Ciclopi, di Manuela Piemonte

Nutrimenti porta in libreria Le ciclopi, di Manuela Piemonte. Una raccolta di racconti sul mondo di oggi, sulle donne che lo abitano e che devono barcamenarsi tra lavori precari, sconfitte emotive, cambiamenti imprevedibili e molte incertezze.

Cattedrale vi propone uno dei testi contenuto nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

CICLOPI
di Manuela Piemonte


Era il primo inverno del lavoro in discoteca, le notti del venerdì e del sabato in piedi fino alle sette del mattino. Lei trascorreva ore nel guardaroba a tenere d’occhio giacche e borse, tre giri di sciarpa al collo, in esilio al piano di sopra in un edificio occupato, dal basso l’eco della musica e delle risate, delle chiacchiere e delle grida.
In attesa dei clienti vagava tra gli uffici trasformati in cucine con sei fuochi e pentole da rancio, tra i muri scrostati con una tappezzeria di volantini contro la guerra. Gli slogan alle pareti la rassicuravano rispetto all’imprevisto che l’aveva portata lì: il bisogno di soldi non era una condizione perenne ma una fase. Una fase e nient’altro, improvvisa come la telefonata con cui le avevano detto che non avrebbero potuto mandarle la quota, insolita quanto la domanda di borsa di studio respinta per un cavillo.
Era bastato chiedere alla barista a cui di solito ordinava il gin tonic, presentarsi il giorno di prova, superare la notte, intascare la banconota e tracciare i confini: da un lato la voglia di costruire il futuro, dall’altro la voglia di vivere il presente. In mezzo il cancello da attraversare, un cancello di notti a occhi aperti e ritmi al contrario, negli angoli dell’esistenza che lei aveva sempre immaginato e a trovarseli davanti non avevano niente di speciale, come le persone di cui si sente parlare a lungo e si rivelano una delusione fin dalla stretta di mano.
Quando i clienti ritiravano l’ultimo cappotto c’erano i bagni da pulire, con la segatura e la candeggina. Una volta che ogni venerdì e sabato lavi via le impronte sporche di piscio di mille sconosciuti, non esistono più fatica né livello di insoddisfazione, da lì sarà soltanto una salita in alto fino alla luna.
Dopo toccava alla pista da ballo, assi di legno da cui staccare le macchie con il sapone, l’acqua e la cera, come se la gente in un locale con la musica al massimo volume e le luci soffuse si mettesse davvero a esaminare il grado di brillantezza dei pavimenti.
Il martedì usciva all’ora in cui nel fine settimana era andata a dormire e con tre spiccioli in tasca e i piedi dritti fino al mercato si ripeteva “una frutta e una verdura, una frutta e una verdura” e comprava solo roba in offerta, sul punto di marcire, talvolta quasi regalata, finché aveva scoperto che prima dell’apertura un trasportatore consegnava le cassette dell’orto all’alimentari sotto casa, dove non c’erano telecamere. Lei e le sue compagne d’appartamento prendevano un paio di mele, tre zucchine, una busta d’insalata. L’accortezza di non scegliere primizie e nel portare via quattro vegetali tra i più comuni sentirsi ladre, sì, ma solo al cinquanta per cento. Non avrebbe mai rubato alla luce del giorno, tra le corsie di un supermercato. In questo, almeno, la notte non riusciva a cambiarla. Perché lei contava le monete e dava il resto preciso al centesimo, in discoteca, e parlava con i clienti e augurava buona serata, buon divertimento, a più tardi, anche quando avrebbe voluto scendere in pista e urlare. Invece raccoglieva cappotti, giacconi, caschi per la moto, e dopo la nottata si svegliava quando l’orologio segnava le cinque, con nove o dieci ore di sonno alle spalle e i muscoli tesi dentro le braccia per lo sforzo di passare il sapone, l’acqua e il lucidante.
Un pomeriggio di domenica, dopo due mesi di lavoro-sonno-fame, lei aprì gli occhi e nell’oscurità della stanza capì di aver appena messo a fuoco, fin troppo a fuoco, la serranda socchiusa da cui filtrava la luce. Se riusciva a vederla bene significava che era andata a dormire senza togliere le lenti a contatto. Corse in bagno e le staccò a fatica, le immerse nel piccolo contenitore, inforcò gli occhiali, preparò un caffè e restò a chiacchierare con una coinquilina, e intanto a mano a mano che l’orologio girava, giravano le lacrime, inarrestabili, contro la sua volontà, una fontana dall’occhio sinistro. Lei però non poteva curarsene. Aveva un esame da preparare, una stanza da