Statue viventi, di Günter Grass

La Nave di Teseo porta in libreria Statue viventi di Günter Grass, tradotto da Nicoletta Giacon e con i disegni originali dell’autore.
Un racconto lungo inedito del Premio Nobel per la Letteratura, con i disegni originali dell’autore. Inizialmente concepito come un capitolo della sua autobiografia, questo testo inedito è stato scoperto solo recentemente negli archivi dell’autore dalla sua storica collaboratrice, Hilke Ohsoling. Statue viventi è una storia conturbante di come un’opera d’arte può lavorare nella mente di uno scrittore, ossessionarlo, fino a prendere vita in modo imprevedibile.

Cattedrale vi propone l’incipit del racconto per gentile concessione dell’editore.

Oggi, i resti non sono che pezzi da museo duri come il cemento armato. Quando il Muro, alla cui presenza ci si era ormai abituati, esisteva ancora, nonostante le potenze da entrambi i lati della sua ombra continuassero – se pure in toni moderati – ad abbaiarsi addosso, ricevetti per posta un invito che accettai senza farmi troppe illusioni. I nomi di antiche città – Magdeburgo, Halle an der Saale, Jena ed Erfurt – lasciavano presagire un viaggio che avevo già fatto molti anni addietro. Mi si chiedeva di pazientare, le domande di ingresso erano già state spedite per posta. Mentre aspettavamo l’autorizzazione ad attraversare il confine con il prestigioso Stato degli operai e dei contadini, iniziai a passare in rassegna, con una certa esita zione, i miei ricordi sul medioevo, immaginando tavolate con commensali sempre diversi, piatti di carne fortemente speziati, salumi di ogni tipo che accompagnavano la zuppa di grano saraceno e di miglio addolcito con il miele. Quando, dopo i soliti ritardi – l’autorizzazione era stata rifiutata due volte – i documenti arrivarono con tanto di timbro, l’itinerario era rigorosamente stabilito, ma offriva la possibilità di una breve visita a Quedlinburg e a Naumburg, luoghi il cui passato giaceva sepolto nei libri di scuola della mia giovinezza.
Mi era già capitato di invitare a tavola dei personaggi storici. Una volta mi ero trovato in compagnia di un boia e della sua “clientela” a mangiare la trippa, e prima ancora a un lungo tavolo con dei commendatori. Dorothea von Montau portò in tavola l’aringa della Scania, un piatto del venerdì. Dopo il pasto a base di aringhe, Dorothea, che era un personaggio alquanto stravagante, recitò dei versi in alto-tedesco medio che noi, profondi conoscitori di letteratura, scoprimmo essere influenzati, pur mantenendo la loro peculiarità, dalla poesia del Minnesänger Wizlaw von Rügen. L’aringa della Scania ha dato il titolo al capitolo di un mio romanzo.
La nostra prima tappa fu Magdeburgo. Dopo una lunga e paziente corrispondenza, scritta e orale, con i vari uffici ecclesiastici e non, un pastore luterano di nome Tschiche, i cui figli – avendo rifiutato il servizio militare nell’Armata popolare nazionale – dovevano prestare servizio civile come soldati edili, aveva finalmente ottenuto una risposta positiva: avevamo il permesso di entrare nella Repubblica Democratica Tedesca, dove avrei potuto leggere, nelle chiese e nei centri parrocchiali, alcuni passaggi dal mio ultimo libro, che parlava di uomini e ratti. Mi è sempre piaciuto leggere ad alta voce. Se necessario, in luoghi sacri, la cui acustica è collaudata da tempo. Il medioevo – continuavo a ripetermi – è per noi più lontano di quanto non lo sia l’impero romano. A est dello Harz, per esempio a Quedlinburg, c’è molto di più da scoprire che nelle catacombe paleocristiane sulla via Appia. Trovammo alloggio in case parrocchiali che avrebbero avuto urgente bisogno di ristrutturazioni, e nelle quali i pasti erano preceduti d una breve preghiera. Le assi del pavimento scricchiolanti. La muffa nelle fondamenta. Le energiche mogli dei parroci. Durante il nostro viaggio, la sorveglianza da parte dello Stato rimase, tutto sommato, contenuta, persino la volta in cui fummo costretti ad abbandonare la sala parrocchiale di Halle, perché troppo affollata, e riparare in una vicina chiesa cattolica, dotata di un sistema di altoparlanti, che si riempì spontaneamente fino all’ultimo posto. Pagina dopo pagina, descrivevo nei minimi dettagli come i ratti sopravvissuti si esercitavano a camminare in posizione eretta. Ogni volta leggevo per un’ora buona. Dopodiché il pubblico, seduto stretto sui banchi della chiesa, faceva delle domande, in un primo momento esitanti, poi sempre più esplicite: “Dobbiamo restare? Dobbiamo fare domanda di espatrio?” E io rispondevo: “Anche dall’altra parte è solo un’altra parte.” Ma quelli che ponevano le domande non lo avevano ancora sperimentato.
Il passaggio da un secolo all’altro non era poi così grande. A Erfurt, dove Lutero – ai tempi in cui era monaco agostiniano – aveva imparato a conoscere il dubbio, il mio incontro con il pubblico si tenne in mezzo ad antiche mura. All’inizio, un gruppo di punk dell’Est fece di tutto per interrompere la lettura, ma poi iniziò ad appassionarsi alla mia storia sui ratti. Si svolgeva al tempo dei flagellanti, quando gli ebrei – a quanto si diceva – avevano subdolamente portato nel paese la peste. Al momento, lo Stato e i suoi organismi sembravano indeboliti. Il pastore di Jena, la moglie e i figli avevano un cavallo che, come nelle favole, si affacciava dalla porta della stalla. Eretici perseguitati da tempo immemorabile. E poi le guerre, datate e archiviate. Si diceva che in Turingia ci fossero dei valdesi fuggiti dalla Boemia. La canonica si ergeva, sbilenca, in una zona invasa dalla vegetazione, vicino agli storici campi di battaglia di Jena e Auerstedt. Un cartello indicava la strada. Ovunque, il medioevo gotico e tardo gotico si stava sgretolando. E anche il presente, nonostante la sua pretesa di stabilità politica e sociale, cominciava – iniziando dai margini della società – a diventare superato.
Ma chi avrei dovuto invitare a tavola?

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