbiaditi i colori degli occhi e del le labbra. Sebbene le tenga al sicuro e riposte perché non me le tocchi nessuno. Sotto il mio letto e avvolte nella carta velina. Beatricita, questa con i capelli corvini, ha un braccio rovinato. Bisognerà cambiarle il lattice, immagino. Ingrid non è così antica, ma era la bambola dell’amica tedesca di mia figlia, e ho commesso l’errore di lasciarla qualche volta alle mie nipotine. Guardi i suoi capelli, così irregolari, le bambine glieli hanno tagliati, guardi che scempio. Che disastro. Ha bisogno di un innesto di capelli. Per favore, di un materiale di qualità.”
“Non si preoccupi, ho i capelli che fanno al caso suo. Ne abbiamo alcuni francesi di importazione che mio nonno si era procurato tempo fa, quando ancora li fabbricavano. E sono proprio così, della stessa tonalità chiara.”
“Perfetto. Glieli lasci lunghi, fino alle spalle. Non importa quanto mi verrà a costare, basta che siano a tono con la pelle. María Inés, guardi questa meraviglia di bambola, è inglese, di inizio secolo, e guardi bene, vede? Ha un gancetto qui sulla schiena, se uno lo muove, dice sì o no. Guardi, guardi come dice no, no, no.”
Estefanía imitò la risata della donna. Da tanto non si poteva ridere così, sulle cose prosaiche di cui la gente rideva con gusto, come se racchiudessero una battuta indimenticabile.
“Bene, che ha questa meraviglia? Ecco bisognerebbe sistemarle il dito scheggiato. E ridisegnarle le unghie. E guardi Shirley Temple.
Me la regalò mio padre quando vivevamo in Inghilterra, e Shirley Temple era appena arrivata al cinema con un film, uno dei primi che fece da bambina. Be’, ma lei non saprà chi era Shirley Temple. Una enfant prodige, famosissima negli anni trenta. Divina, con certi boccoli dorati, proprio come questa. All’epoca in cui diventò famosa, uscirono alcune sue bambole che fecero furore. Non dimenticherò mai quando aprii la scatolina bianca, e dentro c’era lei. Per poco non mi venne un colpo dall’emozione. Questa sì che è da veri intenditori. Bisogna rimetterle a posto la gamba, è ruotata dall’altra parte. Di sicuro sono state le bambine, l’avranno presa dalla scatola senza chiedermi il permesso.”
La vecchia afferrò la gamba con una certa violenza e la spinse verso il centro.
“E la bambola araba, o meglio, non so di preciso se è gitana o araba. Questa è proprio un gioiellino, guardi che rifinitura. È francese. Era della mia amica Lucía, che per un periodo aveva vissuto a Vienna. Doveva avere un nome strano ma quando Lucía me la diede poco prima di morire non se lo ricordava più, e allora l’ho battezzata Lucy. Quella volta mi raccontò che, al suo ritorno lungo il fiume Magdalena, se ne stava sul parapetto della nave e le mostrava la rotta. Allora il Magdalena sì che era un signor fiume, una meraviglia. Non era ancora la fogna di adesso. L’avrà capito, Lucy ha visto di tutto, dalle cupole della Senna alle scimmiette e i cervi del Magdalena. Un gioiello tra i gioielli. Dovrebbe fare qualcosa per le dita dei piedi, che sono danneggiate. E le rimetta a posto quest’occhio, vede che si sposta da un lato?”
Estefanía le aveva promesso di restituirgliele sistemate per il sabato, prima di mezzogiorno, in modo che potessero partecipare al tè del lunedì successivo. “È un sollievo che sia riuscita a venire. Passo qui davanti da più di un anno, e ogni volta penso che dovrei entrare, ma ci sono riuscita solo oggi. Finalmente ho potuto trovare del tempo da dedicare alle mie amiche. È così che le chiamo, le mie amiche, per via di tutto il tempo che abbiamo passato insieme. Ne ho salvate diverse dalle amiche in carne e ossa, che non sapevano più che farsene. Le avrebbero lasciate alle donne delle pulizie, si figuri.”

Mentre aspettava la proprietaria delle bambole più raffinate mai accolte alla Clínica de Muñecos Reyes da quando la Barbie e altri esemplari cinesi avevano invaso il mercato della capitale, Estefanía pensò a come sarebbe stato lavorare da colf al servizio di una donna della levatura di doña Cecilia. Avrebbe dovuto indossare un’uniforme azzurro pastello con un grembiule inamidato e for se si sarebbe vergognata di uscire in strada con quella indosso. In cucina, avrebbe osservato di nascosto i pasti della signora dalla finestrella. Avrebbe sbocconcellato gli avanzi del tè quando fossero tornati semidistrutti, e avrebbe finito di rovinarli. Probabilmente si sarebbe ingozzata di qualche dolcetto, prima e dopo il suo viaggio per la grande tavolata. Cercò, senza però riuscirci, di immaginare come sarebbe stato lavorare da colf al servizio di una donna della levatura di doña Cecilia, ma a New York. Lì quel tipo di signore avevano più soldi e chissà quali abitudini. Forse le stesse. Al lora ricordò l’oroscopo della rivista. Magari le pronosticava davvero l’imminenza del viaggio a New York. Magari prevedeva che dal nulla si sarebbe materializzato un buon acquirente per l’ospedale. Che le avrebbero concesso un visto. Si impose di credere che le fioche lettere di un oroscopo avessero un tale potere.

Estefanía aveva promesso alla cugina Shirley che avrebbero festeggiato insieme a New York l’Halloween seguente. Non glielo aveva detto perché ne fosse convinta, bensì perché lo desiderava. Sarebbe stato il primo Halloween insieme da quando Shirley se ne era andata a vivere là, due anni prima, appena aveva finalmente ottenuto i documenti della residenza che il padre aveva chiesto per lei dieci anni prima. Estefanía aveva riferito a Shirley di aver già pensato a un travestimento per la festa. Si sarebbe mascherata da cane randagio. Avrebbe lasciato i capelli sporchi e avrebbe provato a farsi dei nodi nella chioma crespa perché sembrassero simili alle ciocche degli afroamericani.
“Mi metterò un cartello al collo con scritto Ciao, sono un cane randagio.”
Shirley le aveva detto che a New York non c’erano cani randagi. Che nessuno avrebbe capito il suo travestimento. Che avrebbe per so un sacco di tempo a spiegarlo e la gente avrebbe pensato che era matta. Che non fosse così deprimente.

“Ciao, zia, sono al lavoro. Vado di fretta perché sta per venire una signora a riprendersi un ordine. Mi ero dimenticata di dirtelo: una collezione di bambole antiche, una cosa stranissima. Queste bambole sono straordinarie, un incanto. A vederle restaurate così, nonno sarebbe morto per la commozione. Sì, oggi chiudo a mezzogiorno. Bene, sono felice se mi vieni a prendere, e ti accompagno, certo. Non vedo l’ora di vedere il tuo nuovo look.”
Zia Martica, la mamma di Shirley, aveva promesso di passare a prendere Estefanía al ritorno dal carcere, dove era andata a trovare la sua cliente più viziata, un’imprenditrice arrestata per aver dato in prestito il proprio magazzino a chi ci aveva stipato le materie prime necessarie a produrre cocaina. Grazie al duro lavoro di anni, Martica era divenuta la manicure e la massaggiatrice di una lunga lista di clienti. Si occupava di unghie, mani, massaggi tonificanti e dimagranti, secrezioni e segreti. Di massaggio in massaggio, e dopo anni passati ad allenare le braccia robuste e il corpo farcito al fine di accogliere piedi e mani altrui, Martica era riuscita a risalire i gradini della trionfante classe media. Gli affari andavano talmente bene che si era potuta permettere di pagare la retta scolastica di Estefanía, dopo che sua madre era morta, e, poiché la nipote si era appena diplomata, le aveva promesso che avrebbe contribuito al viaggio per studiare inglese a New York. Shirley si trovava già lì e, grazie all’offerta di Martica, Estefanía coltivava l’illusione di andarsene, almeno per qualche tempo.
Quel pomeriggio Martica avrebbe svelato a Estefanía il suo nuovo volto. Il ritorno a una certa gioventù. Da un paio di settimane, in occasione del compleanno, la chirurga plastica che consigliava al le sue clienti per la liposuzione le aveva regalato una nuova faccia. Al posto del lifting gratuito che la dottoressa le aveva proposto all’inizio, mentre dormiva beata nella pace dell’anestesia, Martica aveva ricevuto un regalo ancor più grande. La chirurga le aveva scolpito un viso più scarno, con il nasino all’insù, gli zigomi più affilati e la mandibola meno squadrata. Un viso gradito, anche se non richiesto. Dopo due settimane di recupero Martica aveva ancora un paio di bendaggi alla testa, ma si era quasi sgonfiata. Non appena fosse stata pronta a mostrarsi di nuovo al mondo, voleva che una delle prime a vederla fosse Estefanía.

Una volta finita la rivista degli oroscopi, Estefanía aprì il Don Chi sciotte del nonno che aveva sempre occupato lo scaffale vicino ai libri della contabilità. Aveva deciso di leggerlo la settimana dopo il diploma, ma in modo superficiale, scegliendo a caso i capitoli. Da bambina, quando trascorreva il sabato all’ospedale, il nonno le raccontava cosa succedeva nel capitolo che stava leggendo. Spalancò il libro al capitolo intitolato “Di ciò che avvenne a Don Chisciotte entrando a Barcellona” e si convinse che era un altro segnale del suo futuro viaggio in luoghi a lei ignoti. Suonò ancora il telefono, e pensò che si trattasse della signora delle bambole, che la avvertiva di un impedimento. Stava per chiudere, in effetti. Tuttavia, sentì la voce grave e compassata di un uomo dallo strano accento. Chiedeva del la Clínica de Muñecos Reyes. Spiegò che chiamava dagli Stati Uniti. Che lavorava per la chiesa Saint Ignatius of Antioch di New York, e che aveva trovato i dati dell’ospedale su internet dopo la segnala zione di un’amica colombiana.
“Sto cercando di comprare parti di manichini e bambole antiche per il nostro altare.”
Estefanía provò ad adattare la voce al suo tono più formale. Spiegò che lì si limitavano a riparare peluche e bambole per bambini. Lo poteva aiutare a mettersi in contatto con alcuni antiquari del quartiere, però. “Be’, in realtà io cercavo santi coloniali, ma non mi interessa soltanto questo. Cerco anche bambole antiche di ogni tipo, e pure parti o pezzi sfusi. Forse lei può aiutarci.” Promise una buona remunerazione.
Estefanía disse all’uomo che forse aveva qualcosa di suo gradi mento. Doveva prima fare un controllo. Annotò l’indirizzo e-mail per scrivergli una lista e mandargli le relative foto. Antonio Pesoa tradiva un accento argentino e una voce davate ascetico che sembrava riemergere da ere trascorse ai confini di una piccola grotta.

Prima di chiedersi se la telefonata fosse uno scherzo, Estefanía pensò ai dollari che l’affare prometteva. Alla possibilità di liberarsi finalmente da quell’eredità di arti, occhi e capelli che il nonno aveva lasciato alla madre, e la madre a lei e al fratello. Avevano già avvertito Juvenal della prossima chiusura dell’ospedale e Martica gli stava cercando lavoro da un’altra parte. Prima o poi il laboratorio sarebbe stato venduto. Se le avessero concesso il visto, finalmente lei sarebbe andata a New York. Avrebbe visto Shirley, avrebbe iniziato il buon corso di inglese che questa le aveva trovato nel Queens. Avrebbe imparato la lingua. Sarebbe rimasta a vivere lì e avrebbe atteso con ansia le visite di Martica due volte all’anno. Avrebbe cominciato a credere negli oroscopi. Nel retro del negozio un orso di peluche, una bambola con il naso corroso e una Barbie dai capelli rossi senza una gamba attende vano l’intervento di Juvenal. Estefanía spinse la porta con forza, e per la prima volta dalla morte della madre entrò nel piccolo deposito alla fine della sala. Sopra la cassapanca sulla sinistra le targhette dei cassetti, annotate con la grafia elegante del nonno, recitavano: “antichità”, “parti porcellana”, “vestiti”, “volto”, “religiosi”, “scarpe”. Dall’altra parte della stanza c’era un vecchio bancone con una pila di braccia, gambe, torsi, e borse con diverse teste bionde, teste di orsi e cani di peluche, mani, bacini in plastica di differenti tonalità color “pelle”, eufemismo per indicare la pelle bianca con cui erano dipinte le bambole che circolavano tra le mani dei bambini bogote si. In un angolo, alcuni rotoli di stoffa e uno di materiale per peluche sprigionavano odore di naftalina.
“È proprio vero che non ha mai buttato niente.”
Quando Estefanía alzò il primo braccio della pila di resti amputati, un grande occhio cadde rotolando sulle mattonelle rosse fino all’altra estremità della stanza. Si chinò a prenderlo e notò l’iride dalle screziature verdi e nere. Il vetro si era graffiato legger mente, ma solo nella parte posteriore, così da non rivelare il difetto una volta all’interno della testa di una bambola. Estefanía riconobbe l’antica tecnica di pittura su vetro. Quegli occhi erano ormai in trovabili. Quelli di adesso non erano più tridimensionali, né estrai bili, bensì banali disegni su plastica che privavano le bambole della libertà di uno sguardo laterale, che proibivano alle loro pupille di muoversi nervosamente per incontrare o schivare quelle del la piccola proprietaria. “Gli occhi di adesso viziano i bambini,” pensò. Promettevano loro la certezza di uno sguardo sempre pronto ad aspettarli. Infondevano loro la speranza di essere sempre speciali. Per questo lei non avrebbe avuto bambini. A New York quell’occhio di tempi ormai andati le avrebbe potuto fruttare qualche dollaro. Lo ripose nella tasca mentre andava verso i cassetti della cassapanca per controllare cosa contenessero.

Nella scatola con scritto “antichità” trovò tre bambole avvolte nel la carta velina, che prese con estrema cautela. Ne venne fuori una bambolina in gesso grande quanto il suo avambraccio, con i capelli neri, il viso rotondo e una bocca a forma di ‘o’, le gote rosa e la pelle immacolata. La copriva uno scialle dalle fattezze antiche, abbinato al vestitino. Sembrava un’energica ambulante della piazza del mercato di un villaggio andino, eppure sull’etichetta che le scendeva dalla mano Estefanía lesse “Germania, 1870”. Quindi scartò una bambola nuda, con le parti pubiche in olona e le parti pubbliche della porcellana più raffinata. Dal torso soffice pendevano le gambe, prossime a scucirsi, che diventavano di porcellana dalle ginocchia sino ai tacchi neri. Le braccia erano in buono stato, a eccezione della crepa sul palmo di una mano e di un dito rotto a metà. Le labbra si arricciavano in una smorfia e lasciavano intravedere i denti. Aveva occhi celesti e lunghe ciglia, capelli scuri dipinti sulla testa all’altezza delle orecchie, alla maniera della sua epoca. “Francia, 1918”. Malgrado le membra nude e l’anonimato di decenni trascorsi dentro un oscuro cassetto, non svelava niente di sinistro. Sembrava diligente, e anche ben educata. Infine Estefanía tirò fuori un bimbetto androgino avvolto in un involucro di trine che lo copriva sino alla testa, formando una sorta di magnifica corona. L’unica parte visibile del corpo era il capo. “Gesso bisque” riportava la targhetta scritta dal nonno. Campeggiavano il volto circondato dal merletto due brillanti occhi grigi, spalancati e lambiti da lunghe ciglia che preannunciavano un futuro di intense sofferenze. “Vienna, 1901”. Il bambolotto implorava di uscire a passeggio con una bambinaia di una città di un’altra epoca. Sotto Natale avrebbe sicuramente potuto impersonare il Bambin Gesù in una chiesa di Manhattan.

Nella lista che Estefanía mandò all’argentino bizzarro figuravano anche altri articoli antichi collezionati dal nonno.

* Corpo infantile senza testa, Bisque, taglio su una gamba e piccolo buco su un tallone. Gomme intatte. Di razza nera. Grassottello. Etichetta dice “Francia, 1926”.
* Pezzi sfusi: 1 paio di occhi dipinti su superficie di legno, iride celeste e pupilla di vetro. Quattro paia di occhi di vetro, di versi colori. Un occhio sfuso leggermente graffiato nella parte posteriore. 1 paio di braccia di ceramica con estremità di pezza. 1 paio di piedi in legno, media lunghezza. 1 paio di piedi in gesso (5 cm di lunghezza).
* Varie: flaconcino profumo di vetro azzurro, calzini di filo ricamato per bambola di grandi dimensioni, ventaglio in miniatura pieghevole di avorio con disegni floreali, guanti in pelle bianca con ricami neri, specchietto di metallo, album di ricordi per bambola con fodera in pelle del quale si possono aprire le pagine, corsetto di cotone e merletto con nastri azzurri per bambola di media grandezza, cagnolino di compagnia in porcellana con filati di peli color marrone, bocca spalancata e lingua dipinta che si vede dentro la bocca.

“Vieni e guardami, piccola mia, così mi dici cosa ne te ne pare.”
Estefanía sentì la voce di Martica dal magazzino e le andò incontro.
“Che bella!” “A volte mi viene da pensare che questa faccia da matrona contra sti con il mio corpo.”
“Stai molto bene, zia.”
“Manca ancora un po’ perché si sgonfi del tutto, e ti sembrerò una di quelle bambole eleganti che ti hanno portato.”
Quando si sedette nella macchina di Martica, Estefanía sentì che la tasca del pantalone le incideva la gamba. Era l’occhio di vetro che non aveva avuto il tempo di lasciare nella pila di bambole antiche per poter correre incontro all’altra bambola della sua vita.

Estefanía aspettò per tutta la settimana che la signora venisse a riprendersi le bambole. All’ospedale giunsero alcuni lavori che lei di resse con grande efficienza e che mantennero occupato Juvenal: un orso di peluche alto un metro che vomitava gommapiuma da uno squarcio nella spalla, tre bambole pusillanimi che si erano recate in un salone di bellezza infantile ma alle quali non si addiceva la cresta punk, una bambola che faceva pipì e aveva bisogno di un nuovo tronco perché la proprietaria le aveva distrutto l’originale versando acido disgorgante nel canale interno, dalla bocca al pube. Tuttavia, le bambole eleganti rimasero sul bancone senza aver preso parte al tè della signora. Poiché era incline ai pensieri tragici, Estefanía si immaginò la donna dentro una bara, immobile in un rigor mortis di nostalgia. Il venerdì decise di chiamare al numero di telefono che aveva annotato sulla ricevuta. Le rispose la donna delle pulizie, la quale le spiegò che la signora aveva lasciato la città per un tempo indefinito. Estefanía chiese cosa dovesse farne delle bambole, e le disse che presto, e per sempre, avrebbero chiuso l’ospedale. “Doña Cecilia è in una casa di riposo dal weekend scorso. Il figlio è venuto dall’estero a portarcela. Mi ha dato l’ordine di dire che starà fuori per un po’. Che ora non riceve telefonate. Chiedo io per le bambole. Chiami la settimana prossima e le dirò qualcosa.” Estefanía vide attraverso il vetro del bancone le faccine delle bambole nelle buste di plastica e capì che doveva salvarle: non meritavano di starsene nella vetrina scheggiata per altro tempo.

Estefanía,
ricevere la sua risposta ci ha dato un’immensa allegria. Siamo interessati a comprare tutto quello che ci propone. Anche se alcuni degli oggetti che menziona non hanno tema religioso, ne abbiamo lo stesso bisogno. Possiamo offrirle 300 dollari per tutto l’inventario. Nel caso in cui fosse interessata, dobbiamo soltanto accordarci sulle modalità di spedizione fino a New York. Questa settimana controllerò le differenti possibilità e le farò sapere. Mi piacerebbe venire a prendere tutto di persona, a Bogotá, ma sarebbe un’utopia. Rimango in attesa di una sua risposta.


Antonio Pesoa

Cara Estefanía,
nella e-mail precedente ho dimenticato di chiederle se, tra gli oggetti in vendita, ha pure delle bambole da ventriloquo. Mi dica di sì! La prego di avvisarmi appena possibile.

Dopo aver chiamato per due settimane al numero di doña Cecilia senza ricevere risposta, Estefanía concluse che doveva trovare una nuova casa alle bambole in esilio. Aveva cercato l’indirizzo della signora per portargliele di persona, eppure il suo nome non compariva nell’elenco telefonico. Forse la vecchia era stata così esplicita riguardo alla storia di ogni bambola perché gliele stava lasciando in eredità. Chissà se le sarebbero tornate in mente nello stupore narcotizzato dei tramonti della casa di riposo e se tutti avrebbero pensato che i nomi da lei evocati invano non fossero altro che un ulteriore sintomo del suo malessere.

Dopo altre due settimane di attesa e di telefonate senza risposta, Estefanía accettò le bambole come un’eredità indiscutibile. Quella notte le sognò, tutte e sei, vestite da sante, che decoravano la pala di un altare coloniale bagnato nell’oro. In ognuno degli scomparti del retablo c’era una bambola con la sua tunica inamidata da santa, il mantello e il rosario tra le piccole dita appena riparate da Juvenal. Arrivava Antonio, integralmente vestito di nero e con un copricapo di lana sulla testa calva. Incedeva fluttuando, come tirato da una cordicella leggera legata all’addome. Si inginocchiava sulla prima panca. Estefanía entrava nella chiesa e provava ad avvicinarsi alla pala d’altare, ma un prete furibondo la scacciava in malo modo in un inglese incomprensibile. Antonio non diceva niente, si limitava a guardarla, commosso, ed Estefanía piange va vicino al signore lebbroso che chiedeva l’elemosina sulla porta appestata di pipì, e solo allora capiva di trovarsi nella chiesa di San Francisco, nel centro di Bogotá, dove il nonno la portava da bambina.

Cara Estefanía,
è perfetto se riesce a farci avere il materiale la settimana prossima, tramite sua zia. Dovrebbe essere ben imballato perché non si rompano i pezzi, sono talmente delicati. Gli occhi sfusi! Certo che li vogliamo. E la vicenda delle sei bambole ci lascia senza parole. Se le va bene, gliele potremmo pagare 400 dollari. Saranno sicuramente dei capolavori rarissimi, perché così rare sono le cose di cui fare tesoro. Gioielli al di sopra di qualsiasi classificazione.
Che risplenda quanto deve risplendere.
Mi piace l’idea di queste bambole frivole su un altare.
Morirei per tenere tra le mani una bambola coloniale da ventriloquo. Sono molto difficili da trovare. Ho intenzione di proporre ai preti una sorta di performance religioso-didattica tra il ventriloquo (mascherato da santo, o da vergine) e la sua bambola (che potrebbe farsi passare per angelo, un’anima, o qualcosa del genere).
Posso venire a prendermi il pacco e darei i soldi a sua zia, come mi suggerisce. Le lascio il mio numero di telefono, perché mi contatti al suo arrivo a New York: (212) 945–3850.
La prego di scrivermi e di tenermi al corrente. Un enorme abbraccio.

P.S.: Grazie per avermi raccontato il suo sogno. Se dovessi sognare qual cosa di così brillante, nella mia versione io assalterei il prete, lo legherei dietro una colonna, lo costringerei all’harakiri e porterei lei a vedere le bambole ormai santarelle e il ventriloquo che recita la parte dell’anima. Non mi prenda sul serio, però. Non dormo da giorni.