riordinare, anche se in testa la inseguivano le voci dei clienti che per due notti di fila l’avevano tempestata di richieste di sconti, i flash della luce stroboscopica mentre setacciava tavoli a caccia di bicchieri vuoti, i polpastrelli come mollica di pane mentre sciacquava e risciacquava… tutto doveva scivolare via, lontano da lei, fino a diventare uno spettro senza case da infestare. Ormai era domenica pomeriggio, il corpo voleva ficcare la vita sotto il tappeto, ma l’occhio lacrimava e domandava come ci fosse finita in quell’esistenza, lei che a tredici anni sognava di andarsene di casa e avere una stanza tutta per sé, ma non aveva saputo vedere fino al presente, scovare i rischi e i tranelli, e in fondo aveva sempre osservato la vita con un occhio solo.
Alle nove di sera la coinquilina la costrinse a vestirsi, scendere in strada, attraversare i vicoli e salire scalinate fino al pronto soccorso.
Come mai siete venute qui e non all’oftalmico?, domandò l’infermiera all’accettazione, poi lei si ritrovò seduta davanti a un medico: Signorina, ha un graffio alla cornea, un danno serio, da tenere controllato, dovrà stare per settimane con una benda, le prescrivo una crema che potrebbe, nella migliore delle ipotesi, se avrà molta fortuna, riparare la lesione.
Da quel giorno lei indossava gli occhiali ovunque andasse, dopo aver tanto lottato per non portarli, e invece eccola con una montatura d’alta moda, pagata grazie ai turni in un call center di un’estate fa. Anche in quel caso credere al lavoro come una transizione, una sbornia di poche settimane per un computer e altri risparmi da investire in vacanze ‘mordi e fuggì. Invece adesso non c’erano vacanze all’orizzonte di un occhio bendato, né dell’altro coperto da un miscuglio di azzurro e blu, a ricreare il colore del mare incontaminato. Con l’ombretto e il bendaggio era costretta a uscire in un mondo appiattito alla vista, entrare in università e a lezione, tre volte al giorno applicare il disinfettante, stendere la pomata, riporre la garza e il lungo cerotto per tenerla salda, e ripensare, a ogni gesto, al costo incredibile di quei farmaci, per lei che allo Stato risultava a carico dei genitori da cui era scappata, ai quali non poteva chiedere né raccontare nulla, e così andava con un occhio solo, di nuovo nel fine settimana, nel guardaroba gelido, a ritirare cappotti e borse, di fronte a ragazze con il trucco da diva, e lei con la vista al cinquanta per cento, il corpo freddo al cinquanta per cento, la pancia vuota al cinquanta per cento.
L’unico lusso che poteva permettersi era lasciar scorrere. Le settimane e le notti in discoteca. Le lezioni e gli esami col massimo dei voti. Accantonare le speranze, i baci rubati e respirati, mentre l’occhio si curava e l’inverno si spegneva, e lei e le sue coinquiline portavano a casa una frutta e una verdura, un cesto di fragole, una marea di risate.
Un sabato notte al ritorno dalla discoteca girarono tre quarti d’ora in cerca di un posto per la sua auto degli anni Sessanta con il fondo marcio di pioggia, in cui il cric affondava come coltello nel burro se si tentava di cambiare una ruota.
Erano le sette del mattino, si fermarono in seconda fila e lei spense il motore, disse alle altre di andare, sarebbe rimasta in attesa di una possibilità, ma loro non volevano. Chiusero gli occhi a una a una. Un clacson le svegliò mezz’ora dopo, si poteva parcheggiare, tornare, riposare.
Erano trascorsi due mesi dalla domenica delle lacrime, una settimana dalla visita medica.
Lei ci vede bene, benissimo, aveva detto il dottore, a parte questo lieve difetto di miopia, la cornea è guarita.
Le aveva raccomandato di prenotare subito la visita di controllo e le aveva dato in omaggio un collirio di ultima generazione. Se l’era versato ogni mezz’ora per tutta la notte in discoteca, al guardaroba, mentre raccoglieva bicchieri, li sciacquava, li asciugava, li ordinava sulle mensole di legno, sorrideva ai clienti, salutava, e adesso il mattino entrava fresco dalla finestra socchiusa, la città invadeva la stanza confondendo i confini – di qua la voglia di futuro, di là la voglia di presente, di qua una fase passeggera, di là una condizione perenne –, e lei si struccava, apriva una confezione di lenti a contatto ancora sigillata, si infilava le scarpe da ginnastica, usciva a passo svelto per raggiungere l’edicola e cercava il giornale degli annunci di lavoro.