Al buio brillante, di Liliana Colanzi

Gran vía Edizioni porta in libreria Al buio brillante, di Liliana Colanzi, tradotta da Olga Alessandra Barbato.
 I racconti di Liliana Colanzi, premiati da uno dei più importanti riconoscimenti internazionali dedicati alla forma breve, risplendono da quel centro andino che è la Bolivia, meticciato di culture e tradizioni, per trasportarci in un tempo che si dilata e si contrae, unendo fantascienza, distopia e realismo, per porre infine il lettore di fronte al dolore e all’inquietudine della vita, esplorati tuttavia come spazio di resistenza, come luce che si irradia nell’oscurità.

Cattedrale vi propone un estratto del racconto che da il titolo alla raccolta, per gentile concessione dell’editore.


Al buio brillate
di Liliana Colanzi

Traduzione di Olga Alessandra Barbato

Ci misero tutti quanti nello Stadio olimpico. Il quartiere si svuotò, le porte delle case aperte, il cibo pronto e ancora caldo sulla tavola, i cani a ululare per i loro padroni nei cortili. Ci tennero lì per diverse ore senza dirci nulla. Avevo molta paura di stare in mezzo a così tanta gente, Dio mi perdoni, ma anche i bambini mi spaventavano, li volevo lontani da me, lontano da me quelle manine sporche, innocenti e forse mortali. Nessuno sapeva dove, in quale parte del corpo o dei vestiti si fosse depositato il veleno. Siamo stati divisi in file ed è iniziato il controllo.
Ispezionavano soprattutto i piedi: se il rivelatore emetteva un suono, ti mandavano a lavarti più e più volte con sapone di cocco e aceto, finché la pelle non diventava rossa come l’achiote per lo sfregamento. Su di me non trovarono niente, e nemmeno su mia madre, mia sorella Ana Lúcia, lo zio Silas, e neanche su mia cugina Gislene, che entrava e usciva sempre dai bar e si strusciava con gli uomini, ma su mio padre sì. Il mio povero padre, così stupido, era andato a bere nello stesso bar dove c’erano i cercatori di rottami, di nascosto da mia madre e da tutti noi, con la scusa di andare a comprare il jogo do bicho. Qualche volta mia madre gli aveva detto che quella bettola sarebbe stata la sua rovina. E per colpa della mezz’ora in cui era stato in quel bar e per essersi seduto a chiacchierare con quegli sfasciacarrozze e per essere stato contaminato da quella cosa, quella cosa più piccola di un granello di sabbia e fatta di fuoco, ci evacuarono tutti e demolirono la nostra casa: non ci lasciarono portare con noi nemmeno una foto, un ricordo, un capo d’abbigliamento. Mio padre era appena andato in pensione dal suo lavoro di maschera al Teatro Goiânia per potersi godere la casa e il giardino. E da un giorno all’altro non era rimasto un solo mattone di quella casa. Niente di niente.
Una volta, il proprietario della panetteria, don Atílio, incontrò papà sull’autobus e cominciò a dire a voce altissima, in modo che tutti sentissero, che mio padre era uno dei malati, che quello era un affronto, che così metteva tutti in pericolo. I passeggeri iniziarono subito a gridare, guardando papà con facce di disgusto e terrore come se avessero visto una vipera attorcigliata, un ragno peloso, un ratto pieno di vermi, finché l’autista non si fermò e costrinse papà a scendere per aver fatto confusione su un mezzo pubblico. Il governo ci diede una casa in un’altra zona della città, dove non ci conosceva nessuno, ma mio padre non riuscì mai a riprendersi dalla pena che gli provocò l’incidente sull’autobus. Morì nel giro di due mesi, apparentemente per un’insufficienza renale causata dall’alcol, ma io credo che fu il granello di fuoco. Diversi conoscenti cominciarono a morire di malattie rare e fulminanti.
A quel tempo lavoravo come receptionist al Castro’s Park Hotel, quello con quindici piani e due piscine piastrellate. Mi piaceva quel lavoro. Al momento dell’incidente, le squadre internazionali del Gran Premio, che si svolgeva per la prima volta in città, alloggiavano nell’hotel. Uno dei piloti mi disse che girava voce che a Goiânia stesse accadendo qualcosa di grave e che la gara poteva essere annullata da un momento all’altro. Era un uomo molto bello, con i capelli impomatati all’indietro e una catenina con una croce d’oro al collo. Prima di andarsene mi chiese il numero di telefono e mi regalò un pacchetto di sigarette al mentolo che mia cugina mi rubò dal comodino, perché io non fumo.
Non seppi mai se mi chiamò: giorni dopo ero senza casa e vivevo con la mia famiglia in una tenda. La verità è che, quando la voce si sparse, il panico si diffuse e l’hotel si svuotò da un giorno all’altro. Nessuno voleva venire in città qualunque fosse il motivo, il telefono squillava soltanto per cancellare le prenotazioni e l’hotel era diventato un posto triste. Un giorno il direttore mi chiamò nel suo ufficio per licenziarmi. Era la fine del 1987, avevo appena compiuto diciannove anni e mio padre era già sottoterra. Così sono partita per São Paulo con un’amica, senza conoscere nessuno.
Appena arrivate avevamo quasi trovato lavoro in una gioielleria di rua Barão de Paranapiacaba. Mancavano pochi giorni al Natale e la strada tremolava di lucine e ghirlande. Ma non appena la proprietaria scoprì che eravamo di Goiânia si inventò delle scuse e non ci volle assumere. Quando stavamo per uscire ci chiamò. Pensammo per un secondo che avesse cambiato idea. La donna aveva una curiosità, una domanda che le usciva dalla gola.
Al buio brillate?