Una pioggerella sottile imperlava la città, nella mattina di settembre in cui Estefanía prese dal bancone le bambole di doña Cecilia, sciolse i nodi delle buste e le portò su uno dei lunghi tavoli della sala operatoria. Juvenal lavorava sull’altro tavolo, intento a cucire un nuovo paio di orecchie a un gigantesco San Bernardo. Una dopo l’altra, le bambole si lasciarono coricare. I corpi nudi ne tradivano la nuova precarietà. Estefanía andò nel magazzino, aprì il cassetto con la scritta “vestiti” e tirò fuori un fagotto di panni avvolti nella carta velina. A Leonor cadeva a pennello il vestito di raso azzurro con la crinolina. La tunica di trina era per Beatricita. L’abitino a pieghe con le maniche corte sembrava perfetto per Ingrid. E sopra, il cappottino di panno bianco. Recuperò qualcosa per ognuna di loro, in modo da mandarle ben coperte, perché non fossero soltanto meravigliose dentro. Ci avrebbe poi pensato Antonio a trovare per loro dei vestiti adeguati all’altare. Dalla scatola degli oggetti religiosi prese dei minuscoli rosari in legno di rosa e di arancio, e ne mise uno al braccio di ciascuna. Le avvolse separatamente nel pluriball e le adagiò nelle scatoline che si era procurata per il viaggio. Quindi spolverò e impacchettò le altre bambole del magazzino e le parti sfuse che aveva promesso ad Antonio, sistemandole tra carta e gommapiuma.

Estefanía accompagnò Martica all’aeroporto quando a Bogotá aveva appena cominciato ad albeggiare. Martica andava a New York nei due periodi di saldi dei grandi magazzini. Partiva leggera e tornava con due valigie piene dei vestiti che le avevano ordinato le sue clienti bogotesi e che lei rivendeva in cambio di una percentuale, con cui rientrava delle spese del viaggio e ingrossava il libretto di risparmio. Prima dormiva dalla sorella, quella che assemblava i minuscoli pezzi di motori di aereo in una fabbrica nel New Jersey, ma da quando Shirley si era trasferita a New York alloggiava nel nuovo appartamento della figlia.
Mentre Martica avanzava nella lunga fila del check-in, i due pacchi nei quali viaggiavano le bambole e gli altri articoli per Antonio vennero selezionati per un controllo della polizia antidroga. Un poliziotto avvicinò loro un giovane cane che dimenava forte la coda alla ricerca della polverina costosa. Le guardie lo aizzavano a trovare la cocaina, ma il cane non mostrò alcun interesse. Per fugare ogni dubbio uno dei poliziotti prese la bambola araba dalla scatola, la spacchettò, si leccò l’indice, lo sfregò contro la gamba della bambola e se lo rimise in bocca. Poiché non sentì il sapore dell’alcaloide che credeva diluito nella pelle delle bambole, diede l’ordine di richiudere tutto. Un paio di giorni dopo Martica chiamò Estefanía per confermarle che aveva consegnato le scatole ad Antonio e che aveva il denaro. “Mi ha detto solo Grazie, signora, e ha aggiunto che avevo una nipote dolcissima. Che ti voleva conoscere, tesoro mio.”

Incoronata, vittoriosa,
(è l’etimologia del suo nome, lo sapeva?). Malgrado gli ostacoli, ho ricevuto le meraviglie che mi ha mandato. Se fossi stato un poliziotto aero portuale le avrei sequestrate tutte, senza il pretesto di un cane, e mi sarei dato alla macchia. Può stare serena, i tesori di suo nonno riceveranno i giusti onori. La bambola che muove la testa sì-e-no è arrivata con una mano ferita. È stata lei a essere annusata dal cane? Chissà come avrà turbato il suo olfatto.
Ieri ho pensato a lei, Estefanía, e alle questioni della carne, perché per poco in palestra non amputo il dito a una vecchietta. Stavo facendo i pesi e la vecchietta ci ha infilato la mano: le ho rotto il dito. Abbiamo dovuto chiamare l’ambulanza. Le era diventato una poltiglia. L’ha messo proprio nell’ingranaggio. È schizzato sangue per tutta la palestra, e non è stato poi troppo male perché la gente impegnata a guardarsi allo specchio ha dovuto fare una pausa per guardare in faccia la realtà. L’ambulanza è arrivata dopo quaranta minuti e non scendeva nessuno. Vado a vedere e la ragazza che guidava era tutta presa a passarsi il lucidalabbra. Insomma, inconvenienti della vita atletica, mio Dio. Per fortuna la vecchina è stata piuttosto stoica. Ma perché mai una persona dovrebbe ficcare la mano in un meccanismo che sale e che scende? Le ho detto “I’m sorry” una volta e non ci rimetterò più piede. E pensare che mi trascinavo in palestra da un paio di settimane. Tutto per colpa di uno dei tizi che vendono macchinari da ginnastica alla televisione. Il tizio ha una massa amorfa di resina schifosa, secondo lui è puro grasso, e la chiama “signor grasso”, e ti ripete allo sfinimento che ce l’hai pure tu, dentro di te. Lo ha visto? Mi ha fatto talmente schifo che ho pagato un anno di palestra. Dopo l’incidente con la vecchietta, però, non posso tornarci. Meglio stare qui in incognito, ad aggiustare la ferita alla mia bambola.
Sua zia mi ha detto che forse verrà presto a New York. La devo portare a prendere il tè, e ci mangeremo dei buonissimi dolcetti con il ripieno di pesca che vengono da una lontana isola dell’arcipelago nipponico. E parleremo di qualsiasi cosa. Presto le manderò le foto delle bambine ascetiche nella loro nuova casa. Mi scriva. Mi racconti qualsiasi cosa, mi fa piacere tutto. In questi giorni passo le notti in bianco, a tenere a freno i pensieri che mi rintronano di latrati come cani in fuga.
Grazie, regina.
Abbracci,

Estefanía rilesse l’e-mail. Si dispiacque che non fosse scritta a mano. La zia le aveva raccontato che Antonio era un uomo timidissimo, uno di quegli uomini che con il silenzio rivelano di sapere più di tutti gli altri. Lei pensò a un cavallo selvaggio delle steppe asiatiche, a un pino vecchio di quattromila anni, uno di quei pini che vivono ancora sulle colline del Medio Oriente. Doveva essere all’incirca così, Antonio.

La liquidazione finale della Clínica de Muñecos Reyes durò quattro settimane. La vendita del locale fu rapida e redditizia. Un’impresa edile stava comprando l’intero isolato per costruirvi condomini di appartamenti eleganti, come gli altri già eretti in tutto il Chapi nero. Mentre aspettava che gli arrivasse un lavoro da qualche cliente di Martica, Juvenal decise di mettersi alla guida del taxi di un parente. Estefanía tenne per sé gli oggetti che voleva conservare – al cune bambole, un paio di quadri con bambole europee sedute sulle panchine di parchi primaverili che la madre aveva appeso nella sala operatoria, la collezione di cappelli per bambole in mostra sul bancone, la targa del negozio e i registri della contabilità, nonché il Don Chisciotte. I mobili e gli articoli in eccedenza vennero donati a una fondazione scolastica per ciechi che distava un paio di isolati. Il resto se lo portarono via un rottamista e i riciclatori. Quando Estefanía chiuse l’ospedale per l’ultima volta, il giorno dopo averlo consegnato agli acquirenti, pensò che, qualora fosse tornata da New York e passata di lì, non avrebbe riconosciuto quell’angolo di strada sporco e in rovina della sua infanzia e ne avrebbe avvertito il vuoto.

Sull’aereo per gli Stati Uniti, mentre sfogliava le pagine bianche di un’agenda che Martica le aveva regalato perché vi annotasse i contatti e le amicizie della sua nuova vita, Estefanía tornò a farsi domande sul silenzio di Antonio. Non aveva ricevuto risposta al la e-mail che gli aveva mandato con i dettagli del viaggio, in cui gli scriveva che in un paio di settimane sarebbero potuti andare assieme a bere il tè giapponese, promettendogli inoltre di portargli un mango dolce perché per la prima volta provasse cosa significava aspirare la polpa succosa del frutto da una fessura nella buccia. Non aveva ricevuto risposta nemmeno alla seconda, nella qua le aveva copiato la precedente e gli chiedeva se l’avesse letta. E neppure all’ultima, scritta pochi giorni prima di arrivare nell’appartamento del Queens dove viveva la cugina Shirley. Forse Antonio si era scandalizzato per l’immagine della bocca che succhiava il mango dolce? Chissà, probabilmente lo aveva turbato nella sua rigida vita da celibe. Si era ricreduto sulle bambole borghesi, che Estefanía intuiva poco degne di un altare? O forse aveva avuto un incidente. Nella sua ultima e-mail Antonio aveva accennato a un dolore al petto, a una grande spossatezza e alla difficoltà nel respirare. Per questo gli stava portando un mango. Martica diceva sempre che non c’è niente di meglio del mango dolce per mantenere in forma il cuore.
Pian piano il frutto marcì nel frigo dell’appartamento di Shirley.
Qualche giorno dopo averlo gettato nell’immondizia, Estefanía si recò all’indirizzo che Antonio le aveva fornito in una delle prime e-mail. Prese la metro per Manhattan indicatale da Shirley e scese all’incrocio tra 23rd Street e Park Avenue. Percorse tutta la 23rd, e alla 2nd Avenue girò verso la 25th Street. Sorpassò una lavanderia, un pub irlandese, scale di palazzi, un negozio che declamava Christian Science Library, ma in tutto l’isolato non vide neppure una chiesa. Il civico 228 corrispondeva a un palazzo rosato con diversi piani di appartamenti. Estefanía continuò a camminare alla ricerca della chiesa più vicina, ma l’unica che scorse a un paio di caseggiati recava l’insegna For Sale. Ready for immediate occupancy.
Trascorse i successivi tre weekend a recarsi nelle chiese di Manhattan. Entrava quando le messe stavano per finire, esaminava l’altare e chiedeva a ogni prete se conoscesse Antonio Pesoa. Le prime chiese si trovavano vicino all’indirizzo che lui le aveva dato. Tuttavia, nelle sue indagini si allontanò sempre più dal quartiere e capì che avrebbe trascorso il resto dell’inverno a cercarlo chiesa dopo chiesa. E a cercare le bambole. La notte di Halloween, in occasione di una festa a cui andò con la cugina Shirley, si mascherò da cane randagio. Dei ragazzi del posto le chiesero di spiegare il suo travestimento, e lei indicò il cartellino che le pendeva al collo e che diceva: Hello. I am a street dog (woman), scritto nel suo nuovo e splendente inglese.

L’investigazione ecclesiastica venne improvvisamente interrotta a gennaio quando, durante una delle telefonate quotidiane, Martica le disse che era giunto un pacchetto da New York. Dentro c’erano una scatola avvolta nella carta da regalo, con disegni di mostri e caratteri in giapponese, e una lettera che le lesse per telefono.

Cara Estefanía,
le scrivo per avvisarla che Antonio Pesoa è venuto a mancare alla fine di settembre. Poiché sono l’amica incaricata di distribuire gli oggetti da lui lasciati, la informo che nel suo appartamento ho trovato questa scatola, pronta per essere spedita, e a lei diretta (all’indirizzo a cui la sto mandando, spero sia ancora il suo). Mi aveva parlato di lei il giorno in cui mi aveva mostrato le bambole antiche appena acquistate. (Ed ero stata io a dargli il contatto dell’ospedale di bambole perché da piccola ho vissuto da quelle parti per molti anni. Mia madre ci aveva portato tante mie bambole. È un peccato che non sia mai entrata, anche se avrei sempre voluto farlo). Antonio passava ore e ore con le bambole, rinchiuso nel suo appartamento. Negli ultimi mesi di vita è uscito di rado. Non ci voleva vedere perché si sentiva molto a disagio per la sua malattia, e perciò loro erano diventate la sua unica compagnia. Lavorava a una serie di foto di svariate persone sedute tra i pezzi sfusi e le bambole che gli aveva spedito. Tempo fa mi aveva detto che stava scrivendo un romanzo epistolare su un fuggitivo che si nascondeva in uno dei seminari del West Side e cercava articoli per i manichini della chiesa vicina. Nel romanzo compariva una ragazza che glieli mandava da lontano. Tra le sue cose non ho trovato il manoscritto ma, se comparirà, glielo farò avere. Mi preme farle avere questo, che le ha lasciato prima che il suo cuore si ribellasse.
Un abbraccio dall’amica di un amico,

Claudia Galindo


“Apri, zia, apri la scatola.”
“È un libro, piccola mia. Un libro antico in un’altra lingua che non so nemmeno che è.”
L’antico messale rilegato in pelle si poteva aprire solo in un punto, nel centro, perché le restanti pagine erano incollate. E lì, in un foro scavato tra le pagine, riposava tra i fiori secchi, al riparo di un vetro, la testa di una vecchia bambola. Una testa bruna, riposta in un libro delicato, cinta da caratteri sconosciuti e incomprensibili. Non appena il libro veniva aperto per metterla a nudo, i suoi occhi roteanti si muovevano nervosi da un lato all’altro.
Nella foto del regalo che le aveva poi inoltrato la zia, Estefanía riconobbe la testa di Lucy, la bambola araba portata all’ospedale dalla signora, la stessa bambola che aveva solcato la Senna e poi il Magdalena tra le braccia di una bambina elegante, fino alla rozza Bogotá degli anni trenta. La stessa che si era rifiutata di corrompersi nel transito per i caldi torridi di Honda, la stessa che era montata a dorso di mula sulle montagne e che per settant’anni aveva tollerato le attenzioni borghesi di due proprietarie. Fino a quando Estefanía e Antonio erano giunti a stravolgere i suoi giorni di pace e naftalina.
Che fine avevano fatto le altre bambole, i monconi di braccia, gli occhi sfusi che non avrebbero presieduto nessun altare? Dal giorno in cui aveva sepolto la madre, Estefanía aveva capito che i vivi non riescono mai a occuparsi degli oggetti che lasciano i loro morti. Stavano forse sugli scaffali degli amici di Antonio? Dietro le vetrine di un negozio di antiquariato? Finì per immaginarle addirittura in una discarica nei dintorni di New York, con le braccine tese che emergevano da una montagna di plastica, vecchie scarpe, buste di rifiuti, bucce di frutta, faldoni da ufficio e obsoleti schermi di computer. Estefanía pensò alle loro pupille che osservavano sprechi di silicone per impianti, siringhe, confezioni di yogurt, tupperware per la colazione. Gli occhi di vetro antico convertiti nel contenuto inerte della discarica in un Paese produttore di grandi rifiuti. Testimoni della di sintegrazione di tante ossa di ali di pollo che si rammollivano prima di loro. Degli occhi senza pubblico per riflettere la decomposizione.
La rasserenò pensare che la testolina della bambola bruna rimaneva al sicuro nella rilegatura in pelle verde di un antico libro venuto fino a lei a Bogotá.
“Zia, portamelo ora che vieni.”

Le sette Claudia Galindo che Estefanía aveva trovato su Internet – una giocatrice bogotese di beach volley, una cake designer messicana, un’avvocatessa del Canada, una professoressa di sociologia in Bolivia, un’attrice che viveva a Miami e altre di cui non era riuscita a capire la professione – non risposero mai alle sue e-mail.
A eccezione di due weekend in febbraio, durante i quali le tempeste di neve avevano paralizzato la città, Estefanía passò tutti gli altri sabati e domeniche invernali e primaverili a controllare i negozi di antiquariato che a Manhattan vendevano bambole. Quando le scadde il visto da studentessa, agli inizi dell’estate, dovette tornare a Bogotá, e ormai le mancavano soltanto nove negozi della lunga lista che aveva redatto. Dal suo altare pagano, Lucy rimase a sorvegliare i giorni nell’appartamento di Shirley. Estefanía promise a entrambe che non sarebbe stata via a lungo e ripose nel libro la lista di antiquari a cui non aveva ancora fatto visita. Per continuare a cercare le altre, non appena fosse tornata.

Guardare il sole, di Antonio Vangone

Declic edizioni, porta in libreria Bosco, di Antonio Vangone. Una raccolta in cui si racconta il margine della vita umana, il confine oltre il quale l’urbano sfuma nelle forme più inattese. Ma il bosco è anche vivere comune, orizzonte in cui singolo e plurimo si mescolano fino all’indistinguibile.
qui si aggirano ragazzi dorati, suore mattonaie e duellanti con le spade di gomma, pesci coi piedi, piccioni e draghi, robot poetanti e mezzi spiriti: fantasmi venuti dal bosco per narrare la crudele fragilità del reale.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.


GUARDARE IL SOLE
di Antonio Vangone

In un mondo vecchio come il nostro, la notizia che nella fontana ci fossero dei pesci coi piedi fece presto il giro. La fontana è lì da sempre, bassa e obliqua, vuota o piena a seconda di chi dovrebbe ricordarsene, grigia, stesa all’angolo di una piazza altrettanto grigia popolata da cani senza guinzaglio e lettori di quotidiani, eclissata dalla brutta statua del limite ignoto e dalla strana sfera che dovrebbe rappresentare la Pace, circondata di manifesti gualciti, necrologi avvisi pubblici nuove aperture.
Non si capì chi mise i pesci nella fontana e perché avessero i piedi, da dove vennero e se arrivarono con i loro stessi piedi. Nessuno si domandò perché i pesci avessero scelto di restare nella fontana e questo credo fu un grosso errore. Li sottovalutammo, credo, perché parlavamo e non ci ascoltavano, li guardavamo ma loro non ci guardavano: preferivano guardare il sole. Quando il sole non c’era serravano gli occhi e nulla poteva scuoterli: non bastava immergere le dita in acqua e nemmeno lanciare loro monetine, piselli surgelati o pezzi di pane; tantomeno picchiarli, prendendoli a bastonate in testa o sui piedi, e neppure ucciderli con lance improvvisate o fucili subacquei. L’unico modo per ottenere la loro attenzione, si scoprì durante la sagra del caciocavallo podolico, era mostrando loro il fuoco. Le prime notti usavamo grandi falò, poi ripiegammo su semplici fiaccole. Dopo settimane di fiaccolate ci accorgemmo che, se la luna era piccola e si spegnevano i lampioni, i pesci si accontentavano persino della brace di una sigaretta – condannando diversi ragazzini al vizio del fumo, attirati dal brivido di sentirsi i loro occhi addosso.
La teoria di Don Michele, che l’inferno si fosse fatto improvvisamente più piccolo e i dannati stessero tornando così sulla terra – tiepidamente, muti e stupidi come bestie, umiliati dalla grazia del Padre e ansiosi di non perderla – trovava fondamento proprio in questa riverenza per le fiamme, che il parroco volle imputare all’impressione dei supplizi patiti nel Tartaro. Più apprezzata perché meno moralista era la teoria di Gaetano il ferramenta, che voleva i pesci coi piedi essere un’allucinazione collettiva d’ispirazione folcloristica: era certissimo di aver sentito un racconto su di loro, da bambino.
I più ritenevano comunque che si trattasse di mutanti nati negli scoli della discarica: l’allarmismo fu tale che venne un professore famoso a raccogliere un paio di esemplari, ma non se ne seppe più nulla. Si seppe tutto invece di quelli che pensarono di pescarne quattro o cinque e mangiarseli all’acqua pazza: tre settimane al San Leonardo.
Visto il rischio per la pubblica salute, in inverno si decise di soffocare la fontana con una colata di cemento: i corpi pietrificati dei pesci vennero distribuiti in omaggio con settecento euro di spesa da Lella la mobiliera, fino a esaurimento scorte. Esaurite le scorte, i comignoli iniziarono a diventare corvi.

Meteore, di Camila Fabbri

Polidoro porta in libreria Sani e salvi, di Camila Fabbri, tradotto da Carlo Alberto Montalto.
Un marcato disincanto erode l’animo dei protagonisti di Sani e salvi: solitari e instabili, sopraffatti da una profonda depressione, così ci vengono presentati, o così li percepiamo, e così si muovono, senza convinzione né entusiasmo, come testimoni silenziosi di una tragedia sociale o familiare che li precede e che inesorabilmente precipita loro addosso.

Una prosa che sembra venuta dallo spazio. Leila Guerriero

Cattedrale vi propone l’estratto del racconto Meteore contenuto nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

METEORE
di Camila Fabbri

Viaggiarono per una ventina di minuti su un’autostrada quasi deserta di una notte di piena estate. C’era odore di vomito. Luis guardava Elisa dallo specchietto e sorrideva. L’odore non sembrava infastidirlo. Elisa cercava di fare respiri profondi ed era così strano: il paesaggio la calmava, eppure non riusciva a ignorare di essere stata portata via, senza poterlo impedire, da un pelato con quattro capelli lunghi che puzzava di sigarette e che di certo le avrebbe fatto qualcosa di brutto. Ma cosa?
Il suo telefono si era spento due caselli prima e il sole iniziava a splendere all’orizzonte. «Eccolo là, il signor Febo» esclamò Luis. Elisa non avrebbe risposto più niente. Avrebbe lasciato parlare lui. Aveva le braccia interamente graffiate e il cuore le batteva come a un atleta fuori forma che corre a una maratona. «Hai ripreso colore» le disse Luis sorridendo con una sigaretta all’angolo della bocca. «Mi fa molto piacere».
Elisa chiuse gli occhi, non avrebbe saputo dire per quanto tempo. Quando li riaprì, era pieno giorno e ai lati della strada c’era campagna, campagna e ancora campagna. Vide in lontananza alcune mucche e dei cartelli che pubblicizzavano mate per dimagrire o assicurazioni auto dagli sconti notevoli. Sul sedile, accanto a lei, c’era una bottiglia di acqua fresca. Elisa bevve un lungo sorso domandandosi se Luis si fosse fermato per comprare qualcosa o per fare chissà cos’altro. Continuava a guidare con lo stesso slancio di sempre, come se cercasse la destinazione della sua passeggera. Sembrava proprio che stesse svolgendo il suo lavoro.
Quando il sole iniziò a picchiare forte, l’auto svoltò su un sentiero sterrato. «Non siamo lontani dalla capitale» disse Luis. «Non avere paura».
La strada adesso era parecchio stretta, ai lati c’era erba secca e alta, case con persiane chiuse e bambini seduti su delle panche, svegli da poco, che bevevano acqua da bottiglie di plastica o latte da tazze con disegni di supereroi. Elisa vide cani magri e gatti grassi. Sentì anche dei grilli o qualche altro insetto incollato al vetro del taxi. Non vide adulti nella zona.
Luis frenò davanti a una di quelle case. Elisa aveva ancora la nausea. Le parve di essere rimasta seduta o immobile per ore e che in quell’auto tutto fosse un’altalena infinita. Faceva un gran caldo, lo stesso che Elisa aveva cercato di evitare la sera prima decidendo di cenare in un ristorante con l’aria condizionata e obbligando la sorella a sceglierne uno che ce l’avesse. Luis scese dall’auto. Era difficile capire la statura di un tassista, ora Elisa ne aveva modo. L’uomo fece mezzo giro intorno al veicolo e aprì lo sportello alla sua passeggera. La invitò a scendere. Lei era ancora stordita. Il cuore adesso le batteva lentamente, la pressione sanguigna era scesa di parecchio. Aveva bisogno di zuccheri. «Hai perso colore di nuovo» le disse Luis. Elisa ripensò a un viaggio in macchina fatto qualche anno prima, ci pensava spesso, soprattutto quando aveva la febbre. Era seduta sul sedile posteriore e sua madre guidava fumando una sigaretta dopo l’altra. Ascoltavano la radio, un brano conosciuto, di quelli che diventano un tormentone, e di colpo, lo scontro avvenne davanti ai loro occhi: un’auto incastrata in un’altra, come se si fossero attratte, come se fossero fatte per stare insieme. Fuoriusciva una gran quantità di fumo e una ruota espulsa da uno dei veicoli girava da sola, perché è questo che fanno le ruote, girano, devono girare. Elisa e sua madre non hanno mai saputo chi ci fosse lì dentro. Accelerarono e proseguirono sulla stessa strada per altri dieci chilometri. Non si dissero niente. Lasciarono che fossero quelle immagini a parlare.
Luis aiutò Elisa a camminare. Entrarono in una casa piccola ma graziosa, con aria fresca nelle stanze e acqua gassata in frigorifero. Luis aiutò Elisa a sedersi su una sedia di legno, poi andò a prendere un bicchiere di vetro. Elisa si riempì gli occhi: il tavolo della cucina era invaso da riviste sportive, su una sedia formavano addirittura una montagna, simile a una presenza fatta di carta. Un orologio da parete era fermo alle cinque del pomeriggio o del mattino. Dalla finestra sopra il forno entrava una luce color seppia, come nelle case dei nonni o nei salotti delle prozie con problemi cardiaci. Era una casa silenziosissima, disturbata talvolta dal ronzio di un tagliaerba o di una mosca esageratamente verde. Mentre Elisa beveva l’acqua offerta da Luis, i dotti lacrimali le si riempirono di liquido. La porta di casa era rimasta aperta. «Serve una presa?» domandò Luis indicandogliene una ed Elisa vi mise in carica il suo cellulare. Sentì dalla cucina rumori di oggetti spostati da una parte all’altra, era Luis che preparava una robusta colazione. Elisa lo osservò mentre si dava da fare, prestando attenzione al tatuaggio che aveva sul braccio, ora ben visibile: il simbolo dell’infinito. Come un viaggio che non finisce mai, pensò.
Ci fu un istante di silenzio in cui si udì soltanto lo sportello del frigo aprirsi e chiudersi, il tonfo di qualche pentola, le forbici che aprivano il cartone del latte, una caffettiera, il clic di un tostapane. Più in là, attaccato con del nastro adesivo, il viso di un calciatore famoso, con lo sguardo rivolto verso Elisa, decorava la parete sopra il letto. In casa c’è qualcun altro, pensò lei.
«Mi fai fare una telefonata?». Luis rispose di sì e le prestò il suo telefono. Elisa compose il numero della madre. Seguirono tre squilli e poi, dall’altra parte della linea, provenne una voce rauca e insieme acuta che sembrava di questo mondo, ma anche di un altro: Chi è? Elisa sentiva il suo respiro. Guardò Luis che serviva tre fette di pane tostato in un piatto fondo e delle uova strapazzate in una ciotola di vetro. Elisa, sei tu? Elisa riattaccò. Non sapeva cosa dire né cosa fare. Adesso il futuro era un po’ più sfocato.

