Bestiario del sogno, di Franco Santucci

Wojtek porta in libreria Bestiario del sogno, di Franco Santucci. Una raccolta di sedici storie in cerca di illuminazione. Animismo e riflessione storica, il dominio della macchina e l’ineffabilità dei legami amorosi: con un misto di ponderazione e spregiudicatezza, Santucci usa i mezzi e i temi della letteratura fantastica per forzare una via verso l’inconscio.

Cattedrale vi propone uno dei racconti del libro, per gentile concessione dell’editore.

Serpente bianco
di
Franco Santucci

Dissi a mio figlio di non togliersi le ciabatte perché potevano esserci dei pezzi di vetro. Alle spalle ci lasciavamo il molo e una luce giallo tenue che né il bianco della banchina né i riverberi sull’acqua del canale erano riusciti a scaldare. Di fronte, una dozzina di persone ammiravano delle ossa di dinosauro: uno scheletro era eretto con la naturalezza statica di un’impalcatura da museo; l’altro, una femmina, parzialmente sommerso, eccetto che per l’enormità di costole che lottavano con la sabbia e il tempo.
Era una specie di tirannosauro, ma volli affrettarmi per evi tare che il bambino vi sostasse troppo. La nostra meta era la f ine del lido privato dove gli spazi si sarebbero allargati e gli ombrelloni divenuti meno frequenti, nello stesso luogo in cui andavo con i miei fratelli e i miei genitori, ognuno armato di zaini o sedie.
Superato quel punto trovammo due uomini e una donna intenti a guardare sulla sabbia un serpente bianco sdraiato sul dorso, la lingua protrattile in un movimento continuo e ripetitivo. La grandezza era quella di un grosso biacco, ma la posizione riversa e la sua immobilità non mi permettevano di capire di quale specie fosse, anche se dalle squame ventrali, biancastre, si intuiva che il lato nascosto era dello stesso colore. Lo oltrepassai temendo che mio figlio potesse essere morso e che quella catalessi fosse una tecnica dell’animale, una specie di tanatosi malriuscita; il piedino fu ai limiti del capo rovesciato del rettile e sembrò che la sua lingua mobile lo toccasse impercettibile proprio nell’attimo del passaggio.
Chiesi alla donna in costume se fosse una specie velenosa e quale nome avesse e lei, amareggiata e affranta per il serpente, e sorpresa dalla mia richiesta, pronunciò una parola che iniziava con la O seguita da un molteplicità irriproducibile di consonanti che avrebbe dovuto essere un nome ma era un proposito. Piangendo afferrò l’ofide che, nel momento della presa, aveva non una ma due teste, capovolte entrambe e con la lingua in sincrono, e lo lanciò in mare.
Vidi l’animale volare via e affondare nelle onde vicino alla riva, in un palmo d’acqua limpida nella luce pomeridiana. Biasimai la donna per tutta quella foga, al serpente non sarebbe servito a molto, era venuto per morire sulla spiaggia, attendere e conoscere mio figlio, sfiorargli la pelle come in un bacio e sibilare la nostra distanza, allora guardai il mare e ne sentii la voce, anche mia: «Ci siamo detti addio senza salutarci».