 

*** IL POSTO DEI ROTTAMI ***

ACQUISTO E VENDITA DI METALLI IN GENERE

TELEFONO 233-9269

 

I raccoglitori di rottami arrivarono con la carriola traboccante di ferraglia: gli dissero che proveniva dalla clinica abbandonata che operava all’incrocio tra le avenidas Paranaíba e Tocantins, ai margini del Setor Aeroporto di Goiânia. Devair si ricordava dell’ospedale perché anni prima aveva visto i medici che entravano e uscivano e la gente in fila per farsi curare il cancro. L’edificio era da tempo in rovina. Un’ala era stata demolita. La parte ancora in piedi non aveva tetto o finestre, e per questo motivo gli sfasciacarrozze non si sognavano nemmeno di trovare i mobili e l’apparecchiatura medica ancora al loro posto. Che tipo di persone poteva permettersi il lusso di abbandonare un ospedale con l’apparecchiatura dentro?, dissero.
A Devair non importava da dove provenisse la ferraglia: gli portavano pezzi di auto antiche, vecchi televisori, pentole usate, manubri di biciclette, merce rubata. La ferraglia pesava circa quattrocento chili. Gli uomini accettarono senza contrattare i millecinquecento cruceiros che offrì loro: sarebbero andati dritti al bar per curarsi il mal di testa con qualche bicchiere. Notò la strana abbronzatura degli uomini – una intensa tonalità zucca –, ma non disse niente, nel quartiere da sempre si vedevano cose ben più strane.
La luce lo sorprese quella notte mentre fumava in cortile, accanto al tetto di zinco del capannone. Sgorgava dalla ferraglia che aveva appena acquistato e si disfaceva in un velo lattiginoso, iridescente, dalle molteplici sfumature, una luminescenza blu come di stella o di fondo del mare. Si spaventò. Pensò ai morti, al diavolo, agli extraterrestri.
Scostò i pezzi e scoprì che il bagliore proveniva da un cilindro delle dimensioni di un ditale: un tesoro in mezzo ai rottami. Girandolo scoprì che la luce raggiungeva l’esterno solo quando coincideva con una minuscola finestra: ora sì, ora no, come un trucco di magia.
Si sedette nell’angolo in cui sventrava gli elettrodomestici, sotto il getto di luce della lampada, con tutti gli strumenti intorno – la chiave inglese grande e quella piccola, il martello, il set di cacciaviti, la chiave a cricchetto, il trapano, la pinza, le tenaglie, la sega con la lama arrugginita e rotta – e batté più volte sullo spioncino con la punta di un cacciavite. La finestrella emise un piccolo crac quando si ruppe. Frugò nell’occhio della capsula con la punta del cacciavite fino a estrarne dei granelli: sotto la luce diretta non erano altro che sali comuni. Potevano essere quei granelli l’origine del bagliore?
Spense la luce: proprio come sospettava, al buio i sali diventarono neve incandescente. Strofinò quella sostanza e il fulgore si estese al palmo della sua mano. Osservò, commosso e perplesso, la combustione celeste. Lì, tra il bagliore blu e le ombre della ferraglia, l’idea emerse nel suo cervello come un fungo che fa capolino dopo la pioggia: avrebbe fatto a sua moglie l’anello più bello, più brillante, più insolito. Sorrise.