Le stelle nere, di Giulia Oglialoro

Industria&Letteratura porta in libreria un nuovo Invisibile, la sofisticata collana di narrativa breve curata da Martino Baldi, con il testo di Giulia Oglialoro Le stelle nere, vincitore del Premio Ceppo Under 35, opera prima. Il libro è pubblicato col sostegno del Premio e della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia.
Un esordio di rara potenza narrativa e immaginifica che sin da subito rivela le stimmate di una scrittrice dalla voce inconfondibile.

Cattedrale vi propone l’incipit del libro, per gentile concessione dell’editore.



Le stelle nere
di Giulia Oglialoro


Le braccia tese in alto, verso il soffitto di legni intrecciati, attraverso cui risplendono le stelle. La testa di poco reclinata indietro, il collo nudo avvolto dal vento che spira alle sue spalle. La schiena dritta di pietra levigata, le gambe inscalfibili, una davanti all’altra, restano i piedi a contenere lo slancio, a chiudere come sigilli un corpo che può diventare qualsiasi cosa. Il piede destro, davanti, rivolto a est, quello sinistro rivolto a ovest, due aperture, due direzioni possibili per un tronco teso che sembra non aver mai conosciuto separazione. Gli spettatori stanno per arrivare, non può vederli ma i loro bisbigli riempiono il buio – dove siederanno? Forse proprio qui, accanto a lei, lungo il palco che si estende ovunque, senza direzione. Agnes. Ecco un primo accordo, lascia un’eco di cristallo. Il braccio destro inizia a scendere, lentamente. Come se non fosse davvero la gravità a richiamarlo, ma fluttuasse nel vento, in questo vento che spira alle sue spalle. Agnes. Il velluto che la ricopre per intero prende a scintillare; la sua pelle è lunare, il vento è sempre più freddo. Il braccio discende ancora, inizia a disfarsi. Inizia dalla punta delle dita, e poi via via i palmi, i polsi, e non c’è altro che questa carne lucente che scompare, si disperde in polvere.
«Agnes».
Apre gli occhi. Nell’oscurità riconosce la voce di Ester.
«L’uomo è qui».
Si rialza dal giaciglio in cui si è accasciata, scavato fra due rocce. Le gambe stanchissime, ancora contratte dalla fatica. Ester la prende per mano; impugnando le torce si fanno spazio tra i cumuli di pietre, nel vento che spira in ogni direzione. Ogni cosa a quest’altezza sembra essersi ritirata, il mondo potrebbe non aver mai avuto inizio. Nessuna luce in lontananza ad annunciare una città oltre la valle, soltanto il cielo buio richiuso come una palpebra sul mondo, e rocce altissime, ovunque guardi, orlate a tratti da scintille di neve. Un odore umido e minerale le riempie i polmoni, come se risalire la montagna fosse stato anche precipitare dentro la terra.
«Wo ist er?»
L’uomo si rivolge a Ester con un accento affilato che Agnes non ha mai sentito prima. «Lei parla solo polacco». Agnes ha una mano sulla spalla della ragazza ora. «Non può capirti».
Avverte il calore della lanterna avvicinarsi al viso. Nella luce fioca e instabile intuisce la pelle bianca dell’uomo, gli occhi privi di ogni colore.
«Dov’è il soldato che guidava il furgone?»
«Ci ha lasciate alla fine del bosco». Parlano così vicini che ad Agnes sembra di poter percepire il tabacco nel suo fiato.
«Ha detto che da quel punto in poi avremmo dovuto proseguire sole. E poi di aspettarti in cima».
L’uomo affila lo sguardo. «Avete incontrato le guardie di frontiera?»
Del viaggio Agnes ricorda solo dettagli scombinati – l’impressione del suo corpo stretto insieme a quello di Ester, lo stridore ghiacciato dei rami contro i finestrini, la luce corpuscolare che trapassava dal telo steso sopra le loro teste. Quando il convoglio aveva smesso di sobbalzare, lo spazio si era riempito di voci straniere: allora si era resa conto del silenzio che possono produrre due corpi assieme quando smettono di respirare. Per un attimo, aveva ripensato alle scene a cui aveva assistito molte volte, in una vita e in una terra lontanissime: il volto dell’animale premuto sul tavolo, la tenue peluria bianca che scintillava sotto il sole, mentre le mani grandi di sua madre assestavano l’ultimo colpo. Si era chiesta se era questo che percepivano gli agnelli della fattoria negli ultimi istanti di vita – il mondo ridotto a presenze striscianti, ombre liquide alla periferia degli occhi.
«Il furgone si è fermato una sola volta prima di lasciarci. Si sono avvicinati degli uomini, ma non ho sentito cosa dicessero».
L’uomo sibila imprecazioni che Agnes non coglie per intero; parole rovinate e appuntite come schegge. Adesso non lo guarda più: tiene gli occhi fissi sui bottoni della sua giacca, tutti diversi e graffiati, minuscoli astri in ottone che scintillano con la luce della lanterna.
«Gli accordi erano che avrei ricevuto l’altra metà del pagamento in cima, e poi vi avrei accompagnate». L’uomo scuote la testa; alcuni fiocchi di neve volteggiano nel vento. «Aprite gli zaini».
Agnes lascia cadere per prima la sacca che si porta sulle spalle: del rovistare dell’uomo non coglie altro che piccoli clangori, lo sfiorarsi dei vetri delle conserve preparate nelle settimane precedenti; avanzi sottratti agli sguardi ubriachi delle guardie del campo, quando si offriva di ripulire e sparecchiare le lunghe tavolate. Lodavano la sua energica disponibilità in una lingua che Agnes comprendeva solo a tratti. «Thank you, sir», rispondeva senza sorridere, raccogliendo le pile di piatti tra le braccia; talvolta si defilava con un passo di lato, sfuggendo alle mani che si aggrappavano ai suoi fianchi, e alle dichiarazioni biascicate che promettevano di portarla via dall’Austria. Nei giorni precedenti alla partenza, tutta la rabbia covata nei mesi si era trasformata in diligente organizzazione: provava persino un certo gusto nel disossare i polli avanzati dai soldati, pelare i pomodori lasciati intoccati dopo un solo morso, cuocere le bucce di patate che avrebbero buttato. Ora le scorte preparate con attenzione lasciano solo smorfie di disgusto nel volto dell’uomo: affonda gli scarponi nella neve, fruga nelle loro sacche, scuotendo la testa, i vetri appaiono e scompaiono nella luce sfarfallante. E poi Agnes avverte le mani di lui scivolare lungo i sottili pantaloni di tela, inumiditi dalla neve; nervose come animali, affondano nelle tasche per estrarne solo polvere e fazzoletti consunti. E quando schiudono i bottoni della giacca, Agnes smette di respirare.
«Non troverai nulla». La voce di Ester risuona ferma e gelida come il vento. «Quello che avevamo, l’abbiamo venduto per pagare il viaggio».
Guarda l’uomo per un tempo che ad Agnes sembra infinito, come se fosse certa che lui, questa volta, potesse capirla. La neve non smette di cadere.
«Spegnete le luci. D’ora in poi proseguiremo al buio».

Ciclopi, di Manuela Piemonte

Nutrimenti porta in libreria Le ciclopi, di Manuela Piemonte. Una raccolta di racconti sul mondo di oggi, sulle donne che lo abitano e che devono barcamenarsi tra lavori precari, sconfitte emotive, cambiamenti imprevedibili e molte incertezze.

Cattedrale vi propone uno dei testi contenuto nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

CICLOPI
di Manuela Piemonte


Era il primo inverno del lavoro in discoteca, le notti del venerdì e del sabato in piedi fino alle sette del mattino. Lei trascorreva ore nel guardaroba a tenere d’occhio giacche e borse, tre giri di sciarpa al collo, in esilio al piano di sopra in un edificio occupato, dal basso l’eco della musica e delle risate, delle chiacchiere e delle grida.
In attesa dei clienti vagava tra gli uffici trasformati in cucine con sei fuochi e pentole da rancio, tra i muri scrostati con una tappezzeria di volantini contro la guerra. Gli slogan alle pareti la rassicuravano rispetto all’imprevisto che l’aveva portata lì: il bisogno di soldi non era una condizione perenne ma una fase. Una fase e nient’altro, improvvisa come la telefonata con cui le avevano detto che non avrebbero potuto mandarle la quota, insolita quanto la domanda di borsa di studio respinta per un cavillo.
Era bastato chiedere alla barista a cui di solito ordinava il gin tonic, presentarsi il giorno di prova, superare la notte, intascare la banconota e tracciare i confini: da un lato la voglia di costruire il futuro, dall’altro la voglia di vivere il presente. In mezzo il cancello da attraversare, un cancello di notti a occhi aperti e ritmi al contrario, negli angoli dell’esistenza che lei aveva sempre immaginato e a trovarseli davanti non avevano niente di speciale, come le persone di cui si sente parlare a lungo e si rivelano una delusione fin dalla stretta di mano.
Quando i clienti ritiravano l’ultimo cappotto c’erano i bagni da pulire, con la segatura e la candeggina. Una volta che ogni venerdì e sabato lavi via le impronte sporche di piscio di mille sconosciuti, non esistono più fatica né livello di insoddisfazione, da lì sarà soltanto una salita in alto fino alla luna.
Dopo toccava alla pista da ballo, assi di legno da cui staccare le macchie con il sapone, l’acqua e la cera, come se la gente in un locale con la musica al massimo volume e le luci soffuse si mettesse davvero a esaminare il grado di brillantezza dei pavimenti.
Il martedì usciva all’ora in cui nel fine settimana era andata a dormire e con tre spiccioli in tasca e i piedi dritti fino al mercato si ripeteva “una frutta e una verdura, una frutta e una verdura” e comprava solo roba in offerta, sul punto di marcire, talvolta quasi regalata, finché aveva scoperto che prima dell’apertura un trasportatore consegnava le cassette dell’orto all’alimentari sotto casa, dove non c’erano telecamere. Lei e le sue compagne d’appartamento prendevano un paio di mele, tre zucchine, una busta d’insalata. L’accortezza di non scegliere primizie e nel portare via quattro vegetali tra i più comuni sentirsi ladre, sì, ma solo al cinquanta per cento. Non avrebbe mai rubato alla luce del giorno, tra le corsie di un supermercato. In questo, almeno, la notte non riusciva a cambiarla. Perché lei contava le monete e dava il resto preciso al centesimo, in discoteca, e parlava con i clienti e augurava buona serata, buon divertimento, a più tardi, anche quando avrebbe voluto scendere in pista e urlare. Invece raccoglieva cappotti, giacconi, caschi per la moto, e dopo la nottata si svegliava quando l’orologio segnava le cinque, con nove o dieci ore di sonno alle spalle e i muscoli tesi dentro le braccia per lo sforzo di passare il sapone, l’acqua e il lucidante.
Un pomeriggio di domenica, dopo due mesi di lavoro-sonno-fame, lei aprì gli occhi e nell’oscurità della stanza capì di aver appena messo a fuoco, fin troppo a fuoco, la serranda socchiusa da cui filtrava la luce. Se riusciva a vederla bene significava che era andata a dormire senza togliere le lenti a contatto. Corse in bagno e le staccò a fatica, le immerse nel piccolo contenitore, inforcò gli occhiali, preparò un caffè e restò a chiacchierare con una coinquilina, e intanto a mano a mano che l’orologio girava, giravano le lacrime, inarrestabili, contro la sua volontà, una fontana dall’occhio sinistro. Lei però non poteva curarsene. Aveva un esame da preparare, una stanza da riordinare, anche se in testa la inseguivano le voci dei clienti che per due notti di fila l’avevano tempestata di richieste di sconti, i flash della luce stroboscopica mentre setacciava tavoli a caccia di bicchieri vuoti, i polpastrelli come mollica di pane mentre sciacquava e risciacquava… tutto doveva scivolare via, lontano da lei, fino a diventare uno spettro senza case da infestare. Ormai era domenica pomeriggio, il corpo voleva ficcare la vita sotto il tappeto, ma l’occhio lacrimava e domandava come ci fosse finita in quell’esistenza, lei che a tredici anni sognava di andarsene di casa e avere una stanza tutta per sé, ma non aveva saputo vedere fino al presente, scovare i rischi e i tranelli, e in fondo aveva sempre osservato la vita con un occhio solo.
Alle nove di sera la coinquilina la costrinse a vestirsi, scendere in strada, attraversare i vicoli e salire scalinate fino al pronto soccorso.
Come mai siete venute qui e non all’oftalmico?, domandò l’infermiera all’accettazione, poi lei si ritrovò seduta davanti a un medico: Signorina, ha un graffio alla cornea, un danno serio, da tenere controllato, dovrà stare per settimane con una benda, le prescrivo una crema che potrebbe, nella migliore delle ipotesi, se avrà molta fortuna, riparare la lesione.
Da quel giorno lei indossava gli occhiali ovunque andasse, dopo aver tanto lottato per non portarli, e invece eccola con una montatura d’alta moda, pagata grazie ai turni in un call center di un’estate fa. Anche in quel caso credere al lavoro come una transizione, una sbornia di poche settimane per un computer e altri risparmi da investire in vacanze ‘mordi e fuggì. Invece adesso non c’erano vacanze all’orizzonte di un occhio bendato, né dell’altro coperto da un miscuglio di azzurro e blu, a ricreare il colore del mare incontaminato. Con l’ombretto e il bendaggio era costretta a uscire in un mondo appiattito alla vista, entrare in università e a lezione, tre volte al giorno applicare il disinfettante, stendere la pomata, riporre la garza e il lungo cerotto per tenerla salda, e ripensare, a ogni gesto, al costo incredibile di quei farmaci, per lei che allo Stato risultava a carico dei genitori da cui era scappata, ai quali non poteva chiedere né raccontare nulla, e così andava con un occhio solo, di nuovo nel fine settimana, nel guardaroba gelido, a ritirare cappotti e borse, di fronte a ragazze con il trucco da diva, e lei con la vista al cinquanta per cento, il corpo freddo al cinquanta per cento, la pancia vuota al cinquanta per cento.
L’unico lusso che poteva permettersi era lasciar scorrere. Le settimane e le notti in discoteca. Le lezioni e gli esami col massimo dei voti. Accantonare le speranze, i baci rubati e respirati, mentre l’occhio si curava e l’inverno si spegneva, e lei e le sue coinquiline portavano a casa una frutta e una verdura, un cesto di fragole, una marea di risate.
Un sabato notte al ritorno dalla discoteca girarono tre quarti d’ora in cerca di un posto per la sua auto degli anni Sessanta con il fondo marcio di pioggia, in cui il cric affondava come coltello nel burro se si tentava di cambiare una ruota.
Erano le sette del mattino, si fermarono in seconda fila e lei spense il motore, disse alle altre di andare, sarebbe rimasta in attesa di una possibilità, ma loro non volevano. Chiusero gli occhi a una a una. Un clacson le svegliò mezz’ora dopo, si poteva parcheggiare, tornare, riposare.
Erano trascorsi due mesi dalla domenica delle lacrime, una settimana dalla visita medica.
Lei ci vede bene, benissimo, aveva detto il dottore, a parte questo lieve difetto di miopia, la cornea è guarita.
Le aveva raccomandato di prenotare subito la visita di controllo e le aveva dato in omaggio un collirio di ultima generazione. Se l’era versato ogni mezz’ora per tutta la notte in discoteca, al guardaroba, mentre raccoglieva bicchieri, li sciacquava, li asciugava, li ordinava sulle mensole di legno, sorrideva ai clienti, salutava, e adesso il mattino entrava fresco dalla finestra socchiusa, la città invadeva la stanza confondendo i confini – di qua la voglia di futuro, di là la voglia di presente, di qua una fase passeggera, di là una condizione perenne –, e lei si struccava, apriva una confezione di lenti a contatto ancora sigillata, si infilava le scarpe da ginnastica, usciva a passo svelto per raggiungere l’edicola e cercava il giornale degli annunci di lavoro.

Al buio brillante, di Liliana Colanzi

Gran vía Edizioni porta in libreria Al buio brillante, di Liliana Colanzi, tradotta da Olga Alessandra Barbato.
 I racconti di Liliana Colanzi, premiati da uno dei più importanti riconoscimenti internazionali dedicati alla forma breve, risplendono da quel centro andino che è la Bolivia, meticciato di culture e tradizioni, per trasportarci in un tempo che si dilata e si contrae, unendo fantascienza, distopia e realismo, per porre infine il lettore di fronte al dolore e all’inquietudine della vita, esplorati tuttavia come spazio di resistenza, come luce che si irradia nell’oscurità.

Cattedrale vi propone un estratto del racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.


Al buio brillate
di Liliana Colanzi

Traduzione di Olga Alessandra Barbato

Ci misero tutti quanti nello Stadio olimpico. Il quartiere si svuotò, le porte delle case aperte, il cibo pronto e ancora caldo sulla tavola, i cani a ululare per i loro padroni nei cortili. Ci tennero lì per diverse ore senza dirci nulla. Avevo molta paura di stare in mezzo a così tanta gente, Dio mi perdoni, ma anche i bambini mi spaventavano, li volevo lontani da me, lontano da me quelle manine sporche, innocenti e forse mortali. Nessuno sapeva dove, in quale parte del corpo o dei vestiti si fosse depositato il veleno. Siamo stati divisi in file ed è iniziato il controllo.
Ispezionavano soprattutto i piedi: se il rivelatore emetteva un suono, ti mandavano a lavarti più e più volte con sapone di cocco e aceto, finché la pelle non diventava rossa come l’achiote per lo sfregamento. Su di me non trovarono niente, e nemmeno su mia madre, mia sorella Ana Lúcia, lo zio Silas, e neanche su mia cugina Gislene, che entrava e usciva sempre dai bar e si strusciava con gli uomini, ma su mio padre sì. Il mio povero padre, così stupido, era andato a bere nello stesso bar dove c’erano i cercatori di rottami, di nascosto da mia madre e da tutti noi, con la scusa di andare a comprare il jogo do bicho. Qualche volta mia madre gli aveva detto che quella bettola sarebbe stata la sua rovina. E per colpa della mezz’ora in cui era stato in quel bar e per essersi seduto a chiacchierare con quegli sfasciacarrozze e per essere stato contaminato da quella cosa, quella cosa più piccola di un granello di sabbia e fatta di fuoco, ci evacuarono tutti e demolirono la nostra casa: non ci lasciarono portare con noi nemmeno una foto, un ricordo, un capo d’abbigliamento. Mio padre era appena andato in pensione dal suo lavoro di maschera al Teatro Goiânia per potersi godere la casa e il giardino. E da un giorno all’altro non era rimasto un solo mattone di quella casa. Niente di niente.
Una volta, il proprietario della panetteria, don Atílio, incontrò papà sull’autobus e cominciò a dire a voce altissima, in modo che tutti sentissero, che mio padre era uno dei malati, che quello era un affronto, che così metteva tutti in pericolo. I passeggeri iniziarono subito a gridare, guardando papà con facce di disgusto e terrore come se avessero visto una vipera attorcigliata, un ragno peloso, un ratto pieno di vermi, finché l’autista non si fermò e costrinse papà a scendere per aver fatto confusione su un mezzo pubblico. Il governo ci diede una casa in un’altra zona della città, dove non ci conosceva nessuno, ma mio padre non riuscì mai a riprendersi dalla pena che gli provocò l’incidente sull’autobus. Morì nel giro di due mesi, apparentemente per un’insufficienza renale causata dall’alcol, ma io credo che fu il granello di fuoco. Diversi conoscenti cominciarono a morire di malattie rare e fulminanti.
A quel tempo lavoravo come receptionist al Castro’s Park Hotel, quello con quindici piani e due piscine piastrellate. Mi piaceva quel lavoro. Al momento dell’incidente, le squadre internazionali del Gran Premio, che si svolgeva per la prima volta in città, alloggiavano nell’hotel. Uno dei piloti mi disse che girava voce che a Goiânia stesse accadendo qualcosa di grave e che la gara poteva essere annullata da un momento all’altro. Era un uomo molto bello, con i capelli impomatati all’indietro e una catenina con una croce d’oro al collo. Prima di andarsene mi chiese il numero di telefono e mi regalò un pacchetto di sigarette al mentolo che mia cugina mi rubò dal comodino, perché io non fumo.
Non seppi mai se mi chiamò: giorni dopo ero senza casa e vivevo con la mia famiglia in una tenda. La verità è che, quando la voce si sparse, il panico si diffuse e l’hotel si svuotò da un giorno all’altro. Nessuno voleva venire in città qualunque fosse il motivo, il telefono squillava soltanto per cancellare le prenotazioni e l’hotel era diventato un posto triste. Un giorno il direttore mi chiamò nel suo ufficio per licenziarmi. Era la fine del 1987, avevo appena compiuto diciannove anni e mio padre era già sottoterra. Così sono partita per São Paulo con un’amica, senza conoscere nessuno.
Appena arrivate avevamo quasi trovato lavoro in una gioielleria di rua Barão de Paranapiacaba. Mancavano pochi giorni al Natale e la strada tremolava di lucine e ghirlande. Ma non appena la proprietaria scoprì che eravamo di Goiânia si inventò delle scuse e non ci volle assumere. Quando stavamo per uscire ci chiamò. Pensammo per un secondo che avesse cambiato idea. La donna aveva una curiosità, una domanda che le usciva dalla gola.
Al buio brillate?

 

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I raccoglitori di rottami arrivarono con la carriola traboccante di ferraglia: gli dissero che proveniva dalla clinica abbandonata che operava all’incrocio tra le avenidas Paranaíba e Tocantins, ai margini del Setor Aeroporto di Goiânia. Devair si ricordava dell’ospedale perché anni prima aveva visto i medici che entravano e uscivano e la gente in fila per farsi curare il cancro. L’edificio era da tempo in rovina. Un’ala era stata demolita. La parte ancora in piedi non aveva tetto o finestre, e per questo motivo gli sfasciacarrozze non si sognavano nemmeno di trovare i mobili e l’apparecchiatura medica ancora al loro posto. Che tipo di persone poteva permettersi il lusso di abbandonare un ospedale con l’apparecchiatura dentro?, dissero.
A Devair non importava da dove provenisse la ferraglia: gli portavano pezzi di auto antiche, vecchi televisori, pentole usate, manubri di biciclette, merce rubata. La ferraglia pesava circa quattrocento chili. Gli uomini accettarono senza contrattare i millecinquecento cruceiros che offrì loro: sarebbero andati dritti al bar per curarsi il mal di testa con qualche bicchiere. Notò la strana abbronzatura degli uomini – una intensa tonalità zucca –, ma non disse niente, nel quartiere da sempre si vedevano cose ben più strane.
La luce lo sorprese quella notte mentre fumava in cortile, accanto al tetto di zinco del capannone. Sgorgava dalla ferraglia che aveva appena acquistato e si disfaceva in un velo lattiginoso, iridescente, dalle molteplici sfumature, una luminescenza blu come di stella o di fondo del mare. Si spaventò. Pensò ai morti, al diavolo, agli extraterrestri.
Scostò i pezzi e scoprì che il bagliore proveniva da un cilindro delle dimensioni di un ditale: un tesoro in mezzo ai rottami. Girandolo scoprì che la luce raggiungeva l’esterno solo quando coincideva con una minuscola finestra: ora sì, ora no, come un trucco di magia.
Si sedette nell’angolo in cui sventrava gli elettrodomestici, sotto il getto di luce della lampada, con tutti gli strumenti intorno – la chiave inglese grande e quella piccola, il martello, il set di cacciaviti, la chiave a cricchetto, il trapano, la pinza, le tenaglie, la sega con la lama arrugginita e rotta – e batté più volte sullo spioncino con la punta di un cacciavite. La finestrella emise un piccolo crac quando si ruppe. Frugò nell’occhio della capsula con la punta del cacciavite fino a estrarne dei granelli: sotto la luce diretta non erano altro che sali comuni. Potevano essere quei granelli l’origine del bagliore?
Spense la luce: proprio come sospettava, al buio i sali diventarono neve incandescente. Strofinò quella sostanza e il fulgore si estese al palmo della sua mano. Osservò, commosso e perplesso, la combustione celeste. Lì, tra il bagliore blu e le ombre della ferraglia, l’idea emerse nel suo cervello come un fungo che fa capolino dopo la pioggia: avrebbe fatto a sua moglie l’anello più bello, più brillante, più insolito. Sorrise.

* * *

Ero a Goiânia per un progetto del governo quando ho ricevuto la chiamata. Era il direttore dell’ospedale per dirmi che negli ultimi giorni erano arrivati vari pazienti affetti da una malattia sconosciuta: arrivavano con vomito, vertigini, diarrea, bruciature. Le persone davano la colpa a un tubo metallico, un pezzo di ferro del demonio portato dalla moglie dello sfasciacarrozze. E dov’è?, gli chiesi. In uno degli uffici, disse il direttore dell’ospedale. La donna?, specificai. No, il tubo di metallo, mi disse. La moglie non so dov’è. E aggiunse: Lei pensa che sia possibile…?
Il direttore sembrava a disagio, preoccupato di apparire ridicolo. Sa com’è, le persone ignoranti si inventano di tutto, disse. Si aspettava che lo tranquillizzassi, che gli dicessi: Non si preoccupi, non è niente di grave. Chiamai un’agenzia di prospezione dell’uranio con cui avevo lavorato vicino al vulcano di Amorinópolis un anno prima e chiesi in prestito un rivelatore. La segretaria si ricordava di me con simpatia; non mi chiese nemmeno la firma.
Quando sono arrivato all’ospedale ho trovato due pompieri seduti sul marciapiede, che fumavano e scherzavano accanto all’autopompa. Un’infermiera mi ha indicato l’ufficio dove era stato messo il rottame. Il corridoio che portava a quell’ufficio era affollato di pazienti: donne incinte, neonati in braccio, vecchi storpi. A circa ottanta metri dall’ufficio il rivelatore ha cominciato a comportarsi in modo molto strano: l’ago si muoveva così tanto che ho pensato fosse difettoso. Sono tornato all’ospedale con un nuovo rivelatore. Ancora una volta, a ottanta metri da quella stanza, il rivelatore ha cominciato a saturarsi. Poteva significare soltanto due cose. O che entrambi i contatori erano difettosi o che l’ospedale era una bomba radioattiva.
In quel momento uno dei pompieri è entrato nell’ufficio e ne è uscito con una borsa: mi ha sorriso come se avesse un panino con la mortadella in mano. Era la borsa di nylon in cui era conservato il rottame. Non aveva nemmeno i guanti: solo allora mi sono reso conto che il pompiere era poco più che un bambino. Gli ho chiesto cosa stesse facendo. Vado a buttarlo nel fiume, mi ha detto. La segretaria dell’ospedale aveva una radio a pile: mi guardava con occhi sognanti mentre con le unghie smaltate sintonizzava una canzone di Cazuza. Mi sono sentito gridare PER L’AMOR DI DIO! con una voce che era uno stridio, un fischio, il gracchiare di un uccello spaventato e ridicolo.
Abbiamo evacuato immediatamente il pronto soccorso.

* * *

Devair non sapeva a cosa serviva la polvere che aveva trovato dentro il cilindro e che aveva brillato tutta la notte ai piedi del letto. Gabriela, sua moglie, si lamentava che il bagliore le causava mal di testa e sogni stranissimi; lo irritò la sua mancanza di entusiasmo, ma pensò che la situazione sarebbe cambiata una volta regalatole l’anello luminoso. Aveva bisogno di estrarre più sostanza e per farlo doveva rompere la copertura protettiva della capsula.
I suoi dipendenti del deposito di rottami, Israel e Admilson, si organizzarono in turni per fare a pezzi quell’affare, prima con il martello e poi con la mazza, fino a spaccare la copertura protettiva; erano giovani e forti e non ci misero troppo tempo. (Il mese successivo entrambi i ragazzi saranno morti e verranno sepolti in bare di piombo ricoperte di cemento; Admilson trascorrerà la sua agonia gridando il nome di sua madre nell’Ospedale navale di Río de Janeiro, dove verrà trasportato in elicottero, contro la sua volontà.)
Mandò a chiamare amici, parenti e vicini, e distribuì tra tutti il miracolo dei sali fluorescenti. Il suo amico Marcio se ne mise una manciata in tasca e più tardi lo gettò nel recinto degli animali, tra lo schiamazzo di polli e maiali. Don Ernesto regalò i granelli a sua moglie, che si arrabbiò vedendolo arrivare ubriaco e gettò la polvere giù per il water senza guardarla. A Claudio venne in mente che si potesse trattare di un tipo di polvere da sparo progettata dai militari e cercò di dargli fuoco con l’accendino, ma i sali non bruciarono e non si sciolsero. Ivo, suo fratello, si portò alcune pietrine per dipingere di luce il corpo della piccola Leide das Neves, che restò incantata dalla polvere magica; la bambina si sedette a mangiare con le mani coperte di particelle brillanti.
Solo Gabriela si tenne alla larga dai festeggiamenti. Era sospettosa, impaziente, non si fidava di tutta quella allegria. Come un cane che fiuta la tempesta nell’aria, come un uccello che sente lo sparo dall’altra parte del bosco, tutto il suo corpo rispondeva all’avvertimento di pericolo.

Bestiario del sogno, di Franco Santucci

Wojtek porta in libreria Bestiario del sogno, di Franco Santucci. Una raccolta di sedici storie in cerca di illuminazione. Animismo e riflessione storica, il dominio della macchina e l’ineffabilità dei legami amorosi: con un misto di ponderazione e spregiudicatezza, Santucci usa i mezzi e i temi della letteratura fantastica per forzare una via verso l’inconscio.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro, per gentile concessione dell’editore.

Serpente bianco
di
Franco Santucci

Dissi a mio figlio di non togliersi le ciabatte perché potevano esserci dei pezzi di vetro. Alle spalle ci lasciavamo il molo e una luce giallo tenue che né il bianco della banchina né i riverberi sull’acqua del canale erano riusciti a scaldare. Di fronte, una dozzina di persone ammiravano delle ossa di dinosauro: uno scheletro era eretto con la naturalezza statica di un’impalcatura da museo; l’altro, una femmina, parzialmente sommerso, eccetto che per l’enormità di costole che lottavano con la sabbia e il tempo.
Era una specie di tirannosauro, ma volli affrettarmi per evi tare che il bambino vi sostasse troppo. La nostra meta era la f ine del lido privato dove gli spazi si sarebbero allargati e gli ombrelloni divenuti meno frequenti, nello stesso luogo in cui andavo con i miei fratelli e i miei genitori, ognuno armato di zaini o sedie.
Superato quel punto trovammo due uomini e una donna intenti a guardare sulla sabbia un serpente bianco sdraiato sul dorso, la lingua protrattile in un movimento continuo e ripetitivo. La grandezza era quella di un grosso biacco, ma la posizione riversa e la sua immobilità non mi permettevano di capire di quale specie fosse, anche se dalle squame ventrali, biancastre, si intuiva che il lato nascosto era dello stesso colore. Lo oltrepassai temendo che mio figlio potesse essere morso e che quella catalessi fosse una tecnica dell’animale, una specie di tanatosi malriuscita; il piedino fu ai limiti del capo rovesciato del rettile e sembrò che la sua lingua mobile lo toccasse impercettibile proprio nell’attimo del passaggio.
Chiesi alla donna in costume se fosse una specie velenosa e quale nome avesse e lei, amareggiata e affranta per il serpente, e sorpresa dalla mia richiesta, pronunciò una parola che iniziava con la O seguita da un molteplicità irriproducibile di consonanti che avrebbe dovuto essere un nome ma era un proposito. Piangendo afferrò l’ofide che, nel momento della presa, aveva non una ma due teste, capovolte entrambe e con la lingua in sincrono, e lo lanciò in mare.
Vidi l’animale volare via e affondare nelle onde vicino alla riva, in un palmo d’acqua limpida nella luce pomeridiana. Biasimai la donna per tutta quella foga, al serpente non sarebbe servito a molto, era venuto per morire sulla spiaggia, attendere e conoscere mio figlio, sfiorargli la pelle come in un bacio e sibilare la nostra distanza, allora guardai il mare e ne sentii la voce, anche mia: «Ci siamo detti addio senza salutarci».

Statue viventi, di Günter Grass

La Nave di Teseo porta in libreria Statue viventi di Günter Grass, tradotto da Nicoletta Giacon e con i disegni originali dell’autore.
Un racconto lungo inedito del Premio Nobel per la Letteratura, con i disegni originali dell’autore. Inizialmente concepito come un capitolo della sua autobiografia, questo testo inedito è stato scoperto solo recentemente negli archivi dell’autore dalla sua storica collaboratrice, Hilke Ohsoling. Statue viventi è una storia conturbante di come un’opera d’arte può lavorare nella mente di uno scrittore, ossessionarlo, fino a prendere vita in modo imprevedibile.

Cattedrale vi propone l’incipit del racconto per gentile concessione dell’editore.

Oggi, i resti non sono che pezzi da museo duri come il cemento armato. Quando il Muro, alla cui presenza ci si era ormai abituati, esisteva ancora, nonostante le potenze da entrambi i lati della sua ombra continuassero – se pure in toni moderati – ad abbaiarsi addosso, ricevetti per posta un invito che accettai senza farmi troppe illusioni. I nomi di antiche città – Magdeburgo, Halle an der Saale, Jena ed Erfurt – lasciavano presagire un viaggio che avevo già fatto molti anni addietro. Mi si chiedeva di pazientare, le domande di ingresso erano già state spedite per posta. Mentre aspettavamo l’autorizzazione ad attraversare il confine con il prestigioso Stato degli operai e dei contadini, iniziai a passare in rassegna, con una certa esita zione, i miei ricordi sul medioevo, immaginando tavolate con commensali sempre diversi, piatti di carne fortemente speziati, salumi di ogni tipo che accompagnavano la zuppa di grano saraceno e di miglio addolcito con il miele. Quando, dopo i soliti ritardi – l’autorizzazione era stata rifiutata due volte – i documenti arrivarono con tanto di timbro, l’itinerario era rigorosamente stabilito, ma offriva la possibilità di una breve visita a Quedlinburg e a Naumburg, luoghi il cui passato giaceva sepolto nei libri di scuola della mia giovinezza.
Mi era già capitato di invitare a tavola dei personaggi storici. Una volta mi ero trovato in compagnia di un boia e della sua “clientela” a mangiare la trippa, e prima ancora a un lungo tavolo con dei commendatori. Dorothea von Montau portò in tavola l’aringa della Scania, un piatto del venerdì. Dopo il pasto a base di aringhe, Dorothea, che era un personaggio alquanto stravagante, recitò dei versi in alto-tedesco medio che noi, profondi conoscitori di letteratura, scoprimmo essere influenzati, pur mantenendo la loro peculiarità, dalla poesia del Minnesänger Wizlaw von Rügen. L’aringa della Scania ha dato il titolo al capitolo di un mio romanzo.
La nostra prima tappa fu Magdeburgo. Dopo una lunga e paziente corrispondenza, scritta e orale, con i vari uffici ecclesiastici e non, un pastore luterano di nome Tschiche, i cui figli – avendo rifiutato il servizio militare nell’Armata popolare nazionale – dovevano prestare servizio civile come soldati edili, aveva finalmente ottenuto una risposta positiva: avevamo il permesso di entrare nella Repubblica Democratica Tedesca, dove avrei potuto leggere, nelle chiese e nei centri parrocchiali, alcuni passaggi dal mio ultimo libro, che parlava di uomini e ratti. Mi è sempre piaciuto leggere ad alta voce. Se necessario, in luoghi sacri, la cui acustica è collaudata da tempo. Il medioevo – continuavo a ripetermi – è per noi più lontano di quanto non lo sia l’impero romano. A est dello Harz, per esempio a Quedlinburg, c’è molto di più da scoprire che nelle catacombe paleocristiane sulla via Appia. Trovammo alloggio in case parrocchiali che avrebbero avuto urgente bisogno di ristrutturazioni, e nelle quali i pasti erano preceduti d una breve preghiera. Le assi del pavimento scricchiolanti. La muffa nelle fondamenta. Le energiche mogli dei parroci. Durante il nostro viaggio, la sorveglianza da parte dello Stato rimase, tutto sommato, contenuta, persino la volta in cui fummo costretti ad abbandonare la sala parrocchiale di Halle, perché troppo affollata, e riparare in una vicina chiesa cattolica, dotata di un sistema di altoparlanti, che si riempì spontaneamente fino all’ultimo posto. Pagina dopo pagina, descrivevo nei minimi dettagli come i ratti sopravvissuti si esercitavano a camminare in posizione eretta. Ogni volta leggevo per un’ora buona. Dopodiché il pubblico, seduto stretto sui banchi della chiesa, faceva delle domande, in un primo momento esitanti, poi sempre più esplicite: “Dobbiamo restare? Dobbiamo fare domanda di espatrio?” E io rispondevo: “Anche dall’altra parte è solo un’altra parte.” Ma quelli che ponevano le domande non lo avevano ancora sperimentato.
Il passaggio da un secolo all’altro non era poi così grande. A Erfurt, dove Lutero – ai tempi in cui era monaco agostiniano – aveva imparato a conoscere il dubbio, il mio incontro con il pubblico si tenne in mezzo ad antiche mura. All’inizio, un gruppo di punk dell’Est fece di tutto per interrompere la lettura, ma poi iniziò ad appassionarsi alla mia storia sui ratti. Si svolgeva al tempo dei flagellanti, quando gli ebrei – a quanto si diceva – avevano subdolamente portato nel paese la peste. Al momento, lo Stato e i suoi organismi sembravano indeboliti. Il pastore di Jena, la moglie e i figli avevano un cavallo che, come nelle favole, si affacciava dalla porta della stalla. Eretici perseguitati da tempo immemorabile. E poi le guerre, datate e archiviate. Si diceva che in Turingia ci fossero dei valdesi fuggiti dalla Boemia. La canonica si ergeva, sbilenca, in una zona invasa dalla vegetazione, vicino agli storici campi di battaglia di Jena e Auerstedt. Un cartello indicava la strada. Ovunque, il medioevo gotico e tardo gotico si stava sgretolando. E anche il presente, nonostante la sua pretesa di stabilità politica e sociale, cominciava – iniziando dai margini della società – a diventare superato.
Ma chi avrei dovuto invitare a tavola?

© Steidl Verlag, Göttingen 2022
© Günter und Ute Grass Stiftung, Lübeck
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© 2024 La nave di Teseo editore, Milano