* * *

Ero a Goiânia per un progetto del governo quando ho ricevuto la chiamata. Era il direttore dell’ospedale per dirmi che negli ultimi giorni erano arrivati vari pazienti affetti da una malattia sconosciuta: arrivavano con vomito, vertigini, diarrea, bruciature. Le persone davano la colpa a un tubo metallico, un pezzo di ferro del demonio portato dalla moglie dello sfasciacarrozze. E dov’è?, gli chiesi. In uno degli uffici, disse il direttore dell’ospedale. La donna?, specificai. No, il tubo di metallo, mi disse. La moglie non so dov’è. E aggiunse: Lei pensa che sia possibile…?
Il direttore sembrava a disagio, preoccupato di apparire ridicolo. Sa com’è, le persone ignoranti si inventano di tutto, disse. Si aspettava che lo tranquillizzassi, che gli dicessi: Non si preoccupi, non è niente di grave. Chiamai un’agenzia di prospezione dell’uranio con cui avevo lavorato vicino al vulcano di Amorinópolis un anno prima e chiesi in prestito un rivelatore. La segretaria si ricordava di me con simpatia; non mi chiese nemmeno la firma.
Quando sono arrivato all’ospedale ho trovato due pompieri seduti sul marciapiede, che fumavano e scherzavano accanto all’autopompa. Un’infermiera mi ha indicato l’ufficio dove era stato messo il rottame. Il corridoio che portava a quell’ufficio era affollato di pazienti: donne incinte, neonati in braccio, vecchi storpi. A circa ottanta metri dall’ufficio il rivelatore ha cominciato a comportarsi in modo molto strano: l’ago si muoveva così tanto che ho pensato fosse difettoso. Sono tornato all’ospedale con un nuovo rivelatore. Ancora una volta, a ottanta metri da quella stanza, il rivelatore ha cominciato a saturarsi. Poteva significare soltanto due cose. O che entrambi i contatori erano difettosi o che l’ospedale era una bomba radioattiva.
In quel momento uno dei pompieri è entrato nell’ufficio e ne è uscito con una borsa: mi ha sorriso come se avesse un panino con la mortadella in mano. Era la borsa di nylon in cui era conservato il rottame. Non aveva nemmeno i guanti: solo allora mi sono reso conto che il pompiere era poco più che un bambino. Gli ho chiesto cosa stesse facendo. Vado a buttarlo nel fiume, mi ha detto. La segretaria dell’ospedale aveva una radio a pile: mi guardava con occhi sognanti mentre con le unghie smaltate sintonizzava una canzone di Cazuza. Mi sono sentito gridare PER L’AMOR DI DIO! con una voce che era uno stridio, un fischio, il gracchiare di un uccello spaventato e ridicolo.
Abbiamo evacuato immediatamente il pronto soccorso.

* * *

Devair non sapeva a cosa serviva la polvere che aveva trovato dentro il cilindro e che aveva brillato tutta la notte ai piedi del letto. Gabriela, sua moglie, si lamentava che il bagliore le causava mal di testa e sogni stranissimi; lo irritò la sua mancanza di entusiasmo, ma pensò che la situazione sarebbe cambiata una volta regalatole l’anello luminoso. Aveva bisogno di estrarre più sostanza e per farlo doveva rompere la copertura protettiva della capsula.
I suoi dipendenti del deposito di rottami, Israel e Admilson, si organizzarono in turni per fare a pezzi quell’affare, prima con il martello e poi con la mazza, fino a spaccare la copertura protettiva; erano giovani e forti e non ci misero troppo tempo. (Il mese successivo entrambi i ragazzi saranno morti e verranno sepolti in bare di piombo ricoperte di cemento; Admilson trascorrerà la sua agonia gridando il nome di sua madre nell’Ospedale navale di Río de Janeiro, dove verrà trasportato in elicottero, contro la sua volontà.)
Mandò a chiamare amici, parenti e vicini, e distribuì tra tutti il miracolo dei sali fluorescenti. Il suo amico Marcio se ne mise una manciata in tasca e più tardi lo gettò nel recinto degli animali, tra lo schiamazzo di polli e maiali. Don Ernesto regalò i granelli a sua moglie, che si arrabbiò vedendolo arrivare ubriaco e gettò la polvere giù per il water senza guardarla. A Claudio venne in mente che si potesse trattare di un tipo di polvere da sparo progettata dai militari e cercò di dargli fuoco con l’accendino, ma i sali non bruciarono e non si sciolsero. Ivo, suo fratello, si portò alcune pietrine per dipingere di luce il corpo della piccola Leide das Neves, che restò incantata dalla polvere magica; la bambina si sedette a mangiare con le mani coperte di particelle brillanti.
Solo Gabriela si tenne alla larga dai festeggiamenti. Era sospettosa, impaziente, non si fidava di tutta quella allegria. Come un cane che fiuta la tempesta nell’aria, come un uccello che sente lo sparo dall’altra parte del bosco, tutto il suo corpo rispondeva all’avvertimento di pericolo.