Il rapporto di Ogata Ryōsai, di Ryūnosuke Akutagawa

Il rapporto di Ogata Ryōsai
di Ryūnosuke Akutagawa

Di recente, nel mio villaggio, i seguaci del cristianesimo stanno confondendo le menti delle persone con la loro dottrina dannosa e malvagia. Ecco perché ho deciso di denunciare quanto ho visto e sentito, con la speranza che le autorità possano presto adottare i provvedimenti del caso.
Allora, il VII giorno del III mese di quest’anno Shino, la vedova di un contadino di nome Yosaku, è venuta da me supplicandomi di visitare sua figlia Sato, una bambina di nove anni gravemente malata. Shino, la terzogenita del contadino Sōbei, si è sposata dieci anni fa, rimanendo vedova poco dopo la nascita della figlia. In seguito alla morte del marito non ha voluto legarsi a nessun altro, riuscendo comunque a sopravvivere tessendo e facendo altri piccoli lavori che poteva svolgere in casa. Sennonché, abbagliata chissà da cosa, dopo il trapasso del marito si è convertita al cristianesimo e ha iniziato a frequentare con assiduità un certo padre Rodrigo, un prete che abita nel villaggio accanto al nostro. Per questo è incorsa nel biasimo generale, e qualcuno ha cominciato a denigrarla lasciando intendere che fosse diventata l’amante del prete. Suo padre, Sōbei, e i suoi fratelli hanno cercato in tutti i modi di farla rinsavire ma lei, sostenendo che nessuno è più degno di venerazione del dio cristiano, si è rifiutata di ascoltarli e, dimenticando perfino di visitare la tomba del suo defunto marito, ha continuato insieme alla figlia ad adorare mattina e sera un amuleto a forma di piccola croce che lei chiama «crocefisso». Ecco perché i suoi familiari hanno smesso di frequentarla, e perché in paese si è iniziato a vagliare la possibilità di bandirla.
Trattandosi di una persona del genere, quando è venuta da me per chiedermi di visitare la figlia, io le ho risposto che non potevo assolutamente farlo. Quel giorno lei se ne è andata in lacrime, ma il giorno seguente è tornata a trovarmi per dirmi che se avessi acconsentito a visitare la figlia, lei mi sarebbe stata riconoscente per tutta la vita. Io ho continuato a rifiutare, e allora lei, non accettando la mia decisione, si è prostrata in lacrime nell’ingresso della mia abitazione e, con una voce carica di rancore, mi si è così rivolta: «Le condizioni di mia figlia sono gravi. Perché non volete visitarla? Non capisco. Non è forse compito di un medico curare chi è malato?».
«Ciò che dite è vero, − ho risposto. − Tuttavia la mia decisione di non aiutarvi non è infondata. Se posso essere sincero, non mi piacciono i vostri modi, soprattutto quando accusate me e gli altri abitanti del villaggio di essere posseduti dal demonio solo perché veneriamo kami e buddha. Se la vostra fede è quella giusta e voi siete così pura, perché chiedete a un uomo succube del diavolo come me di curare vostra figlia? Non dovreste forse rivolgervi alla divinità in cui adesso credete? Se davvero desiderate che io visiti vostra figlia, prima dovete rinunciare alla fede cristiana. In caso contrario, continuerò a negarvi la mia assistenza, anche perché, per quanto la mia professione mi imponga di essere compassionevole, anch’io temo la punizione che le mie divinità potrebbero infliggermi»
Shino è rimasta ad ascoltarmi in silenzio dopodiché, incapace di ribattere, è tornata a casa triste e sfiduciata.
All’alba del giorno seguente, il IX del III mese, è iniziato a piovere con una tale intensità che per le strade del villaggio non si vedeva anima viva. Verso l’ora del coniglio Shino si è presentata di nuovo alla mia porta per rivolgermi la medesima supplica del giorno precedente. Non avendo l’ombrello, era bagnata come un pulcino.
«Anche se sono un semplice medico, sono un uomo di parola −, ho ribadito. − È una decisione difficile, lo so, ma dovete scegliere: o rinunciate al vostro dio o alla vita di vostra figlia!».
Udendo quelle parole Shino ha iniziato a sragionare e, prostratasi più volte davanti a me a mani giunte, con la voce rotta dal pianto mi ha implorato: «Avete perfettamente ragione, ma se abbandono la fede cristiana, il mio corpo e la mia anima saranno dannati per l’eternità. Vi prego, abbiate pietà di me. Acconsentite, almeno per questa volta, a visitare mia figlia».
Nonostante pratichi una confessione eretica, il suo amore per la figlia era così sincero che ho provato pietà per lei. Non potevo però permettere ai sentimenti di ottenebrare il buon senso, quindi ho ribadito con assoluta fermezza che non avrei visitato la figlia fino a quando lei non avesse abiurato. Shino mi ha fissato per alcuni attimi con un’espressione indescrivibile, dopodiché è scoppiata in lacrime e si è gettata ai miei piedi a mani giunte, per supplicarmi. A quel punto con un filo di voce ha pronunciato qualcosa che, a causa del rumore della pioggia, non sono stato in grado di comprendere. Per tre volte l’ho pregata di ripetere quanto aveva detto, e alla fine ho capito che, pur a malincuore, avrebbe acconsentito ad abiurare. Quando poi le ho detto che avevo bisogno di una prova che lo dimostrasse, lei, senza dire una parola, ha estratto dallo scollo del kimono la croce, l’ha posata sulle assi di legno che rivestono l’ingresso e in silenzio l’ha calpestata tre volte. Non sembrava particolarmente turbata, e aveva anche smesso di piangere; ciononostante fissava la croce che aveva sotto i piedi con lo sguardo di chi ha la febbre molto alta, la qual cosa ha fatto rabbrividire sia me sia il mio aiutante.
A quel punto, essendo riuscito a farle accettare le mie condizioni, il mio aiutante si è messo in spalla la cassetta dei medicinali e tutti insieme ci siamo incamminati sotto una pioggia torrenziale verso la casa di Shino. Sato era coricata in una stanzetta molto angusta, con il cuscino rivolto verso sud. Era sola, e delirava a causa della febbre alta. Con le sue piccole e graziose manine non faceva che tracciare in aria il segno della croce, ripetendo senza sosta la parola «Alleluia»: sembrava farneticare, ma era felice e radiosa. Shino, seduta in lacrime accanto al giaciglio della figlia, mi ha spiegato che «Alleluia» è un’invocazione simile al nenbutsu che i cristiani usano per rendere omaggio al compassionevole amore del loro dio. Ho visitato immediatamente la bambina, e non mi ci è voluto molto per capire che era affetta da una forma molto grave di febbre tifoide. La malattia era in uno stadio così avanzato da indurmi a pensare che la bambina non sarebbe arrivata al giorno seguente. Quando l’ho detto alla madre, questa ha perso il lume della ragione e, prostrandosi a mani giunte ai miei piedi e a quelli del mio aiutante, ha ripetuto più volte:
«Se ho abiurato è stato solo perché ero certa che in questo modo avrei salvato la vita di mia figlia. Ma se morirà sarà stato tutto inutile. Se riuscite a capire la sofferenza che mi dilania per aver voltato le spalle a Dio, fate in modo di salvarla!».
Quello che mi chiedeva travalicava le mie capacità. Per fortuna aveva smesso di piovere; così, dopo averla rassicurata che aveva preso la decisione giusta, le ho dato tre bustine di decotto. Mentre stavo per tornare a casa, Shino si è aggrappata a una manica della mia veste per impedirmi di andarmene. Le sue labbra si muovevano come se cercasse di dire qualcosa, ma senza riuscirci. Pochi istanti dopo è impallidita e ha perso i sensi. Trasecolato, con l’aiuto del mio aiutante ho provato a farla rinvenire. E difatti poco dopo si è ripresa, ma era troppo debole per alzarsi e, in un mare di lacrime, ha detto:
«A causa della mia superficialità, ho perso mia figlia e il mio dio!». Ho cercato in tutti i modi di consolarla, ma visto che le mie parole non sortivano l’effetto sperato e che non avrei potuto fare nulla per salvare la figlia, accompagnato dal mio aiutante mi sono incamminato verso casa. Quello stesso giorno, poco dopo l’ora del montone , sono andato a visitare la madre del capo villaggio Tsukagoshi Yazaemon, da cui ho appreso che la bambina era morta e che la madre, per il dolore, era uscita di senno. Secondo le parole del capo villaggio, sembra che Sato fosse deceduta un’ora dopo che l’avevo visitata e che Shino, già verso il primo quarto dell’ora del serpente , andasse in giro come una pazza stringendo tra le braccia il corpo senza vita della figlia salmodiando a voce alta una incomprensibile preghiera occidentale. Tutto era avvenuto sotto gli occhi di Yazaemon e di tre contadini del posto, Kaemon, Tōgo e Jihei, per cui i fatti dovevano essersi realmente svolti nel modo in cui mi erano stati riportati.
Dalle prime ore del giorno successivo, il X del III mese, ha iniziato a cadere una leggera pioggia, ma nella seconda parte dell’ora del drago i tuoni della primavera hanno lasciato spazio al bel tempo. Yanase Kinjūrō, un samurai del villaggio, mi ha inviato un cavallo affinché lo potessi raggiungere nella sua abitazione per un consulto medico. Io sono salito subito in groppa, ma quando sono giunto davanti alla casa di Shino sono stato costretto a fermarmi perché un gran numero di persone bloccava la strada e inveiva contro preti e cristiani. Senza smontare da cavallo ho guardato allora verso l’abitazione della donna vedendo, di fronte alla porta d’ingresso spalancata, un occidentale e tre giapponesi. Indossavano tutti una tonaca nera e, mentre stringevano in una mano il crocifisso e nell’altra un oggetto che sembrava un incensiere, acclamavano il loro dio intonando all’unisono la parola «Alleluia». Ma non solo: Shino era riversa in terra, come svenuta, davanti ai piedi dell’occidentale: aveva i capelli in disordine e tra le braccia stringeva la figlia. La cosa che più mi ha colpito è stato vedere che Sato, le mani strette attorno al collo della madre, intonava con la sua voce infantile una volta il nome della madre e l’altra l’esclamazione «Alleluia». Non posso affermarlo con certezza, visto che mi trovavo a una certa distanza, ma ho avuto l’impressione che Sato avesse un bel colorito e che ogni tanto staccasse le mani dal collo della madre per cercare di afferrare il fumo che fuoriusciva da quella specie di incensieri.
Sono smontato da cavallo e ho chiesto alle persone lì presenti di raccontarmi i particolari della sua resurrezione. Sono venuto così a sapere che quella mattina padre Rodrigo, insieme a tre diaconi, aveva lasciato il proprio villaggio per presentarsi a casa di Shino. Dopo aver ascoltato la confessione della donna, hanno iniziato a pregare, hanno acceso uno strano incenso e hanno spruzzato su madre e bambina dell’acqua consacrata. Poco dopo la donna si è tranquillizzata e Sato è tornata in vita, mi hanno riferito tutti con evidente sgomento.
Nel corso della storia, non sono state poche le persone tornate in vita dopo la morte. Nella maggior parte dei casi, però, si è trattato di morti causate da malattie febbrili e da etilismo. Non è mai accaduto che una persona malata di tifo, come Sato, sia tornata in vita. Ormai è chiaro che il cristianesimo è una dottrina diabolica, e credo che i tuoni primaverili che hanno iniziato a rimbombare quando padre Rodrigo è arrivato nel villaggio possano essere interpretati come un segnale di quanto il Cielo disdegni questo prete.
Quel giorno Shino e sua figlia hanno abbandonato il villaggio per trasferirsi in quello di padre Rodrigo. Subito dopo, Nikkan, l’abate del tempio Jigen, ha ordinato che la loro casa fosse data alle fiamme. Ma di questo vi avrà di certo informato il capovillaggio Tsukagoshi Yazaemon, per cui non mi dilungherò oltre. Se in futuro dovessi rammentare particolari che ora mi sono sfuggiti, sarà mia premura comunicarveli con un secondo rapporto. Non ho altro da aggiungere.

Il XXVI giorno del III mese dell’anno della scimmia
Villaggio di Uwa della provincia di Iyo
Il medico locale: Ogata Ryōsai

Anna ha le ali, di Stefano Serri

Ortica editore porta in libreria Bradipismi, di Stefano Serri. Dieci racconti, manifesti di una rivoluzione lenta, in cui si evincono inviti e occasioni: inviti a ripensare il nostro agire e le nostre relazioni, occasioni per decidere, adesso, che ritmo dare alla nostra esistenza.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Anna ha le ali
di Stefano Serri

Un giorno Anna prese le ali.
Prima, il corpo le si gonfiava e sgonfiava più regolare delle maree, per colpa del suo appetito anomalo, di quello stomaco dotato di anima. I capelli si fecero lisci; gli occhiali sparivano a intermittenza; infine comparve quello di cui parlo: le ali. Non erano come pensate, là dietro, sulla schiena, bianche e piumate, appuntite e veloci. Le ali erano nel petto, due rosee e morbide ali gonfie di latte e serene da lotte: perché le ali migliori sono nascoste, le ali migliori sono nelle costole.

Forse è perché suo padre è un animale, ma Anna, fin dall’inizio, ha voluto volare. Una cosa che suo padre aveva detto quando era bambina, due parole appena, una frasetta che l’aveva toccata troppo, uscita come una mano dalla bocca, lui col viso pesante e i pugni sul mento: Sono triste, aveva detto. E lei non aveva mai pianto.
Nel suo cappotto di velluto e spettinata, nonostante tutti e tutto, ha continuato la scuola; s’è dovuta fermare, un anno, perché non riusciva a studiare, ma poi è ripartita e si è laureata. È diventata infermiera. Perché ha scelto proprio questo lavoro, questo starsene sempre tra sangue e lamenti? Forse è perché, un brutto giorno, ha dovuto portare suo padre al macello, come un bue marezzato di angoscia; forse per quello capisce i malati, che si ritrovano di colpo in discarica senza poterne uscire da soli. Ma lo stesso, vuole volare, e impara, Anna, impara che le ali non sono tutta la libertà. E che non servono ali agli umani, perché per volare camminano in verticale.

Anna un giorno incontrò l’uomo suo, che era suo perché un po’ diverso dagli altri: un elettricista, si chiamava Giulio, anche lui con il viso un po’ triste.
A volte deve vivere lei per tutti e due; deve arrampicarsi, ma non come in Romeo e Giulietta: ha da scalare molto più di un balcone, scala il gran monte della depressione, anzi, non lo scavalca, e attende con pazienza che Giulio si affacci. In quel momento, lo acciuffa, rimette le ali e porta via tutti e due.
Senza inseguire castelli e principesse, senza Capuleti e Montecchi, con Giulio torna a credere che le case, anche la sua, sono scatole di felicità, forse un po’ bucate, e le porte, ereditate dai genitori, enormi per le nostre piccole chiavi.

Non l’ho ancora detto? Il tuo migliore amico, Anna, è un barattolo di vetro, vuoto, con l’etichetta infeltrita; un barattolo di cioccolata tenuto nell’armadio, dietro i vestiti: le vestaglie l’accarezzano, una sciarpa gli fa le fusa, riposa lì, ben custodito. Un barattolo vuoto dove infili quel che non va e poi lo conservi (chiamalo: vomito, o chiamalo: no!), e vedi come diventa quello che dentro era brutto, o se cambia colore al contatto con l’aria. Duro, tirare fuori il cibo dell’ora prima; esistono trucchi perché lo stomaco si redima, esistono dita violente e respiri in ostaggio, esistono in commercio estintori per l’ansia, ma anche pompe per decomprimere l’anima che, in un angolo, avanza. Oltre l’orlo di ceramica del cesso dove vomiti, ecco il tuo barattolo, il tuo abisso portatile. Alcune, da ragazze, credono che basti vomitare per non diventare madre. Il tuo barattolo di vetro, il tuo trofeo di anoressica, lo conservi, anche oggi che sei guarita, tra le scarpe, come monito: come il vetro, la verità che ti faceva male scivola e, se passa troppo tempo, fa la ruggine e non si svita più.

Questo, però, è un racconto, e i racconti non finiscono come un romanzo: non sono un lungo spettacolo di fuochi d’artificio, un racconto è un unico razzo sparato a suon di spinte e sputi d’esistenza, più su che riusciamo con la nostra speranza. E, se vuoi essere razzo fino in fondo, devi scoppiare. Serve fiducia per schiantarsi nel cielo: devi credere che i tuoi pezzi, passando davanti agli occhi della gente a naso in su, lascino tracce. Forse ti scorderanno, ma almeno con quel botto avrai sollevato su da terra la loro faccia.
La nostra storia, Anna, finisce così: in una metamorfosi, con la marea del tuo fisico instabile che non so più dipingere, pelle bianca, ali, letto. Finisce che sei incinta: sparisci un bel giorno, scivolata in una fessura, scomparsa in ostetricia. Esci con una figlia e le racconti che aveva un padre, un animale triste, poi le mostri le ali, le tue, le sue: le ali, non ingrassano né dimagriscono, ma mangiano il tempo, te l’assicuro, mangiano vita, di continuo la vita.

Madre nel cassetto, di Sergio La Chiusa

Nella collana L’Invisibile di Industra&Letteratura troviamo, tra gli altri, Madre nel cassetto, di Sergio La Chiusa. Una novella di irresistibile affabulazione intrisa di humor nero e gustosissima letterarietà.

Cattedrale vi propone l’incipit del racconto per gentile concessione dell’editore.

Madre nel cassetto
di Sergio La chiusa

Mamma tentava di suicidarsi tutte le settimane. Le domeniche, di preferenza. Forse perché papà era a casa e poteva intervenire, per evitare il peggio. «Te ne pentirai», ammoniva lungimirante tagliandosi le unghie davanti al televisore mentre mamma rovistava tra i coltelli minacciando di tagliarsi le vene. «Mi rimpiangerai, non lo troverai un altro che sopporti le tue scenate», ribadiva papà, immaginando che la matta confidasse in qualche martire con cui sistemarsi nell’altro mondo. Dopo di che, riposto in tasca il tagliaunghie, si schiodava sospirando dal divano e si sfilava solennemente la cintura. Poi andava in cucina e la batteva per bene. Fino a che mamma smetteva di gridare e dibattersi sotto i colpi rieducativi di papà e si placava, definitivamente domata.
Non che mamma tentasse sul serio di suicidarsi, in verità. Faceva la scena, la protagonista. Almeno una volta la settimana voleva uscire dalle ombre della cucina in cui l’aveva confinata papà, sottrarsi al suo ergastolo di padelle, teglie e tegami e salire sul palcoscenico, sentirsi importante, darsi arie da diva tragica sotto le luci della ribalta domestica. Io li spiavo disgustato dal basso dei miei sette anni, nascosto sotto il tavolo, e mi dicevo mai, mai sarò come lui. Adesso che ho la stessa età di mio padre, e anzi l’ho addirittura superato, posso vantarmi d’aver tenuto fede ai miei propositi d’allora. Non ho preso nulla del suo temperamento. Non porto pesi sulla coscienza, io… Arianna, per esempio, non ha mai minacciato il suicidio. Nemmeno nei periodi più bui della nostra convivenza. E nemmeno dopo la separazione, che io sappia, sebbene fosse stata proprio lei a lasciarmi, e il rimorso avrebbe potuto ragionevolmente scombussolarle il cervello e spingerla verso l’irreparabile. E invece nulla, mai una scenata, mai che scrutasse meditabonda la strada dall’alto del nostro sesto piano per studiare il punto d’impatto, la soluzione di tutti i conflitti. Anche se negli ultimi tempi avevo a volte l’impressione che certe ombre scure, vagamente sinistre, le passassero sugli occhi e Arianna pareva perdersi in fantasticherie equivoche mentre fissava le forbici insanguinate con cui aveva appena sventrato la spigola. La spigola. Aveva preso anche lei la riprovevole abitudine di preparare tutte le domeniche il pesce, e in particolare la spigola, che io detestavo; esattamente come mamma, che aveva una specie di venerazione per il pesce, che faceva bene al cervello, diceva, benché fosse lecito dubitarne viste le condizioni di perenne squilibrio in cui versavano lei e papà; e così Arianna, che però s’era fissata con le virtù degli omega-3 solo dopo la morte di mamma, e soprattutto durante gli ultimi mesi di convivenza, tanto che inclino a credere che la sua più che una vera convinzione scientifica fosse una forma di ritorsione subliminale, dato che sapeva che il pesce era stato al centro di aspri dibattiti tra me e mamma, e in particolare la spigola, che io vedevo con sospetto, e non senza ragioni, credo, altrimenti perché in certe regioni la chiamerebbero lupo? e in altre, più illuminate, ragno, tessitore di trappole? A ogni modo, la vedevo eviscerare con una rabbia primitiva e meticolosa, da rito vudù, che mi nauseava e mi dava da pensare. «Perché non li prendi già puliti», suggerivo, ma lei niente, pareva provarci gusto a trafficare con le interiora. A volte pensavo che con quelle sue unghie minuziose volesse stuzzicarmi l’anima, e perfino estirparla, e che l’anima mia – e l’anima di tutti – fosse viscida e sanguinolenta, come i visceri dei pesci, e che in definitiva un corpo spinato e svuotato d’anima fosse un corpo più pulito, più commestibile, più adatto alla compravendita.
Ma non divaghiamo. Non è di anime che intendo parlare. E nemmeno di compravendite. E tantomeno di Arianna. La parassita. Figuriamoci. Le passavo la maggior parte dello stipendio eppure si lamentava, le pareva poco, m’infilava perfino le mani in tasca per controllare se mi trattenessi qualcosa. Le mani. Le stesse con cui trafficava nei ventri dei pesci e che poi ricopriva di profumi costosi perché evidentemente non sopportava l’odore del vizio. Profumi comprati con il mio stipendio, che svaporava in essenze promiscue, e massaggi, trattamenti estetici, ristoranti con le amiche. D’altronde le spese erano tante, per la manutenzione del corpo e dello spirito, e io invece le proponevo una vita da lombrichi. A saperlo, si sarebbe messa con Nardi, s’era lasciata sfuggire una volta... Nardi! Attilio Nardi! Vi rendete conto? L’imbecille che la corteggiava fin dai tempi della scuola, e con cui in effetti si è messa dopo la separazione… «Una pausa di riflessione», aveva detto, in verità. Perché aveva bisogno di stare un po’ da sola. Perciò aveva lasciato passare una settimana prima di traslocare nell’appartamento di Nardi, in centro.
D’altra parte Attilio possedeva una casa al mare e una in montagna, e una appunto in centro, arredata in stile moderno, proprio come piaceva a lei, e una decapottabile sportiva con cui spostarsi rapidamente di casa in casa, mentre io possedevo solo questo trilocale al sesto piano d’un palazzo senza ascensore, trilocale che peraltro era stipato di mobili antiquati che gli davano un’aria da casa di riposo, senza contare che le pareti, su cui comparivano misteriose muffe, erano rivestite d’una carta da parati a fiorami del secolo scorso e decorate da vecchie stampe in bianco e nero ereditate dai nonni, simili a quelle che si trovavano negli scompartimenti dei treni di seconda classe. Roba da vergognarsi. Inoltre Attilio le faceva sempre dei regali, perfino una borsetta Louis Vuitton in vera pelle di vacca una volta, e non per calcolo, perché lei non gli aveva mai dato speranze, mai… E mentre mi presentava l’immagine del corteggiatore perfetto, pieno d’iniziative filantropiche e proprietà immobiliari, non ricordava più la faccia da ritardato con cui nella realtà Attilio le investigava le tette ai tempi della scuola, gli occhiali da masturbatore imbranato e volenteroso che gli davano un’aria da scorfano in agonia, dagli occhi lessi, stolidamente dilatati dalle lenti, la bocca sempre socchiusa per via della sinusite e d’un ritardo congenito di comprendonio, la pelle deturpata dalla foruncolosi dell’adolescenza, che non aveva mai davvero superato, nemmeno dopo la laurea in giurisprudenza e la tesi in diritto fallimentare, il tirocinio nello studio del padre, l’apertura di uno studio tutto suo in centro, nei pressi del Tribunale, dove riceveva in effetti clienti altolocati, nonostante i foruncoli.

Come il capitano celebrò il Natale, di Thomas Nelson Page

Mattioli porta in libreria ‘Natale nella vecchia Virginia’ di Thomas Nelson Page, tradotto da Livio Crescenzi e Ursula Miotto. Thomas Nelson Page – autore finora inedito in Italia – era convinto che i vittoriosi Nordisti avessero dato una rappresentazione distorta della storia e della gente del Sud, e con la sua opera mira a restituire dignità e verosimiglianza storica alla cultura del Vecchio Sud. Questa l’ispirazione per alcuni dei suoi racconti natalizi, in cui si parla dell’importanza dei propri luoghi d’origine. Atmosfere e scene della ‘Ole Virginia’ (la Vecchia Virginia), intrise di un’intensa nostalgia.

Cattedrale vi propone l’estratto del primo racconto del libro, per gentile concessione dell’editore.

Come il capitano celebrò il Natale
di Thomas Nelson Page

Mancavano solo pochi giorni a Natale e, com’era naturale, intorno al grande caminetto del circolo gli uomini avevano iniziato a parlarne. Erano tutti uomini nel fiore degli anni, e tutti, o quasi, provenivano da altre parti del paese: uomini giunti nella grande città per farsi strada nella vita e che, tutto sommato, in un modo o nell’altro ce l’avevano fatta, riuscendo in diversi campi in modo così brillante da poter essere definiti uomini di successo. Tuttavia, man mano che procedeva, la conversazione aveva assunto un tono rievocativo. Quando era iniziata, avevano partecipato solo in tre, due dei quali, McPheeters e Lesponts, stavano seduti in poltrona, con i piedi protesi verso il caminetto, mentre il terzo, Newton, dava le spalle al grande focolare, con le falde della redingote ben aperte. Gli altri uomini erano sparpagliati per la sala, un paio intenti a scrivere ai tavoli, tre o quattro che leggevano i giornali della sera, e i restanti che chiacchieravano sorseggiando whisky e acqua; tra questi, alcuni chiacchieravano e basta, mentre altri si limitavano a sorseggiare i loro whisky e acqua. Tuttavia, man mano che la conversazione procedeva attorno al camino, uno dopo l’altro gli uomini si unirono al gruppo, finché la cerchia non incluse tutti i presenti nella sala.
Era stato Lesponts a iniziare. Dopo aver fissato per qualche istante Newton in piedi davanti al fuoco con le gambe ben divaricate e gli occhi fissi sul tappeto, aveva rotto il silenzio chiedendo all’improvviso:
“Vai a casa?”
“Non lo so” rispose Newton, con aria dubbiosa, richiamato da qualche parte nel mondo dei sogni, ma così lentamente che parte dei suoi pensieri era rimasta ancora lì.
“Non ho ancora deciso… non sono sicuro di poter andare fino in Virginia, e ho un invito in un luogo delizioso, un ricevimento in una casa qui vicino.”
“Newton, chiunque capirebbe che sei della Virginia” disse McPheeters, “dal modo in cui stai davanti a quel camino.” Newton disse:
“Già.”
E poi, mentre svaniva il mezzo sorriso suscitato da quella battuta, aggiunse, lentamente:
“Stavo solo pensando a quanto mi sentivo bene, ed ero tornato a casa e mi trovavo nel vecchio salotto, la prima volta che notai mio padre fermo in quella posizione; ricordo di essermi alzato e di essermi messo in piedi accanto a lui, un ragazzino nemmeno alto così, cercando di mettermi proprio come faceva lui, e sentivo il calore del fuoco, e anche adesso lo sento, proprio come quella sera.
È stato… trentatré anni fa” disse Newton, lentamente, come se stesse calcolando gli anni a memoria. “Newton, tuo padre è vivo?” chiese Lesponts.
“No, ma mia madre sì, e vive ancora nella vecchia casa di campagna.”
Da qui il discorso era proseguito, e quasi tutti avevano partecipato, anche i più reticenti, coinvolti dalla cordialità generale suscitata dall’argomento. La grande città, con tutti i suoi molteplici interessi, fu dimenticata, e gli uomini di successo tornarono alla loro infanzia e ai primi anni di vita in piccoli villaggi o in vecchie piantagioni, e raccontarono episodi del tempo in cui il mondo al di là del loro orizzonte gli era sconosciuto, e ogni cosa aveva quelle grandi e strane proporzioni create dalla mente durante l’infanzia. Vennero ricordati i vecchi tempi e furono raccontate senza sosta le esperienze natalizie di una volta, e quel periodo fu considerato, senza alcuna voce di dissenso, come assai migliore del Natale per com’era ormai diventato. Dopo un poco, uno di loro disse:
“Qualcuno di voi ha mai trascorso un Natale in treno? Se non l’avete fatto, ringraziate il Cielo e pregate d’esserne risparmiati d’ora in poi, perché a me è capitato, e vi assicuro che è quasi come stare in purgatorio. Una volta ne ho passato uno bloccato in un cumulo di neve, o quasi bloccato, perché eravamo in ritardo di dieci ore e perdemmo tutte le coincidenze, e il Natale che m’aspettavo di trascorrere con gli amici, lo passai in una carrozza lercia con un burbero capotreno, uno sfacciato facchino mulatto e un sacco di idioti, che avrebbero potuto uccidersi a vicenda, per non parlare poi di un neonato che piangeva, ammazzare il quale forse sarebbe stata l’unica cosa a cui tutti avrebbero partecipato volentieri.”
L’asprezza di queste parole dimostrava che l’argomento era quasi esaurito, e un tale, entrato giusto in tempo per udire colui che aveva parlato per ultimo, aveva appena azzardato l’osservazione – imitando debolmente l’accento inglese – che i sottufficiali in questo paese erano una massa di gente burbera e maleducata in ogni caso, e sempre scortese quanto ardiva essere, quando Lesponts, che aveva guardato pigramente chi aveva parlato, disse:
“Sì, a me è capitato di trascorrere un Natale in un vagone letto e, strano a dirsi, ne conservo un bellissimo ricordo.”
Cosa alquanto sorprendente, tanto da incuriosire tutti, ma il ricordo di quell’episodio era evidentemente così forte da far superare a Lesponts ogni ostacolo, per cui proseguì.
“Qualcuno di voi ha mai preso il treno notturno che va da qui a Sud attraverso le valli di Cumberland e Shenandoah, o si è mai recato a Washington per prendere quel treno?”
A quanto pare a nessuno era capitato, per cui continuò: “Beh, fatelo, e potete farlo persino a Natale, se trovate il capotreno giusto. Vale la pena farlo alla prima occasione che vi capita, perché quello che si attraversa è quasi il territorio più bello del mondo; non ho mai visto niente di più incantevole delle valli del Cumberland e dello Shenandoah, e la New River Valley è altrettanto magnifica – lo sfondo blu oltre quelle dolci colline, e tutto il resto – hai presente, McPheeters?”
McPheeters annuì e Lesponts continuò…

Vita, di Anna Voltaggio

Neri Pozza porta in libreria La nostalgia che avremo di noi di Anna Voltaggio. Una commedia umana, un libro di racconti polifonico, un sasso che, lanciato in acqua, espande in cerchi concentrici la sostanza misteriosa del desiderio.

Cattedrale pubblica uno dei racconti contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

VITA
di Anna Voltaggio

Sente ridere forte, Vita, mentre costeggia la stazione trascinandosi dietro il trolley. È un pomeriggio buio, le luci rosse degli stop si parlano con quelle piccole e colorate appese alla meno peggio sui balconi delle palazzine, sotto il portico ci sono i barboni, uno accanto all’altro e mal riparati, buttati a terra in modo scomposto su pezzi di cartone e coperte marcite. Vita cammina sul marciapiede cercando di tenersi a distanza da loro e non vorrebbe guardarli. Tiene lo sguardo dritto davanti a sé come se fosse tutto normale: le luci che oscillano, la puzza, le persone sfinite a terra.
Va avanti e il trolley la segue con il suo rumore, continua a ignorarli ma non le riesce del tutto e allora li spia, con la coda dell’occhio li passa in rassegna, qualcuno si rigira nei pensieri acidi, una donna ha un braccio monco, dal gomito in giú non c’è piú niente, indossa un abito lungo e logoro ma sotto il grigio scuro della polvere addensata e dell’asfalto si vedono i fiori piccoli e rossi. Sono corpi in disordine, esistenze storte con la pelle del viso indurita, sembra corteccia quella pelle, fanno paura, pensa Vita, le persone che non hanno niente da difendere.
L’odore che attraversa è nauseante perché trabocca di verità e la fa sentire a disagio, Vita lo sa bene e vorrebbe sempre evitarla, la verità. La linea dei taxi bianchi intanto scintilla e aspetta quelli che arrivano a festeggiare. Il Natale, pensa infine, mette troppa pressione.
Vita è in orario e comunque, come ogni giorno, cammina veloce. Cammina come chi ha qualcosa di urgente da fare, come chi ha accumulato ritardo su una tabella di marcia, come chi ha un problema da gestire.
Non ce ne sarebbe ragione ma Vita sente di avere poco tempo e cammina veloce. Ha rimandato molte volte questo viaggio verso Trieste, non le piace viaggiare ed è brava a trovare scuse che sembrano ragioni. Certe volte le pare di conoscere il futuro e tenta di ingannarlo, ha cambiato il biglietto, ha posticipato due volte la data e tre volte l’orario come se, ad avere piú tempo, un evento imprevisto potesse riservare una sorpresa e il futuro diventare un nuovo futuro di cui Vita non conosce niente.
Il trolley ha una ruota storta che sfrigola e trita le pietruzze che incontra sul tragitto. Vita non vorrebbe neanche averlo un trolley.
Non le piace partire, a dicembre poi, in mezzo alle famiglie che si vogliono riunire per festeggiare in quella forma di nevrosi che investe tutto: gli oggetti, le strade, l’aria stessa. Studenti fuorisede con il cibo accatastato dentro le buste plastificate, gli anziani confusi, i bambini stanchi, i militari ancora in divisa. Sono tutti piú aggressivi a Natale.
Sarebbe rimasta volentieri a Roma tra le sue cose da risolvere, questioni private, faccende emotive. Cammina e l’aria umida le appiccica la mano alla valigia. I ragazzi sulla panchina hanno le giacche tirate fino al mento, fumano e non si parlano, gli passa davanti pensando che probabilmente si tratta di spacciatori a cui chiederebbe roba da fumare, da sniffare, roba qualsiasi con il potere di farla sentire piú a suo agio nel mondo. Se li lascia alle spalle e fissa il lampione in lontananza, con la lampadina che si accende a intermittenza come il flash di una macchina fotografica che punta su di lei.
Pochi minuti fa ha parlato al telefono con Sarah.
Alla fine della telefonata si è sentita stanca e irrisolta.
Si erano ripetute le stesse cose, con lo stesso tono grave delle ultime volte, con le lunghe pause e i respiri pesanti delle ultime volte, con i giri di parole che iniziavano comprensivi e finivano accusatori. Queste discussioni sono diventate castelli di carte, pensa Vita.
«Non parliamo piú di fatti, Sarah. I nostri problemi non hanno piú una consistenza reale, continuiamo ad architettare teorie. Il problema siamo noi».
«Abbiamo tutto, come fai a non vedere che abbiamo tutto?»
Vita è rimasta zitta. Sarah le ha chiuso il telefono in faccia.
La sua carrozza è lontana, l’ultima.
Quando la raggiunge appoggia il trolley sul primo gradino e si ferma un momento per alzarsi i capelli e liberare il collo. Il freddo dell’inverno soffia sulla nuca e per un momento Vita sente sollievo.
«Vuoi aiuto?» chiede una voce alle sue spalle.
Vita si lascia ripiombare i capelli addosso, solleva la valigia e sale.
«Non c’è bisogno, grazie».
Un neon smisurato illumina il treno. Vita fissa i numeri e avanza, come tutti ha fretta di prendere posizione, capita in un posto a quattro con il tavolino in mezzo. Due ragazze sono già comode e stanno facendo la Settimana Enigmistica.
In questo periodo Sarah conduce un laboratorio teatrale. Legge testi di Sarah Kane e Mark Ravenhill, non fa che pianificare performance.
L’anno scorso si era intestardita a produrre un video in cui si mostrava completamente nuda con un asterisco disegnato sul sesso e leggeva con una voce impostata male, fintamente naturale, un testo di Rebecca West. Poi l’ha messo su YouTube e aspetta ancora che diventi virale.
Vita pensa ai capelli neri che le scendono sulle spalle incurvandosi, alle volte che le ha spostato una ciocca dietro l’orecchio per liberarle il viso e vederla meglio, ai momenti in cui ha sentito di amarla e che voleva eterni. Pensa che Sarah abbia ragione a insistere con le sue domande e che lei abbia torto a non risponderle per la naturale angoscia che l’afferra all’idea di perdere chiunque.
Pensa di non sapere andare oltre l’inizio di una relazione.
Pensa, Vita, di finire con l’essere un buco nero che ingoia tutto e sparisce in sé stesso.
Le viene in mente che quando era poco piú che una bambina, camminando a fianco di suo padre verso la scuola di danza, pensava che non sarebbe piú tornato a prenderla. Che avrebbero raggiunto l’ingresso, lui l’avrebbe salutata con un bacio sulla guancia, raccomandandole di chiudere l’armadietto a chiave. E non sarebbe tornato mai piú.
Poi pensa che suo padre si sarà dimenticato che sta per arrivare, e anche che è Natale.
Il treno intanto è partito come una possibilità dall’esito incerto. La sicurezza di farcela è solo un calcolo di probabilità, pensa Vita, una questione statistica, tra il punto di partenza e quello di arrivo ogni cosa è precaria, la perfetta linearità dei binari non conta niente quando un treno ci corre sopra a trecento chilometri all’ora.
Guarda le ragazze assorte sulla Settimana Enigmistica, una cosa difficilissima da fare in due. Origlia i discorsi e si fa l’idea che siano intelligenti, ma anche cretine, che in fondo è come siamo tutti, pensa, e allora fissa lo sguardo sulle lettere che si incrociano, sulle parole spezzettate. Legge i suoni appesi nelle caselle che cercano un significato nell’incastro perfetto.
Concepisce la sua esistenza come un cruciverba in cui un errore di stampa rende impossibile il completamento.
Dal finestrino non vede l’esterno perché è buio, solo il riflesso del neon e il riflesso di sé stessa, ma fatica a riconoscersi. I capelli lisci le appaiono piú lunghi e scendono oltre le spalle, Vita li sposta da un lato, guarda il collo scoperto che nel riflesso è eccessivamente stretto, segue con gli occhi una vena che pulsa non di sangue ma di angoscia e che arriva all’attaccatura dell’orecchio, con la mano destra si stringe il collo per farla smettere. Suo padre un giorno aveva aperto la porta della sua stanza e l’aveva trovata a sfogliare un giornaletto per adolescenti che si chiamava Cioè.
L’aveva guardata con disprezzo.
«In questo modo diventerai una donna che preferirei non conoscere in futuro» aveva detto.
E adesso che il futuro era arrivato, Vita si chiedeva se era andata cosí.
Scrive sul taccuino: treno per Trieste, h. 19.00, ultimo viaggio verso casa di mio padre. Sono incapace di scegliere come vivere (figuriamoci con chi), quindi chi essere, e il tempo stringe, ho dunque paura di morire, senza, in definitiva, essere stata nessuno.
Al distributore automatico ci arriva barcollando come un’attrice ubriaca, guarda avanti e si tiene l’orlo del vestito per non farlo salire.
C’è un uomo che sta aspettando il caffè. Vita fissa il suo profilo contratto che lo fa sembrare impensierito, le rughe intorno agli occhi sono disegnate come in un ritratto a carboncino. Una manica del maglione scuro è appena sollevata e scopre un tatuaggio sul polso dove c’è scritto My heart is full.
È davanti al distributore e si gira un attimo verso di lei, uno sguardo che a Vita sembra distratto, non si sposta per lasciarle spazio.
«Caffè?» le chiede.
«Amaro». Vita risponde porgendogli una moneta che lui non prende.
Bevono il caffè insieme.
«Non volevo infastidirti prima».
Lo guarda senza capire.
«Quando ho cercato di prendere la tua valigia».
«Sei stato gentile».
«Arrivi fino a Trieste?»
«Sí. Mio padre sta morendo» dice e, mentre lo dice, le sembra assurdo.
«Mi dispiace». Vita si limita a un’espressione di circostanza ma vorrebbe scusarsi di questa intimità a cui lo ha costretto. «E tu?»
«Mi fermo a Venezia, dove abito da qualche anno».
«Mi sono sempre chiesta come si vive a Venezia».
«Si vive nell’acqua».
Il cellulare vibra, sono messaggi di Sarah.
Ho provato a chiamarti ma non prende. Sei arrivata?
No.
Mi chiami appena puoi? Devo dirti una cosa importante.
Appena posso.
No, chiamami adesso. Devo dirtela adesso.
Scrivila.
Non ti perdonerò mai.

L’uomo aspetta. Vita sente i suoi occhi e controlla il corpo, inclina la testa verso la spalla e porta i capelli da un lato mentre digita sul cellulare.
Sta osservando la linea dell’ovale, il collo in tensione e i movimenti delle dita.
Quando il treno fischia violentemente sembra all’improvviso che i binari non siano piú dritti, dondola quasi. Non è normale, pensa Vita e mentre lo pensa perde l’equilibrio, sente i tonfi delle valigie che cadono, anche Vita cade, il caffè finisce per terra e le macchia le scarpe, lui è instabile ma le afferra un braccio per sorreggerla prima che sbatta contro la parete. Punta i piedi e sostiene entrambi.
Il fischio è ancora fortissimo, spaventoso, fa pensare a un’esplosione imminente. Qualcuno, dalle carrozze, grida. Un gatto con la coda gonfia passa da una carrozza a un’altra in una corsa isterica e piomba sul distributore che lampeggia.
Vita è diventata pallida, ancorata a lui con entrambe le mani vorrebbe chiamarlo per nome ma non lo sa, gli stringe il maglione all’altezza dei fianchi, mentre cade con le ginocchia per terra, come se lo stesse implorando.
Il treno, lentamente, si ferma. Un annuncio informa che due estranei in corsa hanno attraversato i binari, il conducente ha attivato il freno d’emergenza, tranquillizza i passeggeri, comunica che sarà effettuato un controllo per accertare la buona salute di tutti e che il treno riprenderà al piú presto la corsa verso Trieste. «Stai bene?»
«Sí» risponde incerta sentendo di colpo, per la prima volta, il pesante senso dell’incertezza della vita. «Dovremmo bere qualcosa di piú forte adesso» sorride, mentre allenta la presa.
Vita sente un disordine attraversarle il corpo.
«Dovresti scendere a Trieste allora» dice, riprendendo faticosamente il controllo di sé, mentre una nausea dolciastra le sale dallo stomaco alla bocca.
«Mi piacerebbe poterlo fare».

Attraversa la stazione, passa sotto gli enormi archi per uscire dall’ingresso principale, in piazza della Libertà. C’è freddo e silenzio, potrebbe prendere un taxi e rintanarsi un attimo. Resta qualche momento ferma in quest’indecisione e accende la sigaretta.
Vuole arrivare a piedi, pensa Vita che camminare sia la scelta giusta. Camminare e pensare sono in un rapporto costante di reciproca intimità. È una frase che crede di ricordare nel momento in cui la sta pensando. Una frase che la riguarda.
Riva Tre Novembre è lunga e cosí ampia e il mare sullo sfondo è cosí scuro che se Vita si guardasse da una finestra dei palazzi allineati si vedrebbe molto piccola camminare sull’orlo del precipizio.
Il Caffè degli Specchi è chiuso. Quella notte non avrebbero bevuto qualcosa insieme, pensa, e non lo avrebbero fatto mai.
Quando Vita apre la porta di casa tutte le luci sono spente, tranne quella della cucina.
«Iniziavo a pensare che non saresti venuta» dice suo padre quando la vede entrare.
«Ho fatto tardi perché mi sono persa, scusa».

Vita guarda il mare fuori dalla finestra mentre tiene in mano la mela che era sul tavolo, suo padre le si mette vicino, ha un sorriso semplice e malinconico che Vita vorrebbe riuscire a trattenere.
«La marea sta salendo di nuovo, papà».

Gioco di bambole, di Kianny N. Antigua

Il racconto che vi proponiamo, per gentile concessione dell’editore, è contenuto in due raccolte pubblicate da Arcoiris edizioni: Club Silencio e Bestiole.
"Club Silencio" è il secondo volume della collana tReMa e ha come elemento conduttore (liberamente declinato da ogni autore) il film  Mulholland Drive di David Lynch e il tema del deragliamento identitario, del doppio, della deformazione della narrazione.
I protagonisti di Bestiole sono individui intensamente umani, animali complessi con più volti, capaci di assistere e godere del dolore altrui e in cui la malvagità prevale e sembra vincere la partita.

Di seguito potete leggere il racconto di Kianny N. Antigua, autrice caraibica vincitrice di svariati premi e autrice di numerose raccolte, romanzi, libri per bambini, poesie.

Gioco di bambole
di Kianny N. Antigua.

Traduzione di Barbara Stizzoli

Quando ero bambina adoravo giocare con le bambole: fare i loro vestiti, pettinarle e immaginare per loro mondi meravigliosi.
Rubavo i collant di mia nonna e facevo vestiti attillati per le mie barbie, ah, perché mi piaceva giocare solo con le barbie; le altre bambole non erano belle come le barbie e non erano magre come le barbie e non erano bianche come le barbie né avevano i capelli belli come quelli delle barbie. Le barbie erano bellissime e io adoravo giocare con loro.
Quando mamma scappò a Porto Rico, l’unica cosa che le chiesi fu di portarmi tante barbie nuove quando sarebbe ritornata perché, nonostante avessi cura delle due che già avevo, stavano diventando brutte; una aveva i capelli molto corti perché un giorno si erano impigliati e avevo dovuto tagliarglieli per togliere il nodo e adesso i capelli le si drizzavano. All’altra, Ivé aveva morsicato le mani, anche se ancora oggi dice di non essere stata lei, io so che è stata lei, per questo bruciai la camicia della sua uniforme scolastica e dopo, siccome le presi per colpa sua, affogai il gattino che le aveva regalato la sua madrina.
Ecco, l’unica cosa che volevo era che mamma mi portasse un sacco di barbie da New York e mi assicuravo di ricordarglielo ogni volta che telefonava; fin quando smise di telefonare e basta. La cosa buona fu che un giorno venne mia zia, la madre di Ivé, da Curaçao, a farci visita.
Oltre a essere arrivata, bellissima, con i capelli stirati, ci ha portato i vestiti e una barbie per una. L’unica cosa è che la stramaledetta ha portato una barbie bianca e una nera e ha dato la bianca a Ivé.
—Ma Ivé è più negra di me.
—Si, ma è più piccola. E comunque, tutte e due le bambole sono belle e hanno anche gli stessi vestiti.
Ed era vero, le bambole erano identiche, come se fossero state gemelle, ma a una l’avevano lasciata bruciare nel forno. Avevano addirittura lo stesso vestito lungo e rosato. Ma a me non importava, la mia era nera e la iettatrice di Ivé me l’avrebbe pagata. E glielo dissi, «continua così, tanto tua madre se ne va di nuovo». E lei che fece, niente, continuò a giocare con la sua bambola bianca, mettendola a sedere sotto il cespuglio di dalia, facendola camminare in aria in modo da non farle sporcare il vestito, facendole il bagno nuda nel serbatoio dell’acqua, provocando in me invidia solo perché sua madre era lì, a fare il bagno con lei, pettinandola con gocce profumate (non quella merda che puzzava di cocco che mi metteva mamma sulla testa e che non scioglieva niente, mi lasciava soltanto la testa oleosa e che colava). Ci portava anche a mangiare pizza e gelato. Io andavo perché in quei giorni nonna non cucinava, ma me le stavo segnando tutte le cose che faceva Ivé, una per una.
E come tutti sapevamo, due settimane dopo, sua madre andò via di nuovo e la lasciò sola come il gatto. Alla barbie nera la decapitai e, alla fine, furono tre.

 

Pane senza sale, di Fatemeh Piravi Vanak

Polidoro edizioni porta in libreria Iran under 30, un’antologia di giovani scrittrici e scrittori iraniani, un inaspettato e vivido spaccato dell’Iran raccontato dalle nuove generazioni a cura di Giacomo Longhi e con la prefazione di Ginevra Lamberti. Traduzioni dal persiano di Melissa Fedi e Federica Ponzo.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuto nell’antologia, per gentile concessione dell’editore.


Pane senza sale
di Fatemeh Piravi Vanak

Immergo la mano nella fontana, mi sciacquo la faccia e mi passo la mano sulla testa rasata. Mi guardo nello specchio rotto appeso all’albero lì vicino: sembro un kiwi. C’è un sacchetto di plastica pieno di pane secco appeso a un altro ramo dell’albero. Non ci arrivo. Saltello su e giù. Un dito si aggancia al sacchetto che si spacca, il pane si rovescia sulle mattonelle del cortile. Le urla della mamma mi fanno sobbalzare, vedo che brandisce una ciabatta di plastica e me la do a gambe levate verso la porta di casa. Mi guardo indietro, chiudo la porta, sento la ciabatta che si schianta. Quando si accorge di me, la mamma di Mansur stringe gli occhi tondi e mi chiede: «Tuo papà non è tornato?». 
Mansur di per sé è un buon amico, è sua mamma che è un’impicciona. Io e lui giochiamo sempre nella creta. La mamma di Maryam dice che non sono più di vent’anni che questo posto lo chiamano così. Un anno sono arrivati qui, hanno rivoltato il terreno ma la creta l’hanno trovata solo su questo pezzo. La creta è proprietà della mamma di Maryam. Molte delle case in fango e mattoni di qui sono state costruite proprio con questo tipo di argilla e, a forza di continuare, dove c’è l’argilla si è formata una buca. Dio ha messo in piedi un buon affare per la mamma di Maryam.
Noi ragazzi ci riuniamo a giocare nella creta da tutto il paese. La casa di Mansur è due isolati più giù rispetto alla nostra. Così come io mi sposto due isolati più giù per andare a trovare Mansur, sua madre si sposta due isolati più su per fare le sue strane domande, e mica è contenta di come vanno le cose dove abita lei. Comunque la mattina la passa da noi mentre il pomeriggio se ne sta con le sue vicine. Da casa nostra a casa di Mansur è pieno di gelsi che d’estate fanno diventare tutto appiccicoso per terra. Prendo a calci un sassolino fino alla casa di Mansur, poi lo prendo e lo picchietto contro il cancello del cortile. È da quando sono nato che il campanello è rotto, forse anche da prima.
Arriva Mansur. Gli è venuta la faccia come la mia: siamo tutti costretti a tagliarci i capelli con la macchinetta di agha Jasem. Agha Jasem è il preside della scuola. È stato un ragazzo del paese anche lui. A scuola se la prende con i capelloni. Aspetto che vada in bagno a prendere la palla. Il cortile di Mansur è grande come quello di casa nostra, ma c’è più spazio, perché sua mamma compra il pane dalla mia.
Da noi c’è un forno a gas che occupa metà cortile. Dall’altro lato del cortile ci buttano gli attrezzi della macchina di papà. Il papà e la mamma litigano sempre per colpa del forno e delle cianfrusaglie che lui lascia in giro. Alla mamma piace cuocere il pane, mentre papà lo detesta: odia i vestiti della mamma sporchi di impasto, odia il caos in cortile, il viavai delle vicine che vengono a comprare. Ma la mamma non lo sta a sentire.
Quando arriva Mansur, do un colpo alla palla che tiene sottobraccio e ridacchio. Ce la passiamo fino alla creta. Quando arriviamo, ci sono già tutti. Costruiamo la porta con i mattoni e facciamo le squadre. Maryam la Cicciona capita con noi, allora propongo di metterla in porta: è grassa, quindi la palla non passa. Io, Mansur e altri due ci mettiamo in difesa e in attacco. Solo il portiere ha un compito preciso, noialtri corriamo dietro alla palla finché qualcuno non riesce a segnare. Anche per la squadra avversaria è lo stesso. C’è una ragazza vicino al cumulo di terra, non sappiamo come si chiama, non parliamo con lei, dicono tutti che è strana. Da qualche mese vive con la mamma nella casa sulla strada per il cimitero che nessuno vuole comprare, e nessuno va a trovarle. La mamma dice che non hanno un papà, ma la mamma di Mansur dice di aver visto un uomo dall’aria circospetta che passa spesso di lì.  
Ogni giorno la ragazza si presenta alla creta con un panino, e la sua bambola ci guarda. Ha i capelli più lunghi che abbia mai visto ed è sempre pulita e ordinata, al contrario di noi.
Mansur non riesce a deviare la palla che finisce dritta in faccia a Maryam la Cicciona. Diventa paonazza e scoppia a piangere: il nostro portiere se ne va via tutto arrabbiato. Non sappiamo che fare. Io sono dell’idea di far giocare la ragazza con il panino. Gli altri non sono d’accordo, ma io voglio continuare la partita. Mi faccio avanti. Mi fissa con i suoi occhioni color miele. Dico: «Hai visto cos’è successo. Vieni a giocare al posto di Maryam, rimango io in porta e giochi tu».  
Sorride, appoggia il panino e la bambola accanto al cumulo di terra e si unisce alla partita. Mansur le chiede ad alta voce: «Come ti chiami?».
La ragazza risponde piano: «Khorshid».
Ed è un sole veramente, proprio come dice il nome. I suoi occhi, perfino i capelli, sono uguali ai soli che mi disegnava papà. Sto in porta, mentre lei corre dietro alla palla insieme a Mansur e agli altri. Non subiamo gol, ma nemmeno li facciamo. Tutti stanchi di giocare, ci buttiamo in un angolo. Il sole è alto nel cielo e i suoi raggi mi arrivano dritti in faccia. Chiudo gli occhi, mi sento come all’ombra. Li apro. Khorshid spezza a metà il suo panino e me lo offre. Lo accetto e do un morso, ha il sapore del pane della mamma.
Quando Mansur dice che è ora di andare, ci diamo una scrollata e ci incamminiamo. La palla è di Mansur ed è lui che decide quando si gioca e quando si va via. Saluto Khorshid. Mansur mi lancia la palla, la porto sottobraccio fino a casa sua e intanto parlo di Khorshid. Lui dice: «Se non c’era lei almeno un gol lo facevi».
Mansur va a casa e io raggiungo il nostro isolato facendo il sentiero appiccicoso. Fa un caldo rovente, il sudore mi cola sulla fronte e lungo la schiena. Il cancello è aperto. Quando entro vedo la mamma, è seduta in cortile e si tiene la testa tra le mani. Ci sono anche la mamma di Mansur e le altre donne. Le guardo sorpreso e mi siedo vicino alla fontana. La mamma di Mansur dice alla mamma: «Non avere paura, Dio è grande».
La mamma ha cambiato il sacchetto di plastica del pane secco, come se non fosse caduto tutto per terra la mattina. Di nuovo non ci arrivo. Salto su e giù per prendere un pezzo di pane, quando di colpo mi sento la schiena che brucia. La mamma mi sta prendendo a ciabattate così forte che a momenti mi sfonda. La mattina l’avevo scampata, ma adesso mi becco tutte le sue grida: «Tuo papà è andato a portare il carico a Bam, dove c’è stato il terremoto, e nessuno ha sue notizie. Che ti possano ammazzare!».
La mamma di Said le si è seduta vicino: «È un bambino, ha solo fame. Che ti ha fatto? Secondo me devi fare un voto, vedrai che Dio ti aiuta».
La casa della mamma di Said sta di fianco alla moschea e tutti quelli che vogliono fare un fioretto vanno da lei, la vicina del Signore. La mamma le chiede: «Ma che voto posso fare?».
La mamma di Jasem le dice: «Io una volta ho fatto un’offerta a quarantadue vergini e il Cielo mi ha ascoltato. Tu sai preparare il pane. Devi andare a prendere un bicchiere di farina dalle quarantadue vergini una per una, poi ci fai il pane e adempi il voto».
Io finora la mamma di Jasem a fare un voto non l’ho mai vista, secondo me puntava ad avere il pane gratis. La mamma piange e a me si stringe lo stomaco. Neanche fossero le sue ultime volontà, porta un bicchiere, carta e penna. È la penna dorata che papà appoggiava sempre accanto al quaderno nero sul tavolino della televisione, vicino al mazzo di chiavi. Amo il portachiavi di papà: luccica, è un cerchio dorato e splendente. Fantastico sempre sul giorno in cui si romperà e allora prima che lo butti diventerà mio. Toccare le cose di papà equivale a prenderle di santa ragione. Quando papà deve andare via, solo la sua penna resta a casa. Alla fine la danno alla figlia della vicina per farle scrivere i nomi. Davanti a ogni nome mette un pallino. Mi danno un bicchiere e mi dicono di andare a casa del primo nome della lista a dire che si tratta di un voto di quarantadue vergini e prendere un bicchiere di farina. La più felice dell’iniziativa è la mamma di Jasem.
Busso, arriva la vicina e apre la porta. Le dico: «È un voto: quarantadue persone devono darci della farina».
 «Che voto?».  
«A Bam c’è stato un terremoto e mio papà si trova lì. È un voto per salvarlo».
Papà è in viaggio tutti i santi giorni. Ne torna a casa giusto due o tre, pianta un casino perché la mamma fa il pane e io in mezzo a tutto ciò mi prendo pure un paio calci, dopodiché se ne va via di nuovo. La donna mi prende il bicchiere dalle mani, ci versa la farina e me lo riporta. Protesto: «Mica è pieno!».
«Tu portalo, non ti preoccupare».
I bicchieri di farina si riempiono e si svuotano e i pallini accanto ai nomi delle vicine vengono spuntati uno dopo l’altro. È l’imbrunire. La mamma di Jasem ha detto che dobbiamo prendere tutti i quarantadue bicchieri di farina entro la sera, così con il richiamo alla preghiera del mattino la mamma prepara l’impasto e domani come prima cosa si mette a fare il pane. La mamma piange: non c’è una vicina da cui non abbiamo preso la farina, eppure manca un bicchiere. Non ho mai visto la mamma piangere per papà, col fatto che non faceva altro che ripetere che sperava che in casa non ci rimettesse più piede pensavo che se lui non fosse tornato davvero sarebbe stata felice. Le vicine se ne sono andate tranne la mamma di Maryam e la mamma di Jasem, rimugino un po’ e alla fine chiedo: «Perché non abbiamo preso la farina dalla mamma di Mansur?».
La mamma perde la pazienza e si toglie una ciabatta, la mamma di Jasem le afferra la mano e rivolta a me dice: «Dobbiamo prenderla solo da chi ha figlie femmine, in paese non c’è più nessuno che ne abbia». «Beh, ho un’amica che gioca con noi nella creta, potremmo prenderla da lei».
La mamma si è avvicina e mi chiede: «Chi?».
Le racconto di Khorshid che gioca con noi nella creta, con la mamma di Jasem si guardano ed esclamano che proprio se l’erano dimenticata. Ecco che di nuovo mi danno un bicchiere da riempire di farina. Si è fatto buio e la casa di Khorshid si trova vicino al cimitero. È un vecchio camposanto, nessuno ha i parenti sepolti laggiù. Quello nuovo si trovava alle porte del paese. Non c’è mai un’anima viva da quelle parti. La mamma di Maryam, che è quella con più anni di tutte, dice che quando era bambina suo papà si era appropriato a poco prezzo di un terreno dalle parti del vecchio cimitero e ci aveva costruito una casa, e quando ci sono andati ad abitare, sua mamma è morta di parto e dopo tre mesi gli spiriti si sono presi pure il bambino che aveva messo al mondo. Ma mia mamma dice che ha infarcito il racconto con una miriade bugie e che la mamma della mamma di Maryam e il suo bambino sono morti di malattia. Però mia mamma non è coetanea della mamma di Maryam. Dice che dopo tutto quello che era successo, suo papà ha lasciato la casa, dove adesso ci abitano Khorshid e sua mamma senza spendere un soldo.
Le storie terribili che la mamma di Maryam mi racconta sulle strade e le case dei dintorni prendono vita nella mia immaginazione e fanno diventare tutto spaventoso. La mamma di Maryam vive qui da quando ancora il paese non esisteva, e tutte le storie di paura le racconta lei. Suo papà pure era pazzo, e per non pagare si è costruito la casa al cimitero, così adesso mi tocca andare là a fare visita a Khorshid. Le luci della casa sono accese, si è fatto buio e il loro bagliore è l’unica cosa che mi indica la via di casa sua. Per terra ci sono un sacco di grossi sassi su cui ogni tanto inciampo. Maledico la mamma di Jasem. Mica poteva dirmi che tutti i bicchieri di farina andavano riempiti entro stasera? E perché quarantuno non andavano bene mentre quarantadue sì? Raggiungo la casa arrugginita. Si capisce che l’ha costruita il papà della mamma di Maryam: non è altro che un pezzo di lamiera spoglio e scolorito. Busso alla porta. Qualcuno grida: «Chi è?».
«Sono io, il figlio di Mehri la panettiera».
Ci vuole un po’ prima che vengano ad aprire. La porta resta socchiusa, è la mamma di Khorshid. Mi viene da pensare che si chiami Khorshid anche lei, hanno gli stessi occhi e la stessa capigliatura. Ha la fronte sudata e si morde le labbra. Khorshid fa capolino dalla fessura della porta e mi sorride. Nella scarpiera noto un paio di scarpe da uomo. Dalla porta socchiusa si intravede la tavola, c’è profumo di cotolette. La mamma di Khorshid mi chiede cosa voglio. Le spiego che voglio della farina perché la mamma ha fatto un voto e le ripeto tutto quello che aveva detto la mamma di Jasem. Con un sospiro di sollievo prende il bicchiere e sorride: «Aspetta».
Khorshid la segue. Sulla tavola ci sono tre piatti, uno è più pieno degli altri. Anche da noi ogni volta che la mamma prepara le cotolette, la porzione più grande spetta al papà. Le cotolette vanno a nozze con il pane della mamma e le verdure del cortile. Sotto alla finestra vicino alla tavola c’è un tavolino di legno con sopra un quaderno nero dietro al quale c’è qualcosa che brilla. Sbircio meglio, è un portachiavi dorato luccicante. La mamma di Khorshid appoggia il bicchiere sul tavolo, spezza il pane, ci mette sopra due cotolette, lo arrotola a mo’ di panino e me lo porge insieme al bicchiere di farina. Prendo il panino e il bicchiere. Esclama: «Buon appetito!».
Chiude la porta. Schiaccio il panino in tasca, mi assicuro il bicchiere sotto il braccio e, per quanto possibile, mi metto a correre. La farina nel bicchiere sballonzola tutta, e il vento un po’ se la porta via. Quando arrivo sulla soglia di casa il bicchiere è mezzo vuoto. La mamma me lo strappa bruscamente dalle mani e mi dà una tirata d’orecchi. Lancia un’occhiata alla chiazza di unto che il panino mi ha lasciato sulla tasca dei pantaloni e dice: «È per riempirti la pancia che ci è voluto così tanto?». Io la guardo. Molla la presa dall’orecchio. Vado a sedermi in un angolo. Aggiunge il bicchiere di farina al resto dell’impasto e con entrambe le mani ci dà dentro. Schiaccia la pasta con i pugni mentre il sudore le scorre dalla fronte e dagli occhi le lacrime. Guardo il ramo dell’albero, non c’è appeso niente. La mamma ha lasciato il sacchetto del pane secco sulla veranda. Butto il panino dall’altra parte del muro del cortile e infilo la mano unta nel sacchetto. Prendo un pezzetto e lo mordo. Scrocchia. Poi mi tiro su le maniche, mi lavo le mani e vado dalla mamma. Affondo le mani nell’impasto e l’aiuto a impastare. Mi guarda e sorride.

Bairro Alto, di Fabio Iuliano

Radici edizioni porta in libreria Oceans, di Fabio Iuliano: un racconto che sa di saudade e serendipity, di sale dei mari del Nord. Tre città e tre tempi, per illuminare con i riflettori lo spicchio di palco occupato da chi cerca di lasciarsi alle spalle le proprie cicatrici.

Cattedrale pubblica un estratto dell’incipit per gentile concessione dell’editore.

Bairro Alto
di Fabio Iuliano

Ci rivedremo in quel luogo dove le ruote del tempo si incrociano
Leiji Matsumoto

Lisbona, 7 gennaio 2019

“Do not feed the musicians”. Scritto in rosso, su un cartello bianco che finisce con una freccia orientata verso il percussionista. Dovrebbe chiamarsi César. Célia, l’altra metà del duo in acustico, ha messo il cappello a terra, tra l’ampli della Fender e l’asta del microfono. È rivolto verso l’alto, con piazzato dentro un biglietto: “Tip”.
“Do not feed the musicians” – non dare da mangiare ai musicisti – ma lascia pure un’offerta, se vuoi, non fiori, opere di bene, pensa Simone seduto davanti a una Sagres.
La birra scende molto meglio della musica: l’esecuzione di Redemption Song è stramba, più vicina alla versione ubriaca di Strummer che a quella di Marley. Simone avrebbe voglia di pescare le noccioline dai piattini sul bancone e giocare a fare centro col cappello delle mance.
L’interpretazione è tanto maldestra da farlo tornare con la mente alle jam sul palco dell’Uplands Tavern, ai tempi dei giovedì anonimi di Swansea, la città dove ha imparato davvero a suonare la chitarra.
Una borsa di studio da spendere per un corso universitario di specializzazione in Creative Music Technology. Un ingaggio garantito – sessanta sterline a serata per almeno un concerto a settimana – e un campus niente male, con bacheche su cui affiggere annunci di ripetizioni di pratica e solfeggio e alzare altri soldi per spese varie ed eventuali. Da un docente del Cymraeg Department si era fatto scrivere dei biglietti promozionali in gallese e guadagnava qualche ulteriore sterlina pubblicando articoli su testate musicali, cartacee e online.
Mesi a fare la spola tra le Uplands, il Taliesin Art Centre e la Main Library, per poter un giorno raccontare ai nipoti che il Galles valeva il prezzo del biglietto, al di là delle immancabili dosi di rugby, beer, sheep, hens e videoritratti di Catherine Zeta-Jones.
Aveva stretto una relazione con Christelle, una biondina còrsa della Ty Beck House, dottoranda in Economia. Si erano incontrati durante una festa di musica revival organizzata per degli studenti Erasmus che frequentavano l’ateneo. Era una di quelle serate nei pub che avevano raccolto l’eredità e le playlist dell’Hungry Bear, chiuso nel 2006, col dj che spaziava dai Bon Jovi a Boy George, da Livin’ on a Prayer a Karma Chameleon e poi in mezzo Edie Brickell con What I Am e le Spice Girls con Wannabe. A volte ti ritrovavi a ballare The Bad Touch dei Bloodhound Gang oppure le hit da donna-che-non-deve-chiederemai di Shania Twain. Quando il dj era particolarmente in forma, si arrivava a fine serata con Darude e la sua tempesta di sabbia.
C’era intesa fra Simone e Christelle. Si volevano bene, al punto da immaginarsi nella stessa casa, quando non nello stesso letto, almeno per i successivi vent’anni, mese più mese meno. Gli occhi chiari della ragazza, severi ma rassicuranti, lo cullavano in quella proiezione, regalandogli l’illusione di vivere nel migliore dei momenti possibili.
Fino a quella notte di giugno, quando arrivò lei a riempire tutto il vuoto che Simone neanche sapeva di avere dentro.
Dopo quella notte, il buio.
Sono già passati tre anni, ma è come se avesse albeggiato da non più di tre ore. Quella notte è rimasta impressa a fuoco nella sua anima, più bruciante delle manette che gli avevano stretto ai polsi a Parigi, vent’anni prima. Il riverbero di quegli strani mesi, che avevano fatto seguito agli attentati alle Twin Towers, avrebbe condizionato pensieri, reazioni e comportamenti di milioni di persone e aveva investito in pieno la psiche di un Simone poco più che ventenne.
Era stato fermato dalla Gendarmerie per aver gettato a terra una Harley Davidson parcheggiata davanti a una fermata della Metro, mentre cantava la Marsigliese a torso nudo. Così, senza alcun motivo apparente. Un muro di nebbia nella testa che si dissolveva in tre complesse di Carbolithium® da 300 milligrammi ciascuna o, in alternativa, in due compresse di Lithium Resilient™ a lento rilascio, ponendo un freno agli sbalzi di umore tipici del disturbo bipolare con il quale, dopo quel disastro, aveva giocoforza imparato a convivere, ça va sans dire.
“È acqua passata”, si è ripetuto negli anni, affidando quella storia di obiettivi, telecamere e trattamenti sanitari obbligatori all’Espace Maison Blanche alle pagine di un taccuino, che era passato nelle mani di un collega empatico e poi in quelle di un giovane editore tanto coraggioso da pubblicarla. Che strana sensazione veder scorrere la tua vita fra le dita di altri. È come specchiarsi nella parte concava di un cucchiaio in cui l’immagine appare capovolta sia in orizzontale sia in verticale.
L’episodio di Parigi è parte di un racconto da guardare ormai con occhi adulti. Un gioco fatto di regole prestabilite, senza molte possibilità di scelta.
“Acqua passata non macina più”, vorrebbe poter dire anche ora, davanti alla sua birra, ripensando a quella notte di tre anni fa che invece si sente ancora serpeggiare dentro indifeso come un bambino. Un gioco le cui regole sono da creare, da cui sarebbe bello poter tornare indietro. Ma non si può.
Ne è consapevole e si accontenta di passare da un pensiero al successivo con la stessa velocità con cui César e Célia switchano da Bob Marley alle note di Mr Jones dei Counting Crows.
Célia, portoghese – a volersi fidare del manifesto – ha un bell’American accent. Dicono che il vedere film in lingua originale possa fare la differenza.
“Non sarebbe male vivere da queste parti”, pensa Simone appoggiando sul tavolo i suoi sensi stanchi e mischiandoli con la ginjinha, un liquore a base di amarene che ha imparato ad apprezzare appena sbarcato all’aeroporto Portela. Alle 9 del mattino. Da quando Slash ha inciso quel suo It’s Five O’Clock Somewhere, è sempre più facile incontrare baristi capaci di trasformare in qualunque momento il bancone di un aeroporto in uno dei peggiori bar della città. Tanto da qualche parte del mondo saranno pure le cinque del pomeriggio.
La ginjinha lo trasporta con la mente a casa, perché è simile alla ratafià, un liquore dolce tipico della sua zona. Non sono poche le cose che Lisbona e L’Aquila hanno in comune. Sono unite dal legame con la terra e le sue sventure – hanno subìto terremoti che le hanno segnate e ridisegnate – ma anche dal baccalà, che nella città lusitana si cucina in mille modi e nel capoluogo abruzzese, invece, rappresenta da sempre la rara possibilità di mangiare pesce in montagna. Era stata sua zia Maria a spiegargli che il baccalà all’Aquila era un piatto tradizionale della festa grande e che arrivava dalla costa insieme alle aringhe. Si cucinava baccalà nelle ricorrenze e all’entrata della Quaresima.
Ma un fil rouge tra le due città si ritrova, per molti versi, nel carattere degli abitanti: chiuso in una iniziale diffidenza che si apre progressivamente e con genero sità. Persino il modo di parlare non è troppo diverso, specie nel suono delle “sh” e delle “nd”, tipico dell’entroterra abruzzese. Un dialetto che si ostenta in branco e che ci si sforza di attenuare mentre si flirta, stemperando una birra sfacciatamente tiepida con una citazione sfacciatamente aulica.
Simone, comunque, si è sempre considerato un montanaro atipico. Uno di quelli nati con la malinconia del mare lontano, delle notti scandite dalle onde e dagli accordi di un canzoniere. Notti umide sulla spiaggia. Le sagome delle barche dei pescatori all’alba, in lontananza. Una chitarra e una sfilza di Peroni vuote, allineate sui bordi di un pattino a riva. Nei mesi più freddi gli ha sempre attraversato le vene quella mancanza. La nostalgia delle vacanze estive. Sulla sabbia, del resto, aveva avuto anche la prima esperienza con una ragazza, poco più grande ma molto più esperta di lui.
Le sinapsi rimbalzano nella testa di Simone che, puntando i gomiti sul legno del bancone, osserva una vecchia bicicletta fissata al soffitto, da cui pende una quantità notevole di reggiseni di ogni misura e foggia. È una trovata dei gestori del bar: per le clienti disposte a sfilarsi il reggiseno e consegnarlo, tre shottini in omaggio!

L’ufficio delle correzioni storiche, di Danielle Evans

Dal 20 Ottobre, minimum fax porta in libreria L’ufficio delle correzioni storiche, di Danielle Evans, tradotto da Assunta Martinese.

Danielle Evans, tra le più acclamate giovani autrici statunitensi, si concentra su specifici momenti nelle vite dei suoi personaggi in cui sembra che un equilibrio fragilissimo sia sul punto di spezzarsi, finestre in grado di illuminare l’inestricabile intreccio di colpa, resistenza, vergogna, forza, cordoglio, potere e amore di cui si compone la storia americana. Sette toccanti racconti che ci costringono a confrontarci con i temi della razza, della cultura, e soprattutto della storia.

Cattedrale propone un estratto del racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.

L’ufficio delle correzioni storiche
di Danielle Evans

Il nostro ufficio era nascosto in fondo a un corridoio in uno dei labirintici edifici brutalisti della città. Non mi era mai dispiaciuta l’architettura imponente di Washington; quando ho capito che avrei dovuto trovarla brutta e non funzionale e accogliente ero ormai al college. Ma ero cresciuta in mezzo a quell’architettura, ero cresciuta idealizzando le persone che lavoravano in edifici come questo, e comunque ci tenevo sempre a precisare che la parola brutalismo non era nata da un giudizio estetico ma da «cemento grezzo» in francese. Da quando avevo iniziato a lavorare all’istituto avevo dovuto correggere già sette volte alcune affermazioni sull’etimologia del termine. Di solito queste piccole correzioni mi facevano sentire penosa e pedante, ma quella in particolare mi piaceva farla, mi piaceva immaginarci – non solo i miei colleghi in ufficio ma tutti i funzionari pubblici in città – come persone impegnate a creare qualcosa di solido col materiale grezzo che ci era stato dato, mi piaceva pensare che ci trovavamo nell’ambientazione giusta per svolgere il nostro lavoro.
Naturalmente, essendo un’agente operativa, è raro che io trascorra tutta la giornata in ufficio. Normalmente quella libertà mi sembrava un lusso, ma adesso era giugno – non ancora la parte peggiore dell’estate, ma faceva già così caldo che uscivo dai miei giri quotidiani imperlata di sudore ed ero in costante ricerca di pretesti per stare al chiuso. Certi giorni entravo in negozi pieni di souvenir kitsch e correggevo le date sbagliate solo per godermi l’aria condizionata. Alla fine di tutto, avrei ricordato quanto spesso mi ero annoiata all’inizio di quell’estate, quanto mi ero preoccupata che il nostro lavoro stesse diventando insignificante, quante volte mi ero chiesta se mi sarebbe capitato di nuovo nella vita di sentirmi parte di un’impresa rilevante.
L’Istituto per la Storia Pubblica mi aveva reclutata quando insegnavo storia alla George Washington University, e in origine il progetto aveva una visione grandiosa. Un’ambiziosa deputata neoeletta aveva chiesto dei fondi per mettere una persona laureata in storia in ogni distretto del paese, per contrastare quella che lei definiva «l’attuale crisi della verità». Fu presentato come un nuovo progetto occupazionale in ambito pubblico destinato alla classe intellettuale, visto che molti di noi ultimamente si erano ritrovati a fare gli autisti, consegnare la spesa e svolgere lavoretti su commissione per arrivare a fine mese. I nuovi posti di lavoro nel dipartimento governativo avrebbero messo a frutto quelle lauree e sarebbero stati relativamente ben pagati. La deputata immaginava una rete nazionale di storici e fact-checker, un cordiale esercito di cittadini devoti a rendere la verità talmente accessibile e allettante che sarebbe stato impossibile ignorarla. Eravamo partiti come istituto di ricerca, sotto la direzione della Library of Congress: una specie di National Institute of Health per far fronte a un altro tipo di emergenza sanitaria. Eravamo la soluzione a decenni di cattiva informazione e deliberata disinformazione. Il nostro compito era proteggere la memoria storica e non attaccare briga (Direttiva 1) o correggere le interpretazioni che le persone davano alle notizie di cronaca recenti (Direttiva 2).
L’energia postelettorale che ci aveva creati si era esaurita quasi immediatamente; l’ex deputata adesso faceva l’opinionista in televisione. All’istituto eravamo quaranta in tutto, venti dei quali di stanza a Washington. Ora che i parametri della nostra missione erano stati ridimensionati capitava spesso che la gente ci scambiasse per guide turistiche troppo zelanti o logorroici impiegati museali che si erano allontanati dalla casa base. Alcuni miei colleghi ci marciavano. Bill gironzolava attorno ai monumenti correggendo i turisti che avevano nozioni sbagliate, spesso limitandosi a leggere ad alta voce le targhe che avevano sotto gli occhi; Sophie raramente si allontanava dai giardini dello Smithsonian; Ed passava tutta la giornata in qualche birreria, ma ogni settimana presentava un verbale con l’elenco delle correzioni apportate, ed era talmente lunga e plausibile che nessuno avrebbe saputo dire se era un alcolizzato particolarmente funzionale o un talentuosissimo scrittore di dialoghi fittizi.
A quel punto lavoravo all’Istituto per la Storia Pubblica da quattro anni, e volevo prendere il mio incarico molto sul serio. Per evitare di scivolare nella routine, ogni mese mi assegnavo un quartiere diverso di Washington. A giugno ero a Capitol Hill, e poco dopo aver corretto un turista convinto che il Rayburn Building fosse intitolato a Gene Rayburn, mi resi conto che era ora di pranzo. La zona dove mi trovavo era piena di ristoranti i cui nomi erano giochi di parole che vendevano costosissimo comfort food da banconi cromati ostentatamente vintage; tutto mi appariva sinistro, e avevo appena optato per la pizza quando passai vicino a una pasticceria con la tenda rosa all’ingresso sulla quale in un corsivo arzigogolato che imitava la glassa c’era scritto: bella e tonda. Il nome era orrendo – voleva essere un doppio senso e io stentavo anche a capire il primo – ma era il compleanno di Daniel, e in vetrina notai un elaborato alberello di cupcake, con collinette rosse e dorate e color cioccolato. I cupcake erano una cosa leggera e offrivano la possibilità di scegliere, pensai, quindi entrai e passai in rassegna i gusti prima di decidere che i cupcake non andavano bene: portare un vassoio di cupcake gli avrebbe fatto pensare che ero una bambina incapace di decidere, oppure lo avrebbe portato a immaginare lo scenario opposto – una me in versione casalinga che entrava trionfante con un vassoio all’incontro scuola-famiglia, come se stessi aspettando che lui mi offrisse quel futuro. Avanzai lungo il bancone, oltre le torte nuziali e le riproduzioni iperrealistiche dei monumenti di Washington, e le torte a forma di scarpe e bottiglie di champagne e cartoni animati, cercando qualcosa di un po’ più discreto.
L’errore era così piccolo che la me di quattro anni prima lo avrebbe giudicato trascurabile. Su una delle torte c’era scritto juneteenth con la glassa rossa, circondata da fuochi d’artificio e stelle rosse bianche e blu. Il volantino appiccicato sul banco sopra la torta incoraggiava i clienti a ordinare per tempo una torta per la festa del Juneteenth: Il Quattro Luglio lo conosciamo tutti!, diceva il foglietto. Ma perché non iniziare a celebrare la libertà con qualche settimana di anticipo e festeggiare l’anniversario del Proclama di Emancipazione? Dillo con una torta! Una delle due ragazze dietro il banco era nera, ma intuivo che i proprietari non lo fossero. Il quartiere, i prezzi, la stucchevole musica acustica diffusa dalle casse lucide: conoscevo tutte le parole della canzone, ma ogni singolo dettaglio in quel posto dichiarava a chi fosse diretta. I miei ricordi della festa di Juneteenth a Washington erano i miei genitori che mi portavano a una grigliata in giardino a casa di amici, a mangiare budino alla banana e crostata di pesca e torta alla fragola fatta con il mix Jell-O; a nessuna di quelle grigliate avevo visto una torta di pasticceria da 75 dollari che aggiungendo un sovrapprezzo poteva essere realizzata a forma di borsa griffata. L’incipit del volantino – quel lo conosciamo tutti – non era rivolto a quelli che già festeggiavano il Juneteenth, ma ai capufficio che si sarebbero sentiti obbligati a non trascurare una festività afroamericana, o che semplicemente volevano una scusa per un dessert diverso.
«Mi scusi», dissi, con il dito ancora poggiato sul bancone sopra il volantino. La ragazza nera si voltò.
«Vuole quella?», chiese.
«No», dissi. «Ciao. Sono Cassie. Sono dell’Istituto per la Storia Pubblica».
La donna bianca si voltò, ma entrambe mi fissarono senza dare segno che quel nome dicesse loro qualcosa.
«Una sciocchezza», dissi. «Non diamo ordini né niente. Siamo un servizio pubblico. Come il 311! Ma ho pensato che magari vi è utile sapere che il volantino non è del tutto corretto. Il Proclama di Emancipazione è stato emesso nel settembre 1862. Il June­teenth è diventato la festa di tutti gli schiavi liberati e adesso si celebra a livello nazionale, ma in realtà commemora la data in cui gli schiavi del Texas appresero che erano liberi, a giugno 1865, dopo la fine della guerra civile».
«Uhm, ok», disse la donna bianca.
«Vi lascio un biglietto. Una piccola correzione».
Tirai fuori il nostro sticker ufficiale – con la costosa stampa di una foca sollevata su carta olografica; era facile farne delle imitazioni ironiche, ma quasi impossibile farne repliche accurate. Digitai la correzione nell’unico lusso futuristico concessoci dall’ufficio – la stampante portatile che avevano dato a tutti noi quando ci avevano assunti – e ci infilai lo sticker per stampare il testo. Apposi la data e la firma, staccai la pellicola e lo appiccicai al bancone accanto al volantino.
«Ecco», dissi. «Niente di che».
Sorrisi e guardai negli occhi entrambe le donne. Quando chiedevamo alle persone di dedicarci il loro tempo non dovevamo essere aggressivi – dovevamo correggere le informazioni sbagliate nel modo più rapido e gentile possibile (Direttiva 3) – ma dovevamo mostrarci disponibili a fornire ulteriori informazioni o a intrattenere una conversazione più lunga se qualcuno desiderava saperne di più (Direttiva 5). Dovevamo essere pronti a citare le fonti (Direttiva 7).
«Vuol comprare una torta?», mi chiese la ragazza nera. «O è venuta per il volantino?»
«Ah», dissi. «Sì. Sto uscendo con un ragazzo ed è il suo compleanno. Cercavo di decidere che torta prendere. Ma non lo so, forse sono meglio i cupcake? Lei cosa mi consiglia?»
«Signora, se va a casa di uno con una torta di compleanno e quello si lamenta allora mi sa che non ci esce più. A prescindere dalla torta».
«Ha ragione», dissi. «Mi dia quella».
Indicai una torta che si chiamava blackout. «Come un Oreo senza la crema», diceva la descrizione. Potevo dire a Daniel che gli avevo comprato la torta più nera che avevano. Le scatole erano rosa con elaborate scritte in oro; chiesi quella con la scritta bella e tonda. Avrei lasciato decidere a lui se fare la battuta sconcia o lamentarsi del fatto che negozi di proprietà dei bianchi facevano appropriazione culturale, o optare per il commento scontato sugli Oreo. Avrei tralasciato la parte in cui avevo fatto una correzione. Daniel era un giornalista, scettico sia per indole che per mestiere, e il mio lavoro gli sembrava – nella migliore delle ipotesi – sospetto.
Non era l’unico. Prima di andarmene dalla George Washington University per venire a lavorare all’istituto avevo una traiettoria in ascesa, ero stata fortunata. Potevo recitare a memoria il discorso di avvertimento che mi avevano fatto e che io avrei dovuto fare agli studenti più promettenti: se si voleva lavorare nel proprio campo bisognava essere pronti ad andare ovunque, a lasciare chiunque, e lavorare per stipendi ridicoli, e anche facendolo i posti a disposizione erano scarsi, e ancora più scarse le possibilità di essere scelti tra i mille dottorati che si candidavano. Ma io avevo ottenuto un contratto di quattro anni come visiting professor in un’università del Midwest, e dopo appena un anno mi avevano offerto un lavoro ben pagato che mi avrebbe avviata alla carriera accademica, un posto all’università non solo in una città importante, ma nella città dove ero nata. La Washington della mia infanzia non esisteva più, ovviamente, e se adesso molte parti della città mi sembravano familiari era solo perché cominciavo a dimenticare com’erano prima, ma restava l’unico posto in cui mi fossi mai sentita a casa. La serendipità di ottenere un posto accademico proprio lì rasentava la magia, in un mercato in cui essere «professori» quasi sempre significava tenere sette corsi in quattro campus diversi senza assicurazione medica e senza il minimo sindacale.
Quando partii sentii la mancanza dei miei studenti e dei miei colleghi, mi mancava lavorare ai manoscritti di cui nessuno mi chiedeva più niente – i miei anni di ricerca su Odetta Holmes ancora negli archivi. Mi mancava l’eterna preadolescenza delle feste universitarie e, lo ammetto, mi mancava il fatto di essere sulla vetta – l’intera impalcatura si stava sgretolando, ma io mi sentivo sulla vetta. Tuttavia, quando si era presentata l’opportunità di lavorare per l’Istituto per la Storia Pubblica, avevo mollato tutto per andare a fare qualcosa che, nell’immediato, mi sembrava più importante.
I miei genitori si erano beati nel dire a tutti che ero la professoressa Jacobs, docente universitaria di storia, e adesso non sapevano più cosa dire quando qualcuno chiedeva che lavoro facessi. Avevo provato a spiegargli che professore, perfino nella sua più rosea incarnazione, ormai significava sottostare anno dopo anno alla tirannia di valutazioni e tassi di iscrizione, significava tradurre le cose che amavi perché le amavi e alle quali davi valore perché avevano valore in aziendalese, per convincere gli amministratori che i tuoi studenti erano utili al mercato del lavoro. Significava sentirti dire che il problema eri tu, perché coccolavi troppo gli studenti, tu, la loro ultima possibilità di arrivare preparati a un mondo di squali, ma il problema eri tu anche quando gli studenti entravano in crisi, perché non avevi allertato immediatamente qualcuno del fatto che uno studente costituiva un rischio per se stesso, perché non avevi un piano pronto per mettere al sicuro la tua classe nel caso in cui uno studente si fosse presentato armato in un edificio vecchio di cinquant’anni dove le porte non si chiudevano più. Significava sentirti dire ogni anno con tono trionfante che la facoltà non era mai stata così inclusiva e poi qualche mese dopo, durante una cupa riunione, vederti consegnare un elenco di tutte le misure di autoregolamentazione che non era più il caso di lasciare al giudizio dei docenti e di tutti i parametri valutativi oggettivi che da quel momento in poi andavano osservati in modo più fiscale. Significava ricevere consigli benintenzionati da colleghi più anziani che si rifiutavano di ammettere che l’istituzione alla quale avevano consacrato la loro vita non esisteva più per come l’avevano conosciuta, e sentirti dire da colleghi più precari che eri stata fortunata e non avevi di che lamentarti.
Era stato difficile convincere la gente, perfino i miei colleghi all’isp che erano stati reclutati tra le schiere di disoccupati con un dottorato – che davvero avevo scelto io di andarmene. Il modo migliore in cui riuscivo a spiegarlo era che amavo il mio lavoro e stavo male a vederlo sparire.

© Danielle Evans, 2020 Published by arrangement with The Italian Literary Agency and Ayesha Pande Literary 
© minimum fax, 2023 
Tutti i diritti riservati

Invocazione, un racconto di Alfredo Zucchi

Edicola Edizioni porta in libreria Demolition job. Lettere all’usurpatore di Alfredo Zucchi. Cinque racconti che partono dall’evidenza della deflagrazione per restituire un’inattesa utopia della costruzione.
Alternando lo sviluppo dell’azione, spesso sospesa e decontestualizzata, alla riflessione teorica, Alfredo Zucchi sceglie la strada dell’accumulazione e dell’esplosione formale per affrontare temi come l’autorità e la morte, il desiderio e l’amore, il sogno e il linguaggio.

Cattedrale vi propone uno dei racconti contenuto nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.


INVOCAZIONE
di Alfredo Zucchi

Tornare ogni volta è stupendo, è rimasto tutto uguale: le pozze sul basalto tra i vicoli sanno di pesce vivo, c’è un’aria salata che viene da est e sembra di stare in un grembo acquatico appena sguainato, apri gli occhi e le cose non sono ancora putrefatte. Per strada la gente saluta e spinge, ti assalta, saltella, sputa per terra e sorride. Voglio andare al mercato coperto in zona porto, dove andavo sempre, chi sa se c’è ancora – c’è un odore di cose ammontonate appena morte e non capisci se hai fame o vuoi scopare: è il mare nostro affollato di corpi, anime e piante, cozze, polpi e bagnanti, e chi va per strada sogna il deliquio perché chi vive vuole morire godendo.
Per strada la gente saluta e spinge, ti assalta, saltella, sputa per terra e sorride. Voglio andare al mercato coperto in zona porto, dove andavo sempre, chi sa se c’è ancora – c’è un odore di cose ammontonate appena morte e non capisci se hai fame o vuoi scopare: è il mare nostro affollato di corpi, anime e piante, cozze, polpi e bagnanti, e chi va per strada sogna il deliquio perché chi vive vuole morire godendo.

C’è un affare nel mezzo, in piazza, un palco e uno schermo, qualcuno si sgola in piedi per avere l’attenzione dei passanti ma questi s’infilano a imbuto nel mercato coperto a due passi, guardano il tizio che grida e ridono e lui finge una delusione lacerante. Chi sa se dentro c’è ancora il banchetto del baccalà con la bionda che sciacqua, dissala e sviscera come Diana nel bosco dei pesci.
Mi imbuco a spallate, è un festivo e la gente si riversa dentro come al bordello – ogni corpo dice “ho fame” e io pure rispondo che ho fame e voglio scopare. Ma è rimasto tutto uguale: il metallo a vista sul soffitto, le vetrate, i rivoli a terra – sale e acqua, sangue, acqua e visceri – che scorrono come il tappeto rosso delle occasioni uniche. Ogni volta è la prima e l’ultima, l’unica, questo ormai l’ho imparato.
Scorgo, infine, in un angolo, il più remoto del mio sguardo, il banchetto e la donna. L’ultima volta era proprio lì, vicino ai crostacei? Non mi risulta. Non mi scompongo: mi avvicino e incrocio i suoi occhi, sorridiamo insieme. Mi fa cenno con la testa, con le braccia e le mani eterne, dice “un momento e sono tua” e io uguale col capo le dico che il tempo è una pozza di visceri e pinne smembrate. Fisso l’animale morto disposto in vaschette diverse secondo i tagli e i gradi di salatura – io voglio i pezzi alti e spessi, non ho mai voluto altro.

Poi la bionda ritorna, lo sguardo ostile. Qualcosa è andato storto. Mi chiedo se la mia postura ha tradito l’urgenza, se la mia voce ha infranto un codice ignoto – forse un codice nuovo, o uno che ho dimenticato, dopotutto torno solo due volte l’anno, sono uno straniero. Diana si avvicina al banco, senza degnarmi dello sguardo chiede chi è il prossimo.
Io alzo la mano, il braccio teso, mi sembra di toccare il soffitto con un indice che non mi appartiene – alzo la voce e chiedo quattro pezzi alti, i più alti e spessi che esistono. Lei mi fissa, sorride e si volta di lato, dove un altro richiama la sua attenzione. C’era prima il signore. Le guardo le mani: non è vero, rancida vecchia – se una volta sono stato tuo, ora non lo sono, non so più di chi sono. L’uomo dietro di me ha la voce calda, ordina tre pezzi alti e due alette per il fritto – è il momento, mi dico: come la massa liquida a un passo dal foro del tubo striminzito da cui esploderà, è qui che il dramma ha propriamente inizio. Prendo a insultarlo strillando nella lingua che è stata la mia (ricordo dal fondo del tubo infinite varianti della bestemmia che riempie la bocca), lo aggredisco fissando la bionda che mi ride in faccia – così, mi dico, solenne ma incerto, vendicatore delle occasioni uniche, così io privo te, usurpatore dei pezzi alti, del mio sguardo, e me ne riapproprio; e privo te, bionda dei pesci morti, del mio impeto, e lo disperdo nel tubo del tempo.

Infine mi volto. Esaurita la catena del dubbio, i rivoli d’acqua e visceri per terra si prendono il naso e lo stomaco. Ora affoga, dico mentre mi sgonfio, regredisci al brodo dei primordi, anche tu come tutti. La tua bocca sia la fonte putrefatta, la sorgente morta. Mi volto infine e lo fisso, senza impeto, lo guardo in faccia e quell’uomo, l’usurpatore, sono io.

Olga, di Alice Sivo

Racconti Edizioni porta in libreria ‘Mangime in compresse per pesci tropicali’, di Alice Sivo. Uno strano libro-acquario in cui tutti i personaggi nuotano come pesci dentro la stessa acqua, incrociando le proprie traiettorie oppure mancandosi di qualche pagina.

Cattedrale vi propone uno dei testi contenuti nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

Olga
di Alice Sivo

Sono fortunata perché nella mia vita ho avuto sempre delle storie d’amore favolose, romantiche e appassionate, anche se spesso sono finite in modo tragico. Ma amare vuol dire anche soffrire, l’ho letto una volta nei cioccolatini.
Il primo è stato Leo ed ero poco più che una bambina. Facevamo insieme delle lunghe passeggiate. Anche se di solito i bambini a quell’età non vanno in giro da soli, i miei erano tranquilli a lasciarci uscire insieme, si fidavano di Leo e io con lui mi sentivo sempre al sicuro, protetta. Facevamo cose così semplici eppure così speciali: restavamo ipnotizzati davanti alle vetrine dei negozi e ci piaceva rotolare sul prato e abbracciarci, rincorrerci e poi accoccolarci vicini a leggere l’ultimo numero di Topolino. Non litigavamo mai e le mie amiche che ancora non avevano nemmeno dato il primo bacio erano molto gelose di noi. Gli scrivevo spesso dei bigliettini d’amore decorati con i brillantini e anche se non mi rispondeva mai capivo che provava per me le stesse identiche cose. Quando i miei mi hanno dato la notizia che Leo era morto sul colpo investito da un pirata della strada ho pensato che avrei preferito che fossero morti loro al posto suo e mi sono rinchiusa a piangere nella mia cameretta tutta rosa senza mangiare per due giorni e senza andare a scuola per una settimana.
Poi la vita va avanti e i dolori si superano. Ecco un’altra verità, che non ho letto nei cioccolatini ma che ho vissuto direttamente sulla mia pelle. Ero un po’ più grandicella e all’improvviso mi sono sentita pronta per una nuova storia e proprio allora è comparso Bobo. Era così possente, aveva quel nome così rude, il nostro è stato un classico colpo di fulmine. Me lo ricordo bene, all’uscita della parrocchia, era già buio e lui era lì, appoggiato a un albero, e sembrava proprio che mi aspettasse da tutta la vita. I nostri sguardi si sono incrociati, ci siamo scambiati un segnale d’intesa, mi sono avvicinata senza dire una parola, mi ha preso in modo selvaggio ed è stato subito mio e io sua, avvinghiati vicino a un cespuglio, senza pensare che qualcuno potesse vederci e giudicarci. Quando l’ho portato a casa i miei non hanno potuto fare altro che accettarlo, anche se ai loro occhi aveva un’aria poco raccomandabile. A volte effettivamente era un po’ aggressivo e quando eravamo da soli, chiusi in cameretta, mi saltava addosso all’improvviso senza dolcezze e preliminari, ma io sapevo come calmarlo e renderlo di nuovo docile e gentile. Nascondevo i lividi e i graffi con un doppio strato di fondotinta della trousse a forma di orso che i miei mi avevano regalato a Natale. A Bobo piaceva molto guardarmi mentre mi truccavo, era uno dei nostri tanti riti d’amore. Un giorno però ha deciso di andarsene via, senza neanche un saluto o una spiegazione. L’unico messaggio che mi ha lasciato è stato la trousse dei trucchi frantumata sul pavimento della cameretta. L’ho cercato per giorni, dappertutto, ho fatto stampare dei fogli con la sua foto, i dettagli sulla scomparsa e la promessa di una ricompensa e li ho attaccati a ogni palo e su tutti i muri dell’universo. Ma non è servito a niente. L’ho odiato tanto per avermi abbandonato in questo modo ma poi quel sentimento è passato e ancora oggi continuo a ricordare con piacere tutti i bei momenti passati insieme. E poi se non se ne fosse andato Bobo non sarebbe mai arrivato quel diavoletto di Tony. Che peperino era.
Ha portato in casa una ventata di allegria e buonumore. Anche i miei si sono dovuti arrendere alla sua simpatia. Era così giocherellone e ci faceva tanto ridere con le sue espressioni buffe e quando si esibiva nei suoi spettacolini con la palla. E in cameretta mi ha fatto godere più di ogni altro. Poi gli è venuto un brutto male e ci ha lasciati nel giro di un mese. Aveva solo sette anni.
Con Bernardo sto vivendo una storia matura, fatta di affetto, di piccole gioie quotidiane, di diritti e doveri reciproci. Ci facciamo compagnia, ci supportiamo a vicenda, lui mi fa tornare il buonumore quando sono triste, mi basta una semplice leccata, io lo porto a spasso tutti i giorni e gli faccio fare i bisogni. Poi li lascio lì, sul marciapiede, ai piedi degli alberi, sulle scale della chiesa, vicino alle ruote dei motorini, perché mi sembrerebbe di offenderlo e umiliarlo raccogliendoli. Non l’ho mai fatto con i bisogni di nessuno, ho avuto sempre il massimo rispetto per i miei cuccioli orgogliosi.

Ultimamente la notte sogno il nostro matrimonio, in una deliziosa chiesetta di campagna, io con un bellissimo abito bianco, scollato, con il corpetto di pizzo e vere perle e lo strascico lungo e leggero che una specie di magia fa rimanere sospeso a un centimetro da terra, per non impolverarsi e sporcarsi, Bernardo elegantissimo in un completo blu classico e insieme moderno. Io sono radiosa e lui è affascinante, siamo in estasi e non ci importa se gli invitati non sono venuti. C’è soltanto Giuseppe, che ho conosciuto ai giardini e anche se ha solo nove anni gli dico sempre che è il mio migliore amico. Non ci sono neanche i miei, che nel frattempo sono morti, anche nei miei sogni. Ci basta don Giorgio, che mi infila la fede e mi porge un costosissimo collare d’oro bianco che io metto delicatamente intorno al collo morbido e peloso di Bernie. Non mi importa dei figli e della predica sull’unione casta e feconda che ha fatto don Giorgio. Tanto Bernie per me è tutto: compagno, amico, amante, padre e figlio.

Foto di Dario Fatello